Tempo di Avvento

OMELIE DEL TEMPO DI AVVENTO

Anno "A" 1 2 3 4
Anno "B" 1 2 3 4
Anno "C" 1 2 3 4

 

 

Prima Domenica d’Avvento – Anno A                                                          Omelia

 

“Rivestitevi del Signore nostro Gesù Cristo”

 

 

Carissimi fratelli e sorelle, 

iniziamo oggi un nuovo anno liturgico, in cui siamo chiamati dalla Chiesa a celebrare con una nuova intensità d’amore quello che il buon Dio ha fatto per noi in Gesù Cristo, per inserirci sempre più profondamente nel suo mistero di morte e di vita eterna. Ripercorreremo nella fede il grande itinerario della salvezza, il Tempo dell’Avvento ci proietta con la mente e il cuore al giorno glorioso del suo ritorno. In ogni Avvento si fa memoria della grande speranza che sorresse l’antico popolo di Dio attraverso i secoli e che si realizzò quando il Verbo si fece carne (Gv 1,14), questa memoria ha lo scopo di ravvivare o ridestare nel nuovo popolo di Dio la speranza di rivedere il suo Signore quando ritornerà glorioso, soprattutto per coloro che l’aspettano con amore (cf 2Tm 4,8).

Accogliamo così l’invito alla speranza che oggi è risuonato ai nostri cuori attraverso la lettura del profeta Isaia. È una pagina di speranzosa attesa di un tempo di serenità, di gioia, di bontà. Tempo in cui gli uomini ricercheranno sinceramente il Signore e saliranno il suo monte santo desiderosi di incontrarsi con Lui per avere pace. Tempo in cui gli uomini “non si eserciteranno più nell’arte della guerra: forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci e un popolo non si alzerà più contro un altro popolo…” (prima lettura)

Ma quando, Signore, tutto questo? Quando “il leone pascolerà insieme al bue e un bimbo potrà mettere la sua mano nel covo di serpenti velenosi senza danno?” (Is 11,6-9). Quando cesserà ogni guerra? Quando finirà il terrore? Quando non ci sarà più iniquità, prepotenza, cattiveria?

Ogni uomo, ogni donna, porta nel cuore il desiderio di questo mondo nuovo che non può venire finché non muore il vecchio, sono quei “nuovi cieli e quella terra nuova dove avrà stabile dimora la giustizia” (2Pt 3,13) e l’amore.

Camminiamo dunque nel tempo chiamati a seminare nel mondo la speranza, quella speranza che ci portiamo nel cuore e che nessun annuncio di tristezza, di tragedie, di terrore può spegnere, perché è una speranza che fiorisce proprio lì dove regna la morte. Il dilagare dell’odio, della violenza, della prepotenza, della cattiveria, della malizia che come fiume impetuoso e travolgente s’abbatte sulla nostra povera umanità di questo terzo millennio, non ci spaventa perché noi abbiamo conosciuto la potenza di un’amore più forte di ogni morte e per questo possiamo annunciare ad ogni uomo: Non avere paura perché viene Colui “che ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l'immortalità per mezzo del vangelo, del quale noi siamo stati costituiti araldi, apostoli e maestri” (2Tm 1,10-11).

Nel Vangelo oggi Gesù ci ha invitato ad essere vigilanti, cioè “a tenere alta la parola di vita, irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere” (Fil 2,15-16). 

Siamo chiamati ad essere vigilanti“Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà”. Non dobbiamo quindi lasciarci trascinare da quel fiume in piena che sembra irresistibile e che vorrebbe trascinarci a vivere senza speranza, senza luce, senza Gesù. Vivendo tutti presi dalle nostre cose e dalle nostre paure, dimenticandoci di quella speranza che ci portiamo nel cuore e che dovrebbe spingerci a vivere in un modo diverso da chi questa speranza non ce l’ha.

Noi che abbiamo conosciuto Gesù, abbiamo ricevuto da Gesù la missione di essere diffusori di luce in tutti i contesti di tenebre, di essere apostoli della verità in tutti i contesti di menzogna, di essere testimoni dell’amore puro in tutti i contesti d’impurità e di malizia, di essere seminatori di speranza in tutti i contesti di morte. La nostra missione di cristiani in mezzo all’umanità è quella di “risplendere come astri nel mondo” (Fil 2,15): 

“Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null'altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli”  – Mt 5,14-16.

Questa è la missione della Chiesa, questa è la missione del cristiano, questa è la missione mia, questa è la missione vostra: “Risplendere come astri” in un mondo di tenebre! Dobbiamo per questo essere vigilanti: per non dimenticarci questa missione.

Ma come essere questa “luce”? Come essere testimoni autentici di verità e d’amore? Come seminare la vita dove regna la morte? Dobbiamo necessariamente “rivestirci di Gesù Cristo” (seconda lettura) e vincere così prima di tutto in noi le tenebre, la menzogna, l’impurità, la morte. Non si tratta di un rivestimento esteriore, ma qualcosa di più profondo, intimo. Si tratta di un cambiamento radicale della nostra personalità che si lascia plasmare e modellare dallo Spirito Santo. È Lui infatti, lo Spirito Santo, il Grande Artista che ci riveste di Gesù Cristo, che ci cambia dentro operando il divino trapianto espropriandoci del nostro cuore per immetterci quello di Gesù (cf Ez 11,19). Quando nel cuore batte forte il cuore di Gesù è tutto diverso, siamo diversi noi ed è pure diverso il mondo che ci circonda perché lo vediamo con gli occhi di Gesù, occhi di compassione e di misericordia. Quando nel cuore batte forte il cuore di Gesù, allora “le cose vecchie sono passate”, ecco ne sono nate di nuove (cf Ap 21,4-5). 

Entrando in quest’Avvento 2004, ecco la prima grande speranza che ciascuno di noi deve avere nella fede dell’amore di Gesù, che si realizzi questo divino trapianto:

«Il nuovo Anno liturgico ci viene donato perché possiamo appropriarci sempre più profondamente degli effetti di quell’atto redentivo che Gesù Cristo ha compiuto una volta per sempre, e di cui faremo continuamente memoria nel tempo liturgico. Il tempo ci è donato perché ciascuno di noi entri sempre più profondamente in Gesù Cristo con tutto se stesso; assimili tutta la realtà della Redenzione operata da Gesù Cristo, per ritrovare se stesso. È un cammino questo che oggi ricomincia poiché niente nella vita umana e cristiana è acquisito per sempre: "gettiamo via perciò le opere delle tenebre" ci dice l’apostolo "e indossiamo le armi della luce". Questo rinnovamento continuo della nostra persona, questa "riparazione" in noi della nostra immagine più vera consiste nel "rivestirci del Signore Gesù". "Rivestitevi… del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri". Gesù Cristo è la nostra verità; Gesù Cristo è la perfetta espressione e realizzazione del nostro destino: è Lui la nostra identità. Il tempo ci è donato perché restiamo in Gesù Cristo, ci inseriamo sempre più profondamente in Lui»  –   Mons. Carlo Caffarra, Omelia I Domenica d’Avvento 2001. 

Ecco, carissimi fratelli e sorelle, il rischio è che quanto abbiamo detto possa sembrare un bel discorso e nulla più, tutto poi rimane uguale, il mondo continua ad essere quello di sempre e con esso anch’io, trascinandomi anche attraverso questo nuovo anno liturgico, nella mia mediocrità e nel mio basso livello di vita spirituale. 

Allora, perché così non sia, ricordiamoci che fu proprio la parola che oggi abbiamo ascoltato a far scattare nel cuore di Agostino d’Ippona la molla della santità. Sentiva nel cuore il fascino delle belle parole del Vangelo, sentiva il fascino delle virtù, della santità, ma non riusciva a tagliare con alcuni affetti peccaminosi a causa della sua debolezza, quando un giorno, dopo una notte tribolata, uscendo nel giardino si gettò a terra gridando al Signore la sua angoscia di povero peccatore, quando udì nel cuore una voce che gli diceva: “Prendi e leggi… Prendi e leggi…Prendi e leggi…”. Lui tornò in casa, prese i rotoli delle lettere di Paolo e gli occhi gli caddero su quanto abbiamo ascoltato da Paolo: 

«Fratelli, è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri».

Agostino lesse, e non fu più l’Agostino schiavo del peccato e della propria debolezza, quella Parola lo riempì di gioia e di vita nuova. Carissimi fratelli e sorelle, abbiamo questa fiducia che, come Agostino, anche per ciascuno di noi, il buon Dio ha preparato una sua Parola di vita che attende solo di essere scoperta e accolta. Accostiamoci in questo nuovo anno liturgico ad ogni nostra celebrazione come Agostino gridando la nostra miseria, la nostra debolezza di cristiani fiacchi e smorti e Lui ci regalerà quella Parola che ci farà nuovi nell’amore.

La Vergine Maria ci accompagni durante tutto questo nuovo anno liturgico e ci aiuti ad accogliere nel nostro cuore quella stessa Parola che in Lei divenne carne e in noi vuole diventare vita!

Amen.

j.m.j.

 

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Seconda Domenica d’Avvento – Anno “A”                                                          Omelia

 

 

Carissimi fratelli e sorelle,

appare oggi nelle Liturgia la figura di Giovanni Battista, cugino del Signore; il Battista è, in ogni Avvento, insieme alla Vergine Maria e al profeta Isaia, un riferimento importante del nostro cammino incontro al Signore che rinnova per noi in ogni Natale la sua venuta.

La personalità del Battista ed il suo messaggio sono duri, austeri e contrastano un po’ con la figura e il messaggio di Gesù che proprio dal Battista viene annunciato e additato presente nel mondo (cf Gv 1,29). Lo stesso Giovanni rimarrà perplesso, sul finire dei suoi giorni, intorno al suo cugino Gesù, per cui gli mandò a chiedere dalla sua prigione se fosse veramente Lui il Messia o dovevano aspettarne un altro (cf Mt 11,2-3). Gesù tranquillizzò il povero Giovanni che ancora non poteva capire, infatti, dopo aver operato una gran numero di miracoli, disse ai suoi messaggeri: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me” (cf Mt 11,4-6).

Con questo gesto Gesù inaugurava solennemente quel tempo messianico annunciato dai profeti e in particolare da Isaia (prima lettura) che parlò di “un germoglio della stirpe di Iesse” [Iesse era il padre di Davide] che avrebbe instaurato un regno di giustizia, di amore e di pace, sollevando i poveri e reietti dalle loro miserie.

Quando i messaggeri se ne furono andati, Gesù parlò alla folla di Giovanni, elogiandolo molto, riconoscendo in lui colui che gli aveva preparato la strada: “Tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista”, ma consapevole della novità assoluta del suo Vangelo, affermò altresì che “il più piccolo del regno dei cieli è più grande di lui” (cf Mt 11,7-14). Con queste parole Gesù affermava due cose: 

  1. La grandezza morale di Giovanni 
  2. La conclusione del Vecchio Testamento, il lungo tempo di preparazione nel quale Dio aveva preparato il suo popolo affinché giungesse predisposto alla “pienezza dei tempi” quando avrebbe mandato “il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli” (Gal 4,4-5) “ricapitolando in Lui tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra” (Ef 1,10). 

Una domanda nasce spontanea nella nostra mente: ma se Giovanni è superato da Gesù perché continuare a dare alla sua figura e al suo messaggio una grande rilevanza?

«La Chiesa ha sempre conservato con grande venerazione la memoria di Giovanni Battista e della sua predicazione. La missione che Giovanni ha compiuto mantiene sempre la sua attualità e svolge un compito permanente nella storia della nostra salvezza. La sua missione è stata quella di preparare il popolo ebreo ad accogliere la venuta imminente del Signore. Quando nacque, suo Padre Zaccaria disse di lui: "E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli la strada". Giovanni preparò le strade davanti al Signore in primo luogo colla sua predicazione. Anche noi ci troviamo nella condizione in cui si trovava quel popolo a cui Giovanni si rivolgeva. Certamente il Signore è già venuto nascendo da Maria, è già morto e risorto per noi. Ma Egli vuole venire dentro alla nostra vita, dentro al nostro cuore per conformarci sempre più a Lui: Egli è sempre sul punto di venire. Ecco perché la Chiesa continua a farci ascoltare la predicazione di Giovanni. Quale è stata? Riascoltiamola: "Convertitevi perché il Regno dei cieli è vicino": ecco la sintesi di tutta la predicazione di Giovanni. "Convertitevi": i peccati che opprimono il nostro cuore, la nostra indocilità alla volontà del Signore, il nostro attaccamento alla nostra volontà più che a quella del Signore devono essere rigettati perché nasca in noi un cuore nuovo e uno spirito nuovo. Un cuore nuovo pienamente sottomesso al Signore: il grido di Giovanni continui a risuonare sempre in noi e nelle nostre comunità».

 – Mons. Carlo Caffarra – Omelia II d’Avvento 2001 –

Riproponendo ancora oggi la predicazione di Giovanni Battista la Chiesa afferma così che il Vangelo di Gesù non può attecchire nella vita di una persona se prima essa non si sia fondata e orientata sui Dieci Comandamenti, i quali esprimono la Legge che Dio ha iscritto nel più intimo del cuore di ogni uomo prima ancora che sulle tavole del Sinai (cf Es 24,12).

La più grande tentazione del cristiano moderno è quella di vivere un Vangelo avulso, staccato, scisso dai Dieci Comandamenti, come se fosse possibile contemporaneamente adorare il Signore Gesù e calpestare la Legge del Padre suo! Ma questo Gesù non l’ha mai insegnato, tutt’altro! Egli ci ha detto che suo cibo era la volontà del Padre (cf Gv 4,34).

Quando noi affermiamo il primato del “Vangelo” sul “VT” e i suoi “Dieci Comandamenti” non ne affermiamo l’abolizione, Gesù non è venuto per abolire, ma per portare a pienezza (cf Mt 5,17), è venuto a insegnarci a vivere la Legge del Padre non come norma esteriore che schiaccia e rende schiavi, ma come norma interiore che illumina, libera e rende capaci di amare nella verità di figli di Dio. Dando ai suoi discepoli il suo “nuovo comandamento”, Gesù comanda loro non di osservare comandamenti diversi, ma di osservare i Comandamenti del Padre come Lui li aveva osservati, di amare cioè, come Lui aveva amato (cf Gv 13,34). La novità del Vangelo di Gesù consiste in una nuova capacità di amare, di amare come Gesù, fino al dono della vita. Questa nuova capacità d’amore e d’amare ci viene comunicata da Gesù stesso e dal Padre suo nel loro Santo Spirito (cf Rm 5,5) che ci ha consegnato morendo in croce per noi (cf Gv 19,30).

La funzione della Legge nel VT era quella di mettere in evidenza il peccato (cf Rm 7,7-13) perché l’uomo, confrontandosi con Legge di Dio si scoprisse peccatore e invocasse il Salvatore. Infatti, è solo da un cuore consapevole di aver bisogno di perdono, di redenzione, di salvezza che nasce il desiderio di un Redentore, di un Salvatore, di un Messia.

È vero che il Messia è già venuto e ci ha salvato, ma la salvezza che Gesù, nostro Salvatore e Redentore, ci ha apportato con la sua morte e risurrezione è una salvezza oggettiva, la grazia che Egli ci ha meritato è una potenzialità offerta ad ogni uomo che deve però accoglierla nel cuore e lasciarsi lavorare da essa. In altre parole, ciò che Gesù ha meritato oggettivamente per tutti, deve poi essere soggettivamente attuato in ogni persona che si accosta a Lui nella fede e nell’amore. La redenzione si attua nel tempo e non magicamente e si attua nel dialogo d’amore che si svolge tra la nostra libertà e le istanze che Dio Amore (cf 1Gv 4,8.16) suscita nel nostro cuore con la sua grazia. Con il s. Battesimo tutto è iniziato, ma non tutto è compiuto, la nostra redenzione e salvezza è iniziata, ma non pienamente compiuta. 

Per questo la funzione del VT e quindi di Giovanni Battista non è ancora superata, ma sempre attuale. Giovanni infatti ci ricorda che dobbiamo fare “frutti di conversione” e che non possiamo vantare un’appartenenza a Gesù solo perché battezzati, come i farisei e i sadducei che si vantano di essere “figli di Abramo” solo perché ebrei.

Prepararsi a celebrare il Natale del Signore deve quindi significare per ciascuno di noi una presa di consapevolezza nello Spirito, di quella parte di noi stessi che ancora non si è sottomessa alla Legge di Dio, una presa di coscienza di quegli aspetti della nostra personalità che ancora non sono stati illuminati dalla luce di Gesù, di quelle parti del nostro cuore che non sono state ancora vivificate dall’Amore.

Consapevoli quindi delle nostre ribellioni, delle nostre tenebre, delle nostre chiusure all’Amore, invochiamo il perdono e la salvezza e gridiamo al Signore che venga a salvarci, rivivendo così l’attesa messianica di salvezza compiuta una volta per sempre nella “pienezza dei tempi”, ma che deve ancora compiersi pienamente in noi. 

L’atteggiamento austero e penitente del Battista che fu elogiato da Gesù (cf Mt 11,7-15), ci ricorda poi come l’autenticità del nostro desiderio di salvezza è manifestato propriamente dal nostro impegno, dallo sforzo personale che poniamo nel “rinnegare noi stessi”, fondamento e base di ogni atteggiamento cristiano (cf Mt 16,24). Ci ricorda, cioè, la necessità di quell’aspetto della vita cristiana che prende il nome di ascesi e che viene spesso visto con troppo fastidio dal cristiano moderno sempre più conquistato dalla ricerca del più facile e del più comodo e tentato quindi di eliminare dal Vangelo di Gesù tutto quello che può disturbare o rendere più pesante la “carne”, abituata com’è a prendersi tutte le sue soddisfazioni e comodità (cf Mt 26,41).

Ma, se Giovanni Battista, in questo nostro cammino di Avvento ci richiama a questo, d’altra parte, l’altra protagonista di questo tempo santo, la Vergine Maria, ci invita a non spaventarci degli ostacoli, a non scoraggiarci delle nostre debolezze, a non confonderci per i nostri limiti, perché ciò che non è possibile a noi con le nostre sole e deboli forze, è possibile certamente a Dio (cf Lc 1,37) che ci ama (cf Gv 16,27).

Fidiamoci dunque di Dio e lasciamoci come Maria lavorare dallo Spirito Santo per portare frutti di un’autentica e sincera conversione al Signore che, concepito a Nazareth e nato a Betlemme, vuol crescere e vivere in ciascuno di noi.

Amen.                                                              j.m.j.

 

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Terza Domenica d’Avvento – Anno “A” – Gaudete”                                                           Omelia

 

 

Carissimi fratelli e sorelle,

mancano meno di due settimane al santo Natale e la Chiesa oggi celebra la domenica della gioia, del gaudio, chiamata appunto “gaudete”, caratterizzata dalla possibilità di usare i paramenti liturgici rosacei, al posto di quelli violacei, come segno di particolare gioia per la vicinanza del festa natalizia.

Nella Liturgia della Parola abbiamo fatto memoria di quando Giovanni Battista dal carcere mandò dei messaggeri da Gesù per chiederGli se fosse Lui il Messia o dovessero aspettarne un altro, questo episodio impone alla nostra riflessione amorosa un confronto tra Gesù e il suo Precursore. Vedete, possiamo essere portati a pensare che Giovanni nel carcere, riflettendo su quanto sentiva dire di suo cugino Gesù e del suo Vangelo intriso di misericordia, affatto duro e severo come la sua predicazione, fosse entrato in crisi e avesse iniziato a dubitare, pensando che, forse, si era sbagliato quando Lo aveva indicato a tutti come il Messia venuto a immolarsi per la salvezza del mondo (cf Gv 1,29). Io stesso, nell’omelia di domenica scorsa proponevo questa interpretazione. Ma ad una riflessione più profonda, non penso più che sia esattamente così.

Mi sono chiesto: ma è proprio vero che la predicazione di Giovanni fosse austera, severa, dura in confronto a quella di Gesù? Ebbene, che la vita personale di Giovanni fosse stata tale: austera, severa, dura, è indubitabile; ma valutare tale anche la sua predicazione potrebbe essere erroneo; come erroneo sarebbe affermare un dualismo, un contrasto, tra la predicazione del Battista (dura, severa, austera, penitente) e la predicazione di Gesù (dolce, indulgente, misericordiosa, tenera). Quest’opposizione tra Gesù e suo cugino Giovanni è – a mio giudizio – superficiale e non corrispondente a verità.

Infatti, è vero che il Battista ha parole durissime contro i farisei e i sadducei che chiamava “razza di vipere” (Mt 3,7), è vero che parlava della “scure posta alla radice degli alberi” (Mt 3,10), indicando così un giudizio severissimo imminente di Dio attraverso il suo Messia che veniva con “il ventilabro a pulire la sua aia… per bruciare la pula nel fuoco inestinguibile” (Mt 3,12). Ma tutto questo non trova forse un’eco ancora più forte nel Vangelo di Gesù che, tra l’altro, iniziò la sua predicazione pubblica proprio con le parole prese a prestito da suo cugino Giovanni: “Convertitevi perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2; 4,17)?

Ci siamo forse dimenticati come Gesù chiamava i farisei, i sadducei, gli scribi, i sacerdoti? Non li chiamò forse anche lui “serpenti, razza di vipere” (Mt 23,33; 12,34)? E non si fermò lì! Li minacciò apertamente: come non ricordare le sette volte che nel Vangelo di Matteo, Gesù si rivolge agli scribi e ai farisei con quel minaccioso “guai a voi” (Mt 23,13.15.16.23.25.27.29) definendoli anche “ipocriti… e …sepolcri imbiancati” (Mt 23,27)? Certamente su questo punto Gesù fu molto più duro, severo e pungente del cugino. La pesantezza del suo lin-guaggio giunse al massimo quando diede loro anche il titolo di “bugiardi” “figli del demonio” (cf Gv 8,44).

Riguardo poi alla “scure posta alla radice degli alberi” pronta tagliare per bruciare, non sarà forse anche annunciata da Gesù con la stessa severità? Non fu quella stessa “scure” che Simeone preconizzò quando Lo prese in braccio bambino dicendo che “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione” (Lc 2,35)? E non era forse la stessa “scure” di cui parlava Giovanni quella che si intravede minacciosa nella parabola evangelica del “fico sterile” (Lc 13,6-9)? In essa Gesù si presenta come l’unica e ultima occasione di salvezza dell’umanità, dopo di che la scure farà il suo lavoro…

E che dire ancora della durezza dell’insegnamento di Gesù, quando ricorda agli uomini che devono essere pronti a tagliarsi un arto o cavarsi un occhio se questi impediscono loro di entrare in Cielo (cf Mt 18,8-9)?…

E che dire ancora della porta chiusa che tanti vorrebbero aprire senza eternamente riuscirci (cf Mt 25,10-11)? Cosa c’è di più duro, severo, forte e minaccioso dell’insegnamento di Gesù sull’inferno, dove c’è un “fuoco inestinguibile” (Mc 9,43),“eterno” (Mt 18,8), “una fiamma che tortura” (cf Lc 16,24),“pianto e stridor di denti” (Mt 8,12), dove si è rosi da un “verme che non muore” (Mc 9,48)?

Chi afferma che l’insegnamento di Giovanni fu duro confronto a quello di Gesù, non considera affatto quanto Luca ci racconta a riguardo. Giovanni fu durissimo con i farisei e quelli simili a loro, ma fu dolcissimo con il popolo, con i soldati, con i pubblicani, proprio come lo sarà, e ancor di più, suo cugino Gesù. Infatti al popolo che gli chiedeva cosa fare, non proponeva chissà quali austerità e penitenze, predicava con semplicità l’amore al prossimo nella fedeltà ai comandamenti di Dio e tutti lo capivano e lo seguivano: “Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto” (Lc 3,11). Ai pubblicani, rappresentanti della feccia d’Israele diceva: “Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato” (Lc 3,13). E, infine, ai soldati che accorrevano a lui, uomini avvezzi alla prepotenza e alla volgarità diceva: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe” (Lc 3,14).

Giovanni con la sua predicazione rappresenta tutto il cammino di speranza del popolo di Dio incontro al suo Salvatore, rappresenta quindi “la Legge e i Profeti”, cioè la Sacra Scrittura, l’Antico Testamento che Gesù non è venuto ad abolire ma a portare a compimento (cf Mt 5,17). Ma di questo argomento abbiamo già parlato più che diffusamente domenica scorsa [rileggetevi quindi l’omelia se non ve la ricordate!], ora è sufficiente rammentare che la novità del N.T. consiste non in una norma, ma in una persona: Gesù Cristo, la Persona Divina del Figlio di Dio che si è fatto uomo per salvarci regalandoci la possibilità di partecipare alla sua figliolanza divina. Per questo Gesù, oggi, esaltando suo cugino Giovanni come “il più grande tra i nati da donna”, affermerà però che “il più piccolo del regno dei cieli è più grande di lui”.

Affermato questo, ora possiamo anche interrogarci sul perché Giovanni mandò a chiedere a Gesù se fosse veramente Lui il Messia o dovevano aspettarne un altro. Penso che le possibilità di risposta siano due, in Cielo sapremo poi quale è quella giusta.

La prima è che Giovanni lì nel carcere in quella situazione di afflizione, prostrazione, frustrazione tremenda abbia vissuto una profonda notte dello spirito che gli fece offuscare il ricordo dell’esperienza che ebbe quando disse a tutti che era Lui, Gesù, “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29) avendo “visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui” (Gv 1,32). Nella vita di diversi santi, se non tutti, troviamo momenti di profonda oscurità dell’anima in cui perdono ogni consolazione e anche la dolcezza del ricordo di ogni carezza e conforto di Dio. Comunque pur vivendo questa notte, Giovanni cerca luce da Gesù e solo da Gesù e così indica anche a noi Gesù, come l’unico che può darci una risposta agli interrogativi più inquietanti e drammatici della nostra esistenza e che quindi dobbiamo andare da Gesù se vogliamo risolverli.

La seconda risposta possibile è quella che non fu Giovanni a dubitare, ma i suoi discepoli e volendoli sollevare dalla loro perplessità non trovò di meglio che mandarli proprio da Lui, da Gesù, a trovare una risposta alla loro inquietante domanda. Anche in questo caso Giovanni insegna a noi qualcosa: insegna a capire che la nostra missione di cristiani oggi non è quella di dare le risposte che possano soddisfare le persone che accostiamo, ma è quella di aiutarle a incontrare Gesù, a stare con Gesù, ad ascoltare Gesù ed a fidarsi di Lui, perché è solo da un incontro profondo e autentico con Gesù che chiunque potrà avere tutte le risposte alle domande che più l’assillano.

E così i discepoli di Giovanni si trovano davanti a Gesù e gli pongono il loro interrogativo: “Sei tu il Messia, o dobbiamo aspettarne un altro?”. Matteo, abbiamo ascoltato, riporta subito la risposta di Gesù che proclama in atto il regno messianico annunciato da i profeti (prima lettura): 

“Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me”. 

L’evangelista Luca, invece, mette in evidenza che Gesù non rispose “subito” alla domanda, ma “mentre” i messaggeri di Giovanni gli chiedevano, in quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. Poi diede loro questa risposta: ‘Andate e riferite a Giovanni…’” (Lc 7,21-22).

È così anche oggi, carissimi fratelli e sorelle, Gesù non risponde alle domande di chi gli si accosta se non mentre questi esperimenta il Vangelo. Se abbiamo tante domande senza risposta, pur avendole poste a Gesù, la verità è che le abbiamo poste senza lasciarci coinvolgere dal suo Vangelo, senza fare l’esperienza di sederci ai suoi piedi ad ascoltarLo e di alzarci per seguirLo, non abbiamo quindi potuto esperimentare la forza di luce e la potenza di amore delle sue parole capaci di illuminare ogni tenebra (cf Gv 1,9; 8,12), riscaldare e infuocare ogni cuore (cf Lc 12,49), guarire ogni malattia (cf Mc 10,51; Gv 5,6), risuscitare ogni morto (cf Lc 7,14; Mc 5,41; Gv 11,43) e “far nuovo tutto” (Ap 21,5).

Ecco – carissimi fratelli e sorelle – si avvicina il Natale, un Natale che ci coglie ancora una volta immersi in un mondo che va sempre più a rotoli, anelando disperatamente alla salvezza, alla pace, ad una vita serena e tranquilla. Buona parte dell’umanità vive in mezzo alla paura, al terrore, all’odio, alla miseria, alla fame, alla malattia, all’angoscia più profonda. Nell’attesa paziente (seconda lettura) del ritorno di Gesù, quando verrà a chiudere la storia e a ricompensare ogni gesto di bontà e d’amore (cf Mt 25,34-36), siamo chiamati ad essere in questo nostro mondo, segni della sua presenza e quindi del suo Regno rivelando agli uomini il significato e il valore di ogni situazione di afflizione e di morte che assunta e trasformata da un amore forte e potente diventa il luogo dove il Signore Gesù instaura il suo Regno, regno che, però, non è un regno di questo mondo (cf Gv 18,36) e che attende con pazienza proprio che questo finisca per manifestarsi pienamente. 

La Vergine Maria che è stata scelta e voluta dal Padre per donarci il suo Figlio e in Lui il suo Regno (cf Lc 12,32) e che fu il primo segno di esso, aiuti noi suoi figli ad essere in questo povero mondo, dei piccoli, ma autentici ed efficaci segni di questo Regno. 

Amen. 

j.m.j.

 

 

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Quarta Domenica d’Avvento – Anno “A” –                                                             Omelia

 

 

Carissimi fratelli e sorelle,

a meno di una settimana dal Santo Natale, la Chiesa ci mette davanti la figura della giovane donna di Nazareth, Maria, che porta nel suo grembo un bambino, è suo figlio, ma Lei è “vergine”. Lei infatti è quella “giovane donna” preannunziata da Isaia (prima lettura) da cui sarebbe venuto al mondo l’Emanuele, il “Dio con noi”. Nella sua profezia, Isaia usò il termine ebraico “almah” che significa appunto “giovane donna” e più che altro lui parlava ad Acaz, allora re di Giuda, a cui annunciava la prossima nascita di un figlio dalla sua giovane moglie: germoglio di speranza per tutta la nazione in un momento storico molto travagliato. Isaia stesso non sapeva che la portata del suo oracolo era ben più grande e che nascondeva l’annuncio della venuta in mezzo agli uomini del Figlio di Dio (seconda lettura) che sarebbe nato non semplicemente da una “giovane donna”, come il figlio di Acaz, ma da una “vergine”, la sempre Vergine Maria: Vergine prima del parto, Vergine durante il parto, Vergine dopo il parto.

Con Maria incinta, siamo messi davanti anche alla figura di Giuseppe, “uomo giusto”, oggi abbiamo ascoltato del suo strazio, del suo profondo dolore nel rendersi conto che la Fidanzata è incinta. Insieme all’amaro sconvolgimento interno di Giuseppe, siamo messi di fronte al silenzio di Maria. Ella tace perché non può parlare, non può spiegare, non può raccontare al suo fidanzato quello che era successo: come avrebbe potuto? Certo che desiderava ardentemente che Giuseppe sapesse il misterioso “come” della sua maternità, ma poteva mai raccontare al fidanzato quello che era successo? Quale Donna di buon senso, Ella tace e quale Donna di fede, Ella si affida al Padre e al Figlio che porta nel grembo.

Anche Giuseppe tace, non chiede, è confuso, smarrito, addolorato. Non sa cosa fare, ama Maria ed è tutto orientato verso le nozze ormai alle porte: Cosa fare? 

Per meglio capire l’angoscia di Giuseppe dobbiamo sapere che il rito nuziale giudaico avveniva in due tempi. Dapprima c’era il Qiddushin (= Sposalizio) nel quale lo sposo acquisiva la sposa con un anello che infilava all'indice destro della sposa proclamando: “Ecco, tu mi sei consacrata secondo la legge di Mosè e d'Israele”, dopo di che veniva steso l’atto di matrimonio (ketubbah) e lo sposo si assumeva tutti gli obblighi inerenti al matrimonio, ma questo contratto matrimoniale non dava ancora diritto agli atti coniugali e quindi i due ancora non andavano ad abitare insieme. Successivamente si svolgeva, anche a distanza di mesi, il rito del Nissu'in (= Nozze) con cui lo sposo introduceva la sposa nella sua casa. Oggi gli ebrei hanno unificato il rito, per cui Qiddushin e Nissu’in formano l’unico rituale del matrimonio.

All’uomo che, avendo contratto il Qiddushin, non volesse celebrare il Nissu'in, non restava altro da fare che ripudiare la fidanzata-sposa con un atto pubblico di ripudio che doveva essere normalmente motivato, anche se poi, vista la società maschilista dell’epoca, bastava ogni pretesto per ripudiare la sposa.

Matteo ci racconta che Giuseppe “decise di ripudiare Maria in segreto”. Questo brano così com’è rimane più che oscuro, incomprensibile, perché il ripudio era un atto necessariamente pubblico in quanto liberava lo sposo dai suoi obblighi di marito di una donna e questa poteva contrarre matrimonio con un altro uomo. Mancando la notorietà dell’atto veniva a cadere lo stesso ripudio, cioè, se il ripudio non è pubblico non è ripudio. Cosa allora si nascondeva nella decisione di “ripudiarla in segreto”

Una ipotesi che è stata formulata da qualcuno, è che Giuseppe avesse deciso di ripudiarla senza render noto il motivo, tenendo “segreto” il motivo.  Ultimamente, in seguito a ritrovamenti di frammenti di documenti del tempo, sappiamo che questa prassi era possibile anche se non usuale. Ma questa ipotesi sembra non reggersi perché Maria era incinta e ripudiarla equivaleva a disconoscere la paternità del nascituro e conseguentemente ad apporre l’etichetta pubblica di peccatrice su Maria.

Un’altra ipotesi sembra più consona alla realtà avvenuta ed è la seguente: il termine “in segreto” non si riferisce al ripudio, ma alla decisione presa in segreto (= non comunicata a nessuno) di ripudiare Maria. Questa ipotesi rende tutto più umanamente comprensibile e semplice: Giuseppe quindi, da uomo “giusto” vedendo la sua sposa incinta prima che andassero a vivere insieme, non trova altra  soluzione “giusta” che quella di ripudiarla e quindi sottoporre Maria allo scandalo. Non aveva altre possibilità “giuste”. Rimanere con Maria e dare il suo nome al nascituro legittimandolo? Questo non era affatto “giusto” secondo un uomo formato alla Legge del V. T., dove l’adultera veniva lapidata. E, di fatto, Maria in quanto sua sposa a tutti gli effetti giuridici, essendo incinta non da lui appare, ai suoi occhi, necessariamente come adultera. 

Giuseppe quindi prese la decisione in segreto, nel suo cuore senza ancora comunicarla a nessuno, di ripudiare pubblicamente Maria. E quando si trovava proprio nella fase di esecuzione di quanto deciso, proprio quindi quando il suo affranto era al massimo e stava per effettuare “giustamente” l’atto pubblico del ripudio, lì interviene il buon Dio mandandogli un Angelo a spiegargli come Maria è incinta, sì, ma non è adultera perché “vergine”!

Pensiamo un po’ alla gioia di Giuseppe di saper vergine la sua sposa dalla quale credeva di esser stato tradito. D’altra parte, pensiamo anche alla sua amarezza, al suo senso di colpa che inevitabilmente gli sopravvenne per aver potuto dubitare di Maria. Giuseppe, certamente avrà pianto e piangendo avrà chiesto a Maria di perdonarlo per aver potuto dubitare di Lei.

Siamo quindi oggi di fronte a due “silenzi”: il silenzio di discernimento di Giuseppe, che chiuso nel suo dolore e davanti al Signore prende la decisione drammatica, ma necessaria (secondo lui) di ripudiare la sposa e il silenzio di Maria che sente la propria impotenza a comunicare a Giuseppe una tale maternità e si abbandona fiduciosa in Dio. Sono due silenzi che sono per noi “maestri” di vita.

Giuseppe ci insegna con il suo silenzio, con il suo atteggiamento, con la sua coerenza e fermezza, con la decisione presa di ripudiare la sua sposa, ci insegna a saper prendere delle decisioni, a fare discernimento. La decisione che Giuseppe prese nel suo cuore era oggettivamente sbagliata, ma lui non poteva saperlo. Aveva ragionato sul fatto, aveva pregato e aveva deciso secondo quanto lui riteneva “giusto”. A questo punto interviene il Signore a dargli un dato della questione che non era in suo potere conoscere: quel Figlio è di Dio non è figlio di un uomo, è Figlio di Dio, Maria è la Madre, ma il seme non è umano. A questo punto Giuseppe revoca la determinazione presa e ne prende un’altra. Giuseppe ci insegna a cambiare decisione quando capiamo che abbiamo sbagliato e a non presumere mai che ogni nostra scelta sia totalmente giusta e esatta perché non ci è dato di conoscere tutti i vari aspetti o conseguenze possibili di quanto dobbiamo decidere. È necessario quindi rimettere sempre ogni nostra decisione nelle mani del Signore e chiedere che Lui la benedica, la confermi o meno. Tutto questo richiede una buona dose di umiltà e distacco interiore dal proprio giudizio. Quando il Signore vede la nostra rettitudine e buona coscienza, difficilmente ci lascia sbagliare, ma viene in nostro aiuto con o senza Angeli e ci libera da ogni oscurità della mente e ogni timore: “Non temere Giuseppe di prendere con te Maria come sposa!”.

Qui abbiamo una seconda annunciazione, quella di Dio a Giuseppe, mentre a Maria Dio aveva chiesto, tramite un Angelo, di generare suo Figlio, qui Egli chiede a Giuseppe di far da padre a suo Figlio. Teniamo ben presente che, come abbiamo cercato di spiegare, Giuseppe era già lo sposo di Maria quando Dio gli chiese questo, come, d’altra parte Maria era già la sposa di Giuseppe quando le venne chiesto di generare il Figlio di Dio. Appare ben chiaro così che queste due annunciazioni sono espressive di un intervento di Dio nel seno di una coppia di sposi che sconvolge totalmente i loro programmi, le loro più sante e buone aspettative sul loro amore, sulla loro famiglia. Dio entra in quel progetto umano e lo rivoluziona legando al loro “Sì” ad un figlio non previsto, la salvezza dell’umanità: che mistero!

Dio continua ancora oggi a sconvolgere i programmi delle persone, continua a sconvolgere progetti, attese, desideri di coppie che vedono svanire i propri sogni e attese più intime perché c’è un altro, misterioso sogno e desiderio di Dio su di loro, impariamo da Maria, impariamo da Giuseppe a fidarci di Dio, ad accogliere la missione che vuole affidarci per la salvezza del mondo.

Sembra inverosimile quello che accettò Giuseppe secondo la mente e il cuore di tanti che hanno una limitata esperienza dell’amore di Dio e di come Questi possa gratificare, riempire, soddisfare ogni anelito più profondo dell’animo umano. Quello che sempre mi dà fastidio è trovarmi davanti qualche dipinto o raffigurazione della Santa Famiglia dove si nota una giovane Maria accanto ad un Giuseppe vecchio bacucco: quasi a voler preservare l’integrità di Maria dalla vecchiezza dello sposo! Quasi a voler implicitamente affermare che se fosse stato giovane, Giuseppe non poteva accettare di accogliere Maria come sua sposa senza esserne marito e quindi vivendo con Lei un amore di intima amicizia, ma non coniugale. 

Non è così! Certamente non fu così! Avremo la conferma solo quando saremo anche noi lassù dove adesso è lui, ma certamente Giuseppe era giovane quando sposò Maria e seppe rinunciare con semplicità e amore ai suoi umani desideri di sposo, perché non poteva opporsi, essendo “giusto”, alle richieste di Dio. Messo davanti a Dio, Giuseppe, da uomo “giusto”, sa stare al suo posto e ubbidisce lasciando da parte se stesso per abbracciare quel nuovo ruolo che Dio voleva che assumesse: padre putativo di suo Figlio e quindi rappresentante della sua paternità. E abbraccia questo ruolo con tutto se stesso e accoglie Maria presso di sé con un nuovo amore, più delicato, più intenso, più puro diventando così, lui, lo sposo della Vergine, anche il primo discepolo di quel Figlio che Lei porta in grembo e che chiede a tutti noi di accoglierLa nella nostra casa come Giuseppe a Nazareth e Giovanni al Golgota (cf Gv 19,27).

Dio cosa poteva chiedere a Giuseppe di più umanamente frustrante? Eppure Giuseppe ebbe fiducia, si abbandonò alla sua volontà e sperimentò come essa sia veramente sempre “Amore”, misterioso “Amore” che solo la fede rivela. Carissimi fratelli e sorelle, imitiamo dunque Giuseppe nell’accogliere nella nostra vita le istanze di Dio, anche quelle a noi non ancora pienamente comprensibili, sappiamo stare al nostro posto come lui e ubbidire con amore e certamente il Signore ci darà la gioia di capire che non ci siamo proprio sbagliati e renderà la nostra vita, che ai più forse apparirà umanamente sterile e vuota, divinamente feconda, una vita piena di significato, di valore, di intensità di affetti e di emozioni, una vita pienamente umana e come tale gratificante perché piena di Dio e del suo amore.

Amen.

j.m.j.

Prima domenica d’Avvento -Anno B                           Omelia

“SE TU SQUARCIASSI I CIELI E SCENDESSI!”

 

1. Introduzione: senso dell’Anno Liturgico 

Cos’è l’anno liturgico? È  l’azione della Chiesa che nel tempo ricorda e vive quanto il suo Signore ha fatto per lei permettendo a tutti i fedeli un incontro esistenziale con Lui morto e risorto.

Quest’azione celebrativa della Chiesa è essenzialmente celebrazione del mistero pasquale di Gesù Cristo, mistero che essendo troppo denso e ricco per essere da noi compreso e vissuto in maniera immediata e totale, viene – per così dire – spezzettato nel tempo perché possiamo gustarne e assimilarne i diversi aspetti e le diverse dimensioni.

Ogni celebrazione liturgica della Chiesa è celebrazione del mistero pasquale di Gesù, ma nei vari tempi liturgici questa celebrazione viene enfatizzata in alcuni suoi aspetti particolari.

Ogni celebrazione liturgica è celebrazione di fedesperanzacarità e queste tre virtù ci aiutano anche a capire tre dimensioni sempre presenti in ogni celebrazione liturgica. 

La fede ci riporta al passato, la speranza al futuro, la carità al presente.

Ogni celebrazione liturgica è ricordo o memoria di un evento storico passato, con la virtù teologale della fede noi crediamo veramente accaduto quanto ricordiamo.

Ogni celebrazione liturgica non è solo ricordo o memoria di un evento passato, ma è anche memoriale, cioè presenza sacramentale dell’evento. Cioè quanto noi crediamo avvenuto un tempo si rende presente nell’oggi della liturgia permettendo così a chi vi partecipa non solo un ricordo psicologico di esso, ma un contatto esistenziale con quanto ricordato che viene reso presente per la forza del sacramento. Questa presenza richiede un’accoglienza amorosa che il fedele opera attraverso la virtù teologale della carità che lo spinge a vivere ciò che celebra nel rito anche con la partecipazione dell’offerta della propria persona.

L’accoglienza amorosa di quanto il Padre ha fatto per l’umanità in Cristo spinge il fedele a vivere in un amore donante e consegnante ciò che celebra, donandosi e consegnandosi con Gesù al Padre.

Ogni celebrazione non è solo ricordo e presenza sacramentale di un evento passato, ma è anche anticipo e pegno di quell’incontro definitivo col Cristo glorioso che faremo quando Lui tornerà a chiudere la storia. Quindi ogni celebrazione è carica di una tensione di speranza dell’incontro definitivo, è tesa verso Gesù che ritorna. 

Ogni celebrazione è un rinnovare con forza e amore quel Vieni Signore Gesù – Maranatah’ (Ap 22,17) con cui si chiude la Bibbia.

 

2. Senso del Tempo d’Avvento.

Ognuno di questi tre aspetti è proprio di tutti i tempi liturgici, ma il terzo aspetto lo è in modo specifico del tempo dell’Avvento che enfatizza proprio questa attesa.

Il tempo d’Avvento è il tempo della speranza, della viva attesa di Gesù. Per ridestare una speranza viva nel ritorno del suo Signore la Chiesa si fa aiutare dal ricordo di quell’attesa che pulsava nel cuore di ogni pio israelita che attendeva il Messia, la salvezza. E così, ad esempio, oggi la Chiesa rileggendo Isaia – prima lettura – e le sue profezie di speranza al popolo ebreo schiavo a Babilonia – rinnova nel cuore del cristiano il suo desiderio che Gesù Signore venga presto a salvare questo mondo e a regnare sull’universo: ‘Se tu squarciassi i cieli e scendessi!’ (Is 63,19)

Per questo è cosa buona rileggersi in questo tempo l’AT, soprattutto quei brani che ci raccontano i periodi più difficili e angosciosi della storia ebraica in cui più esplodeva nel cuore del pio israelita la speranza e il desiderio che si realizzasse quella salvezza promessa dai profeti nell’annuncio di un Salvatore venturo. 

La Chiesa in questo tempo contempla e medita dunque quel desiderio di quel popolo che Dio si scelse per preparare la venuta del Salvatore, in particolare in questo tempo siamo chiamati a guardare verso quella figura di quel popolo che condensò nel suo cuore, al massimo grado, tutte le speranze di Israele, questa figura è Maria, la Figlia di Sion (cfr. Zc 2,14; 9,9; Sof  3,14). Nel tempo d’Avvento guardiamo particolarmente verso Lei, entriamo nel suo Cuore così desideroso di vedere quel Salvatore che mirabilmente in Lei prendeva i lineamenti umani e che Lei avrebbe partorito nella povertà del presepe.

Celebrando quindi l’attesa del ritorno di Gesù, l’Avvento ci fa rivivere l’attesa della sua nascita a Betlemme e l’ansia di Maria di vedere il suo Figlioletto divino. 

L’ansia della salvezza vissuta dal popolo santo di Dio nella sua storia di salvezza mi deve rimandare ad entrare in profondità in quella storia personale e soggettiva della salvezza che è la storia della mia vita personale. Entriamo in questo Avvento in profondità nella nostra storia personale, entriamo in profondità in quella realtà di tenebre, di malizia, di peccato che ci portiamo dietro come una zavorra, prendiamo coscienza della nostra personale miseria per poter invocare con più desiderio, con più forza, con più confidenza la mia salvezza e gridare così a Gesù, mio Salvatore, a Gesù mio Redentore: Vieni Signore Gesù! Vieni presto a salvarmi! Ho bisogno di Te! Ho bisogno di essere guarito dentro! Ho bisogno di essere toccato, guardato, amato, perdonato da Te!.

Ecco l’Avvento con il suo grido: MARANATAH: Vieni Signore Gesù! 

 

3. Avvento: celebrazione delle tre venute di Gesù Signore nella storia. 

L’Avvento è celebrazione litugica delle due venute di Gesù: quella avvenuta nella povertà del presepe da noi creduta con fede; quella ventura, quando Gesù verrà nella sua gloria, venuta da noi attesa nella speranza. Nello stesso tempo l’Avvento ci spinge a saper scoprire e accogliere nell’amore quella continua venuta del Signore nella nostra personale storia.

 

Si racconta di un anziano rabbi – un maestro del giudaismo – che una volta, mentre osservava dei ragazzini che si divertivano a giocare a nascondino, improvvisamente si mise a piangere… Uno di loro allora gli si avvicinò e gli chiese perché piangesse. “Anche Dio si nasconde, come nel vostro gioco – rispose – ma non c’è nessuno che si metta a cercarlo”. 

 

Ecco l’Avvento è quel tempo liturgico che ci invita a scoprire la presenza nascosta in mezzo a noi di Gesù Signore che viene in vari modi nel nostro oggi ecclesiale per salvarci.

 

Gesù viene a noi in modo assolutamente mirabile nell’Eucarestia e si nasconde in essa. “Gesù nascosto” – così lo chiamava Francesco, uno dei tre fanciulli di Fatima. Gesù nascosto! Gesù si nasconde per darci la gioia di scoprirlo! L’Avvento è tempo di Eucaristia!

 

Ma Gesù non si nasconde solo nell’Eucarestia, Gesù ha un altro nascondiglio nel quale ama essere scoperto: la sua Parola. L’Avvento è tempo di riscoperta della Parola

 

Ma sono diversi ancora i nascondigli di Gesù, Gesù si nasconde nei suoi ministri, mirabile nascondiglio! Quanta fede alle volte ci vuole per poterlo scoprire, ma quanta gioia ci riserva questa scoperta! Quanta pace! Quanta luce! Quanta serenità Gesù ci trasmette attraverso quel povero uomo che Lui ha preso come suo nascondiglio: ‘Va in pace, i tuoi peccati ti sono perdonati’ e attraverso le mani di quel povero uomo veniamo toccati da Gesù, guariti da Gesù, perdonati da Gesù.

 

E poi ci sono quegli altri nascondigli di Gesù di cui abbiamo parlato domenica scorsa quando Gesù ci diceva: ‘Avevo fame… avevo sete… ero nudo… forestiero…malato… carcerato… quello che avete fatto ad uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me! … L’avete fatto a me!’ (Mt 25,31ss) Gesù nascosto nel povero, nel malato, nel bisognoso. L’Avvento è dunque tempo di quella carità che ci fa accogliere questa presenza nella nostra vita.

 

Ma, infine, c’è ancora un nascondiglio di Gesù, che vi invito a scoprire per incontrarvi con gioia con Lui in questo tempo d’Avvento. Gesù è lì nascosto così vicino a noi e noi così distratti ce ne accorgiamo così raramente. Ma qual’è quest’ultimo nascondiglio di Gesù? Gesù si nasconde nel tuo cuore, nel mio cuore… Se ci fermassimo un attimo a pensare la grandezza e l’importanza di questo: sono io il nascondiglio preferito di Gesù, sono io! La mia persona è il nascondiglio di Gesù: quanto Gesù ama essere costretto ad uscire da questo nascondiglio! Facciamo uscire fuori Gesù! FacciamoLo vedere questo Gesù, facciamoLo crescere questo Gesù. L’Avvento è il tempo gioioso di questa rinnovata scoperta di Gesù nel nostro cuore, scoperto dalla nostra vita di preghiera: cos’è la preghiera se non un contatto vivo con questo Gesù risorto e vivo presente nel nostro cuore che ci invita a dire nel suo Santo Spirito: ‘Padre nostro’? L’Avvento è dunque, infine, tempo di preghiera fervorosa, intima e amorosa.

 

Il Signore Gesù dia a ciascuno di noi in questo Avvento 2002 la grazia di una rinnovata scoperta della sua presenza e di un rinnovato desiderio di abbracciarLo nella fede, nella speranza e nell’amore.

 

 

Amen.j.m.j.

 

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Seconda domenica d’Avvento -Anno B –> ci sono due schemi di omelia per questa domenica

PRIMO SCHEMA                               

UN NUOVO “INIZIO”

 

Carissimi fratelli e sorelle,

introdotti nel tempo santo di Avvento dal ripetuto invito a vegliare che il Signore Gesù ci ha lanciato nel  Vangelo (cf Mc 13,33-37) di domenica scorsa, oggi giunge a noi forte e potente la voce di Giovanni il Battista che ci invita “a preparare la via al Signore”. Nella prima lettura abbiamo ascoltato lo stesso invito fatto da Isaia al popolo depresso e schiavo in Babilonia, al quale il Signore annunciava la prossima fine della sua umiliante schiavitù: 

“Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità […].Una voce grida: “Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano”.

Questo testo di Isaia [per l’esattezza si tratta di un testo di un profeta anonimo del tempo della fine dell’esilio chiamato dagli esegeti Deutero-Isaia, cioè “Secondo Isaia”, i cui oracoli furono inseriti tra quelli del profeta Isaia che visse in tempi antecedenti] viene però citato dal Battista in un senso diverso da quello originale. Infatti il profeta dell’Antico Testamento con questa frase intendeva annunciare al popolo un nuovo “Esodo”, un nuovo intervento potente di Dio che lo avrebbe liberato dalla schiavitù babilonese riconducendolo a Gerusalemme attraverso il deserto, così come un tempo lo aveva condotto, per mezzo di Mosè, attraverso un altro deserto verso la Terra Promessa (cf Is 11,16). Isaia quindi, o meglio il Deutero-Isaia, invitando il popolo a preparare e appianare la via del Signore, intendeva dire che il Signore avrebbe presto permesso il ritorno del suo popolo e avrebbe aperto per lui una strada attraverso il deserto che separava Babilonia da Israele: “Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa” (Is 43,19).

La “strada” quindi dell’oracolo isaiano è una strada che dovrà percorrere il popolo nel deserto guidato dal Signore. La “strada”invece, di cui parla il Battista è tutta una “strada” spirituale, si tratta di quella “strada” spirituale che dovrà percorrere il Messia per poter entrare nel cuore di ogni uomo e di ogni donna. Sta per giungere il Messia, bisogna prepararsi ad incontrarLo, ad accoglierLo a seguirLo. Per questo il Battista incrocia il testo isaiano con un altro di Malachia

“Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore, che voi cercate; l'angelo dell'alleanza, che voi sospirate, ecco viene, dice il Signore degli eserciti” – (Ml 3,1)

Giovanni il Battista è proprio questo messaggero di Dio, da Lui inviato a preparare i cuori all’incontro con il suo Figlio. Non possiamo quindi avere una migliore preparazione alla celebrazione liturgica del Natale del Signore Gesù che quella di far riecheggiare nei nostri cuori la voce di questo “messaggero”

Sì, è vero che il Signore Gesù è già entrato “nel suo tempio” che siamo noi (cf 1Cor 3,16-17; 6,19; 2Cor 6,16; Ef 2,22; ecc.), vi è entrato con la sua grazia nel giorno del nostro battesimo e da lì non se ne vuole andare più a meno che noi non Lo cacciamo con il peccato mortale e, anche quando così fosse, è sempre pronto a ritornare quando noi ci ravvediamo e Gli permettiamo nuovamente di inabitarci per mezzo del sacramento della riconciliazione.

Che senso ha quindi quest’annuncio del Battista se il Signore Gesù è già entrato “nel suo tempio” che siamo noi? Ha un senso grande e importante perché è vero che Lui è già lì presente, ma è una presenza forse troppo disattesa da parte nostra, ce ne sfugge l’avvertenza in quanto solo la fede può coglierla, non i sensi e la nostra fede è così piccola, così debole! Per cui Lui sta lì e bussa e bussa forte forte in ogni Avvento per ricordarci proprio che Lui è lì…, infatti bussa alla porta dal di dentro, non dal di fuori…, si fa sentire e ci ricorda che Lui è lì…, e lì e ci aspetta per far cena con noi (cf Ap 3,20)! In ogni Avvento la Chiesa ci invita a rientrare in noi stessi (cf Lc 15,17) per appianare e raddrizzare quella strada che conduce al nostro cuore dove ci aspetta Gesù e dove attende da ciascuno di noi attenzione, ascolto, affetto e da dove Lui continua a gridarci l’infinita sete che ha del nostro amore (cf Gv 4,7; 19,28).

L’evangelista Marco che ci accompagnerà lungo tutto questo nuovo anno liturgico ci aiuterà a capire chi è questo Gesù che vive nel nostro cuore e cosa Egli desidera da ciascuno di noi nella concretezza della nostra vita. Oggi abbiamo ascoltato il suo solenne inizio: “Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio”Marco ha racchiuso in queste poche parole l’intero suo Vangelo in sintesi ed è bello fermarci ad approfondirle nella fede e nell’amore perché esse illuminino questo nostro cammino d’Avvento.

“Inizio”: non ci sfugga come altri due importanti testi biblici inizino con questa parola, in greco ARCHÉ”: “In principio – infatti – Dio creò il cielo e la terra” (Gen 1,1) e “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1). L’evangelista Giovanni riprendendo il “principio” della creazione nella Genesi, ci fa volare al quel “principio” senza tempo dell’eternità dove il Verbo sussisteva nel Padre da cui ogni cosa ha avuto inizio e a cui tutto ritornerà (cf 1Cor 15,24)

Marco iniziando il suo testo con lo stesso termine della Genesi sembra quasi volerci dire che il buon Dio attraverso il suo Figlio sta ricreando il mondo: stanno iniziando già ora quei “nuovi cieli e quella nuova terra” di cui ci ha parlato l’apostolo Pietro nella seconda lettura. “Cieli nuovi” e “terra nuova” che saranno inaugurati definitivamente nel gran giorno del ritorno di Gesù, giorno verso il quale il cosmo stesso tende gemendo (cf Rm 8,22), giorno invocato e affrettato dalla Chiesa, sua Sposa, (cf 2Pt 3,12) che in ogni sua celebrazione grida al suo Sposo il desiderio di vederLo e di stare per sempre con Lui: “Marana tha!… Vieni Signore Gesù… Vieni presto!” (cf Ap 22,20-21).

Marco, dicendo “Inizio del Vangelo di Gesù Cristo”, quindi dice molto di più di quanto le parole che usa, da sole, lasciano trasparire. Non si tratta della semplice indicazione dell’inizio di una narrazione, ma di un avvenimento: l’incarnazione del Figlio di Dio, la storia di una persona chiamata “Gesù Cristo” che è il “Figlio di Dio” venuto a dimorare in mezzo a noi:

«Questa presenza, questa dimora è un "inizio". Dentro al trascorrere sempre uguale del tempo umano, nella noiosa ripetizione delle stesse cose con Lui si è finalmente posto ed è accaduto un vero e proprio "inizio". "Un imprevisto è la sola speranza", ha scritto un poeta. "Ma mi dicono che è stoltezza dirselo" [Montale]. Un imprevisto che ha il carattere di "Vangelo", cioè di una notizia finalmente buona che nella sua novità assoluta cambia la storia. E la buona notizia, il Vangelo non è niente altro se non Lui, Gesù Cristo il Figlio di Dio. Per quale ragione Egli è l’imprevista, bella notizia che interrompe il trascorrere sempre uguale dei nostri giorni e ci pone in un nuovo "inizio"? Ascoltate come parla di Lui Giovanni Battista: "Viene uno che è più forte di me … Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo". Egli possiede una forza, un potere capace di vincere ogni forza contraria alla dignità della nostra persona, di liberarci da ogni potere che ci rende schiavi. È per questo che il profeta ci ha detto in nome di Dio: "Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù". Infatti, "Ecco, il Signore Dio viene con potenza". La nostra consegna al caso, alla fortuna, alla necessità insuperabile di un destino impostoci è finita: siamo liberati perché Lui è più forte. Egli compie la nostra liberazione attraverso, dice il Battista, il battesimo con lo Spirito Santo. Gesù rinnova il cuore dell’uomo, il centro stesso della sua persona, colla forza rigeneratrice del suo stesso Spirito. L’esperienza cristiana non consiste semplicemente nel compimento di riti che, al di là di una qualche efficacia psicologica non posseggono nulla. Essa è rinnovamento dell’uomo; è cambiamento vero e proprio della persona. Ecco perché il Vangelo che è Gesù Cristo costituisce un vero e proprio inizio: perché in Gesù è l’uomo che è veramente rinnovato» – Mons. Carlo Caffarra – Omelia della Seconda Dom. d’Avvento (4/12/1999).

La Vergine Maria nella quale si realizzò, “quando venne la pienezza dei tempi” (Gal 4,4), questo “INIZIO”, ci accompagni in questo nostro cammino d’Avvento, suscitando nel cuore di ciascuno di noi il desiderio di un nuovo, più profondo e più bell’ INIZIO di una vita cristiana più ricca di fede, speranza e amore. 

Amen.

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SECONDO SCHEMA  

PARLATE AL CUORE DI GERUSALEMME: Dio parla sempre al nostro cuore e la Chiesa è eco di questa voce dolcissima di Dio. Ogni prete nell’omelia cosa desidera se non parlare al cuore delle persone e questo desidero anch’io PARLARE AL VOSTRO CUORE, ma perché possa riuscirci è necessario che voi permettiate all’AMORE DI DIO di ferirvi il cuore, è iinfatti solo un cuore ferito dall’Amore di Dio che è capace di ascoltare, cioè di fare entrare dentro il cuore la Parola di Dio. Infatti se il cuore è sigillato, chiuso, recintato, difeso da una muraglia di granito o di ghiaccio, chi potrà penetrarlo, chi potrà ferirlo. Un cuore ben difeso è impenetrabile e non ascolta nessuno, ma scolta solo se stesso perché è chiuso in se stesso.

Ma il Signore è l’unico che può vincere quelle chiusure, abbattere quei muri, distruggere quelle difese e operare un breccia nei cuori, un’apertura, una ferita, una ferita d’amore, perché Lui non parla dal di fuori del nostro cuore, Lui è già lì chiuso dentro, spesso soffocato, affogato dalle nostre distrazioni, preoccupazioni, ambizioni, appetiti, affanni che ci portano a vivere una vita tutta fuori, tutta fuori da noi stessi, fuori dal centro della nostra vita che è il nostro cuore e così in definitiva quelle difese, quelle chiusure, quei muri che abbiamo eretto attorno ai nostri cuori impediscono a noi stessi di entrare in noi stessi. Ma quando appena appena ci raccogliamo, quando appena appena facciamo un po’ di silenzio, quando le voci del mondo che ci imbambonivano il cervello incominciano a darci un po’ di fastidio e nasce in noi il desiderio di un po’ di silenzio, ecco che riusciamo a percepire fievole fievole e poi, se le prestiamo attenzione, sempre più forte, sentiamo Qualcuno che bussa, bussa forte sempre più forte al nostro cuore, non bussa da fuori, non bussa da fuori, non lo sentiremmo se bussasse da fuori, bussa da dentro perché vuole spazio, perché ci sta stretto e vuole crescere, vuole uscire, vuole farsi vedere. Chi è Costui che bussa al cuore di Gerusalemme? Chi è Costui che bussa al nostro cuore? Chi è Costui che bussa al mio cuore e desidera ferirlo, aprirlo, squarciarlo, abbattere tutte le mie difese e muri? Chi è Costui se non Gesù il ladro dei cuori?

Vedete il Battista oggi riprendendo degli oracoli profetici di Malachia e di Isaia annuncia che il Signore sta per venire nel suo tempio e vuole che gli si prepari una strada. Ora noi sappiamo che Egli è già venuto ed è già entrato nel suo tempio. Qual è questo suo tempio dove Lui è entrato e vuole vivere e regnare? Quel tempio è proprio il nostro cuore, il vostro cuore, il mio cuore, il tuo cuore, dove Lui è entrato e preso possesso il giorno del mio battesimo, del tuo battesimo e da lì non se ne vuole andare più a meno che noi non Lo cacciamo con il peccato mortale e, anche quando così fosse, è sempre pronto a ritornare quando noi ci ravvediamo e Gli permettiamo nuovamente di inabitarci per mezzo del sacramento della riconciliazione.

Che senso ha quindi quest’annuncio del Battista se il Signore Gesù è già entrato “nel suo tempio” che siamo noi? Ha un senso grande e importante perché è vero che Lui è già lì presente, ma è una presenza forse troppo disattesa da parte nostra, ce ne sfugge l’avvertenza in quanto solo la fede può coglierla, non i sensi e la nostra fede è così piccola, così debole! Per cui Lui sta lì e bussa e bussa forte forte in ogni Avvento per ricordarci proprio che Lui è lì…, infatti bussa alla porta dal di dentro, non dal di fuori…, si fa sentire e ci ricorda che Lui è lì…, e lì e ci aspetta per far cena con noi (cf Ap 3,20)! In ogni Avvento la Chiesa ci invita a rientrare in noi stessi (cf Lc 15,17) per appianare e raddrizzare quella strada che conduce al nostro cuore dove ci aspetta Gesù e dove attende da ciascuno di noi attenzione, ascolto, affetto e da dove Lui continua a gridarci l’infinita sete che ha del nostro amore (cf Gv 4,7; 19,28).

L’evangelista Marco che ci accompagnerà lungo tutto questo nuovo anno liturgico ci aiuterà a capire chi è questo Gesù che vive nel nostro cuore e cosa Egli desidera da ciascuno di noi nella concretezza della nostra vita. Oggi abbiamo ascoltato il suo solenne inizio: “Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio”Marco ha racchiuso in queste poche parole l’intero suo Vangelo in sintesi ed è bello fermarci ad approfondirle nella fede e nell’amore perché esse illuminino questo nostro cammino d’Avvento.

“Inizio”: non ci sfugga come altri due importanti testi biblici inizino con questa parola, in greco ARCHÉ”: “In principio – infatti – Dio creò il cielo e la terra” (Gen 1,1) e “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1). L’evangelista Giovanni riprendendo il “principio” della creazione nella Genesi, ci fa volare al quel “principio” senza tempo dell’eternità dove il Verbo sussisteva nel Padre da cui ogni cosa ha avuto inizio e a cui tutto ritornerà (cf 1Cor 15,24)

Marco iniziando il suo testo con lo stesso termine della Genesi sembra quasi volerci dire che il buon Dio attraverso il suo Figlio sta ricreando il mondo: stanno iniziando già ora quei “nuovi cieli e quella nuova terra” di cui ci ha parlato l’apostolo Pietro nella seconda lettura. “Cieli nuovi” e “terra nuova” che saranno inaugurati definitivamente nel gran giorno del ritorno di Gesù, giorno verso il quale il cosmo stesso tende gemendo (cf Rm 8,22), giorno invocato e affrettato dalla Chiesa, sua Sposa, (cf 2Pt 3,12) che in ogni sua celebrazione grida al suo Sposo il desiderio di vederLo e di stare per sempre con Lui: “Marana tha!… Vieni Signore Gesù… Vieni presto!” (cf Ap 22,20-21).

Marco, dicendo “Inizio del Vangelo di Gesù Cristo”, quindi dice molto di più di quanto le parole che usa, da sole, lasciano trasparire. Non si tratta della semplice indicazione dell’inizio di una narrazione, ma di un avvenimento: l’incarnazione del Figlio di Dio, la storia di una persona chiamata “Gesù Cristo” che è il “Figlio di Dio” venuto a dimorare in mezzo a noi

Questa presenza, questa dimora è un "inizio". Dentro al trascorrere sempre uguale del tempo umano, nella noiosa ripetizione delle stesse cose con Lui si è finalmente posto ed è accaduto un vero e proprio "inizio" di una cosa nuova. Un imprevisto che ha il carattere di "Vangelo", cioè di una notizia finalmente buona che nella sua novità assoluta cambia la storia. E la buona notizia, il Vangelo non è niente altro se non Lui, Gesù Cristo il Figlio di Dio. Per quale ragione Egli è l’imprevista, bella notizia che interrompe il trascorrere sempre uguale dei nostri giorni e ci pone in un nuovo "inizio"? Ascoltate come parla di Lui Giovanni Battista: "Viene uno che è più forte di me … Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo". Egli possiede una forza, un potere capace di vincere ogni forza contraria alla dignità della nostra persona, di liberarci da ogni potere che ci rende schiavi. È per questo che il profeta ci ha detto in nome di Dio: "Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù". Infatti, "Ecco, il Signore Dio viene con potenza". La nostra consegna al caso, alla fortuna, alla necessità insuperabile di un destino impostoci è finita: siamo liberati perché Lui è più forte. L’esperienza cristiana non consiste semplicemente nel compimento di riti che, al di là di una qualche efficacia psicologica non posseggono nulla. Essa è rinnovamento dell’uomo; è cambiamento vero e proprio della persona. Ecco perché il Vangelo che è Gesù Cristo costituisce un vero e proprio inizio: perché in Gesù è l’uomo che è veramente rinnovato

La Vergine Maria nella quale si realizzò, “quando venne la pienezza dei tempi” (Gal 4,4), questo “INIZIO”, ci accompagni in questo nostro cammino d’Avvento, suscitando nel cuore di ciascuno di noi il desiderio di un nuovo, più profondo e più bell’ INIZIO di una vita cristiana più ricca di fede, speranza e amore. 

Amen.

j.m.j.

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Terza Domenica di Avvento – Anno B                          Omelia

LA GIOIA CRISTIANA

 

Carissimi fratelli e sorelle,

questa domenica è chiamata dalla Chiesa “Domenica in gaudete”: Domenica della gioia, per questo oggi è possibile usare il colore rosaceo nei paramenti liturgici così come anche nella Terza Domenica di Quaresima chiamata “Domenica in letare”: Domenica della letizia che ricorda ai fedeli che si è compiuto già metà cammino incontro alla Pasqua. Due domeniche  prima del Natale, invece, ecco la Domenica della gioia: Il Signore sta per nascere, coraggio, egli viene a salvarvi!

Vediamo come questa gioia viene annunziata nelle letture: 1) Isaia ci parla di un lieto annuncio per i poveri, gli umili, gli ultimi. 2) Nel cantico che abbiamo proclamato al posto del salmo, Maria gioisce nel Signore perché Questi ha fatto grandi cose in lei 3) Paolo nella seconda lettura c’invita ad essere sempre lieti perché Dio ci ama ed è sempre fedele 4) Nel Vangelo questa gioia è causata dall’annunzio del Messia da parte del Battista.

Bene, cerchiamo di entrare nel mistero di questo annuncio di gioia che il buon Dio oggi vuol far risuonare nelle nostre persone.

Giovanni il Battista aveva suscitato intorno a sé un grande seguito e gli animi dei sacerdoti, dei farisei e dei dottori, che in quel tempo erano i rappresentanti più autorevoli della religione ebraica, erano perplessi: “Sarà forse questo qui il Messia?” e gli posero espressamente la domanda alla quale Giovanni rispose con semplicità “No, non sono io il Messia. Non sono né un profeta, né Elia, io sono solo una voce che grida. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete: è Lui il Messia, non io. Io non sono nemmeno degno di sciogliergli il laccio dei sandali”.

Ecco, carissimi fratelli e sorelle, Giovanni Battista ci aiuta ad entrare nel mistero della gioia, egli sa chi lui è! “Chi sei tu?”, Giovanni risponde: “Io non sono quello che voi credete, sono uno che ha una missione da portare avanti”. Ecco, ora io mi chiedo, e contemporaneamente chiedo a ciascuno di voi: “Come è possibile essere nella gioia se non sappiamo chi siamo? Il presupposto per ogni dimensione di gioia umana è sapere, conoscere chi noi siamo. Finché l’umanità non si decide a cercare seriamente la risposta a questa domanda, ogni gioia acquisita sarà falsa, passeggera, effimera e amara. “Chi sei tu?”, “Chi sono io?”.

La prima risposta è una negazione di ciò che noi, nessuno di noi, è: Io non sono Dio, noi non siamo Dio! Una risposta apparentemente ovvia, evidente, ma che non è evidente nella vita dell’uomo che sempre più vive e si comporta come se  lui fosse Dio. Può essere mai felice una persona che si crede di essere ciò che non è? Può essere mai felice una persona che desidera essere ciò che non è e né potrai mai esserlo? Ecco allora il fondamento della gioia umana è prima di tutto riconoscere che siamo delle povere creature, che non siamo Dio, ma che abbiamo bisogno di Dio, perché senza Dio la nostra vita non trova significato e valore. Ecco allora Isaia con la gioia annunciata ai poveri e agli umili che sono coloro che meglio comprendono di avere bisogno di Dio.

Ma non basta aver capito di aver bisogno di Dio, occorre anche esserne contenti che non siamo Dio, essere contenti che abbiamo ricevuto tutto da Dio e che abbiamo bisogno di Lui. Essere contenti della propria povertà esistenziale per poter gioire della ricchezza di Dio!

Essere contenti delle proprie povertà che invocano la ricchezza di Dio! Questo è un discorso difficile che, portato agli estremi nella notte di Pasqua, fa gridare la Chiesa di una gioia stupefacente quando canta: «FELICE COLPA CHE CI MERITO’ DI AVERE UN SIMILE REDENTORE!» Felice colpa: saper gioire anche delle nostre miserie perché esse ci hanno fatto conoscere l’infinita misericordia di Dio. Ecco con più profondità il contenuto di gioia del messaggio di Isaia ai poveri, ai miseri, ai derelitti.

Ma andiamo ancora più in profondità. Una volta appurato e creduto fermamente che non sono Dio e sono anche contento di non esserlo, occorre ancora qualcosa per entrare nel mistero della gioia. Occorre aver capito che se è vero che io ho bisogno di Dio è vero anche che Dio vuole avere bisogno di me. Lui che può far tutto da solo, vuole fare qualcosa con me. Vuol fare qualcosa di grande, di potente, di strepitoso con me. La potenza di Dio si manifesta appunto nel fare cose grandi con piccoli e inadatti strumenti. Guardiamo al Cantico di Maria che oggi abbiamo proclamato: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”Maria ci insegna la gioia della persona che scopre con stupore che Dio opera in lei, Dio fa cose grandi in Lei, anzi Dio stesso si fa in Lei, si fa uomo in Lei. È la gioia di chi permette a Dio di usarlo: “Prendimi e fa ciò che vuoi” , “Comandami ciò che vuoi e dammi ciò che mi comandi” [S. Agostino].

Paolo, che aveva capito bene questo, oggi ci invita dunque ad essere sempre nella gioia: “State sempre lieti!”.

Perché se voi vi fidate di Dio e permettete a Dio di dimorare in voi, Lui sarà la vostra gioia e nessuno potrà mai separarvi da questa gioia: Nè “la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada” perché  “in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati”. Paolo era  “infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio” e quindi dalla gioia di Dio (cfr. Rm 8,35-39). 

Ecco, a questa umanità che sempre più ricerca la gioia in ciò che non può darle gioia vera e duratura, che la cerca nella bellezza del corpo, ma prima o poi la bellezza sfiorisce; la cerca nella salute, ma prima o poi il corpo si ammala; la cerca nella libertà più smodata e autonoma, ma prima o poi dovremo dipendere da qualcuno che ci aiuti e ci accudisca; che cerca la gioia nella comodità, ma prima o poi qualche sacrificio bisognerà pur farlo; che la cerca nel piacere… nel successo tutte cose che presto o tardi svaniscono.

Ecco, a questa umanità noi abbiamo la missione di annunziare la sapienza cristiana che sa cogliere e vivere sempre in ciò che ci regala gioia vera.

Ma andiamo ancora più in profondità nel segreto della gioia cristiana, in questa profondità ci introduce san Giacomo quando ci dice che “perfetta letizia – perfetta gioia – è subire ogni sorta di prova” (Gc 1,2)!

Cioè non solo noi possiamo essere felici quando subiamo tutto ciò che rende infelice normalmente l’umanità, non solo possiamo essere nella gioia quando siamo tribolati, ma la perfezione della gioia sta appunto nel subire le prove, non nel subirle in se stesse, se fosse così saremmo solo dei poveri malati che hanno bisogno di un buon psicologo che li aiuti a guarire. La perfezione della gioia cristiano sta nel subire prove, sì, ma nel subirle per amore di Gesù, e arrivare così a desiderarle per amore di Gesù, per amore di Gesù Crocifisso. E qui dobbiamo ammettere che il discorso diventa sempre più difficile e lo possono capire solo gli innamorati di Gesù, Gesù Crocifisso per amore che per amore scelse l’umiliazione, la croce e i suoi chiodi al posto della gloria del suo Cielo.

Quando il cuore della persona è stato ferito dall’amore di Gesù Crocifisso allora la gioia non è più nel facile, ma nel difficile, non è più nel comodo, ma nello scomodo, nel dolce, ma nell’amaro, non consiste più nel trovare la propria vita, ma nel perderla, nel donarla per amore (cf Gv 12,25). Ascoltiamo un brano di una di queste persone ferite dall’amore di Dio:

«Il più grande segno dell’amore è dare la vita per i propri amici… Ed è proprio questo grado di amore che fa impazzire le anime buone, che le lascia interdette… È da qui che nasce nelle anime quell’amore viscerale, quel desiderio di martirio, quella gioia di soffrire, di stare sulle graticole roventi, di camminare sui carboni ardenti come fossero rose, di desiderare i tormenti, di amare ciò che il mondo teme e abbracciare ciò che detesta. Scrive S. Ambrogio che l’anima che ha sposato Gesù Cristo sulla croce non brama altro che portarne le stimmate

Come dunque ripagarti, Gesù mio, di tanto amore? È giusto che il sangue si compensi col sangue. Sia, dunque, io intimo nel tuo sangue, inchiodato sulla tua croce… O croce santa, accogli anche me. Allargati, o corona di spine, perché vi possa trovar posto anche il mio capoChiodi, lasciate le mani innocenti del mio Signore e trapassate il mio cuore. Gesù, tu sei morto – come mi ricorda l’apostolo Paolo – per impossessarti dei vivi e dei morti, non col castigo ma con l’amore: “Infatti Cristo è morto ed è tornato in vita per essere il Signore dei morti e dei vivi” (Rm 14,9).

O Gesù, ladro dei cuori, la forza del tuo amore ha spezzato anche i cuori più duri. Tu hai infiammato tutto il mondo del tuo amore. O Sapienza del mio Gesù, inebria il mio cuore col vino del tuo amore; brucialo con questo fuoco; feriscilo con le frecce del tuo amore. Questa tua croce è balestra che mi colpisce al cuore… E sappia il mondo intero che il mio cuore è ferito

Che hai fatto, amore mio dolcissimo? Sei venuto per guarirmi? Sei venuto per insegnarmi a vivere e mi hai fatto impazzire? O santa pazzia, che io non viva senza di te!» [S. Giovanni d’Avila].

La Vergine Maria che per prima recepì nel suo Cuore Immacolato il segreto di questa gioia che in Lei si manifestò nel grado più eccelso quando – vedendo morire sulla croce, sfigurato dal dolore e dissanguato d’amore, il suo Bel Figlio – a Lui si univa nella consegna di sé per amore dell’umanità tutta divenendo così Madre anche di chi Le stava massacrando il Figlio, aiuti tutti noi ad incamminarci sulla via della gioia di accettare di morire perché qualcun altro viva! Amen.                                 

j.m.j.

 

 

 

 

 

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Quarta Domenica di Avvento – Anno B                          Omelia

“ECCOMI, SI FACCIA DI ME COME VUOI”

 

Carissimi fratelli e sorelle, 

a pochi giorni dal Natale siamo messi di fronte a questa pagina così bella del Vangelo, pagina che tutti conosciamo, pagina che ha ispirato i più grandi artisti di ogni epoca, pagina scrutata con penetrazione dalla mente acuta degli esegeti, studiosi della Parola, pagina amata dal cuore fervente dei mistici e dei santi, pagina amata, letta e riletta, dai semplici fedeli di tutti i tempi che in essa hanno trovato e trovano la luce, la pace, la consolazione e l’amore di Dio.

Cerchiamo di entrare ben dentro il messaggio che essa racchiude per poter tornare questa sera alle nostre case con un grande desiderio di incontrarci con Lui, di prepararci a quell’incontro che ogni anno ci attende, incontro consueto e sempre nuovo perché ci rinnova dentro, nell’intimo, nel cuore, incontro con questo Bambino che nasce alla vita per amore, per amore di questa umanità che sembra essere sempre più indifferente, estranea e non curante di Lui, della sua nascita, della sua vita, della sua vita consegnata per amore di ciascuno di noi al legno di una dura croce, della sua vita che si è ripresa perché nessuno poteva toglierla (cfr. Gv  10,15-18) e ce l’ha donata perché potessimo vivere in Lui la sua figliolanza divina (cfr. Ef 1,4-5).

Dopo secoli di preparazione, ecco la pienezza dei tempi quando Dio Padre mandò suo Figlio a nascere da donna. (cfr. Gal 4,4)

È una storia lunga che ha una sua tappa importante con Davide, l’abbiamo visto nella prima lettura, che desidera costruire una casa per il suo Dio, un Tempio dove custodire l’Arca dell’alleanza.

L’Arca era stata costruita da Mosè su indicazione di Dio e conteneva le tavole della Legge (cfr. Es 25,10-21), ad ogni tappa nel deserto, quando il popolo in cammino verso la Terra Promessa si fermava, veniva montata una tenda, la più solenne e bella, chiamata “tenda del convegno” in cui veniva custodita l’arca che era considerata il trono di Dio, Dio infatti riempiva con la sua nube la tenda (cfr. Es 33,9) e lì parlava faccia a faccia con Mosè (cfr. Es 33,11) che quando usciva dalla tenda aveva il viso talmente raggiante di luce che doveva velarselo (cfr. Es ,34,29-35). Quando conquistarono la terra promessa l’Arca era sempre custodita in quella tenda che vagava di tribù in tribù (cfr. Gdc 20,27; 1Re 8,1; 2Sam 6,11). Era il segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo (cfr. Es 25,22).

Quando Davide stabilizzò il regno e si godeva di una certa tranquillità, pensò di costruire un grande tempio per intronizzarvici l’Arca, era questo un suo grande, vivo desiderio, l’abbiamo ascoltato nella prima lettura, ma Dio non volle: “Io farò una casa a te non tu a me”, risponde il Signore giocando sul senso della parola “casa”. Davide intendeva costruire un tempio per Lui, il Signore invece promette che la casa di Davide, il suo casato sarà stabile nel tempo.

Cerchiamo di andare un pochino in profondità.

Davide desiderava ardentemente di costruire questo tempio, ma Dio non volle, sarà suo figlio Salomone a costruirlo, ma con tutte le ricchezze accumulate da Davide per questo (cfr. 1Cr 22,2-19).

La nostra vita è un mistero e alle volte anche noi ci troviamo di fronte a delle scelte di Dio che non capiamo, ma che dobbiamo adorare in silenzio, questa è la fede. Davide adorò in silenzio e stette al suo posto, accumulò per suo figlio, questi avrebbe fatto quello che avrebbe con tutto il cuore desiderato fare lui, ma Dio non volle.

Vedete è importante avere desideri belli, alti, che ci portano lontano, se la nostra vita cristiana spesso non prende il largo, ma sta ferma ormeggiata nel piccolo porto del perbenismo o del non faccio male a nessuno è perché non coltiviamo i desideri alti. La misura della tua vita è data dalla misura dei tuoi desideri: essi sono piccoli, la tua vita è piccola, essi sono grandi, belli, forti, la tua vita è bella, grande, forte.

Non è importante poi che noi realizziamo i desideri, ma che essi animino, colorino realmente la nostra vita, se sono buoni, belli, veri e io avrò lottato per essi, ci sarà prima o poi un Salomone che costruirà quel tempio che desideravo tanto costruire io: Che triste una vita umana che non ha progetti di  templi da costruire…

Ecco carissimi fratelli e sorelle, una cosa dobbiamo saper trasmettere ai nostri figli, come fece Davide: il desiderio di costruire un Tempio per il Signore. Dobbiamo comunicare ai nostri giovani qualcosa di grande, di ideale, di bello, di talmente bello e grande da richiederti, se necessario la vita. Una persona senza sogni, senza grandi desideri, senza templi da costruire è una persona ben piccola.

Ecco, vedete non possiamo avvicinarci al Natale se, come Davide, non abbiamo il cuore dilatato dal desiderio di costruire un tempio per il nostro Dio per questo Dio che quando nacque nessuno accolse perché per Lui “non c’era posto…” (Lc 2,7).

Maria ci aiuti a comprendere bene cosa voglia dire costruire un tempio, una dimora per Dio perché la vecchia dimora che fu l’Arca, che fu il Tempio di Gerusalemme non ci sviano nella comprensione del vero significato di questa nostra chiamata. Vedete Dio già dimora in ogni cosa, nel più profondo dell’essere di ogni cosa che esiste c’è Lui che sostiene l’esistenza, la sua è una presenza di potenza. Dio è presente in noi in questa maniera da sempre, sin da quando per quell’atto d’amore di mamma e papà iniziammo quest’avventura meravigliosa che è la nostra vita umana. Ora non parliamo di questo tipo di presenza, ma di una presenza a nuovo titolo che assume una triplice dimensione perché si tratta di una alleanza, un’amicizia intima con Dio che è Uno e Trino: Padre e Figlio e Spirito Santo. Ecco, Maria è il modello pieno, perfetto, completo, stupendo di ciò che ogni persona umana è chiamata ad essere: Dimora di Dio, cioè FigliaMamma e Sposa di Dio. Maria ci dice tutto questo con la sua Verginità, Maria è Vergine perché è la Figlia Ubbidiente, Maria è Vergine perché Madre di Dio, Maria è Vergine perché sedotta e conquistata dall’Amore che è lo Spirito Santo suo Sposo.

La Verginità di Maria è il tesoro più bello della Chiesa che lo dispensa a tutti i battezzati, la sua Verginità deve infatti risplendere in ogni battezzato e in ogni battezzata. Si tratta, potete ben capire, non di una verginità semplicemente fisica, ma innanzi tutto di una verginità spirituale. D’altra parte la stessa verginità fisica ha bisogno di essere sostenuta dalla verginità spirituale senza la quale la verginità fisica è frustrazione e rende la persona umana acida e insoddisfatta. E se oggi come non mai la verginità fisica non è capita, non è apprezzata, non è vissuta è semplicemente perché si è persa di vista la verginità spirituale. Se vorremo quindi che i nostri giovani riscoprano la bellezza della verginità fisica dobbiamo innanzi tutto noi essere testimoni entusiasti della Verginità di Maria che deve risplendere nei nostri occhi, nelle nostre persone, in tutto il nostro essere.  Ma entriamo in profondità.

Cos’è questa Verginità di Maria? Si tratta del suo atteggiamento intimo con cui si relaziona con Dio PadreDio Figlio e Dio Spirito Santo, l’Unico Dio che sussiste nella Trinità delle Persone DivineNell’Annunciazione abbiamo una magnifica icona, immagine, di questa relazione libera, consapevole, gioiosa, amorosa.

Il Padre le manda l’angelo con la proposta, l’invito a gettarsi nel mistero della sua volontà: “Vuoi tu?”. È chiamata a chiudere gli occhi e fidarsi di Lui, rinunciare ai suoi programmi, pur belli, per il programma del Padre, chiudere gli occhi e lasciarsi prendere per mano da Dio fidandosi del suo amore: “Eccomi”, un “Eccomi” non sentimentale, non frutto di una semplice spontaneità del cuore, un “Eccomi” pensato, soppesato, donato. Maria prima di dirlo s’interroga profondamente, interroga l’angelo e accetta nella luce di quel “Nulla è impossibile a Dio” e acconsente rendendosi disponibile all’azione di Dio in Lei, ecco l’atteggiamento verginale di Maria nei confronti del Padre.

Maria con il suo “Eccomi”  viene adombrata dallo Spirito Santo che scende con la sua potenza su di Lei. L’Amore del Padre e del Figlio viene riversato nel suo grembo, Maria viene sommersa dallo Spirito, viene invasa dal Fuoco dell’Amore Divino. Fermiamoci ora a guardare estasiati Maria che si lascia fare dallo Spirito, lo Spirito l’adombra, la riempie, la sommerge, l’invade… lo Spirito non trova in Lei nessun ostacolo alla sua opera.

Ecco l’atteggiamento verginale di Maria nei confronti dello Spirito Santo: si lascia fare, si lascia modellare, si lascia plasmareAttenti, attenti, se c’è qualcuno che si è addormentato perché l’omelia è stata troppo lunga qualcuno lo svegli, qui siamo nel cuore della vita spirituale, se capiamo questo atteggiamento verginale di Maria nei confronti dello Spirito la nostra vita spirituale sarà letteralmente sconvolta, trasformata, rinnovata. Maria non dice al Padre: “Eccomi, io farò tutto quello che Tu vuoi”, no, Maria non dice così, ma dice: “Si compia in me la Tua parola… si faccia di me secondo la Tua parola”, Avete capito? Se abbiamo una vita spirituale stanca, annoiata, tiepida… se la nostra vita non cambia… se non vediamo miglioramenti… se cadiamo sempre negli stessi miseri errori e non usciamo a uscirne fuori… se vediamo la bellezza della vita virtuosa, ma virtuosi non siamo… il motivo è da ricercarsi nella nostra incapacità a lasciar fare a Dio, di consegnare a Dio il timone della nostra vita, di “consegnare all’Amore le chiavi di casa nostra” (S. Caterina da Genova), di aprirci allo Spirito Santo come Maria e renderci disponibili non “a fare la sua volontà”, ma “a lasciarsi fare da Dio” a permettere alla potenza dello Spirito Santo di farci nuovi nel suo Amore: è Lui che fa “nuove tutte le cose (Ap 21,5) farà nuovi anche ciascuno di noi, ma bisogna fidarsi e credere come Maria che “nulla è impossibile a Dio”. Vedete il proprio di Dio è fare (cfr. Gv 5,17), il proprio della persona umana è lasciarsi fare (cfr. Lc 1,49). 

Così, d’altra parte tante nostre incapacità di amare di quell’amore che sa coprire, scusare, perdonare, dimenticare (cfr. 1Cor 13,4-7 ) da cosa derivano se dal fatto che noi non permettiamo a Dio di amarci in profondità? Aprirsi allo Spirito significa lasciarsi amare da Lui. Il proprio di Dio è amare (cfr. 1Gv 4,8.16), il proprio dell’uomo è lasciarsi amare: “L’Amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori!” (Rm 5,5).

Ma perché noi non ci lasciamo fare, plasmare da Dio? Perché noi non ci lasciamo amare in profondità da Dio e mettiamo sempre dei limiti all’opera del suo Amore in noi? Volete sapere perché? È semplice: perché vogliamo essere noi i protagonisti, perché noi vorremmo fare e non lasciarci fare per avere dei meriti, per dimostrare che siamo qualcosa e invece siamo piccole creature, la nostra grandezza non sta nel farci grandi, capaci e potenti, ma nel farci piccoli, deboli, incapaci, poveri, sterili, perché tali siamo in verità senza Dio. Quando siamo tali e ci riconosciamo tali e ci apriamo a Dio, Egli riversa su di noi tutto il suo Amore e ci fa nuovi dentro, ci fa grandi, forti, potenti, ricchi perché grandi di Lui, forti di Lui, potenti di Lui, ricchi di Lui, fecondi di Lui.

Fecondi di Lui! Ecco l’atteggiamento verginale di Maria nei confronti del Figlio: lo Spirito l’ha resa feconda del Verbo appunto perché Vergine, si è lasciata fare da Lui e la sua vita è diventata feconda di Gesù. Ciascuno di noi nel Battesimo è chiamato a generare Cristo in sé e a diventare come Maria sua madre: “Chiunque fa la volontà del Padre mio è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12,47). Bisogna però stare attenti perché la Maternità Verginale fisica di Maria non ci distolga dalla sua maternità spirituale che è più profonda di quella fisica. Come diceva s. Agostino: “Maria prima ancora di aver concepito il Verbo nel suo grembo l’aveva concepito nella sua mente (=anima)!”  Maria vive una duplice maternità, la sua è un'esperienza unica perché il suo posto nella storia della salvezza è unico, nessuno avrà mai più la sua esperienza fisica di sentire il Figlio di Dio crescere in Lei, nel suo grembo che piano piano lungo nove mesi prende i lineamenti di uomo, nessuno dopo di Lei avrà più l’esperienza di partorire il Figlio di Dio, "il più Bello tra i figli degli uomini" (Sal 45,3), lì in quella grotta e darLo in braccio a Giuseppe, ai Pastori, ai Magi e deporLo nella mangiatoia, nessuno. Ma Maria ebbe anche l’esperienza di una maternità spirituale che è data di avere a tutta la Chiesa e quindi a tutti i cristiani. Tutti i cristiani sono nel Battesimo resi fecondi dallo Spirito, quello stesso Spirito che rese feconda di Gesù la Vergine nella sua carne e nella sua anima, ha reso fecondo me, ha reso fecondi ciascuno di voi nel santo Battesimo.

Vedete, in Maria quello che si realizzava su un piano di fisicità aveva un suo particolare  riscontro nella sua anima dove Gesù cresceva, Gesù non cresceva solo nella sua corporeità fisica dapprima nel suo grembo, poi nella sua casa di Nazareth, Gesù cresceva anche nella sua persona che veniva ogni giorno di più conformata, assimilata, trasformata nel Figlio (fr. 2Cor 3,18): il Figlio viveva nella Madre dandole di essere sempre più Figlia amata dal Padre!

Lo stesso mistero di grazia e d’amore si realizza nella nostra intimità: quel Gesù che abbiamo ricevuto come seme nel Battesimo cresce e si sviluppa in noi con la vita di grazia, con i sacramenti, con la preghiera, con l’unione d’amore con Lui nella stessa dinamica che lo ha portato a incarnarsi in Lei. La dinamica della “Kenosi”, dell’abbassamento, dello spogliamento, del farsi piccolo (cfr. Fil 2,5ss).

Attenzione, attenzione qui siamo nel cuore della spiritualità cristiana: come Lui, il nostro Dio e Signore Gesù Cristo, pur essendo il Verbo Eterno, Dio con il Padre e lo Spirito Santo, spogliò se stesso, depose – in un certo senso la sua divinità – e da Infinito e Incontenibile volle diventare Piccolo, Piccolo nel seno di una Piccola Donna e nascere povero, vivere da povero, morire da povero lì nudo e martoriato sulla Croce per amor mio, così quel Gesù che è in me crescerà e maturità nella sua pienezza di Figlio di Dio nella misura in cui io mi abbasserò, svuoterò di me stesso, di quell’uomo vecchio che deve morire per far  spazio all’uomo nuovo (cfr. Col 3,9-10). Quanto più io diventerò piccolo piccolo, tanto più Lui diventerà Grande Grande (cfr. Gv 3,30) in me fino a che io non dirò con stupore e con gioia: “Non sono più io che vive, ma è Gesù che vive in me!” (Gal 2,20) Che bello! Che bello!  Che bello poter dire questo, a questa bellezza di vita siamo tutti chiamati, invitati, sollecitati, spinti dalla Chiesa soprattutto in questo tempo.

Maria ci aiuti a fare l’esperienza viva della sua feconda Verginità e a sentire questo Piccolo Gesù che vuole diventare Grande Grande in ciascuno di noi. Questa esperienza auguro a ciascuno di voi in questo Santo Natale 2005.        

Amen.

J.M.J.

 

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Prima domenica d’Avvento – Anno C                       Omelia

“LA VOSTRA LIBERAZIONE È VICINA”

 

1. Introduzione: senso dell’Anno Liturgico 

Iniziamo con questa liturgia odierna un nuovo anno liturgico in cui faremo memoria di quanto il Signore Gesù ha fatto e patito per noi. Una memoria che non è soltanto ricordo del passato, ma incontro nel presente e attesa del compimento nella celebrazione del suo mistero pasquale. Ogni celebrazione liturgica è sempre e comunque celebrazione dell’unico mistero pasquale di Gesù Cristo, noi celebriamo cioè sempre lo stesso evento di salvezza: la morte e risurrezione di Gesù. Ma questo mistero è così profondo e ricco che sorpassando le nostre capacità di immediata comprensione, viene dalla Chiesa pedagogicamente spezzettato attraverso i vari tempi liturgici, che enfatizzano volta per volta qualcuno dei suoi aspetti principali. Per cui dobbiamo sempre tenere presente che ciò che è particolare di un tempo liturgico, è comune ad ogni altro. Cioè, ad esempio, il Tempo d’Avvento è tempo d’attesa, di speranza, ma l’attesa e la speranza sono comuni a tutti i tempi. E così per il Tempo di Quaresima che è caratterizzato dall’aspetto penitenziale, ma in tutti i tempi occorre fare penitenza dei propri peccati. E così il Tempo Pasquale è tempo di gioia, ma la gioia è comune anche a tutti gli altri tempi liturgici. Nel Tempo Ordinario seguiamo Gesù per essere ammaestrati da Lui mentre percorre le vie della Palestina predicando il suo Vangelo, ma anche negli altri tempi noi dobbiamo ascoltarLo e seguirLo.

Io, un giorno ebbi, dal popolo di Dio della nostra comunità parrocchiale del Cuore Immacolato di Maria in Sassari, dove ero viceparroco, una grande lezione di liturgia. Al primo Natale che trascorsi lì, quasi tutti facendomi gli auguri mi dicevano: “Bona Pasca”. Io lì per lì, all’inizio pensavo che si sbagliassero, poi sentii anche qualcuno dirmi: “Bona Pasca di Natali” e capii allora come si usasse dare l’augurio natalizio così: “Buona Pasqua di Natale”. Ed è proprio così: la Chiesa anche a Natale celebra la Pasqua del suo Signore! E mi ricordai pure che avevo studiato come in un antico messale liturgico, le orazioni per il giorno di Natale erano introdotte da questo titolo: “25 dicembre Natale di N. S. G. C. – Pasqua del Signore”.

2. Il Tempo d’Avvento 

In questo tempo enfatizziamo l’attesa del ritorno del Signore e così facciamo risuonare nelle nostre assemblee il ritornello: “Vieni Signore Gesù, non tardare – Marana tha!” (cfr. Ap 22,17.20; 1Cor 16,22) per ridestare in noi la viva speranza del suo ritorno e ci aiutiamo in questo facendo memoria dell’attesa che pulsò nel cuore di ogni pio israelita che attendeva il Messia: il ricordo dell’attesa della prima venuta del Messia ci aiuta a prepararci con amore alla sua seconda venuta alla fine dei tempi. La prima volta venne nella debolezza e piccolezza di un bimbo per morire povero e nudo su una croce, la seconda tornerà per coloro che Lo amano, nella potenza della sua gloria di Figlio di Dio, a prendere possesso del suo Regno e consegnarlo al Padre (1Cor 15,24).

È questo un tempo liturgico altamente mariano, il più mariano di tutti perché in esso ci volgiamo con il cuore e l’anima verso Maria, l’Immacolata, e le chiediamo di parteciparci il suo desiderio di vedere quel Gesù il cui cuoricino pulsò – per nove lunghi mesi – nel suo seno. Insieme a Maria, protagonisti di ogni Avvento sono i profeti messianici, più di tutti Isaia e il Precursore del Messia, Giovanni il Battista.

L’Avvento si distingue in due parti, nella prima – che si protende da oggi fino al 16 dicembre – siamo invitati fortemente a levare gli occhi della nostra anima al cielo e scrutare nelle nubi alla ricerca del Signore che viene a salvarci. Dal 17 in poi siamo invitati a volgere il nostro sguardo a quel piccolo paese di Nazareth dove un giovane innamorato – nell’imminente attesa del suo sposalizio – scopre che la sua fidanzata è incinta e vuole ripudiarla perché non sa che tutto è opera di Dio e non d’uomo (cfr. Mt 1,18-22). Invitati quindi a guardare verso Maria, verso Giuseppe, verso quel viaggio a Betlemme, verso quella grotta che li ospitò “perché non c’era posto per loro” (Lc 2,1-20) altrove.

Così facendo la Chiesa ci educa a far posto a Gesù nei nostri cuori dove Lui vuole essere accolto e amato.

3. La liturgia della Parola di oggi. 

Luca oggi ci invita a guardare verso le nubi del cielo: “Levate il capo, la vostra liberazione è vicina”. Come dicevo due domeniche fa: “È  così dolce il pensiero che Lui tornerà!” Bisogna stare attenti a non recepire il linguaggio apocalittico con cui i passi biblici ci parlano della fine del mondo e del ritorno del Signore Gesù come portatore di terrore e angoscia.

Lui è il portatore della pace, della gioia, della salvezza, non della paura! E, come è venuto per amore nostro facendo per questo un lunghissimo viaggio – dalle immensità abissali del Cielo fino alle viscere di una Piccola Donna – così ritornerà soprattutto e principalmente per coloro che Lo amano e Lo aspettano con amore. Chi ama Gesù e Lo ama veramente viene introdotto dal suo Santo Spirito nella dimensione dell’amore e chi possiede l’amore di Dio possiede la pace, la gioia, la salvezza, che però – attenti! – possono coesistere con situazioni di estrema difficoltà, estremo dolore, estrema debolezza. Consapevole di questo Paolo esclamò in un suo mirabile passo: 

“Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada. […] Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,35-39).

Noi, in quanto cristiani, amiamo Gesù e abbiamo l’amore di Gesù nel nostro cuore, in Lui abbiamo visto realizzate quelle promesse di tranquillità, di giustizia, di salvezza di cui ci ha parlato oggi Geremia nella prima lettura, perché Lui, Gesù, è la nostra pace, Lui è la nostra giustizia, Lui è la nostra salvezza (cfr. Ef 2,14; 1Cor 1,30), ma tutto questo lo viviamo nell’oggi della fede aspettando la realizzazione piena della nostra speranza nel possesso pieno e definitivo delle promesse. Sì perché allora cesserà ogni equivoco, cesserà ogni ambiguità, cesserà ogni parzialità e la gioia, la pace, la giustizia, la tranquillità dell’anima non coesisteranno più con le dimensioni della “tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada”, allora “il lattante si potrà trastullare sulla buca dell’aspide e il bambino potrà mettere la mano nel covo di serpenti velenosi” (Is 11,8) senza più averne danno, perché, ecco… “le cose vecchie sono passate e ne sono nate di nuove” (2Cor  5,17). Infatti “noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia” (2Pt 3,13).

Allora, quando Lui tornerà per chiudere il libro della storia, tutto sarà definitivo e sarà gioia grande per noi che non dovremo soffrire più, non dovremo piangere più, non dovremo morire più, nel frattempo, sospirando verso questo giorno attraverso le vicissitudini della storia nella quale si rinnovano in ogni epoca quei segni premonitori della fine, che sono segni di sventura, di terrore e di angoscia solo per chi non conosce Lui e la potenza del suo amore per noi (cfr. 1Gv 4,16), ci prepariamo a quel giorno, come ci suggerisce oggi Paolo (seconda lettura) “crescendo e abbondando nell’amore vicendevole e verso tutti”.

Sarà quello il giorno del trionfo della VERITÀ e dell’AMORE, allora vedremo nella verità tutto, perché vedremo Gesù “Via, Verità e Vita” (Gv 14,6) e tutti Lo dovranno riconoscere, anche chi non Lo vorrebbe, e tutti i ginocchi si dovranno piegare davanti a Lui! (cfr. Rm 14,11; 1Cor 15,25). E Lui ritornerà per noi! Sì ritornerà per noi, se Lo avremo saputo attendere con amore. Egli viene per consegnare “la corona a coloro che lo attendono con amore” (2Tm 4,8) e L’attendono con amore perché vivono nell’Amore!

Ecco dunque tracciato per noi il cammino di questa prima settimana d’Avvento: la mente, il cuore, l’anima, tutta la nostra persona proiettata amorosamente verso il cielo, mentre tutto vorrebbe farci piegare lo sguardo verso questa “brutta terra” (S. Giuseppe Cottolengo), cerchiamo Gesù che viene e affrettiamo la sua venuta con l’ardente desiderio di vedere il Suo volto. 

E mentre le tragiche vicende di questo mondo di oggi, sempre più immerso nel dramma dell’ingiustizia, della guerra, della povertà, del dolore, tentano di chiuderci nel pessimismo più nero e di bloccarci nell’amore, noi c’impegniamo nel nostro piccolo perché coloro che ci incontrano possano capire, attraverso la nostra serenità, la nostra speranza, il nostro ottimismo e la nostra carità, che veramente il Signore mantiene le sue promesse e verrà a salvare questa umanità sempre più bisognosa di Lui e del suo amore.

Sì il Signore verrà e verrà presto e bisogna che ci trovi preparati e ben disposti: diamo a Gesù la gioia di vedersi atteso con amore da chi dice di amarLo! 

Sciogliamo in questo tempo i nodi e le durezze del nostro cuore che ci tengono lontani dal desiderio di vederLo, di incontrarLo, di abbracciarLo, perché se anche non sappiamo se verrà in questa epoca, sappiamo con certezza di fede che Egli continuamente viene in diversi modi in mezzo a noi. Solo chi attende con amore il suo ritorno nella gloria riceve dallo Suo Spirito la capacità sempre più forte  di cogliere la sua presenza nell’oggi della Chiesa e del mondo, di Lui che viene a noi nei Sacramenti, nella Parola, nel fratello e nel povero in particolare, di Lui che viene in quella croce che mi chiede di raccogliere e prendere su di me lungo il cammino della mia vita. Di Lui che viene in me con la sua grazia e mi chiede di fargli posto, fargli largo, fargli spazio perché per Lui “non c’era spazio nell’albergo” (Lc 2,7). E così mi chiede ad ogni Avvento di farmi grotta perché Lui possa nascere, crescere in me e possa farsi vedere, farsi incontrare, farsi abbracciare attraverso di me dai tanti che ancora non sanno che Lui è venuto, che Lui è morto, che Lui è risorto e asceso alla destra del Padre, dai tanti che non sanno che Lui ritornerà a prenderci con sé (cfr. Gv 14,3). 

“Lo stato d’animo, la posizione ultima del cuore in Avvento è quella di disporsi a sciogliere la propria durezza perché il Signore venga. L’Avvento non è Lui che torna a venire, ma è Lui che torna a venire in me. È in me che deve essere capito, amato, conosciuto, quindi, seguito di più. L’Avvento non è un’altra sua venuta, oggettiva, storica, ma il riaccadere della sua presenza nella profondità del cuore, affinché lo comprendiamo di più, lo amiamo di più”

[L. Negri, Il Mistero si fa presenza, ed. Ancora, Milano 2000, pag. 10]

La Vergine santa, la Vergine dell’Avvento ci insegni Lei a cercare Gesù, a trovare Gesù, a stare con Gesù, a seguire Gesù, ad attendere Gesù, per questo diciamo insieme a Lei, con fede, speranza e amore: “Vieni Signore Gesù, non tardare! Vieni presto Signore Gesù!” – “Marana tha: Vieni o Signore!". 

Amen                                                                j.m.j.

 

 

Seconda d’Avvento – Anno C                                   Omelia

“PREPARATE LA VIA DEL SIGNORE”

 

Carissimi fratelli e sorelle,

si apre oggi davanti a noi la seconda tappa del nostro cammino incontro al Signore Gesù che viene a salvarci.

Domenica scorsa la Parola ci invitava ad attendere con amore il Signore Gesù che asceso alla destra del Padre tornerà presto a liberarci per introdurci definitivamente in quel regno di pace, di serenità, di amore che già i profeti del VT avevano precognizzato. 

Dalla Liturgia della Parola, oggi emerge la grande figura di Giovanni il Battista, colui che indicò il Messia presente nel mondo, colui che fu scelto e voluto per preparare i cuori all’incontro con Gesù, il Salvatore.

Iniziamo la nostra riflessione notando la grandiosità del quadro storico introduttivo con cui Luca presenta il Battista:

“Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della Traconitide, e Lisania tetrarca dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto”.

Cosa ci vorrà mai dire Luca con questa sua solennità? Diverse cose, penso. Prima di tutto Luca è un uomo di scienza del suo tempo, è un medico (cfr. Col 4,14) e ci tiene a far capire che non sta raccontando favole per vecchiarelle, l’aveva anche detto nel prologo del suo Vangelo che lui aveva fatto “ricerche accurate su ogni circostanza” (Lc 1,3) della vita di Gesù. Ora dunque presenta Giovanni da storico, inquadrandolo nelle sue coordinate storiche per significare come fosse cosa seria e vera quello che avrebbe raccontato di quest’uomo.

Ma questa presentazione solenne e grandiosa ci dice anche come i signori della storia, coloro che detengono il potere del mondo e senza nominare i quali la storia umana non potrebbe essere scritta, non sono i veri protagonisti di essa, Tiberio Augusto… Ponzio Pilato… Erode e Filippo… Lisania… Anna e Caifa… non sono le persone più importanti, le persone più importanti di questo mondo sono invece quelle che permettono alla Parola di Dio di scendere su di esse, come lo permise Giovanni. Ed è Dio che guida la storia dell’umanità attraverso tutte queste persone che accolgono la sua Parola nella loro vita.

Notiamo inoltre come Luca ci dica: “la parola di Dio scese su Giovanni nel deserto” e come Giovanni stesso svolga la sua predicazione dicendo: “voce di uno che grida nel deserto”. Cosa vorrà dirci Luca indicandoci per ben due volte in pochissime righe il “deserto”, sia come luogo in cui si accoglie la Parola, sia come luogo in cui Essa si annuncia?

Carissimi fratelli e sorelle, se cerchiamo Dio e vogliamo ascoltarLo dobbiamo entrare nel deserto, ma quando si parla di questo deserto non vogliamo indicare un deserto fisico della natura, un luogo sassoso o sabbioso senz’acqua né vegetazione, ma parliamo di un deserto spirituale, anche se il deserto fisico della natura aiuta a trovare il deserto spirituale. Non si tratta che Dio parli solo nel deserto, no, Lui è Parola creatrice e sostentatrice di tutto (cfr. At 17,28) e quindi parla sempre e dovunque nel suo eterno silenzio, se Lui tacesse, ogni cosa non esisterebbe più. Il problema è che se noi non entriamo nel deserto non possiamo sentirLo perché dove non c’è deserto, le altre voci soffocano in noi la Sua voce.

Per questo mandando nel mondo il Suo Verbo (Gv 1,1ss) il Padre chiamò Giovanni e lo inviò perché preparasse le persone all’incontro con Lui, lo chiamò nel deserto e lo inviò nel deserto a predicare che i cuori si convertissero. Questa missione che fu di Giovanni, l’ha ereditata la Chiesa e quindi in Essa, ciascuno di noi.

Il deserto fisico del mondo naturale aiuta a scoprire il deserto spirituale, unico luogo dove Dio può essere ascoltato, accolto e abbracciato, chiediamoci perché. Perché nel deserto fisico capisci tutta la tua impotenza, il tuo niente, la tua dipendenza da qualcos’altro: un riparo, l’acqua, il cibo che non puoi darti da te. Nel deserto tutte le sicurezze umane svaniscono e lì nel deserto la persona capisce come tutte quelle sicurezze sulle quali si era arroccata erano false, effimere, affatto sicure. Lì nel deserto la persona comprende che l’unica vera sicurezza è Dio, l’unico senso della vita è Dio, l’unico assoluto è Dio, e, nell’acquisire questa consapevolezza, viene resa capace di ascoltarLo e di capirLo.

Fu per questo che quando il Signore volle che il suo popolo divenisse adulto e libero, lo condusse attraverso un deserto, e ogni volta che, nella storia, Lui chiama un uomo o una donna a libertà, li fa passare attraverso un deserto, per parlare al loro cuore (cfr. Os 2,16).

E sarà in un altro deserto, quello umiliante e tremendo dell’esilio che il popolo di Dio, privato di ogni sua sicurezza e di ogni sua dignità, si renderà capace di capire la Parola e di scoprirsi infinitamente amato da quel Dio che aveva permesso tutto quello perché diventasse capace di ascoltarLo, di capirLo, di amarLo. Ora che il Suo popolo ha il cuore “contrito e umiliato” (Dn 3,39) è pronto per l’esperienza della Sua infinita misericordia: il ritorno a Gerusalemme (salmo). Il deserto ora “diventerà un giardino” (Is 32,15) e danzerà e canterà di gioia perché li vede ritornare a Gerusalemme (cfr. Is 35,1ss) accompagnati dal loro Dio che spiana davanti a loro la strada (prima lettura).

Solo un cuore “contrito e umiliato” è capace di incontrarsi con Dio e di capirne il linguaggio, perché il linguaggio di Dio con cui Egli parla all’umanità è MISERICORDIA, e solo misericordia, non parla altre lingue con noi! All’interno dell’intimità della SSma Trinità si parla un’altra lingua, quella dell’AMORE PURO, ASSOLUTO, consegnante e donante di ciascuna Divina Persona all’altra, ma quando Dio Trinità parla all’umanità non può usare altro linguaggio che quello dell’AMORE MISERICORDIOSO E COMPASSIONEVOLE.

Ma questo linguaggio divino non tutti possono capirlo, perché si può comprendere solo attraverso la consapevolezza della propria MISERIA. Se la persona umana non coglie la propria miseria non può conoscere né capire Dio, Misericordioso Amore.

Questo fu il compito che svolse nel tempo la LEGGE, quella legge che Dio donò al suo popolo attraverso la mediazione di Mosé, essa serviva a far prendere coscienza della propria situazione di peccato e quindi di miseria per potere invocare così la salvezza, desiderare quella salvezza che la Legge non poteva dare, perché “in virtù delle opere della Legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato” (Rm 3,20), ma quella salvezza che viene a noi attraverso Gesù Cristo, il Verbo incarnato, il Figlio di Dio che in questi giorni contempliamo mentre cresce piccolo feto nel grembo verginale di una Piccola Donna, Maria SSma.

La salvezza dell’umanità peccatrice è frutto del perdono gratuito che il Padre ci dona in Gesù Cristo (cfr. Rm 3,21ss). Questo perdono divino non può riversarsi su di noi se noi non ci presentiamo a Lui nella nostra verità di miseria e di peccato, a Lui che si fatto maledetto perché fossimo benedetti (cfr. Gal 3,13-14), a Lui che si è fatto peccato perché noi fossimo fatti figli (cfr. 2Cor 5,21), a Lui che si è fatto brutto, talmente brutto da non sembrare più neanche un uomo (cfr. Is 53,3), perché noi fossimo fatti belli! Nessun peccato ci viene perdonato, da nessuna miseria veniamo guariti e sollevati se non sappiamo presentarla a Lui con fiduciosa confidenza. Egli continua nell’oggi della Chiesa a domandare a ciascuno: “Cosa vuoi che io faccia per te?” (Mc 10,51) e aspetta con ansia che Gli rispondiamo presentandoGli con sincerità e verità la nostra cecità, la nostra miseria, il nostro peccato. Gesù non guarisce nessuno, non salva nessuno, non redime nessuno che non desidera e voglia essere guarito, salvato, redento! Gesù non è venuto né per i sani né per i giusti, ma solamente e soltanto per i poveri peccatori (cfr. Mt 9,12-13; Lc 19,10; Mc 2,7) e se tali non ci riconosciamo in profondità e in verità, significa che Lui non è venuto per noi e che quindi la Sua venuta non ci salva.

Ecco allora il compito, la vocazione di Giovanni Battista: invitare le persone a conversione, a prendere cioè consapevolezza della propria misera realtà di peccato e a cogliere in sé il bisogno, il desiderio vivo, l’ansia di Qualcuno che le salvi. Quel Qualcuno è Lui, è l’uomo Gesù, l’unico Salvatore (cfr. 1Tm 2,5) perché vero Dio con il Padre e lo Spirito Santo (cfr. Gv 10,30) e vero uomo come noi perché Figlio della Vergine Santa:“In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12).

Ora io mi chiedo – e me lo sono chiesto mille volte: c’è bisogno di finire senz’acqua né rifugio in un deserto fisico per scoprire che abbiamo bisogno di Uno che ci salvi? C’è bisogno di finire schiavi a Babilonia per arrivare ad avere un “cuore contrito e umiliato”? C’è bisogno di essere travolti da qualche vicissitudine della vita, da qualche disgrazia o malattia o sventura economica per capire che abbiamo bisogno di Lui? C’è bisogno di bere l’acqua salata e disgustevole del mondo facendo naufragio nella vita perché sappiamo invocare su di noi la Sua mano pietosa che ci tiri fuori dai nostri pantani? No, non è necessario tutto questo, ma lo diventa quando viviamo fuori di noi stessi, quando viviamo senza mai raccoglierci, senza mai rientrare in noi stessi (cfr. Lc 15,17), senza mai scendere in quel deserto che è il luogo spirituale della nostra verità e quindi del nostro incontro con Dio. 

Carissimi fratelli e sorelle, non esiste un luogo fisico che c’introduca alla presenza di Dio. Anche se siamo dentro ad una bella e devota chiesa come questa, possiamo non incontrarci con Dio. Vi dirò di più, anche se faccio diecimila Comunioni eucaristiche posso non essermi mai incontrato con Lui, perché quest’incontro non avviene nella fisicità, ma nell’intimità spirituale della nostra persona, in quello che comunemente chiamiamo “cuore”. Bisogna scendere nel cuore per incontrarsi con Dio, è lì il luogo della Sua presenza, è lì il luogo dell’incontro senza il quale tutta la nostra esistenza non ha assolutamente senso e non hanno senso neanche tutte le nostre pratiche religiose, perché se faccio la santa Comunione senza essere sceso prima lì, nell’intimo deserto del mio cuore, e averLo adorato e ringraziato di avermi salvato, che mi comunico a fare?

Carissimi fratelli e sorelle, ecco dunque l’invito della Chiesa e il programma che siamo invitati a svolgere in questa seconda settimana d’Avvento: trovare spazi di silenzio in mezzo a questo mondo che ci assorda, per scendere lì, scendere nel deserto del nostro cuore, scendere in profondità, non fermandoci alla scorza, ma penetrando in esso attraverso la virtù dell’umiltà, umiltà che è innanzi tutto riconoscimento sincero della verità. Facciamo luce nel nostro cuore con l’umiltà che ci fa arrendere alla verità e ci fa dire: “O Dio, abbi pietà di me, perché sono un povero peccatore” (Lc 18,13).

Ma come fare per attuare questo viaggio in profondità? Molti risponderebbero a questo punto: facendo silenzio e mettendosi davanti alla legge di Dio, facendo un buon esame di coscienza per riconoscere dove abbiamo sbagliato, ecc. ecc. Sì, questo è un modo, ma è così antipatico! Questo modo si chiama introspezione o esame di coscienza, è un modo un po’ pesante: quanti minuti riusciamo a stare a pensare e a riflettere così? Pochi, pochissimi, non molti, e poi quante cose e quanti aspetti ci sfuggono… e ci sfuggono perché noi li abbiamo inconsapevolmente cancellati, sepolti negli anfratti e nei meandri dell’inconscio perché sono cose spiacevoli, cose che ci danno fastidio, ci frustrano e non vorremmo ricordare perché il ricordarle ci fa soffrire tremendamente.

Ma, per grazia di Dio, ci sono modi più facili, semplici ed efficaci per scendere nel nostro cuore e andare in profondità. Vorrei insegnarvene uno da attuare in questa settimana perché possiamo prepararci bene al Santo Natale in questo tempo di grazia. Si tratta di questo: provate a invocare su di voi lo Spirito Santo e a mettervi in silenzio davanti ad un’immagine della Madonna e poi fate silenzio. Tutto qui… tutto qui. Guardiamo il suo viso… guardiamo i suoi occhi… le sue mani… i suoi piedi… il suo grembo in cui in questi giorni batte quel cuoricino divino di Gesù… guardiamo il suo cuore… guardiamo la sua anima… e fermiamoci in amorosa contemplazione silenziosa.

Quanto tempo passerà prima che il nostro cuore si commuova e permetta allo Spirito Santo di farvi emergere tutta la nostra nostalgia di bellezza e di santità e, di conseguenza, tutto il disgusto per quanto in esso c’è che non è bello, non è buono, non è santo? Quanto tempo passerà prima che i nostri occhi si bagnino di lacrime? Quanto tempo passerà prima che diciamo “Signore Gesù, Salvami” (Mt 14,30) – “Signore Gesù, ho bisogno di te, della tua mano che mi salvi e mi sollevi”?

È questo uno strumento eccelso di discernimento cristiano, di quel discernimento che oggi Paolo ci ha invitato a fare per crescere nell’amore (seconda lettura). Guardando Maria, guardiamo Colei che è stata la creatura del “Sì”, della piena e totale corrispondenza ai desideri del Padre, guardando Lei non possiamo non sentire nostalgia di quella chiamata alla santità che il buon Dio ha iscritto nelle fibre più intime di tutta la nostra persona e che è come assopita, addormentata a causa dell’inconsiderazione e distrazione nostra, basta un po’ di silenzio, uno sguardo profondo verso Maria che siamo presi subito dalla nostalgia del “Sì”, la nostalgia di essere quello che, sotto sotto, tutti desidereremmo essere: autentici, veri, buoni, santi!

Carissimi fratelli e sorelle, siamo stati creati da Dio Amore per amarLo e ogni nostra più intima fibra soffre frustrazione finché non ci diamo ad amarLo con tutto noi stessi, cercando e facendo la Sua volontà sull’esempio della Vergine Santa.

Ecco, Maria SSma ci aiuti a far emergere in ciascuno di noi questa nostalgia di santità perché possiamo così prendere coscienza in pienezza della nostra miseria e invocare con l’immensa confidenza della fede, la salvezza del suo Figlio Gesù che sta per venire al mondo per noi. 

Amen.                                                                       j.m.j.

Terza Domenica d’Avvento – Anno C                          Omelia

“IL SIGNORE ESULTERÀ DI GIOIA PER TE”

 

Carissimi fratelli e sorelle,

questa domenica è chiamata dalla Chiesa “Domenica in gaudete”: Domenica della gioia, per questo oggi è possibile usare il colore rosaceo nei paramenti liturgici così come anche nella Terza Domenica di Quaresima chiamata “Domenica in letare”: Domenica della letizia che ricorda ai fedeli che si è compiuto già metà cammino incontro alla Pasqua, mentre a noi oggi ricorda che è vicino il suo Natale: Il Signore sta per nascere, coraggio, egli viene a salvarvi!

Ma che senso ha questa gioia in un mondo dove ogni giorno, ogni momento risuonano grida di angoscia, di dolore, di morte? Se la gioia della persona umana è una vita serena, tranquilla, è avere una famiglia, un lavoro, una casa, dei figli da tirar su con amore e senza angoscie… In un mondo dove tutto questo non c’è per la stragrande maggioranza dei suoi abitanti e non c’è mai stato in passato, che senso ha questo annuncio? Utopia? Sogno di una pia illusione? Anelito senza speranza?

Che senso ha quell’annuncio gioioso di Sofonia a una Gerusalemme scoraggiata e afflitta? Che senso ha il suo invito a “non lasciarsi cadere le braccia” o quella promessa “tu non vedrai più la sventura” a quel popolo desolato, quando noi ben sappiamo come l’afflizione abbia continuato a perseguitare questo popolo anche dopo il ritorno dall’esilio fino ai giorni nostri?

È forse tutta una presa in giro? Un qualcosa che vogliamo credere per tirarci un po’ su di morale e non star sempre lì a piangere? 

No! Non è così. Il Signore illumini la nostra mente perché possiamo comprendere in profondità il suo annuncio di gioia che vuol raggiungerci nell’afflizione del nostro cuore per accendere in noi la speranza. L’annuncio di gioia è annuncio di una presenza: “Il Signore è il Re in mezzo a te” ci dice Sofonia e Isaia nel cantico che abbiamo proclamato come salmo responsoriale, continua dicendo: “Grande è in mezzo a voi il Santo di Israele”, cioè Dio.

La gioia di cui parliamo dunque non è la gioia di un’assenza: assenza di problemi, di malesseri, di sventure, di sofferenze, di disastri e cose del genere, bensì è la gioia di una presenza, quella di Dio, Dio presente in mezzo a noi, in mezzo ai nostri guai, ai nostri dolori, alle nostre sventure: Lui è con noi e nella misura che noi cogliamo questa sua presenza realizziamo quaggiù il suo Regno e la sua gioia, cogliendo la sua presenza in mezzo a noi diamo gloria e gioia a Dio.

Sì, diamo gloria e gioia a Dio, come ci ha detto Sofonia: Il Signore esulterà di gioia per te, ti rinnoverà con il suo amore, si rallegrerà per te con grida di gioia, come nei giorni di festa”. Dio grida di gioia per la sua creatura quando si vede riconosciuto, creduto, accolto e amato da essa come il suo Creatore, Signore e Padre. Noi siamo dunque la gioia di Dio se crediamo in Lui, se l’accogliamo nella fede, attendiamo nella speranza la sua piena manifestazione e Lo testimoniamo nell’amore.

Per questo Paolo nel pieno delle sue afflizioni perché prigioniero a Roma e prossimo alla decapitazione scrivendo ai suoi Filippesi li invita a “stare sempre lieti” perché “il Signore è vicino” (seconda lettura), il Signore è presente e se Lui c’è – e c’è  ogni situazione, anche la più tremenda e dolorosa diventa luogo dell’incontro con Lui e quindi con la sua pace, il suo amore, la sua gioia. La gioia dell’uomo è quella di dar gioia a Dio nel riconoscerLo presente, nell’accoglierLo, nell’amarLo in ogni circostanza lieta o triste della propria storia.

Non mancano certo i mezzi a Dio perché tutti si inchinino davanti a Lui e riconoscano la sua presenza e la sua Signoria divina e perché tutte le ginocchia si pieghino davanti a Lui, ma questo non gli darebbe gioia come non gli danno gioia la luna, le stelle, le piante, gli animali, tutto questo non dà gioia a Dio. A Lui dà gioia solo l’amore e quello non possono darGlielo la luna, le stelle, gli animali, l’amore può darGlielo solo la persona libera che non è determinata da una legge di natura o da un istinto animale, bensì che si autodetermina con le proprie scelte libere, e tale è la persona umana che può anche scegliere – a sua sventura – di non riconoscerLo, non accorglierLo, non amarLo.

A sua sventura però, abbiamo detto, ma perché? Perché il Creatore ha iscritto nell’essere umano, nel più intimo di ogni fibra di cui si compone la persona umana, un anelito al suo Creatore, una nostalgia di quelle mani che l’hanno formata (cfr. Sal 119,73), di quella bocca da cui ha ricevuto il respiro (cfr. Gen 2,7), di quella fantasia che l’ha inventata prima che fosse formata nel seno di sua mamma  (cfr. Sal 139,16), di quel cuore che ha voluto che venisse all’esistenza (cfr. Ger 31,3).

Prima del peccato originale questo riconoscimento, questa accoglienza amorosa del suo Dio avveniva nella persona umana con semplicità, senza sforzo, nella pienezza dell’armonia di tutte le sue dimensioni e facoltà che godevano della presenza amicale di Dio ed era gioia, gioia piena, perfetta, senza turbamenti, senza sofferenza, senza morte. Dopo il peccato l’armonia si è spezzata perché la persona umana ha voluto fidarsi di altre amicizie e non fidarsi più del suo Creatore, invaghita di ciò che era, ha presunto di poter essere ciò che non era né poteva mai essere, ha presunto di poter essere Dio (cfr. Gen 3,4-6) e ha perso tutto. Ha perso la cognizione facile e spontanea della presenza dell’Amico perché lei si è fatta sua nemica e rendendosi tale ha perso l’armonia interiore, l’unificazione interiore che quella presenza causava e si ritrova disunita, spezzettata, confusa, turbata, malata e soggetta alla sofferenza, alla malattia, alla morte, e così la gioia scomparve.

Ma Dio non si rassegnò a non avere più gioia dalla sua creatura umana e tracciò un nuovo cammino perché essa potesse ritrovarLo, riunificarsi in Lui e ritrovare così la gioia di dare gioia a Lui. Ma ora il cammino della gioia non è più spontaneo, semplice e facile come lo era prima del peccato, ora gli occhi e il cuore della persona umana hanno perduto quella spontaneità e semplicità di incontro, ora la persona umana deve cercarLo come a tentoni (cfr. At 17,27). Ma Dio non abbandona l’uomo a questa sua cecità e gli viene incontro manifestandosi a lui nella Persona di Gesù Cristo, perché in Lui, nel Verbo incarnato ogni persona umana possa ritornare a vedere, sentire e toccare Dio:

“Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita "poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi", quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta – 1Gv 1,1-4

E Lui, Dio Padre, vuole farsi trovare e scoprire in Colui che Lui ha mandato per darsi quella gioia che gli uomini non Gli potevano più dare, dando a tutte le persone umane la possibilità di ritrovare la gioia della sua presenza. Viene così al mondo Gesù Cristo, il Verbo incarnato, il Dio umanato, vero Dio con il Padre e lo Spirito Santo, vero uomo come noi perché vero Figlio della Vergine Maria.

La salvezza dell’umanità dalla perdita della gioia della presenza ora avviene attraverso la FEDE in Gesù Cristo, non si fidarono di Dio quando tutto era facile, bello, gioioso, ora siamo chiamati a credere in Lui e fidarci di Lui che si manifesta a noi non nella potenza della sua divinità, ma nella debolezza della nostra umanità. L’umanità aveva sfidato Dio volendone prenderne il posto, ora Dio si mette al posto dell’uomo e sfida l’uomo a riconoscersi Dio in Gesù Cristo. 

È sintomatico che l’espresso motivo per cui il Figlio di Dio viene messo in croce dall’umanità è quello di essersi proclamato Dio (cfr. Gv 5,18). All’inizio l’arrogante presunzione dell’uomo che ardì di proclamarsi Dio causò la perdita di tutto e della gioia, ora l’umile abbassamento di Dio che si proclama povero uomo, ridona dignità e gioia all’umanità. È strano, non è vero? Ma se non era possibile all’uomo farsi Dio, fu possibile a Dio farsi uomo. Mentre l’uomo voleva diventare Dio per essere libero e potente come Lui, Dio volle diventare uomo per essere fragile e debole, piccolo e umile. Mentre l’uomo voleva diventare Dio per non morire più e vivere senza Dio, Dio volle diventare uomo per poter morire per gli uomini e ritornare a vivere in mezzo a loro! E mentre l’uomo tutto questo voleva per arroganza e superbia, Dio volle tutto questo per misericordioso, immenso e incredibile amore verso la sua amata creatura.

Ecco allora tracciate due vie della gioia.

La prima via della gioia è quella di un uomo che vuole liberarsi dai limiti umani per essere come Dio, libero da ogni condizionamento, assolutamente autonomo e autodeterminato, ma che poi deve fare i conti con i suoi limiti oggettivi, con gli imprevisti, con il dolore e in definitiva con la morte, con la conseguenza che tutti questi aspetti, che sono espressione del suo limite, vengono percepiti da lui come causa della sua mancanza di gioia. E poiché questi limiti ci sono e non possono non esserci ne consegue che la gioia cercata in questa via non potrà mai essere trovata e la persona umana vivrà ingannata dall’illusione di una gioia che continuamente le sfugge.

La seconda via della gioia è quella che ci ha mostrato Dio abbassandosi e spogliandosi della sua divinità per amore dell’umanità. Scoprendo questa via il cuore umano viene ricolmato di gioia, è la gioia della scoperta di un amore incredibilmente grande, assolutamente non-umano, divino con cui essa si scopre amata da Dio. La scoperta di un amore così grande pone la persona umana in uno stato di gioia così profonda che nessuna vicissitudine del mondo potrà più sconvolgere, da qui – come abbiamo già visto – l’invito dell’apostolo che pur nell’afflizione della prigionia romana e prossimo alla decapitazione, invita i Filippesi a rallegrarsi sempre (prima lettura).

“Cosa dobbiamo fare” dunque? Ci poniamo anche noi questa domanda che posero in tanti a Giovanni il Precursore (Vangelo), avendone da lui l’unica risposta allora possibile che preparava i cuori all’unica vera risposta che potrà dare solo Gesù Cristo, “il più forte” che lui, Giovanni, era venuto ad annunziare. La risposta di Giovanni – in definitiva – sarà quella dei Dieci Comandamenti, quella di amare Dio e il prossimo, comportandosi con generosità, onestà, rettitudine e umiltà. Ma la risposta che darà Gesù sarà diversa, più esigente, più coinvolgente di una semplice osservanza di una normativa morale, quando infatti fecero anche a Gesù Cristo la stessa domanda – “Cosa dobbiamo fare?” – la sua risposta non sarà l’invito ad osservare la legge di Dio, ma sarà quello di credere in Lui (cfr. Gv  6,28-29),  non si tratta dunque di osservare una normativa etica, delle leggi morali, si tratta di credere in una Persona, aderire ad una Persona, seguire una Persona e questa Persona è la Persona Divina di Gesù Cristo che si è fatto uomo perché noi potessimo in Lui trovare la vera vita e quindi la vera gioia (cfr Gv 6,40).

Egli ci ha tracciato la via della gioia spogliandosi della sua divinità per nascere nella povertà di una grotta e morire nella nudità su una croce.

Ecco la strada della gioia: “Io sono la via” (Gv 14,6), Gesù è la strada, il cammino la via, unica strada, unico cammino, unica via alla gioia vera, piena perfetta, ed è solo seguendo Lui, vivendo con Lui, per Lui e in Lui che noi possiamo avere gioia vera e duratura. È Gesù l’unico e assoluto nuovo comandamento che il cristiano riceve: Amare come Lui ha amato noi  (cfr. Gv 13,34), ecco il segreto della gioia che niente e nessuno potrà toglierci. In questa via della gioia tutti quei limiti umani che venivano visti nella prima via come gli ostacoli e gli impedimenti alla gioia ricercata – il dolore, la povertà, la morte – qui diventano invece le occasioni più grandi di essa perché occasioni di vita in cui amare più similmente a Colui che ci amò spogliandosi e soffrendo povertà e morte per amor nostro.

Cosa dire infine? Guardiamo verso Maria, Madre della nostra gioia, perché Mamma di Gesù che desidera profondamente che ciascuno di noi si incontri intimamente con il suo Figlio perché abbiamo gioia in Lui. Ecco rivolgiamoci a Lei che ci aiuti in questi ultimi giorni di preparazione al Natale ad accogliere realmente Gesù assumendo nella nostra vita quotidiana quegli atteggiamenti concreti che Lui ci ha insegnato e ci ha invitato a far nostri: “imparate da me che sono mite e umile di cuore e avrete pace, ristoro, gioia alle vostre anime” (cfr. Mt 11,29).

Amen.

j.m.j.

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Quarta Domenica d’Avvento – Anno C                             Omelia

“L’ANIMA MIA MAGNIFICA IL SIGNORE!”

 

Carissimi fratelli e sorelle,

risplende in questa quarta e ultima domenica d’Avvento, a pochi giorni dal Santo Natale, la limpida e bella figura di Maria: la Vergine di Nazareth, Piccola Donna ebrea di un piccolo paese della Galilea, che porta nel suo grembo il mistero di un piccolo esserino umano che in Lei e da Lei, pian piano prenderà i propri lineamenti di uomo.

Adesso è appena un piccolo, invisibile embrione umano fecondato, eppure lì racchiuso in quel guscio umano che solo il microscopio può vedere c’è tutta la pienezza di Dio (cfr. Col 1,19), tutta la sua gloria, tutto il suo splendore, tutto il suo amore è lì nascosto e prigioniero in un embrione, nascosto e prigioniero, per nove lunghi mesi, in un seno di una Piccola Donna per nascere – Lui che era la Vita! – a Betlemme (prima lettura) e farsi avvolgere in “fasce” (Lc 2,7) – Lui che tutto avvolge! – e deporre in una “mangiatoia” (Lc 2,7) – Lui che “desiderava ardentemente” (Lc 22,15) darsi in cibo a ciascuno di noi (Cfr. Gv 6,51) “perché non vivessimo più per noi stessi, ma per Lui che morirà e risorgerà per noi” (Preghiera Eucaristica IV; cfr. Gv 6,57; Rm 14,8; 1Ts 5,10).

L’immensità di quell’amore che porta per la sua creatura fa sì che, Lui il Grande, l’Immenso Dio si faccia Piccolo Piccolo in una Piccola Donna: è proprio dell’amore vero farsi piccolo! Impariamo da lui ad amare facendoci piccoli, noi che piccoli lo siamo sul serio e in tutta verità e non come Lui che Piccolo non era ma volle diventarlo per l’incredibile amore che ci porta!

“Ecco io vengo” (seconda lettura) dice Lui dopo aver atteso che Lei dicesse quel “Sì” che permise allo Spirito Santo d’invaderla e sommergerla perché potesse avvenire ciò che era impossibile all’uomo (cfr. Lc 1,34-38): “E il Verbo si fece carne e posò la sua tenda in mezzo a noi!” (Gv 1,14). 

Il “Maestro” (Gv 13,13-14) inizia la sua lezione di umanità all’umanità, cerchiamo di imparare la lezione, perché è lezione di vita e se non l’impariamo rischiamo di non capire nulla della vita, di vivere senza saperne il perché e di sciuparla nel vuoto e nel non senso. Venendo nel mondo il Figlio di Dio dice: “Eccomi Padre, io vengo per fare la tua volontà” e insegna a noi a fare lo stesso, e se pace non abbiamo, se la nostra esistenza è un’inquietudine e confusione continua, è solo perché non vogliamo andare alla Sua scuola e fare come Lui, ma come ci pare a noi!

Lei la lezione la sapeva bene perché Lui l’aveva ben istruita prima ancora d’essere da Lei concepito, se infatti Lei prima di Lui non avesse detto il suo “eccomi, si faccia di me come piace al Padre” (canto al vangelo) Lui, pur essendo Dio e potendo tutto, non avrebbe potuto salvarci così come invece poté fare: che mistero…! La nostra salvezza legata al “Sì” di una Piccola Donna, una Piccola Ragazzina di Nazareth che tiene in mano le sorti di tutta l’umanità: che mistero…! Il Signore Dio ha voluto legare al suo “Sì” la salvezza di tutti… che mistero…! Certamente Lei non poteva rendersi conto di tutta la portata della sua risposta, di quello che il Padre aveva nascosto come frutto del suo “Sì”. Pensate la gioia di quella Piccola Ragazza quando un giorno capirà tutto…, già intravede qualcosa…, sente una Vita pulsare nella sua vita e magnifica il suo Signore (vangelo)…, ma quando lo stesso Spirito che era sceso in Lei a Nazareth per renderLa Mamma del Figlio di Dio, scenderà nuovamente su di Lei per renderla Madre dei figli di Dio, Madre della Chiesa e Madre nostra carissima (cfr. At 2,1-4), allora lo Spirito Santo le illuminerà pienamente il mistero del suo Figlio Morto e Risorto, allora il Padre le regalerà l’ineffabile gioia di capire pienamente come il suo “Sì” fosse stato determinante per la salvezza dell’umanità: e sarà invasa dalla gioia…!

Tutto questo dovrebbe non solo avvicinare il nostro cuore a Maria con un profondo senso di gratitudine e ringraziamento perché ha saputo dire con amore e piena disponibilità il suo “Sì”, ma dovrebbe anche spingere ciascuno di noi a chiedersi nel Signore: “Ma chissà cosa avrà il Padre legato al mio ‘Sì’?” Cosa si nasconde dietro ogni “Sì” che io pronuncio nella mia vita di ogni giorno? Quanta luce, quanto amore, quanta pace, quante grazie per l’umanità Dio Padre ha legato al miei “Sì” di ogni giorno? E – discorso inverso – di quanta luce, quanto amore, quanta pace, quante grazie l’umanità è stata privata a causa dei miei tanti piccoli e grandi “No”?

Guardiamo quindi a Maria per prepararci bene a questo prossimo Santo Natale, Maria nostra Madre e Maestra quante cose c’insegna! Oggi la vediamo mentre si mette in “fretta” in “viaggio verso la montagna” per andare a trovare sua cugina Elisabetta (vangelo). 

La fretta di Maria ci fa pensare alla corsa della sposina del Cantico (Ct 1,4), alla corsa dei due di Emmaus (Lc 24,33), alla corsa a nuoto di Pietro (Gv 21,7), alla corsa di Paolo (Fil 3,14), alla corsa della Lettera agli Ebrei (12,1-2)… Se uno ama non può non correre! Se corri, corri perché ami e se ami corri per forza!

E, vedendo come tutto il mondo corre dietro a ciò che non vale – e come corre! – ci sentiamo assalire da un certo senso di colpa nel renderci conto come così lentamente seguiamo Gesù e come spesso ci troviamo anche noi a correre – ma non dietro a Gesù – bensì dietro ad un certo mondo che ci affascina e trascina con le sue proposte seducenti! Benedette allora quelle rovinose cadute che mi riempiono di dolore e mi immobilizzano per un po’, perché forse così quando mi sarò ripreso e rialzato magari potrò riprendere la corsa verso la direzione giusta!

“Maria si mise in fretta in viaggio verso la montagna…”, è passato poco tempo da quando la vita di Gesù pulsa in Lei e Lui la porta subito fuori della sua casa e la spinge a salire una montagna… 

Se stiamo ancora chiusi in noi stessi e non usciamo dalla nostra casa e non ci incamminiamo verso la casa degli altri, significa che ancora Lui non pulsa in noi! Uscir fuori significa anche permettere agli altri di entrarti dentro casa… 

Se non usciamo, spesso è perché abbiamo paura che gli altri possano entrare nella nostra casa lasciata senza difese e custodi… e allora ci chiudiamo e serriamo bene dentro… e costruiamo i muri, posiamo le transenne, scaviamo i fossati e mettiamo i cartelli: Vietato entrare… Attenti al cane che vi può mordere… State alla larga… Quando invece Lui pulsa in noi, quando Lui vive in noi e noi in Lui (cfr. Gv 14,20), Lui ci libera pian piano dalla paura che ci blocca nell’amore e ci rende capaci – nel suo Spirito (cfr. 2Cor 3,18) – di amare come Lui, senza paura e vivere ed essere come “agnelli in mezzo ai lupi” (Lc 10,3) permettendo a tutti d’entrare e uscire dalla nostra casa senza chiederci neanche permesso, e questo perché nella nostra casa c’è “LUI” e Lui ha il cuore aperto (cfr. Gv 19,34), non ha il cuore chiuso!

Se abbiamo avuto il coraggio di uscire di casa, ma siamo rimasti lì vicino senza allontanarci troppo, sempre pronti a rifugiarci dentro al minimo segno di pericolo, significa che non abbiamo “montagne” da scalare e abbiamo una grande paura di lasciare le nostre umane sicurezze… siamo allora come una barca ormeggiata nel piccolo porticciuolo della tiepidezza mentre è stata costruita per solcare gli oceani dell’amore! A ragione diceva il Padre Pio Bruno Lanteri, Fondatore di noi Padri Oblati di Maria Vergine: “Chi si accontenta di avere un piccolo posticino in paradiso, finisce per ritrovarsi con un palazzo all’inferno!” Siamo stati fatti per grandi cose, Dio vuol fare “grandi cose” (Lc 1,49) in ciascuno di noi, ma se noi non desideriamo che Lui le faccia, non solo Lui non le fa, ma rischiamo anche di perdere tutto (cfr. Lc 8,18). In ciascuno di noi c’è un potenziale grande santo, una potenziale grande santa e – forse – se non passiamo mai dalla potenza all’atto o stentiamo molto a farlo, è perché lo desideriamo così poco!…

Quando Elisabetta sente il saluto di Maria, Giovanni le sussulta di gioia in grembo e lo Spirito le dà di capire ciò che non era possibile comprendere. Salutandola, Elisabetta le chiede “A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?” 

Carissimi fratelli e sorelle, entriamo nel cuore, nello spirito, nell’anima, nei sentimenti di Maria quando sente queste parole dalla sua amica e cugina Elisabetta…, entriamo nell’intimità di Maria e gustiamo con grande dolcezza e soavità la sua gioia…: la gioia di Maria diventi la nostra gioia… 

Ma di quale gioia stiamo parlando? Perché Maria gioisce? Pensate…, Lei era incinta di Gesù, incinta per opera dello Spirito Santo… pensate che segreto che portava nel cuore! A chi poteva confidare questo segreto? A chi poteva dire che Lei era la Mamma del Messia e che “quel che è stato generato in Lei viene dello Spirito Santo?” (Mt 1,20). Quel povero fidanzato innamorato di Maria quando la vedrà così, la vorrà ripudiare in segreto e se non lo farà sarà solo perché un angelo lo avviserà intorno a ciò che era successo (cfr. Mt 1,20), Maria infatti da Donna saggia e prudente se ne stette zitta, a chi poteva infatti rivelare quel segreto? L’avrebbero tutti presa per una grandissima imbrogliona o per una matta…

Ora pensate…, Lei arriva lì da sua cugina e scopre che la cugina sa tutto, quale consolazione, quale gioia per Lei avere un’amica con cui condividere il segreto! “O come è bello che i fratelli vivano insieme… è come olio profumato che scende dalla barba di Aronne… là il Signore dona la vita e le benedizione per sempre!” (Sal 133). Com’è bello avere un’amicizia spirituale, delle persone, uomini o donne, che condividano il tuo segreto e lo custodiscano con te. Amici e amiche… fratelli e sorelle che sono uniti intimamente dall’amore verso di Lui e che Lui in loro unisce a Sé e tra loro nel suo Amore, e insieme tutti correre verso il Padre… che bello! Questa è l’esperienza di essere Chiesa… comunità cristiana… fratelli e sorelle in Gesù che portano nel cuore il segreto di essere gravidi di Lui, della sua presenza che vuol crescere in loro per nascere nel mondo!…

La gioia di Maria a casa di sua cugina Elisabetta allora diventi la gioia di ciascuno di noi nell’esperienza concreta di vita nella nostra comunità cristiana e avviciniamoci tutti al Santo Natale con una grande gratitudine verso il Signore che oggi sceglie non già più una grotta per venire al mondo, ma il cuore di ciascuno di noi.

Amen.

j.m.j.

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