Tempo di Quaresima

OMELIE DEL TEMPO DI QUARESIMA

Anno "A" 1 2 3 4 5
Anno "B" 1 2 3 4 5
Anno "C"  1   2   3   4   5

 

Prima Domenica del Tempo di Quaresima – Anno “A”                         Omelia

 

Fidarsi del Padre sempre!

Carissimi fratelli e sorelle, 

introdotti in questo tempo santo di preparazione alla Pasqua, attraverso l’austero rito delle ceneri, che ci ha ricordato che tutto passa e un giorno moriremo, siamo stati invitati a convertire il nostro cuore al Vangelo di Gesù.

La vita dell’uomo porta con sé la tentazione della stanchezza, la nostra fede è soggetta ad affievolirsi, la nostra speranza è soggetta a decadere, il nostro amore ad intiepidirsi. Questo perché noi crediamo qualcosa che ancora non vediamo, speriamo in qualcosa che ancora non possediamo, amiamo qualcuno che ancora non abbracciamo. Abbiamo quindi bisogno di continui stimoli, incoraggiamenti, sollecitazioni per non cedere alla stanchezza e al desiderio di saziare il nostro cuore con quello che oggi può vedere, possedere e abbracciare.

Questo pericolo è grande, è il pericolo di dimenticarci della nostra dimensione spirituale, della nostra anima e con essa di Dio che è la sua vita e vivere così solo in una dimensione orizzontale, soffocando e frustrando tutti i nostri aneliti più profondi che salgono al cielo gemendo silenziosamente e invocando Dio, nostro unico cibo che solo può saziarci pienamente e darci pace vera e duratura.

Per questo la Chiesa, nostra vera e amorosa Madre, ogni settimana ci invita alla Mensa dell’Amore dove ci nutre di Dio, perché non veniamo meno lungo la via (cf Mc 8,3). Ma il peso della vita è gravoso, le tentazioni sono pressanti e subdole, e Lei sa, da Madre Saggia, che siamo molto deboli, fragili e che una parte di noi è facilmente affascinabile e conquistabile e che si possono insinuare nella nostra vita idee, valori, abitudini, comportamenti che, pian piano, ci allontano da ciò che riceviamo nella Mensa dell’Amore, per questo ogni anno la Chiesa ci invita, con la forza di chi ci ama veramente, a fermarci, a prendere un po’ le distanze dalla nostra vita, per guardarla nella verità, a far silenzio e a interpellare fortemente il nostro cuore e ad ascoltare i suoi gemiti, a dar spazio al suo desiderio di Dio e di amarLo con tutto se stesso e in Lui tutto il resto: ecco perché la Quaresima! Perché possiamo fare, con Gesù, Pasqua da veri, autentici e rinnovati figli di Dio.

In quest’anno liturgico “A”, la nostra Madre ci farà ripercorre il cammino del catecumenato, cioè di chi si prepara a ricevere il santo battesimo. Questo cammino sarà lo stesso che veniva vissuto dai catecumeni nella prime comunità cristiane, ai quali i Padri della Chiesa indirizzavano le loro ricchissime e profondissime omelie mistagogiche (cioè, che spiegavano il senso dei sacramenti). Pensiamo, ad esempio, alle omelie di s. Cirillo di Gerusalemme o a quelle di s. Ambrogio, s. Agostino, ecc. 

Accostiamoci dunque con grande devozione, con grande venerazione e amore alla Parola che oggi la nostra Madre Chiesa presenta alla nostra bocca perché ce ne cibiamo e risvegliamo in noi con potenza la grazia battesimale, suscitando nel nostro cuore un ardentissimo desiderio di vivere pienamente da figli di Dio.

La Mensa della Parola oggi ci presenta due scene che si contrappongono, la prima si svolge in un bel giardino dove tutto era bello e gioioso, poi di colpo tutto diventò brutto e triste. Ci sono due persone, c’è Eva, c’è Adamo. A loro Dio aveva dato tutto, solo chiese loro di aver fiducia in Lui non mangiando di un albero, perché altrimenti sarebbero morti. Loro, invece, pensarono che li volesse ingannare e così mangiarono e peccarono e, quindi, tutto di colpo diventò brutto e triste.

Nella seconda scena abbiamo un uomo, Gesù, che sta in un deserto. Egli è uomo, ma è anche Dio. Dio, volle farsi uomo, per insegnare agli uomini a fidarsi di Lui, non aveva altro mezzo per conquistare la loro fiducia. Infatti, poiché l’uomo aveva peccato desiderando di essere come Dio, Dio si fece uomo perché l’uomo imparasse l’unico modo in cui poteva diventare tale senza peccare, e questo modo, l’unico, era quello di fidarsi di Lui.

Gesù è lì nel deserto e ha fame, da quaranta giorni sta digiunando. Quando è al colmo della sua fame, si presenta a Lui il demonio, il diavolo, nemico dell’umanità, il grande geloso e scimmiottatore di Dio, il “bugiardo e padre della menzogna” (Gv 8,44) si presenta davanti alla “Verità” (Gv 14,6) e cerca di imbrogliarLa, così come imbrogliò Eva e suo marito: “Hai fame? Perché non mangi trasformando queste pietre in pani? È così facile per te farlo, perché non lo fai? Se lo fai e mangi, sarai felice! Parola di diavolo!”.

Ma Gesù non mangia, aspetta in silenzio che suo Padre Gli dia, quando e come vuole Lui, il cibo, non protesta come protestarono i suoi antenati nel deserto quando ebbero fame (cf Es 16,3), anche loro, come Adamo ed Eva, non si fidarono di Dio. Gesù, invece, no! Ha fame, ma non pretende il cibo, ha fiducia che la sua vita è nelle mani del Padre e gliela consegna lì nel deserto della fame, come sulla croce della morte (cf Lc 23,46): “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca del suo Dio”. E così Gesù ci mostra in sé un uomo nuovo, veramente interiormente libero, libero dalla schiavitù degli istinti. Adamo ed Eva dopo il peccato si accorsero di essere “nudi”, non fidandosi di Dio persero anche la libertà interiore e furono sopraffatti dalla concupiscenza. Gesù è l’Uomo Nuovo che ci insegna, in Lui, a dominare noi stessi, a piegare il nostro corpo e anche le sue esigenze più profonde alle esigenze dello spirito e quindi alle esigenze dell’amore vero.

Vedendo che non è riuscito a convincerLo con la fame del corpo, il nemico cerca di soggiogarLo a sé con la fame dello spirito e cerca di suggestionarLo proponendo successo, acclamazione, fama e onori del mondo: “Buttati giù da questo pinnacolo che tanto gli angeli ti sosterranno e così tutti ti ammireranno. Serviti del fatto che Dio è tuo padre e fagli fare un miracolo per te. Sarai acclamato e sarai felice! Parola di diavolo!”. Ma Gesù non si buttò e non pretese il miracolo, insegnandoci così a fare noi la volontà del Padre e mai pretendere che il Padre faccia la nostra. Gesù si fida del Padre e non si butta giù. Gesù non poteva strumentalizzare il suo rapporto con il Padre per avere qualcosa. Gesù si fida del Padre e non chiede nulla, se non di amarLo. È disposto a morire di fame e ad essere sbeffeggiato da tutti, è disposto ad una vita umile e nascosta, senza niente di appariscente e di grande, è disposto ad una morte ignobile e umiliante, perché si fida del Padre. Gesù sa che la sua vita, lì nel deserto della fame, come sulla croce della morte, è nelle mani del Padre. Adamo ed Eva dopo il peccato hanno paura di Dio e si nascondono; Gesù, Nuovo Adamo, ci insegna un nuovo rapporto con il Padre, in cui non ci nascondiamo più e sappiamo abbandonarci nelle sue mani come Lui.

Il nemico, però non si arrende e torna alla carica. Questa volta già assapora la vittoria… ha riservato la tentazione più forte per ultima… A questa è sicuro che cederà: “Guarda,… guarda questo mondo,… tutta la gloria e lo splendore che c’è nel mondo,… tutta la gloria e il potere io lo regalo a te se mi adorerai e così sarai felice! Parola di diavolo!”. Ma come poteva il Figlio di Dio adorare il diavolo? E perché poi adorarlo? Per farsi servire da tutti, per avere il potere su tutti, per dominare tutti?… Ma Lui era venuto non per essere servito, ma per servire e dare la vita (cf Mt 20,27-28)! Per questo il Padre Lo aveva mandato e Lui, ancora una volta, si fida del Padre e Gli ubbidisce fino in fondo, accettando di morire per i suoi fratelli, rinunciando a dominarli per servirli e dare loro la sua vita. Gesù sa che la sua vita, lì nel deserto della fame, come sulla croce della morte, è nelle mani del Padre. Dopo il peccato l’uomo era diventato rivale e nemico del fratello, Gesù, l’Uomo Nuovo, ci insegna un nuovo rapporto con gli altri uomini, ci insegna a guardare ogni essere umano come un fratello da amare e servire, fino a dare la vita per lui. 

E il nemico se ne andrà via sconfitto, ma ci riproverà ancora, è troppo geloso dell’uomo per non riprovarci, ma ogni volta sarà sconfitto, perché non può vincere chi si fida del Padre! Tutte le arti sue maligne le usa per far diffidare di Dio e del suo amore. Vedendo tutta quella diffidenza nel suo amore per noi, il Padre mandò suo Figlio a farsi uomo perché ci insegnasse ad abbandonarci fiduciosi nelle sue mani quand’anche fossimo nella situazione più deprimente, più triste, più misera, più sciagurata possibile. Per questo il Figlio si è fatto uomo e per questo ha voluto assumere la situazione più deprimente, più triste, più misera e più sciagurata possibile e ha voluto viverla fino in fondo, senza neanche essere risparmiato dalla morte. Gesù si è fidato del Padre e si affidato al Padre sempre, in ogni circostanza della vita, lì nel deserto della fame, come sulla croce della morte!

Ogni male e ogni sciagura entrò nel mondo perché l’uomo non si fidò di Dio; ogni bene e ogni benedizione entrò nel mondo perché un uomo, l’Uomo Nuovo, Gesù Cristo, si fidò di Dio e ci insegnò a chiamarLo “Padre” abbandonando la sua vita nelle sue mani, non temendo di morire, si fidò fino in fondo, accettando la morte e il sepolcro e fu premiato perché non c’è delusione per chi confida nel Padre (Sal 25,3.20; 31,2; Sir 2,10; ecc.)!

Ecco – carissimi fratelli e sorelle –, Gesù ci invita oggi fortemente a fidarci del Padre come si è fidato Lui e come Lui non fu deluso, neanche noi lo saremo se ne seguiremo l’esempio e sapremo fidarci del Padre fino in fondo come Gesù, non lasciandoci affascinare dalle proposte seducenti e allettanti che il nemico ci suggerisce, scelte facili, comode e piacevoli, promettendoci quello che mai ci potrà dare: gioia, pace e felicità vera. Poveri noi se gli crediamo! Poveri noi se siamo tanto sciocchi da credere ad un “bugiardo” e diffidare della “Verità”!

La Vergine Maria, nostra Madre e Maestra, ci accompagni in ogni momento di questo nostro itinerario quaresimale e ci aiuti non lasciarci sedurre dal serpente antico, ci aiuti a fidarci del Padre sempre, ad abbandonarci nelle sue mani con fiducia totale e assoluta, disposti anche a subire la morte, ma mai a dubitare del suo amore forte e potente, più forte e potente della morte stessa. 

Amen.                                                             j.m.j.

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Seconda Domenica del Tempo di Quaresima – Anno “A”                   Omelia

 

Una storia disseminata di Tabor!

Carissimi fratelli e sorelle,

dopo essere stati con Gesù nel deserto della fame e della tentazione per vivere con Lui l’esperienza gioiosa di una nuova capacità di fedeltà e di amore al Padre, scaturita dall’abbandono confidente e fiducioso nelle sue mani, oggi Gesù ci “prende con Sé” per portarci su “un monte alto”.

È il Vangelo della Trasfigurazione: Gesù prende con Sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li conduce su un monte, che la tradizione ha identificato nel Tabor, e lì mostra loro qualcosa di quella gloria che possiede in quanto Figlio di Dio.

Prima di introdurci nel mistero della Trasfigurazione di Gesù, mi sembra opportuno fermarci a considerare questa scelta di nostro Signore. Gesù vediamo che “prende con Sé Pietro, Giacomo e Giovanni”, da questo suo gesto emergono due considerazioni: la prima è come Gesù si mostra come protagonista: è Lui che chiama e invita i tre apostoli a venire con Lui. Questa prima considerazione ci rimanda alla prima lettura odierna che ci mostra l’iniziativa di Dio che entra nella storia di Abramo invitandolo ad uscire dalla sua terra verso un paese sconosciuto. Lì inizia la grande avventura della Storia della salvezza dell’umanità che con questo gesto di ubbidienza di un uomo che lascia tutto per seguire l’ordine di Dio, inizia il lungo cammino della propria redenzione preparando così quel terreno dove avrebbe “piantato la sua tenda”  (Gv 1,14) il Verbo incarnato. Anche Paolo nella seconda lettura mette in evidenza questa irruzione di Dio nella storia dell’umanità, un Dio che irrompe e invade la storia con l’invadenza di un amore troppo forte, troppo grande che ci chiama alla santità cioè all’unione intima con Se Stesso, senza che da parte nostra ci sia qualcosa che possa motivare una simile altissima chiamata. Paolo è conquistato da questo amore troppo grande del Padre (cf Ef 2,4; 1Gv 3,1) che ha conosciuto per mezzo di Gesù Cristo, un amore assolutamente immeritato e del quale siamo tutti profondamente indegni, donatoci dal Padre gratis, cioè senza nostri previi meriti od opere buone. Da questa prima considerazione abbiamo la conseguenza che, se è proprio di Dio irrompere e invadere, il proprio nostro di uomini è, senz’altro, accogliere quest’irruzione e invadenza d’amore, fidandoci di Lui e permettendoGli di amarci in quella misura divina di amore che è sempre sovrabbondante ed eccedente le nostre ben limitate e piccole misure umane.

La seconda considerazione, è che Gesù sceglie e chiama solo tre tra gli apostoli a seguirLo in questa esperienza. Non è la prima volta che fa questo, l’aveva fatto già quando si trattò di andare a risuscitare la figlia di Giaro (chiamò gli stessi tre – cf Mc 5,37) e sempre loro tre chiamerà vicino a Sé nella notte dell’angoscia del Getsemani  (cf Mt 26,37). Perché Gesù chiama questi tre e non altri? E come avranno reagito gli altri apostoli di fronte a questa preferenza di Gesù? Sappiamo, da altri contesti, che la gelosia non era estranea al gruppo apostolico (cf Mt 20,24) e possiamo supporre che forse qualcuno di essi s’inquietò di fronte a queste preferenze del Maestro. Come leggere simili gesti di Gesù? E parimenti, come leggere analoghe situazioni in cui vediamo alcuni che sembrano preferiti da Dio ad altri? Dio sarebbe dunque ingiusto? Questa è una accusa che attraversa tutta la storia dell’umanità, dal peccato dei progenitori ai nostri giorni (cf Gen 4,4-5; Sap 12,12-14; Gb 40,1-5; Gn 4,9; Ez 18,25) e sgorga e cresce da cuori piccoli, ristretti, meschini, invidiosi che confondono la bontà e la misericordia del buon Dio e del buon Gesù come “ingiustizia” (cf Mt 20,15; Lc 15,30). Perché Gesù scelse questi tre e non altri? Che sciocca domanda! L’amore di Dio non ha motivi se non l’amore stesso immenso e incommensurabile con cui ama gratis tutti e ciascuno in un modo diverso, individualissimo, personalissimo e unico. A ciascuno di noi tocca stare al suo posto, accogliendo quest’amore e corrispondendo fino in fondo, amore con amore. Ognuno di noi è una piccola tessera del grande puzzle dell’Amore Divino e trova la realizzazione massima di sé stando al proprio posto, vivendo quel ruolo e quella missione a cui l’Amore di Dio lo chiama, nella semplicità, nell’umiltà e nella consapevolezza che quel posto e quel ruolo realizzano l’immersione nell’Amore gratuito e sussistente di Dio.

Ma torniamo ora al nostro Vangelo: “Gesù li prese con sé”. Che bella questa espressione: “Gesù li prese con sé e li condusse in disparte su un alto monte”. Ad un certo punto della nostra vita Gesù ci prende in disparte, ci fa fare un cammino diverso dagli altri che rimangono giù, Gesù ci prende insieme a qualcun altro e ci porta su come fece con questi tre, così vuol fare anche con noi, ma ognuno ha i suoi momenti e, chissà, forse in questa Quaresima è giunto, per qualcuno di noi, il momento del distacco dagli altri, per iniziare con Gesù la scalata di un alto monte. Magari gli altri si chiederanno: “Ma dove stanno andando quei matti lassù?”. Non è possibile una vera crescita spirituale senza uno stacco dagli altri, sottoponendosi allo sforzo e alla fatica di una dura scalata perché trascinati o meglio “presi con Sé” da Gesù.

E i tre giungono finalmente alla vetta del monte con Gesù e lì godono della visione della sua trasfigurazione e di Mosè ed Elia che parlavano con Lui. Mosè ed Elia, cioè la “Legge e i Profeti”, tra l’altro gli ebrei chiamavano così la loro Bibbia: “La Legge e i Profeti”. Dall’evangelista Luca sappiamo che Mosè ed Elia parlavano con Gesù “della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme” (Lc 9,31), cioè della sua prossima morte e risurrezione: tutto il Vecchio Testamento parlava di Gesù! 

C’è un momento nel cammino della nostra storia di conversione in cui anche noi capiamo che tutto ci parla di Gesù e, anzi, quando non percepiamo il suo Nome dolcissimo, tutto ci sembra vuoto, senza senso, senza valore né significato.

E i tre rimangono estasiati in quella visione così bella di Gesù trasfigurato e dei suoi amici che rifulgono di luce, e vorrebbero che la scena si fermasse per potersela godere a lungo, magari sempre! Ma una nube luminosa toglie loro la vista di tutto immergendoli in sé e dalla nube una voce tuona: “Questi è il Figlio mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo!”.

I tre apostoli volevano solo guardarLo e godere della sua bellezza, il Padre ricorda loro che non è ancora questo il tempo di goderLo, ma è quello di ascoltarLo. Ascoltare Gesù, riconoscerLo come il “Maestro”  per mettersi alla sua scuola (cf Gv 13,13-14; 1Pt 2,21) e poter essere anche loro, come Lui, con Lui e in Lui, figli del quale il Padre si compiace.

Questa è la missione di Gesù: permettere ad ogni uomo di diventare un figlio bravo e buono del quale il Padre possa compiacersi. Nel s. Battesimo siamo stati inseriti in Gesù, intimamente rivestiti di Lui (cf Gal 3,27) e mai finiremo di stupirci per quella bellezza e gloria che abbiamo ricevuto senza merito. Bellezza, gloria, luminosità che però non si vedrà se non lassù, quando anche noi saremo con Lui nella gloria del Padre avvolti nella nube luminosa del suo Amore. Oggi non possiamo vederla, è nascosta ai nostri occhi, ma ne possiamo cogliere un raggio nella limpidezza dello sguardo, nella gioiosa serenità del sorriso, nella disponibilità al servizio, nella capacità di inginocchiarsi a lavare i piedi ai fratelli, nell’umile ricerca dell’ultimo posto, nel cuore ferito che gocciola sangue d’amore per tutti.

Ma la nube che li avvolge e la voce sconvolgono gli apostoli che ora tremano e hanno paura di guardare, mentre prima ne gioivano. Gesù li invita alla fiducia: “Alzatevi e non abbiate paura!”. Si alzano, guardano: non vedono più nessuno, né Mosè né Elia né la nube luminosa, vedono solo Gesù non più trasfigurato che li invita a scendere dal monte per tornare a valle, con gli altri apostoli: l’esperienza è finita, non ne parlino finché non sarà risorto dai morti.

Così Gesù ha voluto preparare Pietro, Giacomo e Giovanni, “le colonne” (Gal 2,9) del collegio apostolico ad affrontare l’altra visione, tutt’altro che piacevole, di Lui stesso trasfigurato non più di luce, ma di dolore e di abiezione, perché capissero bene che anche in quella prossima trasfigurazione, rimaneva quel Figlio del quale il Padre si compiaceva e sapessero attendere la sua risurrezione.

L’esperienza del Tabor si rinnova nella vita di tutti noi che crediamo, seguiamo e amiamo Gesù. Infatti, ciascuno di noi può ben ricordare come abbia vissuto nella propria storia personale momenti di particolare illuminazione, gioia, pace e amore, in cui tutto sembrava luminoso e bello. Momenti in cui abbiamo colto qualcosa del Cielo e della sua gloria. Attimi in cui si è percepita la bellezza e la santità del volto di Gesù. Magari un giorno di ritiro, o una s. Comunione fatta bene ci hanno fatto sentire Gesù con una forza di dolcezza e di bellezza particolare. Anzi, se avessimo solo un pochino di fede in più, potremmo scoprire tanti Tabor quanti sono stati i nostri incontri con Gesù nei sacramenti. La domenica, poi, è il nostro Tabor settimanale dove siamo chiamati a fare l’esperienza del Risorto per poter poi avere la forza, lungo la settimana, di testimoniare al mondo la nostra appartenenza a Lui. 

La Vergine Maria, nostra compagna di viaggio in questo cammino quaresimale che a Cana ci invitò anche Lei come il Padre ad ascoltare Gesù e a fare “quello che Lui ci dirà” (Gv 2,5), ci aiuti a lasciarci prendere da Gesù, a stare con Lui e seguirLo ovunque Egli vorrà portarci.

Amen.

j.m.j.

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Terza Domenica del Tempo di Quaresima – Anno “A”                 Omelia

 

“Dammi da bere!”

 

Carissimi fratelli e sorelle,

dopo averci portato con Sé nel deserto della fame e della tentazione per farci provare la gioia della vittoria su quanto vorrebbe sedurci e dominarci, dopo averci condotto con Lui su un alto monte per farci partecipi della visione della sua e nostra gloria di figli di Dio, oggi Gesù ci sta aspettando ad un pozzo. È stanco, affaticato da un lungo cammino, ha sete e si è seduto ai piedi del pozzo di Giacobbe dove attende ciascuno di noi per potersi dissetare della sua stessa Acqua.

È una delle pagine del Vangelo più note e ricche di contenuto, pagina commovente che ha ispirato opere di artisti di tutti i tempi e che non può non toccarci profondamente il cuore e stimolarlo ad amare Colui che a quel pozzo sta mendicando amore.

È una pagina ricca di simboli, come è usuale in Giovanni, nel nostro commento ci fermeremo solo su alcuni. Veniamo al primo di essi: il pozzo

Il pozzo in se stesso, per l’uomo biblico è segno della presenza di Dio che disseta il suo popolo. Ogni pozzo viene visto dall’ebreo come una sorgente da cui sale l’acqua, dono di Dio. L’immagine viene tratta proprio dal brano biblico riportato nella prima lettura odierna: il popolo di Dio che protesta, nel deserto, con il Signore perché è assetato e ottiene miracolosamente di potersi dissetare ad un ruscello d’acqua sgorgante dalla roccia percossa da Mosè con il suo bastone. S. Paolo interpretando questo evento dirà che quell’acqua miracolosa insieme con la manna celeste era figura di Gesù che ci accompagna nel deserto del mondo sostenendoci con un cibo e una bevanda spirituale: l’Eucaristia (cf 1Cor 10,3-4).

Nella Bibbia il pozzo è, inoltre, il luogo degli innamoramenti: Mosè e Giacobbe incontrarono le loro future spose ad un pozzo (cf Es 2,16; Gen 29,10) e fu anche ad un pozzo che il servo di Abramo incontrò Rebecca che poi portò al suo padrone per darla in sposa ad Isacco (cf Gen 24,11-15). Anche negli scritti rabbinici il pozzo è il luogo dell’incontro d’amore e della seduzione.

Ora al pozzo di Giacobbe era seduto Gesù! L’incontro con questa Samaritana ci viene proposto da Giovanni come modello esplicativo della dinamica con cui il Redentore degli uomini s’incontra con ogni persona per salvarla, per cui questa pagina non può non avere delle fortissime risonanze nel nostro cuore (se veramente ci siamo già incontrati con Gesù!).

Si tratta di un incontro d’amore. C’è l’Assetato d’amore che siede a quel pozzo. È stanco del viaggio. Quale viaggio? Si trattava di un viaggio ben più lungo di quelle poche decine di chilometri che aveva appena percorso dalla Giudea verso la Galilea, attraversando la Samaria. Il suo viaggio era ben più lungo! Aveva percorso l’incommensurabile distanza che ci separa dalle altezze del Cielo per venire quaggiù e sedersi finalmente a quel pozzo!

È mezzogiorno e una donna con una brocca vuota si avvicina al pozzo, come fa ogni giorno per attingere acqua. Non è quella l’ora di andare ad attingere, al pozzo le donne vanno la mattina presto, lei va a mezzogiorno. Come mai quest’ora insolita? Forse avrà avuto dei contrattempi…, forse era solita andare a quell’ora perché si sentiva a disagio con le altre donne…, si sentiva giudicata e malvista…, forse…, ma chissà…, il vero motivo lo sapremo solo lassù. Ma quello che è certo, è che andò a quell’ora perché doveva incontrarsi con Gesù, lei non lo sapeva, Lui sì ed era lì ad aspettarla.

“Dammi da bere”, le dice l’Assetato. “Chi sarà mai costui che chiede da bere a me?”, penso la samaritana incuriosita e intavola con Lui un discorso.. 

Ottenuto l’aggancio, il Divino Seduttore (cf Ger 20, 7) porta il discorso su un livello più profondo e ora parla non più dell’acqua di quel pozzo, ma di un’“acqua viva che zampilla per la vita eterna” e che Lui può dare a chi vuole.

Quella povera donna non capisce il livello del discorso di Gesù e pensa subito ad un’acqua fisica che disseti miracolosamente. Qui siamo giunti ad una fase cruciale dell’incontro con il Divino Assetato d’Amore. È riuscito a far cogliere alla donna una sete di un’acqua speciale che la poteva veramente dissetare. La donna comincia a sognare una vita diversa, dove non c’è più bisogno di sottoporsi alla fatica di andare a quel pozzo tutti i giorni e quindi alla vergogna di essere additata come donna di poco conto. Gesù ha saputo toccare le fibre più profonde del cuore di quella donna e a farle vibrare, facendo così emergere una sua sete più profonda di quella fisica: la sete di una vita nuova, di una dignità e rispettabilità ritrovata, e quindi – finalmente! – la donna Gli domanda quell’acqua: “Signore, dammi di quest’acqua perché non abbia più sete e non continui più a venire qui ad attingere acqua!”.

E così ora, il Divino Assetato incomincia a bere e a dissetarsi, ma a questo punto dell’incontro Gesù opera uno stacco, interrompe il discorso dicendole: “Va’ a chiamare tuo marito e poi ritorna qui”. Il discorso con Gesù potrà proseguire solo dopo che la donna riconoscerà il fallimento della propria vita rappresentato da quei “cinque mariti” che ha avuto e da quel “marito” che non ha e che vorrebbe avere.

Non è facile ammettere il fallimento di sé, ma Gesù non continua il suo discorso con te finché tu non gli parli dei tuoi “cinque mariti” e di colui con il quale stai convivendo oggi. La prima reazione normalmente è la fuga e la Samaritana fugge cambiando discorso. Infatti s’improvvisa teologa e interessata a conoscere il luogo dove bisognava adorare Dio, ma quando chiede allo Sconosciuto se sa qualcosa del Messia, viene fulminata dalla sua risposta: “Sono io, che parlo a te… io sono il tuo Messia”.

In quel momento arrivano gli apostoli, la Samaritana si mette da parte, lascia per terra la brocca vuota, ora quella brocca non le serve più, la riempiva per dissetarsi di una sete fisica, ora si è incontrata con chi può dissetarla di un’altra sete più profonda, più vitale, importante, primaria. Ha trovato quel “marito” che cercava da sempre, che le potesse ridare dignità, rispettabilità e fecondità: ha incontrato il suo Messia, ha incontrato Gesù, il Redentore degli uomini e corre ad annunziarlo a tutti.

Quella donna esplode e corre per trovare tutti quelli che solo pochi minuti prima voleva evitare. Ogni incontro con Gesù, quand’è autentico mi rimanda a cercare i miei fratelli per portarli a Lui: “Mi ha detto tutto ciò che ho fatto!”. La donna per la prima volta si è sentita conosciuta di una conoscenza speciale, perché quell’Uomo l’ha messa a nudo, mostrandole la sua verità, ma senza farla vergognare, senza farla arrossire. Questo finalmente le dà il coraggio di cercare i fratelli senza più paura di essere giudicata.

Anzi, proprio ciò che prima era causa del suo estraniarsi e isolarsi dagli altri, il suo fallimento, le sue debolezze, il suo peccato, ora diventa strumento e mezzo per incontrarsi con tutti: “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto ciò che io ho combinato nella vita”. Forte dell’incontro con Gesù, la Samaritana ha iniziato a bere quell’“Acqua” di cui Lui le aveva parlato, l’acqua viva dell’Amore di Dio che finalmente le permette di accogliersi nella verità senza più vergogna e rossore.

Gli apostoli scandalizzati perché il loro Maestro stava parlando con una donna, samaritana per giunta, non hanno il coraggio di interrogarlo su quell’incontro e Gli offrono del cibo per ristorarsi del viaggio, ma Gesù rifiuta. Il Divino Assetato e Affamato d’Amore stava già gustando un altro cibo che loro ancora non conoscevano, aveva appena “sedotto” (Ger 20, 7) e “conquistato” (Fil 3,12) a Lui quella povera donna diventata improvvisamente ricca e finalmente sposata! È Gesù, infatti, quello “sposo” che cercava da sempre.

Trascinati dalla donna dai “sei” mariti molti di quel villaggio s’incontrarono con Gesù e credettero in Lui non già per la testimonianza della loro compaesana, ma perché anche loro come lei, incontrandosi con Lui furono toccati nell’intimo scoprendo così quella sete di verità e di vita che stava lì nel più profondo del pozzo del loro cuore. 

Sì, perché è proprio così, quel pozzo dove il Divino Assetato d’Amore ci attende è la più intima profondità del nostro cuore, dove Lui sta seduto aspettando che noi ci accorgiamo di Lui, per chiederci da bere. Si mostra stanco e assetato per suscitare in noi la sete di Lui e poter così “riversare nei nostri cuori l’oceano d’acqua viva del suo amore” (cf seconda lettura).

Se ancora non l’abbiamo incontrato, il motivo è molto semplice: non siamo ancora scesi al pozzo, non siamo ancora scesi nel nostro cuore, nella nostra intimità più profonda, tutti presi da una vita superficiale, distratta e dispersiva. Ma basta che ci raccogliamo un pochino e scendiamo al pozzo del nostro cuore e anche noi, come quella donna, sentiremo una voce che ci grida: “Dammi da bere!” e la nostra vita non sarà più la stessa e il Padre avrà finalmente trovato qualcuno che l’adori in spirito e verità.

Maria SSma che per prima saziò il Divino Assetato con il suo latte verginale, ci insegni e ci aiuti a dissetarLo non più d’aceto (cf Gv 19,28-29) ma con l’acqua viva del suo stesso Amore.

Amen.

  j.m.j.

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Quarta Domenica del Tempo di Quaresima – “Lætare” – Anno “A”             Omelia

 

La gioia di compromettersi per Gesù

Carissimi fratelli e sorelle,

siamo giunti a metà Quaresima e la Chiesa in questa tappa della quarta domenica ci invita alla gioia, alla letizia. “Lætare”, è infatti il nome con cui viene chiamata questa domenica: “Giore” perché si avvicina la s. Pasqua, per questo motivo oggi si possono mettere fiori sull’altare e si può usare il colore rosaceo dei paramenti sacri al posto del viola.

Il contesto del Vangelo è quello della gioiosa festa di “Sukkot”, festa delle “capanne” o dei “tabernacoli”. In origine era la festa del raccolto, poi fu trasformata nella festa che ricordava i 40 anni di permanenza nel deserto. Nutriti e dissetati miracolosamente dal Signore che nel deserto dona al suo popolo la “Torà”, la Legge, i “Dieci Comandamenti”. Durante questa festa gli ebrei di allora e di oggi abitano per sette giorni in capanne precarie fatte di frasche, rami di palma e canne: mangiano in esse e, clima permettendo, vi dormono per sette giorni. Un rito particolare accompagnava questa festa al tempo del Tempio di Gerusalemme e quindi al tempo di Gesù: un sacerdote riempiva d'acqua un'anfora d'oro, risaliva verso il Tempio e ne cospargeva l'altare. Ciò richiamava non solo il ringraziamento per l'acqua, senza la quale niente può fiorire e maturare, ma anche il prodigio dell'acqua scaturita dalla roccia nel deserto e l'acqua vivificante che, secondo Ezechiele (cf 41,1ss), sarebbe scaturita dal Tempio nuovo e definitivo. Come segno di partecipazione alla benedizione di Dio, i fedeli andavano ad attingere l’acqua alla piscina di Siloe.

In mezzo alla folla che si riversava sulle strade della Città Santa in quei giorni di festa, Gesù vede un uomo, “cieco dalla nascita” e gli Apostoli gli chiedono di chi fosse la colpa per quella cecità: “di lui o dei suoi genitori?”.

Gesù risponde agli Apostoli dicendo che la colpa non era né dei suoi genitori né del cieco, ma che quella cecità doveva essere strumento della manifestazione della gloria di Dio e si avvicina al cieco facendo del fango con la sua saliva e un po’ di terra, lo appone sugli occhi del cieco e gli comanda di andarsi a lavare alla piscina di Siloe.

Come la Samaritana al pozzo di Giacobbe, anche questo cieco è senza nome, perché ciascuno di noi possa ritrovarsi espresso in loro. Gesù gli si avvicina e prende anche con lui, come con la donna al pozzo, l’iniziativa.

Ogni uomo è cieco dalla nascita finché non incontra Gesù. Gesù è la “luce del mondo”, l’unica luce che può illuminare le nostre tenebre. È venuto nel mondo per liberarlo dalle tenebre. Tenebre e luce sono due termini altamente simbolici, pregnanti di significato, presenti nel Vangelo di Giovanni fin dal suo prologo: 

“In Lui era la vita e la vita era la luce degli uomini. La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Egli era nel mondo e il mondo fu fatto per mezzo di Lui, eppure il mondo non lo riconobbe… a quanti però l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,4-12).

L’uomo è cieco dalla nascita perché il suo sguardo non può andare al di là delle apparenze esteriori (prima lettura), non può leggere dentro il mistero di ciò che lo circonda e dentro il mistero di se stesso: “solo Dio legge il cuore!”

L’uomo è un cieco dalla nascita perché non può vedere il senso della propria vita: chi sono? perché sono? dove andrò? che ci sto a fare qui? perché soffro? perché vivo? perché devo morire? Solo Gesù può liberare l’uomo dalle sue angosce.

Ma le tenebre non richiamano solo l’incapacità della mente di conoscere la verità su Dio, sul mondo, su noi stessi, le tenebre richiamano anche la nostra incapacità di vivere bene, di essere buoni, bravi, santi. Accecato nella sua facoltà conoscitiva, l’uomo sbaglia direzione nella sua ricerca della felicità e della gioia e cercando in continuazione la propria vita la perde nella insoddisfazione e nel vuoto (cf Mt 10,39), abbracciando ciò che non gli dà pace e che lo relega nelle tenebre del peccato.

La liberazione avviene in seguito ad un incontro e a un comando. Il fango fatto da Gesù ci indica che questa liberazione è una nuova creazione (cf Gen 2,7): quell’uomo creato dal fango ora subisce un nuovo intervento creatore di Dio che gli permette di vedere. Se quell’uomo non fosse andato a lavarsi non sarebbe guarito e non avrebbe mai potuto vedere la luce del sole né Gesù “luce del mondo”. Ogni guarigione passa attraverso questo rito di purificazione: andarsi a lavare! È il rito di chi si riconosce “peccatore”, senza questo riconoscimento non si può vedere Gesù né Gesù si mostra a noi. La salvezza di Gesù non potrà mai investirci totalmente finché noi non ci riconosciamo ciechi e bisognosi di luce: 

«La prima condizione per essere guariti è la convinzione di essere ammalati. Se uno è ammalato, ma si crede sano, morirà: “se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: noi vediamo, il vostro peccato rimane”. Alla luce di Gesù Cristo, non si oppone la nostra cecità, ma la nostra presunzione. Come si manifesta oggi questa presunzione? In due modi, soprattutto. Si ritiene che non esista nessuna distinzione fra bene e male, ma solo fra ciò che è utile o dannoso, piacevole o spiacevole. Di conseguenza, si riducono i nostri mali solo a mali di carattere materiale o psicologico. Ed infine non giungiamo mai ad una confessione vera e propria della nostra vera, ultima malattia: il peccato. Siamo ciechi convinti di vederci» 

 Mons. Carlo Caffarra – Omelia della Quarta Dom. di Quaresima – 17 marzo 1996. 

Ma la purificazione del cuore che si attua nell’umile riconoscimento della propria povertà e miseria non basta, non è sufficiente. Occorre vedere Gesù, occorre incontrarLo più intimamente per acquistare pienamente la luce interiore, la liberazione dalle tenebre del non-senso e del peccato. 

«Ma tutto questo avviene nel contesto di una lotta”, di una sorta di “processo” intentato contro Gesù Cristo e contro l’uomo che Lo incontra» – Mons. Carlo Caffarra – Omelia…. 

Nella descrizione di questa “lotta” che nel Vangelo odierno affronta il nostro cieco nato, Giovanni ci mostra una carrellata di personaggi nei quali ognuno di noi potrà più o meno ritrovarsi. 

Ci sono i passanti che hanno capito che c’è stato un evento portentoso, ma che non si interessano più di tanto, perché sono presi dai loro problemi: “È lui… non è lui… forse gli rassomiglia” e se ne vanno via per la loro strada, eppure quell’ex-cieco aveva spiegato bene loro come erano andate le cose, ma loro avevano altro da fare che compromettersi in quella faccenda e se ne vanno.

Ci sono i genitori di quel povero cieco che per paura di essere cacciati fuori dalla sinagoga non si compromettono, pur avendo ricevuto da Gesù il dono della guarigione del proprio figlio e trovano una scappatoia per non assumere posizione a favore di Gesù: “Chiedete a lui, è grande, vi saprà dire come mai ora ci veda”.

Ci sono i farisei che, incaponiti, non si arrendono di fronte all’evidenza di un miracolo e ora se la prendono anche con l’ex-cieco perché afferma di essere stato guarito da Gesù.

Infine c’è lui, c’è colui che era nato cieco ed ora ci vede: non ha paura di compromettersi e risponde per le rime ai farisei testimoniando la sua riconoscenza a Gesù, che ancora però non ha visto. Aveva fatto quello che Gesù gli aveva ordinato e si era ritrovato guarito: aveva esperimentato come veramente Gesù fosse il suo Redentore e Salvatore, perché “prima non vedeva e ora invece ci vede”.

Solo quando si mette in pratica la parola di Gesù, solo quando la persona incomincia a vivere il Vangelo e quindi a compromettersi per Gesù, perché non è possibile vivere il Vangelo senza compromettersi per Gesù, senza scontrarsi con gli altri per difendere Gesù, senza affrontare il rischio di essere “buttati fuori dalla sinagoga del mondo” e quindi essere emarginati e mal sopportati dagli altri, solo allora che Gesù si dà a conoscere a noi in un modo più profondo e più intimo.

«“Un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore”. In realtà quanto è raccontato nel Vangelo è già accaduto in noi: è stato il momento del Battesimo, chiamato anche “illuminazione”. È nel Battesimo che siamo stati lavati ed ora siano luce nel Signore. Può succedere che non ci siamo mai appropriati di ciò che il Battesimo ha causato in noi: come se una forza fosse stata bloccata, una sorgente sigillata. La Quaresima ci è donata perché quanto allora è accaduto senza di noi, ora produca i suoi frutti in pienezza. Quali sono questi frutti? “Il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità” (seconda lettura)» –  Mons. Carlo Caffarra – Omelia……

Carissimi fratelli e sorelle, avvicinandosi la s. Pasqua interroghiamoci profondamente sul nostro effettivo comprometterci per Gesù, sulla nostra effettiva testimonianza cristiana e chiediamo a Maria, nostra Madre e Maestra, che per prima seppe compromettere la propria vita per Gesù, affrontando con coraggio di essere vista gravida di Lui dagli occhi stupiti e scandalizzati del suo Giuseppe, che ci aiuti Lei a saperci mostrare senza rossore innamorati di suo Figlio (Lc 9, 26; Rm 1,16; 2Tm 1,8), testimoni del suo Vangelo, figli di Dio ripieni della sua luce e della sua grazia.

Amen.     

j.m.j.

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Quinta Domenica del Tempo di Quaresima – Anno “A”                   Omelia

“Colui che Tu ami è malato!”

Carissimi fratelli e sorelle,

quest’anno nel nostro cammino incontro alla Pasqua la Chiesa ci sta immergendo ogni domenica nell’oceano di quella spiritualità intensa e profonda che è il Vangelo di Giovanni, scritto non per far conoscere Gesù (come gli altri tre Vangeli), ma perché chi ha già conosciuto Gesù, chi già crede in Gesù, chi già segue Gesù, possa introdursi in un rapporto più profondo d’intimità d’amore con Gesù. E chi meglio di Giovanni può cercare di far questo, lui che nella notte dell’amore posò il suo capo sul petto di Gesù (cf Gv 13,25)?

Ebbene, tuffiamoci dunque in questo oceano d’amore, immergiamoci in questo Vangelo, spinti anche da Ezechiele e Paolo che con i loro scritti fanno un po’ da cornice alla nostra immersione, ricordandoci come abbiamo ricevuto nell’intimo di noi stessi la vitalità e la potenza di un amore più forte di ogni morte, che ci impone una vita nuova.

Possiamo dividere il nostro Vangelo per scene.

1) La prima scena: Protagonisti sono Gesù, gli Apostoli e le sorelle di Lazzaro che Lo mandano a cercare perché salvi il loro fratello malatoFermiamoci qualche istante a contemplare questa scena entrando dentro il Mistero che essa racchiude e che coinvolge anche ciascuno di noi che vive nell’oggi della Chiesa. Entriamo dentro il Mistero…

Cogliamo innanzi tutto il messaggio sottile che Giovanni fa trasparire nel suo accennare all’unzione di Betania, Maria, egli precisa, è quella donna che unse i piedi di Gesù di nardo profumato, ma di questa unzione Giovanni parlerà solo più avanti nel suo Vangelo, qui siamo nel capitolo 11, l’unzione invece è descritta nel capitolo 12. Perché Giovanni ne parla come se fosse già avvenuta? L’intenzione è manifestatamente teologica: il profumo è il profumo dell’amore, della fede in Cristo, questo profumo servirà da contrasto con il fetore della morte di cui Giovanni parlerà nell’altra scena di fronte al sepolcro sigillato del corpo ormai corrotto e putrido di Lazzaro che emanava il fetore della morte.

L’uomo si domanda se è più forte la morte o l’amore, se il fetore della morte copre il profumo del nardo! 

“Colui che tu ami è ammalato”: abbiamo letto “il tuo amico” in realtà la traduzione più esatta del termine usato da Giovanni è “colui che tu ami”. L’“amicizia” di Gesù verso questa famiglia ce Lo fa sentire così vicino…, quanta confidenza traspare dal racconto…, è un Gesù così umano…, così pienamente umano che saprà pure piangere per il suo amico, il suo amico! Eppure è anche un Gesù così divinamente potente e forte da risuscitare un morto di quattro giorni!

Questo brano mi fa pensare all’importanza per il prete, soprattutto quando è anche parroco, di coltivare amicizie simili a queste che aveva Gesù e, anche, all’importanza per la famiglia di avere per amico un prete! Quanto aiuto reciproco possono trovare in quest’amicizia. Quanto sono poco sensati coloro che pensano che il prete debba sposarsi per poter capire meglio i travagli delle famiglie, niente di più falso!

Il prete che ha scelto di non chiudere le sue braccia su nessuna persona per poterle abbracciare tutte, senza distinzione, quanto viene aiutato e sostenuto in questa sua volontaria solitudine, dal coltivare l’amicizia fraterna con gli sposi. E d’altra parte quanto aiuto e sostegno possono trovare gli sposi, nell’amicizia con un prete che li aiuta ad affrontare le prove, i contrasti, i problemi con i figli, i dolori inevitabili della vita con un amore più grande!

Ma le modalità con le quali l’“Amico Gesù” si comporta non corrispondono alle nostre attese e ai nostri schemi! Infatti, quando Gesù viene a sapere che l’amico Lazzaro è ammalato, si trattiene volutamente due giorni! Questo particolare incomprensibile provoca una domanda che spesso sgorga nel nostro cuore: "Perché, Signore, non intervieni, perché sembri non dare ascolto alle nostre richieste?” Il Vangelo di Giovanni qui ci ricorda che le nostre vie non sono le vie del Signore e che i suoi pensieri sono assai più alti dei nostri (cf Is 55,8). Non sempre il suo agire è a noi comprensibile, ma nella fede possiamo e dobbiamo giungere a riconoscere che tutto questo è salvezza e bene per noi!

Nel contesto di questa prima scena c’è anche il gruppo degli Apostoli, ormai l’intenzione dei giudei di uccidere Gesù è manifesta, quindi loro hanno paura e non vorrebbero perciò andare a Betania, dove avrebbero rischiato di essere uccisi insieme al loro Maestro. Qui spicca un personaggio che ci è tanto caro, colui che farà la più alta affermazione di fede nel Signore Gesù riconoscendo in Lui il Cristo Uomo-Dio: è Tommaso, colui che vincerà la propria incredulità mettendo la sua mano nel costato di Gesù: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28)Sarà lui ora a trascinare il gruppo dei timidi e paurosi apostoli con il suo: “Andiamo a morire con Lui!”. La sua non è ancora una affermazione di autentica fede, è lo slancio affettivo verso l’Amico e Maestro Gesù a cui Tommaso voleva molto bene. Non capisce perché il suo Maestro voglia andare a tutti i costi a Betania, d’altra parte era stato testimone di altri miracoli di Gesù in cui aveva guarito a distanza: “Perché non guariva da lì il suo amico?”

Tommaso non capiva, ma amava, facciamo nostra la sua risposta a Gesù che va deciso verso la morte: “Andiamo a morire con Lui!”.

“Andiamo a morire con lui!”: ripetiamo questa frase così bella, così forte, così esaltante quando, di fronte alla via esigente che ci propone Gesù, si prospettano altre vie più facili, più belle e attraenti che ci vorrebbero sedurre: no! noi non le prenderemo perché vogliamo andare dietro a Gesù, vogliamo andare a morire con Lui!.

2) La seconda scena: Protagonisti sono Gesù e Marta che gli va incontro e poi va a chiamare sua sorella Maria.

Il dialogo tra Marta e Gesù è uno dei vertici del Nuovo Testamento e rappresenta la fede della Chiesa nella Pasqua di Cristo. “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!” “Tuo fratello risusciterà” “So che risusciterà nell'ultimo giorno” “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?". "Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio…".

La Chiesa non si limita ad una vaga speranza, ma confessa la sua ferma fede nella resurrezione. Marta che rappresenta in questo momento la fede della Chiesa s’incarica di andare a chiamare Maria: ogni persona che ha incontrato la vita, diventa testimone per l’altro di questo incontro, diventa tramite della vocazione di Dio alla fede in Lui. Dal dialogo con Marta non emerge che Gesù abbia chiesto a costei di chiamarGli la sorella, questo particolare manifesta la grande e affettuosa amicizia che avevano con Gesù. Infatti, anche se Gesù non le avesse chiesto di Maria, Marta sapeva bene che Egli era desideroso di incontrarla, proprio perché erano tra loro amici e si volevano tutti molto bene reciprocamente.

3) La terza scena: Protagonisti sono Gesù e Maria. Lo scomposto pianto di Maria e e quello sommesso di Gesù.

Betania significa “la casa del pianto”, l’incontro con Marta si verificò fuori del villaggio, nel quale Gesù non entrerà. Sembrerebbe strano che Gesù abbia fatto un viaggio così lungo per poi arrestarsi agli ultimi cento metri; ma il significato è chiaro: in quel villaggio, in quella casa si continua a pensare alla morte come ad una realtà definitiva che sconfigge ogni progetto di vita. Gesù non può condividere questo atteggiamento, perché egli è testimone di un Dio che dà la vita ai morti. Per Gesù la morte non è l’ultima parola sull’uomo, perché l’ultima parola è solo l’amore potente di Dio. Ecco perché non entra nella casa del lutto.. 

Maria stava seduta in casa, circondata dal cordoglio dei conoscenti e amici, il suo atteggiamento esterno è chiaro indice del suo atteggiamento interiore, per lei la morte è tutto e l’unica solidarietà possibile è il cordoglio: soffrire insieme.     Ma questo non è vero; se Maria uscirà da quella casa ed entrerà nell’ottica della fede, capirà che c’è anche un’altra solidarietà nel dolore: lo sperare insieme!

Il pianto di Maria e dei Giudei che erano con lei è un pianto scomposto, il pianto disperato dell’uomo che non crede e che vede solo il volto mostruoso della morte, in greco: klaio = strepito, pianto a dirotto. Anche Gesù condivide il nostro dolore di fronte alla morte, perché anch’egli è solidale con gli uomini nel dolore. Ma il suo dolore, pur essendo profondissimo – Giovanni per due volte insiste sul turbamento profondo di Gesù, sul suo sconvolgimento interiore – è un dolore non disperato, una sofferenza colma di fiducia. Ciò viene segnalato dal verbo usato per il pianto di Gesù: dakryo . Questo verbo indica versare lacrime, ma in modo composto e silenzioso. Paolo scriverà che noi siamo sconvolti, ma non disperati, provati, ma non distrutti (cfr 2 Cor  4,7ss)

4) La quarta scena: al sepolcro, il dialogo con Marta e la potenza divina di Gesù: “Togliete la pietra!” “Signore, già manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni”    "Non ti ho detto che se credi vedrai la gloria di Dio?" 

Sarebbe banale ritenere che quest’ultima frase si esaurisca soltanto nella promessa del miracolo; quel miracolo non è fine a se stesso, ma è un segno, un rimando ad un agire di Dio più grande e diverso. Anche per noi oggi la frase di Gesù a Marta rimane valida; se di fronte alla morte di una persona cara rimaniamo nella fede vera, Dio ci rivelerà la sua gloria. Questo dandoci una certezza intima della resurrezione nostra e della persona cara e soprattutto garantendoci il suo aiuto, la sua forza, la sua consolazione per affrontare le giornate che seguono il lutto.

Prima di impartire l’ordine di vivere al morto, Gesù fa una preghiera bellissima al Padre. In questa preghiera di ringraziamento e di lode Gesù mostra come Lui è sempre in questo atteggiamento di rendimento di grazie, è Eucaristia eterna a Dio Padre! Nel loro dialogo eterno, il Padre comunica al Figlio tutto, compreso il potere di dare la vita!

“Lazzaro vieni fuori!” La voce potente che si eleva dalla tomba di Lazzaro è figura della voce di Dio quando alla fine dei tempi richiamerà tutti i morti alla vita. 

“Scioglietelo e lasciatelo andare” Lazzaro che esce dalla tomba ancora bendato e coperto dal sudario viene consegnato agli uomini con l’ordine di scioglierlo dalle bende. È l’invito che Gesù ci fa a collaborare alla sua opera di liberazione dell’uomo, a porre anche noi gesti che diano vita e libertà, e non morte e schiavitù: “Scioglietelo e lasciatelo andare”; più espressamente in greco si dice: “scioglietelo e permettete che cammini da solo” È questa la prassi di una vera comunità cristiana che crede nella resurrezione: aiutare gli uomini a vivere nella volontà di Dio (in ebraico il ‘camminare’ è metafora della vita morale, del cammino spirituale).

Concludiamo questa nostra immersione nel Mistero con un profondo senso di commozione, di ringraziamento e di affetto verso Gesù, nostro intimo e fedele Amico che ci ama e ci invita ad uscir fuori dalle nostre Betanie senza speranza per aprirci ad una fede più profonda, che ci comanda di uscir fuori dai nostri sepolcri per camminare come uomini liberi dietro a Lui (cf Ap 14,4), dietro a Lui che va alla morte per noi: “Andiamo – dunque anche noi – Andiamo a morire con Lui!”. 

La Vergine Maria ci accompagni e ci aiuti a stare vicino al suo Figlio mentre si avvia alla morte per ciascuno di noi.

Amen.                                                                 j.m.j.

 

DOMENICA DELLE PALME PRIMO SCHEMA

Domenica delle Palme                         Omelia

 

“Ma che male ha fatto?”

Carissimi fratelli e sorelle,

andiamo incontro a Gesù che oggi entra a Gerusalemme. Le nostre voci si uniscano agli “Osanna” che oggi risuonano attorno a Lui, stendiamo davanti a Lui non più delle palme e dei ramoscelli d’olivo, ma stendiamo i nostri cuori a mo’ di mantello, le nostre anime come dei tappeti sui quali Egli possa passare ricevendo amore, riconoscenza e lode perché Egli va alla morte per noi!

Forse fino ad oggi non abbiamo conosciuto così Gesù. Forse fino ad oggi per noi Gesù, sì è Dio, il Salvatore degli uomini, il Redentore dell’umanità, il Figlio ecc., ma forse ancora Gesù non è Colui “che mi ha amato e ha dato se stesso per me!” (Gal 2,20). 

Di fronte a tutta quella feroce sequenza di maltrattamenti, vilipendi, torture e incredibili sofferenze, anche noi oggi gridiamo: “Ma che male ha fatto?… Perché questa condanna atroce?” La folla sobillata “dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo” non volle rispondere a questa domanda, la evase gridando: “Sia crocifisso!” e impose così al Figlio di Dio, “il più bello e il più buono tra i figli degli uomini” (Sal 45,3) la condanna dei mascalzoni più efferati, ma Lui “che male ha fatto” per meritarsi questo?

Il nostro Padre buono del Cielo elevi e attiri le nostre anime verso il suo Figlio Primogenito (Cf Eb 1,6; Rm 8,29; Col 1,18; Ap 1,5), apra le nostre menti alla comprensione, infiammi i nostri cuori all’amore e ci dia la grazia e la gioia di capire come Gesù non aveva proprio fatto nulla di male, anzi “passò la vita sanando e beneficando tutti coloro che erano prigionieri del male (At 10,38). Non aveva fatto nulla di male, eppure subisce la croce! Perché?

Finché le nostre labbra non grideranno anch’esse questo perché…, finché la morte dell’Innocente non ci sconvolgerà il cuore fino a farlo fremere e piangere di compassione…, finché la nostra anima non si interrogherà profondamente sul perché di questa sofferenza verso la quale Lui, il nostro Signore e Dio (cf Gv 20,28), è andato incontro volutamente, con ferma decisione (cf Lc 9,51), con ardente desiderio (cf Lc 22,15), abbracciando intenzionalmente tutto quanto ogni persona al mondo ripudia, rifugge e mai si augura di dover subire…, fino a quando la Sua sofferenza immane e gratuita non ci sconvolgerà intimamente, non potremo comprendere la risposta del Padre a questa inquietante domanda: “Ma che male ha fatto?… Perché questa condanna atroce?”

La risposta è stupenda…, incredibile…, meravigliosa…, troppo bella…, la risposta è: “È morto per amore! (cf Gv 10,14-15) Nessuno poteva toglierGli la vita (cf Gv 10,18), Lui stesso era la Vita (cf Gv 1,4; 14,6). Solo l’amore può far morire Dio! Appunto perché non poteva morire in quanto era ed è l’Eterno Dio (cf Gv 1,1), si spogliò della propria immortalità per assumere la nostra mortalità e poter così morire per noi (cf Fil 2,6-7), …per me! E tutto questo per amore e solo per amore, non aveva altri motivi e non poteva averne altri perché “Dio è Amore!” (1Gv 4,8.16).

Vedete – carissimi fratelli e sorelle – la nostra esistenza di cristiani comincia a cambiare e a trasformarsi solo quando incominciamo a leggere “amore” dentro il mistero della Passione di Gesù, un amore personale, fattivo e concreto che ci supera, ci interpella e ci trascina perché “Gesù patì per noilasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme” (1Pt 2,21).

Sì, seguire le orme di Gesù, cioè imparare ad amare come Lui e a scoprire l’amore nella sua sorgente nascosta e invisibile agli occhi e al cuore di chi ancora non ha conosciuto Lui” (1Gv 3,1; cf 1Cor 1,21) e quindi non sa che dentro la croce c’è nascosto “AMORE!”

La Vergine Santa, nostra Madre e Maestra di vita spirituale, che in questi giorni contempliamo “Addolorata” mentre accompagna il suo Divin Figlio lungo il Calvario e mentre Lo guarda morire d’amore per noi, ci aiuti a capire come dietro ogni croce della nostra vita…, dietro ogni sofferenza del corpo…, dietro ogni afflizione dell’anima…, dietro ogni travaglio e vicissitudine dolorosa della nostra esistenza si nasconde, per ciascuno di noi, la possibilità di realizzare quello stesso “AMORE” che Gesù Crocifisso ci ha rivelato e che ci permette di trasformare in “amore che si dona e si consegna” TUTTO, anche la morte, perché se avremo saputo amare come Lui e in Lui così, “saremo sempre con Lui” (1Ts 4,17), niente ci potrà mai separare da Lui (cf Rm 8,35) che ha vinto la morte per noi perché vivessimo sempre con Lui, oggi nella fede e nell’intimità della vita della grazia (cf Rm 8,10), domani nella visione e nella gloria della vita eterna(cf Gv 14,)!

Amen.                    j.m.j

 

 

DOMENICA DELLE PALME SECONDO SCHEMA

Domenica delle Palme – Anno B                                                              Omelia

“E molti stendevano i loro mantelli sulla strada…”

 

Carissimi fratelli e sorelle,

entrando nella Settimana Santa, giorni santi della rivelazione dell’Amore più grande, in questo Anno Liturgico ‘B’ dedicato alla lettura di Marco, non possiamo non enfatizzare il grido del Centurione romano ai piedi della Croce di Gesù: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39). Il Messia atteso e sperato non è il glorioso, potente e invincibile liberatore politico, ma un povero uomo sconfitto e fallito, appeso con tre chiodi ad una croce, come uno dei tanti crocifissi della storia dell’umanità, crocifissi dalla prepotenza e dalla cattiveria, crocifissi dalla sciagura, crocifissi dalla malattia, crocifissi dalla miseria, crocifissi dalla solitudine, crocifissi dall’amarezza!

Ironia della sorte: chi attendevano gli ebrei se non Uno che li liberasse per sempre dalle proprie croci? E invece Lui, il Messia, si fa mettere in croce! “Costui è veramente Figlio di Dio!”ma non perché è sceso dalla croce e ci ha liberato la vita da questo odioso strumento di morte, no! Costui è veramente Figlio di Dio!”, perché ci ha insegnato con la sua morte a morire, assumendo la nostra morte e donandoci la sua vita, così facendo dimostra di essere Figlio di Dio”, solo Dio infatti poteva insegnarci a dare un significato, un valore, una dignità, una preziosità a ciò che tutta l’umanità ha sempre vissuto come un “non senso”, come qualcosa da cui fuggire il più lontano possibile, come l’espressione più chiara della nostra impotenza e fragilità umana: la morte!

Cosa vide il Centurione che lo convinse che Egli era il “Figlio di Dio”? Quando Gesù spirò, racconta Marco, il velo del Tempio si squarciò in due, ma questo il Centurione non lo poté vedere, era infatti ben lontano dal Tempio il Calvario! Eppure Marco fa precedere l’affermazione del Centurione immediatamente dal fatto del velo squarciato.

Chiediamo allo Spirito Santo che ci introduca nella comprensione di questo mistero: è il mistero della morte di Gesù, cioè è il mistero della nostra vita!

Il “velo del Tempio” era una tenda divisoria che permetteva l’accesso al luogo più santo del Tempio, luogo della presenza di Dio, chiamato appunto “Santo dei Santi”, una stanzetta vuota e buia. Stanzetta vuota in cui una volta veniva conservata l’arca dell’alleanza con le tavole della testimonianza (cfr. Es 25,16), dopo la distruzione del Tempio e l’esilio l’arca andò perduta, per questo la stanza era dunque vuota. Il Sommo Sacerdote accedeva a questa stanza piccola, buia e vuota, attraverso quel velo solo una volta l’anno nel Giorno dell’Espiazione con il sangue dell’agnello immolato per i peccati del popolo, così leggiamo in Lv 16,15: Aronne poi immolerà il capro del sacrificio espiatorio, quello per il popolo, e ne porterà il sangue oltre il velo”. Quando Gesù emette il suo grido di morte, il velo del tempio si squarciò, ci fa notare Marco. Ora quel velo che impediva l’accesso alla parte più sacra del Tempio, viene squarciato, cioè non c’è più nessun ostacolo, nessuna barriera all’incontro con Dio: tutti, ora, potranno accedere al “Santo dei Santi”! “Cristo… non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario [del cielo], procurandoci così una redenzione eterna” (Eb 9,12).

Il Centurione fu quindi testimone dell’attimo più importante della storia dell’umanità: con il suo grido di morte Gesù entra per sempre nel Santuario del Cielo e apre a tutti la strada dell’incontro con il Padre.

Cerchiamo di entrare dentro a quel grido di morte di Gesù che impressionò così tanto il Centurione. Esso rappresenta la consegna della sua vita, il dono della sua vita e Lui era la VITA (cfr. Gv 14,6). Chi poteva mai togliere la vita alla VITA? Chi poteva mai uccidere l’Autore stesso della vita? Vedete il grido di morte di Gesù non è espressione dello strazio di un torturato che si vede sfuggire l’esistenza e avanzare la morte, NO!

C’è un altro particolare importante della morte di Gesù che ci racconta Giovanni, e questo particolare è che dato che i romani dovevano sbrigarsi perché si avvicinava il sabato e si doveva finire tutto prima del tramonto di quel venerdì, i soldati andarono per accelerare la morte dei tre condannati e spezzarono le gambe agli altri due, ma a Gesù no, perché era già morto e così Gli aprirono il cuore con una lancia (cfr. Gv 19,32-34). E Marco stesso ci dice che “Pilato si meravigliò che [Gesù] fosse già morto” (Mc 15,44). Pilato si meravigliò perché non era normale che un condannato morisse così presto, normalmente l’agonia del crocifisso era molto, molto lunga, ma quella di Gesù fu brevissima, perché Lui stesso consegnò la sua vita alla morte, questo era l’unico modo che la Vita potesse morire: consegnando Se Stessa alla morte!

Quel grido colpì il Centurione che pure era certamente avvezzo a gridi di morte, perché non era il grido di morte di un uomo che subisce la morte e viene ucciso, no! Era il grido di un Uomo, il primo, che donava la vita, non subiva la morte, ma donava la vita, Lui era la VITA (cfr. Gv 14,6) non poteva “subire” la morte, l’unico modo che la morte Lo potesse avvincere era quello di consegnarsi Lui stesso alla morte, donando la vita, Lui stesso aveva detto: “Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo” (Gv 10,18).

Ecco, allora, carissimi fratelli e sorelle, entrando in profondità a questo mistero della morte di Gesù, scopriamo come esso sia un mistero di Vita donata. Vedete, Lui non poteva morire perché Dio non può morire e allora si è fatto uomo, ma si è fatto uomo non per “subire” la morte, ma per “assumere” la morte con un amore più forte della morte stessa. Dio non può mai subire la morte, Dio è la “VITA”! Il Figlio di Dio si è fatto uomo per consegnare la sua vita e quindi distruggere per sempre la morte morendo, non subisce la morte, ma consegna la sua vita e così distrugge il potere della morte morendo d’amore per noi. Che mistero!

Carissimi fratelli e sorelle, forse qualcosa si è acceso nel nostro cuore e incominciamo a capire quello che il mondo non capisce né può capire (cfr. Gv 17,25) e cioè che tutto quello che noi povere persone umane “SUBIAMO” e che rappresentano le varie anticamere della morte: solitudini, malattie, dolori, disgrazie, il Figlio di Dio ci ha insegnato non a “SUBIRLE”, bensì ad assumerle con un amore più grande e più forte di esse, come Lui ha assunto la nostra natura umana per poter offrire, donare, consegnare la sua vita, così anche noi possiamo morire come Lui non subendo più nessuna morte, ma donando la vita per amore, consegnando la nostra vita al Padre come Lui la consegnò sulla croce: “Padre, tutto è compiuto” (Gv 19,31)… “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46).

Ecco il segreto del cristiano chiamato a morire con Gesù nel battesimo per vivere con Lui: non fuggire più le realtà di morte della propria esistenza, ma assumerle in profondità con un amore forte e potente per consegnarle al Padre, è così che si dona la vita, assumendo la morte!

Ma come assumere tutte le realtà di morte della nostra vita? Come assumere e accettare tutti quei chiodi che l’esistenza terrena ci riserva? Come assumere quel fiele amaro (cfr. Mt 27,34) che talvolta bagna le nostre labbra? Come trasformare le nostre situazioni di morte, di impotenza, di solitudine, di fallimento, di incapacità, di dolore, di avvilimento in vita donata? Come rimanere inchiodati alla croce quando quei chiodi sono così dolorosi e quando è così semplice e facile scendervi?

Carissimi fratelli e sorelle questa non è opera nostra, noi non ne siamo capaci, ma è opera dell’Amore, ma di quello con la ‘A’ maiuscola. Infatti, non sono stati i tre chiodi, ma l’AMORE ciò che ha tenuto Gesù attaccato alla croce. È stato per AMORE che Lui ha donato la vita e quest’Amore con cui Egli ci ha amati così, non se l’è tenuto per Sé, ma morendo ce lo ha donato con la sua stessa vita e noi l’abbiamo ricevuto, l’abbiamo ricevuto tutti perché “l’Amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci ha donato (Rm 5,5).

Carissimi fratelli e sorelle, ecco, che cosa grande! Gesù ci ha donato il suo Amore perché ciascuno di noi possa assumere tutte le realtà di morte che subisce nella propria vita per trasformarle in vita donata e offerta al Padre per amore e nell’Amore.

La Vergine Maria che insieme a questa Potenza Divina d’Amore ci è stata consegnata come Madre da Gesù svenato d’amore, ci aiuti e ci insegni a vivere il divino comando di amare come Lui ci ha amato (cf Gv 13,34).

Amen.                       j.m.j.              

DOMENICA DELLE PALME – TERZO SCHEMA                                                                                                                                                  

Domenica delle Palme – Anno C                        Omelia

«HO DESIDERATO ARDENTEMENTE DI MANGIARE QUESTA PASQUA CON VOI!»

 

Carissimi fratelli e sorelle,

abbiamo finito di commemorare l’entrata di Gesù a Gerusalemme accolto trionfalmente come il Messia: davanti a Lui stendevano i mantelli e agitavano le palme. Noi abbiamo voluto imitare le folle di Gerusalemme, ma non tanto con dei gesti esteriori, quanto con atteggiamenti profondi del nostro cuore e della nostra anima che desiderano accogliere il Signore Gesù con l’entusiasmo e la serietà del nostro amore, per questo abbiamo steso non già dei mantelli davanti a Lui, ma le nostre anime, abbiamo agitato in alto non delle palme o dei rami d’ulivo, ma i nostri cuori esultanti di gioia perché Lui entra a Gerusalemme per dare la Sua vita per ciascuno di noi.

Abbiamo accompagnato Gesù lungo tutto il suo viaggio verso Gerusalemme che abbiamo iniziato il mercoledì delle ceneri e aiutati dall’evangelista Luca, siamo stati vicini a Gesù, siamo stati con Lui mentre a “muso duro si dirigeva verso Gerusalemme” (Lc 9,51) attirati dalla forza del suo sguardo, dalla pregnanza delle sue parole, dalla bellezza del suo Vangelo, dal fascino della sua Persona Divina. Gesù ci ha portati con sé nel deserto per farci gustare il sapore della vittoria sul nostro nemico (cf Lc 4,1ss), Egli ci ha portato in alto, sul Tabor (cf Lc 9,28ss), dove ci ha fatto assaggiare un pezzetto di quella gloria che attende chi vuole condividere fino in fondo la sua sorte; ci ha fatto gustare il sapore dolcissimo delle lacrime del Padre che hanno bagnato le nostre guance ogni volta che siamo rientrati in noi stessi e abbiamo ripreso quella strada che ci portava alla sua Casa (cf Lc 15,11ss); ci ha guardato con amore tenerissimo in quella donna che Lui non condannò e alla quale, invitandola a non peccare più, ridiede dignità e la possibilità di una vita nuova da redenta (cf Gv 8,1ss).

Ora il viaggio sta per concludersi e Gesù manifesta ai suoi amici quanto Lui fosse emotivamente coinvolto in questo suo viaggio verso Gerusalemme«Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi!» (Vangelo). Luca ci introduce così nel mistero del Cuore di Gesù, che è un mistero di un Cuore che scoppia letteralmente d’amore per l’umanità per la quale ha dimenticato di essere Dio per poter fare quell’unica cosa che da Dio non poteva fare per noi: morire! Non poteva morire perché Dio non può morire e allora ha voluto assumere una natura umana per poter fare quello che in quanto Dio non poteva fare e così ha voluto morire per noi e morendo nella sua natura umana assunta ci ha regalato la sua vita divina. Se ci avesse semplicemente regalato la sua vita divina senza morire, mai avremmo capito l’immensità del suo amore e mai avremmo capito la gravità del nostro peccato. 

Tutta la vita di Gesù, sin dal suo concepimento verginale è tesa verso il compimento di questa Pasqua, sin da quando le tenere mani di sua Mamma Lo adagiarono su quella “mangiatoia perché non c’era posto per loro altrove (Lc 2,7), Lui il “Pane vivo disceso dal cielo” (Gv 6,51) per nutrire le nostre anime del suo Corpo Immolato, del suo Sangue versato. Sin da quando cresceva ubbidiente a Nazareth…, sin da quando lavorava umilmente nella bottega di Giuseppe…, sin da quando si presentò a Giovanni per essere battezzato…, quando stette quaranta giorni nel deserto…, quando predicava il suo Vangelo lungo le strade della Palestina…, quando ammaestrava le genti nel Tempio di Gerusalemme…, cosa porta nel suo Cuore il Signore Gesù? Quello che porta nel suo Cuore ce lo ha appena rivelato Luca: un ardente desiderio di fare questa Pasqua con me!

Carissimi fratelli e sorelle, che bello sarebbe se ciascuno di noi in questa Settimana Santa si fermasse in silenzio a riflettere su questa frase di Gesù: "Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con te!". Gesù che mi rivela il suo profondo desiderio di far Pasqua con me! Come può lasciarmi indifferente?

Pensiamo un attimino a quali sono i desideri più profondi del nostro cuore in questo momento, quali sono le speranze che coltivo nell’intimo… suddividiamo la nostra vita nei vari periodi che l’hanno caratterizzata…, ripercorriamola con una visione d’insieme: quand’eravamo bambini…, ragazzi…, adolescenti…, quando eravamo fidanzati…, quando ci siamo sposati…, quando attendevamo il primo figlio… Ecco, cerchiamo di ricordare quali fossero i nostri desideri più profondi che coltivavamo e coltiviamo nel nostro intimo… E ora mettiamo tutti questi nostri desideri e speranze, che sembravano e sembrano dare un senso alla nostra vita, di fronte a questa frase di Gesù: "Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con te!"

Fratelli e sorelle, di fronte a questo desiderio così ardente di Gesù di far Pasqua con me, non ci si stringe il cuore? non ci sentiamo così tanto ingrati? i nostri desideri che sembrano essere così importanti e necessari non vengono ridimensionati e smontati?

"Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con te!". Sì, con te! Gesù vuol far Pasqua con me! “Questo è il mio Corpo offerto per te… Questo è il mio Sangue versato per te! Lo offro per te… lo verso per te…Faccio tutto questo per te!”

Di fronte a questa immensità d’amore che celebriamo e riviviamo nella Passione di Gesù, in cui Egli si lascia svenare d’amore per noi, non possiamo non interrogarci profondamente sull’inconsistenza, sulla superficialità, sulla povertà del nostro amore per Lui.

E allora di fronte a questo desiderio ardente di Gesù di far Pasqua con me, chiediamoci nello Spirito: “Ma quando…, ma quando anch’io desidererò far Pasqua con Te, Gesù? Quando il pensiero di far Pasqua con Te,  Gesù, sarà il mio desiderio fondamentale sul quale poi si inseriranno tutti gli altri?Far Pasqua con Te, Gesù… quando diventerà il mio chiodo fisso… quando diventerà il sospiro della mia anima?… Quando diventerà l’unico senso della mia vita capace di dare un senso a tutto il resto?”.

Sì perché se non desidero profondamente di far Pasqua con Gesù, che senso hanno tutti gli altri desideri che mi muovono e che mi hanno mosso nella vita a fare, ad agire, a trafficare, a spendermi? Tutto passa, tutto passa (cf 1Gv 2,17): che senso ha rincorrere il vento e desiderare di acchiapparlo (cf Qo 1,14)?

Far Pasqua con Gesù…, ma che significa mangiare questa Pasqua con Gesù? far Pasqua con Gesù!

Significa seguire Gesù lungo la sua Passione d’amore, non come uno spettatore disinvolto e disinteressato, ma come una persona che sa che tutto quel soffrire e patire, tutto quel mare di umiliazioni e di dolore, Gesù lo ha voluto subire per me. , per me si è fatto mettere le mani addosso…, per me si è fatto condannare innocente…, per me si è fatto schiaffeggiare e prendere per un povero folle…, per me si è lasciato sputacchiare e deridere…, per me ha voluto subire oltraggi e torture…, per me si è lasciato flagellare e incoronare di spine…, per me ha voluto portare la croce…, per me è caduto ripetutamente lungo il Calvario oppresso dal peso dei miei peccati…, per me ha voluto subire l’umiliazione di essere denudato davanti a tutti…, per me ha steso le sue mani e i suoi  piedi ai chiodi…, per me è morto nell’abbandono più totale sulla croce invocando il perdono ai suoi crocifissori e promettendo il paradiso al buon ladrone.

Ecco – carissimi fratelli e sorelle – sapete cosa significa far Pasqua con Gesù? Significa immergerci nell’Oceano di Amore che il Padre ci riversa donandoci il suo Figlio in croce (cf Rm 5,5-6) nello stupore di un Amore che ci supera e ci trascende e ci interpella con forza, perché amore non può non chiamare che amore, l’amore non può cercare che amore, l’amore non ha riposo se non nell’amore e l’Amore di Dio non è amato! E quindi Dio in Gesù ci mostra tutta la sua sete di essere riconosciuto, creduto e amato.

Essere o meno cristiani non è un fatto di buona educazione e di osservanza di regole di galateo o di norme morali che regolano l’agire: non sono cristiano solo perché non rubo, non ammazzo, mi faccio i fatti miei e domenica vado a Messa. No, non sono cristiano solo perché faccio delle cose, anche se belle, buone e sante. Sono cristiano, sono cristiana nella misura in cui ho “riconosciuto e creduto all’amore di Dio per me (cf 1Gv 4,16) manifestato da Gesù che muore svenato d’amore per me, una morte che m’impone necessariamente una triplice domanda, la cui risposta potrebbe dare un nuovo e più vero senso a tutta la mia storia:

“Tu, Signore Gesù, sei morto in croce per me… e io… e io cos’ho fatto per Te?”

“Tu, Signore Gesù, sei morto in croce per me… e io… e io cosa faccio per Te?”

“Tu, Signore Gesù, sei morto in croce per me… e io… e io cosa farò per Te?”

E allora, carissimi fratelli e sorelle, lasciamoci risuonare nelle orecchie in questi giorni queste tre domande, ci accompagnino lungo la Settimana Santa e chiediamo alla Vergine Maria, che riceve nelle sue mani immacolate il Corpo morto di suo Figlio, morto per me…, chiediamo a Lei che ci aiuti a dare una risposta a queste domande, una risposta vera che cambi in novità di vita tutta la mia storia e dia a Gesù la gioia di fare – finalmente! – Pasqua con me!    Amen.                                                                                             j.m.j.

 

Prima Domenica del Tempo di Quaresima – Anno “B”                                                 Omelia

“LO SPIRITO SOSPINSE GESÙ NEL DESERTO”

Carissimi fratelli e sorelle,

mercoledì abbiamo ricevuto l’austero simbolo delle ceneri che ci ha introdotto nel serioso tempo della Quaresima. Tempo che stride molto, contrasta con quanto siamo immersi nel mondo, in questo mondo che ci invita sempre più e sempre più suadentemente verso la spensieratezza e l’irriflessione. Oggi entriamo con Gesù nella prima grande tappa di questo cammino annuale che la Chiesa tutta vive in preparazione della Pasqua.

Due sono le caratteristiche di questo cammino: la dimensione battesimale e quella penitenziale.

La Quaresima che nasce proprio nella storia come tempo di preparazione al Battesimo, per noi già battezzati diventa luogo di riscoperta di ciò che già siamo, e cioè battezzati, figli di Dio, fratelli di Gesù Cristo, membri vivi del Suo Corpo che è la Chiesa, eredi del Paradiso.

Essere battezzati significa essere stati inseriti nel mistero della Persona divina di Gesù Cristo, Figlio di Dio, nel mistero della sua vita, della sua sofferenza, della sua morte e della sua risurrezione.

Tutto questo veniva magnificamente significato un tempo con alcuni gesti simbolici a cui si sottoponeva il battezzando: la spogliazione dei propri vestiti e l’immersione e l’emersione dall’acqua del fonte battesimale e il rivestirsi della tunica bianca all’uscita da esso.

Spogliazione e immersione sono gesti ricchi di significato penitenziale: non è senza sforzo che ci si spoglia di ciò che si è per rivestirsi di Gesù Cristo, non è senza dolore che ci si immerge, cioè si muore a noi stessi perché viva in noi il Vivente.

La penitenza è un fattore intrinseco della vita cristiana tutta e non solo del periodo quaresimale. Il cristiano se vuole essere tale e non rinunciare a ciò che egli è, deve vivere sempre la penitenza e la mortificazione. Ma nella Quaresima, la Chiesa che da Madre buona ci sprona alla santità, ci richiama con più forza alla penitenza per aiutarci a celebrare con maggiore verità e gioia le festività pasquali, le quali, senza una nostra reale partecipazione alla morte di Gesù, non possono portare in noi nessuna novità di vita nuova, giacché non risorge in Cristo se non chi non muore in Cristo.

Bisogna però stare attenti a non dare alla mortificazione e alla penitenza un valore in sé, cioè un valore staccato dallo spogliarsi per rivestirsi, dal morire per risorgere. La penitenza e la mortificazione per se stesse sono avvilenti, deprimenti e intristiscono l’esistenza. Un cristianesimo improntato ad esse in senso unico è opprimente. La penitenza e la mortificazione devono nascere nel nostro cuore come un’esigenza di bellezza, di autenticità e di amore. Finché non coglieremo la penitenza e la mortificazione come esigenza di bellezza, di autenticità e d’amore siamo un po’ come quei bambini che, ricordo, un martedì grasso nella nostra parrocchia avevano festeggiato il carnevale, ed era stata una bellissima festa con tanta gioia e allegria, ma quando venne l’ora di finire e la catechista cercava di ricordare ai bambini che l’indomani iniziava della Quaresima, tutti sparirono!

Non è vero – forse – che siamo un po’ tutti come quei bambini? Il Signore deve fare con noi un po’ come fece con il suo popolo: costringerlo alla penitenza del viaggio nel deserto per portarlo a libertà. Ma esso sempre – in mezzo alle privazioni e alle prove del deserto – non faceva altro che sognare le belle pentole con la carne, le buone cipolle e i porri che mangiavano seduti al fresco delle loro comode abitazioni egiziane (cfr. Nm 11,5).

Ma cosa può far sì che anche quei bambini un giorno, sentendo l’annunzio della Quaresima non scappino, ma anzi stiano fermi e attenti? Cosa potrà far sì che ciascuno di noi possa accogliere l’invito alla penitenza e alla mortificazione senza intristirsi, bensì con un grande desiderio e un’intima gioia?

Cosa o chi potrà aiutarci a cogliere la penitenza e la mortificazione come un’esigenza di bellezza, di autenticità e di amore?

Solo un incontro profondo con Gesù potrà provocare questo in noi, finché questo non avverrà, saremo un po’ tutti come quei bambini pronti a fuggire appena si nominano parole tipo quaresima o mortificazione o penitenza, o, tutt’al più, disposti a qualche piccolo gesto esteriore e a poco d’altro.

Ma perché avvenga questo incontro profondo con Gesù occorrono determinate condizioni senza le quali esso non avverrà mai: occorre che ci riconosciamo poveri, malati, bisognosi di salvezza. Infatti Lui è venuto ad “annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un tempo di grazia del Signore” (Lc 4,18-19). Lui è venuto per i malati, non per i sani, per i peccatori e non per i giusti (cfr. Lc 5,31-32).

Per questo l’arma più efficace e potente che usa il nemico dell’umanità per tenerla lontana dall’incontro salvifico con Gesù è quella della spensieratezza, della distrazione, del vivere fuori di sé, proiettati fuori e non si sa dove, con una vita all’insegna della dispersione e dell’assordimento dove la voce di Dio viene soffocata e coperta da tante altre che ci invadono

Per questo motivo la Chiesa ci invita con forza almeno una volta l’anno ad un tempo di ritiratezza, di silenzio, di deserto perché lì possiamo renderci consapevoli del nostro bisogno esistenziale e intrinseco di salvezza. E come ai tempi di Noè, mentre lui costruiva l’Arca gli altri continuavano la loro vita spensierata (cfr. Lc 17,26), noi andiamo nel deserto per prendere coscienza di ciò che siamo, mentre i più disattendono tutto questo a loro rovina eterna.

Lì, nel deserto, prendiamo coscienza maggiormente della nostra realtà di uomini, di donne la cui vita è segnata fortemente dalla debolezza, dalla fragilità, dal peccato e sentiamo l’esigenza di guardare verso Gesù per invocare, più che con le labbra, con gli occhi, invocare da Lui la nostra salvezza. Come quegli ebrei che morsi dai serpenti guarivano guardando il serpente di bronzo che Mosè aveva innalzato su un’asta nel deserto (cfr. Nm 21,8) , così noi guardando Gesù e invocando da Lui la salvezza, veniamo salvati cfr. Gv 3,14-15).

Carissimi fratelli e sorelle, sia innanzitutto questa la nostra predisposizione in questa Quaresima 2006, non facciamo l’errore dei Giudei che erano pronti a fare chissà quali opere di penitenza e di mortificazione, ma Gesù disse loro che quello che dovevano fare era, prima di tutto, credere in Lui (cfr. Gv 6,28). “Teniamo fisso lo sguardo su Gesù” (Eb 12,2), guardiamo Gesù, focalizziamo il nostro sforzo quaresimale in questo guardare Gesù, ascoltare Gesù, stare con Gesù.

Guardando Gesù, ascoltando Gesù, stando con Gesù non potremo non sentire il fascino della sua Persona divina, la forza della verità delle sue parole, l’intensità d’amore dei suoi gesti. Lasciamoci inebriare dal profumo olezzante del suo Nome, lasciamoci affascinare e sedurre dallo splendore della sua bellezza e corriamo dietro a Lui (cfr. Ct 1,3-4).

E Lui allora ci introdurrà con Sé nel deserto della mortificazione e della penitenza, Lui ci farà assaporare il gusto della vittoria sui nostri istinti, sulle nostre passioni, sui nostri vizi; Lui ci darà la gioia di scoprirci forti e vittoriosi contro colui a cui prima bastava un nonnulla, una piccola sollecitazione, una piccola frase sussurrata al nostro orecchio per farci cadere, e ora invece deve andarsene via scornato e sconfitto perché Lui, il più Forte, Gesù, ci ha fatti forti di Lui. 

Lì nel deserto, con Gesù, capiremo che nascoste sotto quelle due parole – penitenza e mortificazione –, ce n’è scritta un’altra che può leggersi nella verità solo quando è scritta sotto di esse. È una parola di cui tutti sentono il fascino, la bellezza e il valore, ma che pronunziata e vissuta senza penitenza e mortificazione non arricchisce affatto la persona, anzi la rende vuota, misera e brutta. E questa parola è la parola “AMORE”. Il deserto è la scuola dell’amore dove Gesù ci insegna i contenuti autentici di questa parola, perché tu non imparerai mai ad amare se non sarai padrone dei tuoi istinti, non imparerai mai ad amare se vorrai una vita comoda e con tutti al tuo servizio, senza spenderla disinteressatamente per gli altri, tu non imparerai mai ad amare se continui a voler piegare Dio ai tuoi capricci e non ti disponi invece a sottometterti alla sua volontà. 

Lì nel deserto Gesù ci insegna questo, tentato dal demonio di asservirsi alle cose e di servirsi degli altri e di Dio per i propri comodi, Lui sceglierà la via della mortificazione, del servizio e dell’ubbidienza indicandoci concretamente cosa comporta essere liberi e cosa comporta amare il prossimo e amare il Padre.

È nell’incontro con Gesù che noi, tutti presi da Lui, affascinati da Lui, conquistati da Lui, sentiamo nel nostro intimo un’esigenza di bellezza, di autenticità e di amore: è lo Spirito Santo che in noi geme (cfr. Rm 8) finché non si formi in noi l’uomo nuovo, la donna nuova (cfr. Ef 4,24; Gal 4,19). 

Non a caso l’evangelista Marco sottolinea come Gesù entrò nel deserto sospinto dallo Spirito (cfr. Mc 1,12), tutta la vita di Gesù fu sospinta dallo Spirito. È lo Spirito il grande protagonista della vita del cristiano, come lo Spirito rese fecondo il seno della Vergine Maria perché Lei concepisse il Verbo della Vita, così occorre che la nostra vita si lasci invadere e immergere dallo stesso Spirito perché diventi feconda di Gesù, cioè diventi vita cristiana.

«Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne… Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» – Gal 5,16-24.

Lasciamoci dunque anche noi, con Gesù e in Gesù, condurre dallo Spirito per entrare nel deserto di questa Quaresima 2006 per partecipare rinnovati alla Santa Pasqua e chiediamo alla Vergine Santa che ci accompagni in questo itinerario d’amore e ci aiuti ad acquisire una nuova e più profonda consapevolezza dell’amore di Dio per noi manifestatoci dal Loro Figlio morto d’amore inchiodato ad un legno e risuscitato per la nostra gioia e salvezza eterna. Buona Quaresima a tutti.  Amen. 

j.m.j.

 

Seconda Domenica del Tempo di Quaresima – Anno “B”                         Omelia

“QUESTI È IL MIO FIGLIO PREDILETTO: ASCOLTATELO!”

Carissimi fratelli e sorelle,

dopo averci introdotti con Lui nel deserto e averci fatto gustare la bellezza della vittoria su quanto vorrebbe sedurci e allontanarci dalla nostra verità di uomini e donne liberi, il Signore Gesù oggi ci prende per mano e per mezzo della Chiesa ci fa salire con Lui sul Monte della Trasfigurazione perché possiamo già quaggiù godere qualcosa di quella vista beata che avremo lassù quando saremo per sempre con Lui.

Erano passati pochi giorni da quando Pietro era stato severamente ammonito e rimproverato da Gesù… – ricordate? – quando Gesù lo chiamò addirittura satana“Lungi da me, satana. Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8,33).  Pochi giorni dopo quel rimprovero, Gesù prende con sé PietroGiovanni e Giacomo, gli stessi che erano stati presenti al miracolo della resurrezione della figlia di Giaro, il capo della sinagoga (cfr. Mc 5,37), gli stessi che vorrà ancora vicino a sé nel Getsemani (cfr. Mc 14,33), e li conduce su un monte che la tradizione vuole identificare nel Monte Tabor.

In tutte le religioni la montagna ha una pregnanza di sacralità, in particolare nella nostra religione che affonda le sue radici nella storia biblica. Sarà su un monte, il Sinai o Oreb, che Mosè verrà chiamato da Dio nel prodigio del roveto ardente (Es 3,1ss), sarà sullo stesso monte che ancora Mosè riceverà da Dio la sua Legge (Es 19,1ss; 24,12ss), sarà sempre sullo stesso monte che Elia s’incontrerà con Dio nel silenzio di una brezza leggera (1Re 19,9ss). 

La montagna è un luogo particolarmente idoneo all’incontro con Dio perché davanti alla montagna e sulla montagna l’uomo si sente piccolo, sente tutta la sua piccolezza e afferra qualcosa della maestà e della potenza di Dio. Ecco, proprio questo termine oggi non più usato, maestà, che in passato era servito molto ad esprimere quest’aspetto della trascendenza di Dio e – direi – che, soprattutto noi uomini e donne moderni, avremmo bisogno di riscoprirne l’importanza. Oggi abbiamo perso il senso della “sacralità”, della trascendenza, della maestà di Dio, e ne abbiamo perso di conseguenza il rispetto. Trattiamo di Dio come si tratta qualunque altra materia o argomento, dimenticandoci che l’unico modo corretto di poter parlare di Dio è quello di mettersi in ginocchio. Gli Ebrei avevano talmente forte il senso della trascendenza e della maestà di Dio che si sentivano indegni anche di nominarlo, per loro nominare il nome di Dio era sporcarlo, bestemmiarlo. Per noi invece è diventato il nostro compagnetto di giochi, il nostro fratelletto più piccolo! Mentre Dio è Dio. E se tante cose di Dio siamo lontani dal comprenderle, il motivo fondamentale spesso sta nel fatto che Dio si rivela e rivela i suoi segreti solo alle persone umili, piccole e non a chi crede di sapere tutto, di poter giudicare tutto, di sentenziare su tutto anche su Dio…

Ebbene oggi Gesù prende questi tre Apostoli e li porta con sé sul monte e in loro tre porta ciascuno di noi: salire la montagna non è cosa facile, ma se tu accetti la fatica vedrai la gloria di Dio. È una strada esigente. Ci fa compagnia oggi su questa strada anche un altro personaggio: Abramo. Anche lui sale oggi su un monte, vi sale per sacrificare il proprio Isacco. Se vogliamo vedere la gloria di Dio anche noi come lui, salendo su questo monte dobbiamo avere nel cuore questa disponibilità nell’animo nostro di sacrificare i nostri Isacchi. Ognuno di noi ha il suo Isacco da sacrificare e finché nel nostro cuore non affiora silenziosa questa disponibilità assoluta, totale al distacco dal nostro piccolo o grande Isacconon vedremo la gloria di Dio. Quale grande esempio ci dà oggi Abramo con la sua mano ferma pronta al sacrificio della cosa più cara della sua vita. Cosa era più caro ad Abramo d’Isacco? Pensiamoci, pensiamoci, perché qui sta tutto, qui sta tutto! 

Tutta una vita aspettando la realizzazione di una promessa di Dio, quando la speranza sembra perduta ecco la realizzazione, ecco il figlio della vecchiaia, ecco il “Sorriso di Dio”, ecco Isacco e ora, Dio, gli chiede proprio Isacco. Abramo avrebbe dovuto protestare… non lo fa perché ha un forte senso di Dio e per lui Dio è tutto, ma è tutto sul serio e così accetta e ubbidisce e diventa padre nostro nella fede. Ha veramente creduto a Dio e ha visto la sua gloria (cfr. Gv 11,40), di lui infatti dirà Gesù che “esultò nella speranza di vedere il suo giorno, lo vide e ne gioì” (Gv 8,56).

Ecco, carissimi fratelli e sorelle se anche noi vogliamo essere partecipi della visione della gloria di Dio che risplende oggi in Gesù che si trasfigura sul Tabor saliamo questo monte come lo salì Abramo: qual è questo Isacco che Dio mi chiede di sacrificargli? In realtà gli Isacchi che appesantiscono questa salita e ci fanno arretrare nel nostro cammino sono tanti, volesse il cielo che in ogni Quaresima ne individuassimo uno, uno che morisse con Gesù nella Pasqua. Se ad ogni Quaresima ne individuassimo uno da offrire al Signore, saremmo ben presto dei grandi santi! Ma, se di fatto ci è così difficile rinunciare alle nostre sicurezze, ai nostri appoggi, ai nostri affetti per appoggiarci unicamente su di Lui, se ci è così difficile, nondimeno possiamo esercitarci nel desiderio, nel desiderare una grande libertà interiore, desiderare una grande e assoluta capacità di dare tutto a Colui che è tutto e ci ha dato tutto, dare amore a Colui che ci ama troppo e di più, rispondere a Dio con la sua stessa misura di un amore senza misure! Coltiviamo questi desideri e affidiamoli all’Amore di Dio.  Se non riusciamo a riempire il nostro cuore di amore fattivo verso Dio, almeno riempiamolo di desiderio d’amore: desideriamo fortemente e incessantemente di amarLo come Lui ci ama, non cessiamo di alimentare questi santi desideri e Dio ci mostrerà la sua potenza nella nostra vita che il suo Santo Spirito vuole ribaltare, scombussolare, rivoluzionare, aspetta solo il nostro permesso per agire!

E lì sulla cima di questo monte, Lui si trasfigura, cioè fa vedere qualcosa, un raggio di ciò che Lui è, la sua gloria, bellezza, santità, il suo splendore di Figlio di Dio, è una vista che fa estasiare Pietro, Giacomo e Giovanni che vedono anche Mosè e Elia che parlano con Gesù, Mosè ed Elia, cioè tutto il Vecchio Testamento che è stato di preparazione a questa rivelazione del Figlio di Dio: è “la pienezza dei tempi” (Gal 4,4) e s’ode la voce del Padre che invita tutti a seguire, ascoltare questo Suo Figlio benedetto: “Questo è il Figlio mio prediletto, ascoltatelo!”

Pietro, Giovanni e Giacomo rimangono attoniti, presi, estasiati a tale vista, vorrebbero rimanere lì per sempre e invece ecco che devono scendere dal monte, tanta fatica per salire… e ora bisogna scendere a valle, bisogna affrontare gli uomini, la condanna a morte, il Calvario, la morte, il sepolcro. Gesù li aveva condotti lì appunto in vista di tutto quanto stava per accadere. Quella vista doveva servire a controbattere il colpo tremendo dell’altra vista non già gloriosa, bella ed estasiante, ma umiliante, avvilente e brutta di un uomo vilipeso e nudo e crocifisso e morto.

Due considerazioni veloci.

1) Facciamo tesoro dei momenti di consolazione, dei momenti in cui sentiamo Dio vicino che ci vuol bene e ne sentiamo tutta la bellezza e la bontà. Facciamo tesoro di quei momenti, perché non sempre si sta sulla montagna, ma bisogna scendere prima o poi a valle dove c’è una croce che ci aspetta!

2) Gesù tutto quello che è e che ha ce l’ha donato comunicandocelo nel santo Battesimo: la sua gloria, la sua santità, i suoi meriti, la sua bellezza, la sua figliolanza divina: Lui ci ha consegnato Se Stesso, tutto Se stesso come dono dell’esagerato amore che il Padre ha per noi (seconda lettura). Se potessimo vedere quanto sono belle le nostre persone agli occhi di Dio, quando – chiaramente – siamo in grazia! La vita cristiana può leggersi anche sotto l’immagine della Trasfigurazione: lo Spirito Santo che ci lavora, giorno dopo giorno, Quaresima dopo Quaresima, Pasqua dopo Pasqua, per trasfigurarci, per far risplendere in noi la bellezza, la santità e la gloria del figlio di Dio, della figlia di Dio. Lo Spirito Santo che lavora le nostre persone di “gloria in gloria” (2Cor 3,18) per renderle conformi al nostro Modello, a Gesù nostro Fratello primogenito.

Ecco, carissimi fratelli e sorelle, qui si apre un campo vastissimo di contemplazione della gloria di Dio, della bellezza di Dio, della santità di Dio, per noi in cammino verso il Cielo dove vedremo finalmente la gloria di Dio “faccia a faccia” (1Cor 13,12). Mentre camminiamo su questo mondo possiamo contemplare Dio solo con la contemplazione della fede, la fede ci permette di vedere Dio e la sua gloria, non distintamente, Paolo dice “confusamente come in uno specchio” ” (1Cor 13,12) – come in uno specchio dei suoi tempi che confondeva e distorceva le immagini, non uno specchio dei nostri tempi che riflette perfettamente! Se noi solo attivassimo in noi questa fede, quante cose belle vedremmo! Vedremmo la gloria, la bellezza, la santità, la maestà di Dio riflettersi in noi, nelle nostre persone: “La gloria di Dio è l’uomo vivente” (S. Ireneo). Saper cogliere la bellezza spirituale dell’altro! Saper cogliere la santità di Dio nella persona dell’altro, dell’altro che accosti, che incroci, che scontri, che tocchi: Lui ci ha indicato dove trovarLo e quindi dove vederLo: nel povero, nel malato, nel bisognoso, nel piccolo, nei bambini specialmente: “avevo fame, avevo sete, ero nudo, ero carcerato… quello che avete fatto ad uno di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me” (Mt 25,45ss). Abbiamo bisogno di esercitarci in questa contemplazione che facciamo con gli occhi della nostra fede perché i nostri occhi fisici sono distorti da tante cose brutte da cui sono bombardati, invasi e dobbiamo quindi purificare il nostro sguardo con uno sguardo di fede sulle persone e sul mondo. In particolare questo nostro sguardo di fede si deve attivare quando siamo riuniti in assemblea per celebrare l’Eucarestia: dobbiamo imparare a guardarci con occhi di fede per vedere Gesù risplendere con la sua gloria, la sua luce, la sua santità nell’altro. Ogni domenica vedendo il mio fratello, la mia sorella incamminarsi verso la comunione eucaristica, guardandoli con gli occhi della fede, che bello veder risplendere ai nostri occhi le loro anime belle, lo splendore della loro santità, santità condita di tanta fatica, tanto sacrificio nascosto e di amore vissuto. Attiviamo lo sguardo di fede e vedremo e sentiremo presente questo Gesù che è vivo, vivo in me e vivo nel mio fratello che celebra con me l’Eucarestia. 

Ma tutto cambia quando non solo comincerò a vedere la gloria di Dio nel fratello, nella sorella, ma comincio a percepirla nella mia persona, perché Lui vive in me e vi ha portato tutta la Sua Potenza, tutta la Sua Gloria, tutta la Sua Bellezza, tutta la sua Santità. Una presenza di grazia che ci commuove perché immeritata, perché ne siamo indegni, perché è un dono troppo grande, troppo bello, troppo tutto! Ecco saper accettare questo troppo di Dio ricambiandolo con il nostro piccolo niente in un atteggiamento di continua umile gratitudine perché riconosciamo che noi non siamo santi, non siamo belli, non abbiamo nulla di cui gloriarci, ma è Lui che ci fa santi, ci fa belli dentro di una bellezza di grazia che risplende nel nostro sguardo limpido, nel nostro cuore pulito, è Lui che ci dà la sua gloria, quella di Figlio di Dio, e questa gloria è il “tesoro” più prezioso che possediamo e lo custodiamo in piccoli “vasi di creta” (2Cor 4,7) così fragili, così delicati: pensate tanta ricchezza, tanto valore, tanto splendore custodito in così grande debolezza… Quanto poco basta infatti per sciuparla, per perderla, per distruggerla! Ci abbiamo mai pensato? Per questo dobbiamo farci forti di Gesù, sia Lui il custode di tanta gloria, occorre darGli spazio per farLo vivere in pienezza e potenza perché Lui è il più forte e noi, invece, siamo tanto deboli! Allora bisogna che “Lui cresca e che noi diminuiamo sempre di più  (Gv 3,30) in modo che tutta la gloria, la santità, la bellezza che ci ha regalate siano custodite, difese e accresciute da Lui, facciamo in modo che gestisca tutto Lui e niente noi e allora sarà tutto al sicuro, custodito e difeso, e allora potremo presto ben dire con Paolo: “Che bello! Che gioia! Non sono più io – infatti – a vivere, ma è Gesù che vive in me!” (Gal 2,20).

La Vergine Maria che ci accompagna in questo nostro itinerario d’amore ci ottenga la gioia di realizzare tutto questo a lode e gloria del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo 

  Amen.                                                       j.m.j.

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Terza Domenica del Tempo di Quaresima – Anno “B”                                 Omelia

 

“DISTRUGGETE QUESTO TEMPIO E IN TRE GIORNI LO FARÒ RISORGERE”

 

Carissimi fratelli e sorelle, siamo giunti più o meno a metà del nostro cammino quaresimale.

Il Signore Gesù dopo averci introdotto con Lui nell’esperienza del deserto e averci fatto gustare la vittoria sui nostri istinti e sul demonio, ci ha condotto in alto – domenica scorsa – per mostrarci qualcosa di Sé e quindi qualcosa di ciò che ognuno di noi è chiamato a realizzare in sé per opera di quello Spirito che ci è stato donato nel santo Battesimo e che incessantemente lavora in noi per trasformarci sempre più profondamente in veri e autentici figli e figlie di Dio ricolmi di bellezza, splendore, gloria e santità. Lavoro che non avviene magicamente ma nella continua nostra adesione e collaborazione in un intimo dialogo d’amore della nostra libertà e della Sua. Lo Spirito – infatti – poiché è Spirito di libertà non opera se noi non Gli permettiamo di agire.

Ecco, detto questo, oggi partecipiamo ad una scena che ci dà fastidio. Eh, sì talvolta i gesti o le parole di Gesù ci suonano male, ci danno fastidio. Bisognerebbe che facessimo maggior attenzione a questi momenti di fastidio, di turbamento, di perplessità perché sono i momenti di maggior rivelazione di Dio. Infatti, se tutto fosse scontato e pacifico dove sarebbe la novità? Che necessità ci sarebbe di una rivelazione se fosse tutto liscio e umanamente logico? Non è così perché i pensieri e le vie di Dio non sono le nostre (cfr Is 5,8) e una autentica conversione implica necessariamente uno sconvolgimento nei nostri schemi mentali e criteri di umano giudizio.

Convertirsi al vero Dio che risplende nell’Uomo-Dio Gesù Cristo significa anche correggere le immagini distorte di Dio che ciascuna persona si costruisce con la propria fantasia e con la proiezione dei propri desideri e dei propri pregiudizi e così Paolo ci ha detto nella seconda lettura che “i giudei chiedono miracoli e i greci cercano la sapienza” , cioè i giudei desiderano un Dio che si mostri glorioso e portentoso, i greci un Dio che soddisfi il loro modo di pensare e i loro gusti. Mentre Dio si mostra in Gesù come un Dio impotente e scandalosamente debole, un Dio che muore in croce beffeggiato e fallito che non realizza certamente i desiderata di giudei e greci, ma proprio in quella sua impotenza e suo fallimento c’è tutta la novità di Dio che si vuol far conoscere nella verità di Sé e cioè di un’essenza di amore talmente grande e immensa che travolge ogni nostra sua precomprensione.

Ebbene, proprio quando qualcosa di Gesù ci sembra strana e ci lascia alquanto perplessi, lì dobbiamo scavare per cercare di entrare nella comprensione della Rivelazione di Dio che non sarebbe tale se non ci superasse nella logica, nella mentalità, nei modi di vedere…

Oggi il Vangelo infatti ci mostra un Gesù che ribolle dentro, che esplode, che prende delle corde le unisce a mo’ di sferza e la usa con violenza per cacciare i mercanti dalla casa del Padre suo. Perché tutto questo? non poteva Gesù – semplicemente – mettersi a discutere con quella gente, non poteva semplicemente cercare di appianare gli eccessi? 

Non è infatti questo suo modo di fare in contrasto con quell’immagine che talvolta ci siamo creati di un Gesù tutto dolce, tutto buono, tutto mite, tutto sorridente? Dov’è quel Gesù qui? Attenzione a non pensare di poter inscatolare ed etichettare Gesù a nostro gusto…!

Carissimi fratelli e sorelle, io credo che una chiave di comprensione di questa furia di Gesù la possiamo leggere nel versetto 19, quando Gesù risponde a chi gli chiede “giustamente” spiegazioni del gesto, gli chiedono un segno, un qualcosa che possa giustificarlo. E,  attenzione! – giustamente  giustamente! – gli chiedono spiegazioni di quel gesto, giustamente gli chiedono un qualcosa che possa provare l’autorità che Lui aveva per poter spaccare tutto. Infatti hanno visto un uomo tutto furioso che spacca tutto, spazza via tutto, che prende a frustate la gente: un vero pazzoide! Ebbene in quello che Gesù dice loro come risposta vi possiamo trovare una preziosa chiave di comprensione: “Distruggete questo Tempio e io in tre giorni lo farò risorgere”.

Giovanni spiega nei versetti seguenti che Lui parlava del Tempio del suo corpo. Qui c'è una grande luce di novità, qui c’è qualcosa di molto, molto importante. Gesù pone il suo gesto subito ad un livello che trascende la sua fisicità, in quel suo cacciare i mercanti c’è qualcosa di più profondo di quanto appariva agli occhi della gente che assisteva al fatto: il suo era un segno di un’altra realtà più profonda, cerchiamo insieme di scavare questo segno. Quello che voglio dirvi è che Gesù vedendo quella gente che aveva fatto di quel luogo sacro un mercato non si è adirato per il fatto in sé, quanto per quello che esso significava, rimandava, simboleggiava, rappresentava ai suoi occhi. Quella vista ha fatto scattare nel Cuore umano-divino di Gesù una furia, una passione d’amore sconvolgenteun’ira divina tremenda, un’amarezza profondissima e lacerante il Suo animo. Per capire cosa ha provocato tanta irruenza d’amore dobbiamo riflettere sulla Sua risposta: “Distruggete questo Tempio…”.

Cos’era il Tempio? Era il luogo d’incontro con Dio, segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Aveva avuto la sua origine in quella piccola cassettina di legno di acacia, l’ARCA DELL’ALLEANZA, che Mosè, su indicazione di Dio stesso, fece costruire durante il viaggio della liberazione e che conteneva le Tavole della Legge. Quella Legge che abbiamo ascoltato come nostra odierna prima lettura: i Dieci Comandamenti ritenuti dal popolo ebraico dono prezioso di Dio, la cui osservanza diventa segno di appartenenza a Lui.

L’Arca contenente i Dieci Comandamenti era portata a spalla dai membri della tribù di Mosè, i Leviti, le varie famiglie di questa tribù si preoccupavano di portare anche gli elementi della tenda o tabernacolo dove la cassettina dell’Arca dell’Alleanza veniva riposta quando il popolo si fermava nelle varie tappe nel deserto. Lì, in quella tenda il Signore scendeva nella nube e parlava “faccia a faccia” (Es 33,11) con Mosè. E quando Mosè usciva da quella tenda dopo aver parlato con Dio, doveva coprirsi il volto con un velo perché aveva il volto splendente di luce (cf Es 34,33-35).

Quando Giosuè introdusse il popolo nella terra promessa l’Arca vagava di tribù in tribù con grande gioia del popolo in mezzo al quale passava. Poi quando fu re Davide, questi voleva costruire un edificio stabile, un tempio per intronizzarvici l’Arca, ma Dio non volle che fosse lui a costrurGli un tempio perché le sue mani erano troppo sporche di sangue (cfr. 1Cr 22,8). Davide passò tutta la sua vita accumulando tesori e materiali che trasmise a suo figlio Salomone (cfr. 1Cr 22,1ss), questi costruirà finalmente il TEMPIO. Lo splendido, maestoso, ricco Tempio di Gerusalemme…

Nell’ATRIO del Tempio, al suo centro, vi era l’ALTARE DEGLI OLOCAUSTI, dove venivano immolate le vittime sacrificali, più avanti vi era poi il “MARE  DI BRONZO”, una immensa vasca contenente l’acqua per i riti di purificazione. Poi all’interno, c’era il “SANTO” con un altare ricoperto d’oro dove veniva bruciato l’incenso e una mensa dove venivano appoggiati dei pani, i pani della proposizione, cioè offerti a Dio che potevano mangiare solo i sacerdoti. All’interno del “SANTO” separato da una spessa tenda vi era la parte più sacra del Tempio, “IL SANTO DEI SANTI”, luogo sempre buio che conteneva l’Arca dell’alleanza che poggiava su due cherubini a mo’ di trono. Lì entrava il sommo sacerdote, attraverso la tenda, solo una volta all’anno portando il sangue del capro espiatorio nel giorno dell’espiazione (Kippur)

Di questo Tempio non rimarrà pietra quando il paese verrà occupato e distrutto dai Babilonesi e il popolo deportato in Babilonia: 50 anni di schiavitù tremenda… Tempo però prezioso dove il popolo senza più il suo Tempio, le sue liturgie, il suo altare, in quel mare di umiliazione e di dolore comincia a capire che la vera liturgia si svolge nel cuore e che il cuore contrito e umiliato, il cuore umile e confidente è il vero altare dove si offre il vero sacrificio a Dio. 

“Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia. Potessimo esser accolti con il cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti di montoni e di tori, come migliaia di grassi agnelli. Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te e ti sia gradito, perché non c'è confusione per coloro che confidano in te. Ora ti seguiamo con tutto il cuore, ti temiamo e cerchiamo il tuo volto”. – Dn 3,38-41

Poi ci sarà il ritorno e la ricostruzione del Tempio, non più grandioso e sfarzoso, ma ben modesto e umile Tempio di povera gente. Ormai l’Arca non c’è più, è andata distrutta, persa, nel luogo più sacro di esso non c’è più l’Arca, attraversata la spessa tenda che separa il “Santo” dal “Santo dei Santi”, ci sarà solo una piccola stanza buia e vuota

I greci intorno al 150 a.C. dominavano la Palestina e fecero qualcosa che passò alla storia come “L’ABOMINIO DELLA DESOLAZIONE” mettendo la statua di Giove sull’altare degli olocausti all’interno dell’Atrio del Tempio, fu una profanazione terribile, umiliante, dissacrante. Quando poi in seguito alla rivolta dei Maccabei il Tempio fu purificato e riconsacrato nascerà la grande festa della Dedicazione del Tempio.

Intorno al 19 – 20 a.C. Erode il Grande fa iniziare la ricostruzione grandiosa di questo Tempio, la sua costruzione durerà – come abbiamo sentito nel Vangelo – 46 anni. Sarà in questo Tempio inaugurato da pochi anni che Gesù scaccerà i mercanti e insegnerà alle folle tra la gelosia e l’odio degli scribi, dei farisei, dei dottori della legge e dei sacerdoti.

Ora, dicendo Giovanni che Gesù “parlava del Tempio del suo corpo” ci fa capire come tutta quella lunga storia che abbiamo sintetizzato era tutta orientata verso Lui, verso Gesù e quello che Lui avrebbe realizzato: il nuovo splendente e bellissimo Tempio del Padre. Parlava del “suo corpo” – dice Giovanni – parlava cioè di Lui e di noi in Lui, perché noi in Lui e Lui in noi siamo il nuovo Tempio di Dio. Non a caso quando Gesù si immolò sulla croce, il velo del Tempio, quella tenda che separava il “Santo” dal “Santo dei Santi”, si squarciò in due (cfr. Mc 15,38)! Si squarciò perché Egli, Gesù, con la sua immolazione è entrato una volta per tutte nel santuario del cielo a presentare non sangue di agnelli e di tori, ma il suo sangue (cfr. Eb 6,19-20) per la nostra salvezza e santificazione.

Ma, perché dunque quella sfuriata di Gesù con la frusta? È tutta l’esplosione dell’AMORE GELOSO DI DIO VERSO IL SUO POPOLO, (cfr. Nm 4,23-24) quel popolo sempre tentato di soppiantare l’adorazione e l’amore verso il vero Dio per costruirsi i suoi idoli, falsi ed effimeri: “Io sono il tuo Dio, l’unico Dio… non ti costruirai immagine di altri déi… non ti prosterai davanti a quelle cose… io sono un Dio geloso, io sono geloso di te!” (cfr. Dt 5,6ss)

È tutta la gelosia di Dio che esplode oggi in Gesù che caccia i mercanti! No, non si tratta di una semplice purificazione esteriore del tempio contaminato dalla presenza di quei commercianti, no, è qualcosa di più: è l’esplosione dell’amore geloso di Dio, di Dio che ci ama appassionatamente e che vedendo quei mercanti in quel Tempio vedeva i nostri cuori creati per Lui, per amare Lui per vivere per Lui, per adorare Lui, per essere la Sua dimora di grazia, di luce, di santità… vedeva l’Amore di Dio non riconosciuto…, vedeva l’Amore non amato!… Vedeva la profanazione in atto in tanti cuori dove Lui viene sostituito dagli idoli dell’AVERE, DEL POTERE, DEL GODERE che asservono buona parte dell’umanità e quanto spesso anche noi cristiani diciamo di credere in Lui, ma poi – di fatto – viviamo adorando il denaro…, adorando il successo…, il potere…, adorando le comodità e il piacere… dimenticandoci completamente di Lui e del Suo Vangelo.

Ecco il suo fu un gesto altamente profetico e simbolico straripante di amore, di tutto l’amore geloso di Dio che ci ama follemente, talmente follemente da aver voluto morire miseramente per ciascuno di noi di una morte ignominiosa e tremenda. Un amore così appassionato che non può sopportare la vista della profanazione dei nostri cuori.

La GELOSIA DI DIO…! Ecco, a metà Quaresima la Chiesa mi ricorda quest’amore geloso e appassionato di Dio per me, per te, per ciascuno di noi e ci invita ad una risposta di amore.

Quale risposta diamo oggi a Gesù di fronte a questo suo gesto? L’unica risposta valida è quella di permettere al suo Santo Spirito di purificare il nostro cuore……, il nostro cuore che è il “Santo dei Santi” dove Lui vuole abitare da Dio e non sopporta di condividere questa Sua dimora con altri ospiti. Permettiamo allo Spirito Santo di spazzare via dal nostro cuore tutto ciò che lo ingombra, perché lì, nel “Santo dei Santi”, può starci solo Lui, Dio Trinità di cui siamo dimora, dimora del Padre, dimora del Figlio, dimora dello Spirito Santo

L’“Abominio della desolazione” di cui si fecero colpevoli i greci è solo un lontano segno di quell’abominio della desolazione che avviene nel santuario delle nostre persone quando in essa sono presenti quegli idoli che ci svuotano e ci rendono schiavi di ciò che non vale. Permettiamo allo Spirito del Signore di fare piazza pulita dei piccoli o grandi idoli che profanano il Tempio delle nostre persone.

Il “Santo dei Santi” era una stanza vuota e buia: ecco cosa deve diventare il nostro cuore: una stanza vuota che risucchi la presenza di Dio, una stanza buia, senza luci: è l’oscurità della Fede, di quella fede che mi fa vedere Dio senza vederLo,  mi fa sentire Dio senza sentirLo, mi fa toccare Dio senza toccarLo: “Beati coloro che pur non vedendo crederanno” (Gv 20,29)

Nel centro del nostro cuore, in questo santuario delle nostre persone, nell’intimità del nostro “Santo dei Santi” ci sia solo il buio luminoso della FEDE e LUI, Dio, in essa creduto, conosciuto e amato.

La Vergine Maria che continua ad accompagnarci nel nostro itinerario d’amore ci aiuti a dare in ogni momento della nostra vita una degna accoglienza all’Ospite Divino che ci inabita, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo

Amen.

j.m.j.

 

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 Quarta Domenica del Tempo di Quaresima – Anno B                                             Omelia

“BISOGNA CHE IL FIGLIO DELL’UOMO SIA INNALZATO”

Carissimi fratelli e sorelle,

celebriamo oggi una tappa importante del nostro cammino incontro alla Pasqua di Gesù: celebriamo la domenica chiamata “IN LAETARE”, domenica della gioia, della letizia, caratterizzata anche dalla possibilità di usare il colore rosaceo dei paramenti liturgici. (Così come la terza domenica di Avvento viene chiamata “IN GAUDETE” e si può usare il colore rosaceo come in questa odierna domenica)

Ma perché dobbiamo gioire? Perché oggi dobbiamo far festa?La risposta è data dal fatto che oggi la Chiesa nelle sue letture ci offre alla nostra contemplazione “Il grande amore con il quale il Padre ci ha amati” (IIa lettura) amati di un amore assolutamente gratuito: “Per grazia siete stati salvati… è dono di Dio” (IIa lettura).

Di questo stesso amore ci ha parlato in un modo però strano, la prima lettura tratta dal Secondo Libro delle Cronache, abbiamo sentito il Lettore dire: “Il Signore amava il suo popolo e la sua dimora”, la dimora era il Tempio di Gerusalemme, eppure Egli permise che il suo popolo venisse schiacciato dai suoi nemici, permise che il suo stesso Tempio venisse profanato e distrutto e che il popolo che Lui amava venisse deportato in Babilonia. Permise tutto questo, eppure lo amava…, non capiamo…, ci è difficile capire… Lo Spirito Santo ci aiuti a capire perché è importante che capiamo quest’Amore di Dio.

Lo Scrittore sacro aveva premesso che Lui, il Signore, aveva mandato al suo popolo i suoi Profeti perché si correggesse, perché non peccasse più, perché non si comportasse come si comportavano gli altri popoli che non conoscevano Dio. Quello era il suo popolo, al quale Egli si era fatto conoscere, con il quale aveva stipulato un patto di amicizia basato su quella Legge che Dio stesso scrisse nelle tavole di pietra e ancor prima ha scritte nel cuore di ciascun uomo. Ma il suo popolo non ne volle sapere di Lui e del patto con Lui e allora il Signore l’abbandonò a se stesso perché capisse e ritornasse a Lui che lo amava.

E il popolo capì, ma prima di capire dovette vedersi distrutto e distrutto il proprio Tempio, le proprie donne violate, i propri figli e tutti ridotti a schiavi, allora lì a Babilonia capì e ritornò al Signore con il cuore contrito e umiliato.

Ecco carissimi fratelli e sorelle, avvicinandoci alla Pasqua perché non diamo uno sguardo generale a tutta la nostra vita, a tutta la nostra storia, perché non entriamo anche nel cuore di certi avvenimenti dolorosi che ci hanno segnato profondamente e ci chiediamo: Ma Dio cosa ha voluto dirmi con questi fatti? Vedete nulla avviene a caso o fortuitamente nella nostra esistenza, la nostra vita si svolge nel cavo della mano di Dio Amore che ci perseguita con il suo Amore, solo che noi non lo capiamo. Quando lo capiamo, allora una grande luce si apre ai nostri occhi, cadiamo in ginocchio e diciamo anche noi: Padre ho peccato! Cioè non abbiamo creduto al Suo amore, abbiamo pensato che la nostra vita potesse scorrere senza di Lui, abbiamo forse anche solo desiderato una felicità senza Lui.

Una domanda: Perché dobbiamo aspettare la distruzione, la schiavitù, il fallimento della nostra vita per scoprire l’Amore di Dio? Perché dobbiamo aspettare che ci distruggano Gerusalemme e che ci portano in esilio per ritornare a Dio?

Perché la nostra più grande tentazione nella vita è quella di stancarci delle cose buone e giuste, belle. Ci stanchiamo di stare con Dio, ci annoiamo della vita piatta che Lui apparentemente ci propone, vorremmo qualcosa di diverso. Così pure il popolo di Dio nel deserto ad un certo punto prese a nausea la manna, la manna era un dono che Dio faceva loro giorno per giorno, dono dell’amore di Dio eppure quel dono lo nauseò (Nm 21,4ss). Il popolo si stufò della manna! E voleva ritornare in Egitto a mangiare altri cibi e allontanò il proprio cuore da Dio. Ci vollero allora dei serpenti velenosi per far ritornare il cuore a Dio. Un’invasione di serpenti velenosi e la gente cominciava a morire, e allora cominciarono a levare gli occhi a Dio e pregarono Mosé di intercedere per loro. Avevano capito che avevano peccato!

Abbiamo peccato! (Nm 21,7) E così Mosè pregò Dio e Dio pietoso salvò il suo popolo, popolo dalla dura cervice (Es 32,9) e disse a Mosé: “Fatti un serpente e mettilo sopra un'asta; chiunque, dopo essere stato morso, lo guarderà resterà in vita".(Nm 21,8) Carissimi fratelli e sorelle questo è un punto chiave del messaggio d’Amore di questa domenica, cerchiamo di entrarci dentro bene, in profondità perché – come abbiamo sentito – nel Vangelo, Gesù riprenderà questo fatto dell’Esodo e l’applicherà a sé: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo”.

Entriamo in profondità: pensiamo un attimino a quegli Ebrei nel deserto morsicati dai serpenti velenosi… Essere morsicato da un serpente che sai essere velenoso…, la morte è entrata nelle tue vene e scorre col tuo sangue…, ecco… pensiamo un attimino cosa passava nel cuore di quelle persone quando Mosè disse loro in nome di Dio: “Non abbiate paura, coraggio, guardate verso questo serpente e sarete salvi, non morirete”. Ecco… cerchiamo di pensare con quali sentimenti, con quale animo, con quale cuore quegli Ebrei morsicati dai serpenti velenosi guardano il serpente di bronzo che Mosè aveva innalzato su quell’asta piantata nel deserto: chi lo guardava era salvo!

Ecco… ora io mi chiedo con quale sentimenti, con quale cuore, con quale affetto io oggi guardo Gesù innalzato sulla croce? Il mio sguardo dovrebbe essere molto, ma molto più intenso, più ricco di amore, di affetto, di speranza, di gratitudine di quello di quegli Ebrei verso quel serpente innalzato!

Perché…? Perché senza quello sguardo io non posso vivere, io sono una persona morta. Perché è Lui e solo Lui “la Vita” (Gv 14,6), la mia vita. Senza Gesù, senza guardare a Lui siamo morti, non viviamo. Sì, camminiamo, ci muoviamo, lavoriamo, fatichiamo, ridiamo, ci divertiamo, ma siamo morti, siamo morti dentro, nell’anima, nel profondo del cuore. Senza Gesù siamo morti, morti di valori, morti di ideali, morti di verità, morti di pace, siamo morti. Senza Gesù non abbiamo la “VITA”.

Nel Vangelo oggi abbiamo sentito lo stesso Gesù che ci diceva a Nicodemo: “Chi crede in me non morirà, ma avrà la vita eterna”. Carissimi fratelli e sorelle, non si tratta qui semplicemente di “vita eterna” come una vita al di là della morte. No, attenti, attenti: è importante! Gesù non ci promette una vita futura, ma una vita presente, presente ora “se credi in Lui hai la VITA ETERNA”. Cos’è la VITA ETERNA? Non si tratta di una vita futura, una vita che avverrà che ci viene promessa dopo la morte, no. Attenti, non è questo! “Vita eterna” vuol dire la qualità intima della vita di Dio: è la vita di Dio! È Dio che vive in te e tu che vivi in Dio, Lui in noi e noi in Lui e poiché noi siamo stati creati, inventati, voluti da Dio per questo, per essere in Lui una cosa sola nella Trinità, se non realizziamo questo perché viviamo? Senza la vita di Dio in te che senso ha la tua vita? Senza Dio in te anche se vivi non hai la VITA, sei morto e invece se hai Dio in te, “anche se muori vivrai” (Gv 11,25). 

Ed è Gesù e solo Gesù l’unico che ci dà la VITA ETERNA perché Lui è Dio ed è venuto in mezzo a noi per donarci la sua vita, per questo è morto! È morto per darci la sua VITA! Senza Gesù io sono senza vita, senza Gesù siamo senza vita. Se veramente fossimo pervasi, convinti, certi di questo, non pensate che questo Gesù lo guarderemmo con molto, molto più amore di come Lo guardiamo?

Quando ero parroco c’era un canto pasquale che mi piaceva tantissimo e mi commuoveva profondamente, il Coro lo sapeva e me lo cantava spesso, era un canto che in una strofa diceva: Senza Lui non c'è la pace / senza Lui non c'è l'amore / senza Lui non c'è la forza / senza Lui non c'è la vita… Ma…, ma… siamo veramente convinti di questo? Gesù è veramente questo per me? 

Ecco, fratelli e sorelle carissimi, avvicinandosi la Pasqua la Chiesa ci invita a guardare verso Gesù immolato, Gesù Agnello sgozzato appeso al legno, Gesù dissanguato e inchiodato, Gesù trucidato e vilipeso: è Lui l’amore più grande che il Padre poteva donarci. Tutto l’amore del Padre è in questo uomo sfigurato morente e morto sul legno: non c’è amore più grande di questo: donarci la vita del Figlio, quel Figlio che ci ha detto: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9).

“Nessuno ha un amore più grande di questo; dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13), Gesù ha dato veramente la sua vita per me, perché io vivessi per Lui (cfr. 2Cor 5,15).

Carissimi fratelli e sorelle tutta il nostro essere cristiani si riduce dunque ad uno sguardo, la mia salvezza o la mia dannazione, la mia vita o la mia morte dipendono da come Lo guarderò, da come Lo guardo, lasciamoci prendere il cuore da questo sguardo, lasciamo che esso ci penetri nell’intimo, lasciamoci travolgere, conquistare, sedurre, afferrare da questo sguardo e dal fascino divino che ci attira a Lui: “Quando sarà elevato da terra attirerò tutti a me” (Gv 12,32).

Solo così capiremo l’estrema serietà e gravità dei nostri peccati per i quali Lui è stato portato al macello come agnello mansueto (cfr. Ger 11,19) e capiremo l’estremo, appassionato, sconvolgente e incommensurabile amore di Lui che si è consegnato alla morte per noi.

La Vergine Santa, Lei così strettamente legata e associata alla Passione del Figlio, ci aiuti e ci insegni a guardarLo con quell’amore con cui Lei Lo guardava mentre Lui moriva d’amore inchiodato al legno per riscattarci e redimerci dalle nostre innumerevoli colpe.

Amen.                                                                           j.m.j.

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Quinta Domenica del Tempo di Quaresima – Anno B                                  Omelia

“Vogliamo vedere Gesù!”

 

Carissimi fratelli e sorelle,

si avvicinano ormai i giorni della Passione e la Liturgia sempre più ci spinge ad orientare tutta la nostra persona verso quei giorni benedetti in cui siamo stati salvati dal Sangue preziosissimo dell’Agnello Immolato sull’altare della Croce, talamo nuziale di Cristo Gesù dove vengono consumate le nozze tra Dio e l’umanità nel gesto d’amore più grande che mai nessuno avrebbe potuto immaginare o prevedere: Dio che muore per dare la vita a noi, morendo di una morte crudele e infame.

La Lettera agli Ebrei (IIa lettura) ci parla delle “forti grida e lacrime” di dolore con cui Gesù, Verbo Incarnato, ci ha salvati istaurando nel suo Sangue benedetto la “nuova alleanza” di cui ci parla Geremia (Ia lettura) per mezzo della quale il Padre “perdona le nostre iniquità e non si ricorda più dei nostri peccati”.

Il contesto del brano del Vangelo di Giovanni che proclamiamo in questa domenica è quello dell’ingresso trionfale a Gerusalemme. Siamo negli ultimi giorni della vita del Signore, Gesù sa che dopo quegli “Osanna” gli aspettano gli sputi, le umiliazioni e i chiodi. 

Siamo dunque nel contesto dell’ultima Pasqua di Gesù a Gerusalemme, c’è stato il tumulto degli “Osanna”, nella città molti parlano del Messia che vi è giunto. A Gerusalemme, come ogni anno, salivano anche Ebrei che vivevano in terre lontane e anche pagani che simpatizzavano per il culto del Dio d’Israele, tra questi vi erano alcuni Greci che sentirono parlare di Gesù e desiderarono incontrarsi con Lui, vederLo. Per questo dissero ad Andrea: “Vogliamo vedere Gesù”, Andrea lo disse a Filippo. Andrea e Filippo erano di Betsaida di Galilea, città di confine tra il mondo giudaico e quello pagano, i loro nomi sono greci, presumibilmente erano quelli che nel gruppo apostolico conoscevano meglio la lingua e la cultura greca. Per questo si fanno intercessori presso Gesù di questi Greci che Lo volevano vedere.

Fermiamoci qualche attimo a gustare la forza, la bellezza e la profondità della richiesta di questi greci: “Vogliamo vedere Gesù”…,  “Vogliamo vedere Gesù”, non si tratta di un semplice desiderio di vedere qualcuno esternamente, si tratta del desiderio profondo di incontrarsi con Gesù, di conoscerLo intimamente, di entrare in relazione vitale con Gesù per poterLo seguire e amare. 

Tutto il mondo di sempre grida alla Chiesa questa frase: “Vogliamo vedere Gesù”, dietro a tante critiche anche feroci e ingiuste che spesso il mondo pagano di oggi eleva contro la Chiesa, non c’è nascosto forse lo stesso accorato appello di quei Greci: “Vogliamo vedere Gesù”?

Mettiamoci anche noi oggi in quel gruppo di Greci che chiede di vedere Gesù, anche noi infatti – almeno penso di interpretare i desideri profondi di voi tutti – anche noi infatti “Vogliamo vedere Gesù”.

È quanto mai significativo che non sapremo mai se quei Greci poterono vedere Gesù e incontrarsi con Lui, Giovanni non ce lo dice appunto perché vuole amplificare e dilatare la loro richiesta ad ogni uomo ed ad ogni tempo. Ad ogni uomo che lo desidera, infatti, è data la possibilità di vedere Gesù, incontrarsi con Gesù, seguire Gesù, vivere in Gesù, è per questo che Giovanni non ci dice se Lo videro o no, perché la risposta è nelle mani di ciascuno di noi nella misura che vediamo Gesù, conosciamo Gesù, che ci incontriamo profondamente con Gesù, seguiamo Gesù e viviamo di Gesù, in Gesù e per Gesù.

Entriamo adesso nella risposta che Gesù dà ad Andrea e Filippo riguardo a questa richiesta. Gesù sembra snobbarla del tutto, in realtà Lui sentendo quella richiesta aveva presente nel suo cuore le invocazioni accorate di tutte quelle persone che nei secoli avrebbero desiderato vederLo, toccarLo, abbracciarLo, seguirLo, amarlo. È un discorso quindi importantissimo quello di Gesù oggi, chiediamo al suo Santo Spirito che ci introduca nella sua comprensione.

Gesù innanzi tutto ci dice che è giunta la sua “ora”ne parla ben tre volte in poche righe. 

Tutto il Vangelo di Giovanni è segnato da quest’“ora”: già si affaccia a Cana di Galilea, nel suo primo miracolo, dove fa notare a sua Madre che ancora non è giunta la sua “ora” (Gv 2,4), diverse volte i Giudei avrebbero voluto prenderLo per ucciderLo, ma non poterono “perché la sua ora non era ancora giunta” (Gv 7,30; 8,20).

È giunta dunque quest’“ora” e con essa il turbamento profondo, perché è l’“ora” in cui Egli deve dare liberamente la propria vita. Ormai tutta la sua persona è tesa verso quel gesto supremo con cui Egli, che era la VITA, consegnava Se Stesso alla MORTE, nessuno avrebbe potuto ucciderLo se Egli non avesse voluto, come Lui stesso aveva ben messo in evidenza quando aveva detto: Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo (Gv 10,18).

Giovanni è l’unico evangelista che non ci parla della preghiera nell’Orto degli Ulivi, della sua angoscia e della sua orazione accorata al Padre perché passi quel Calice, ma Giovanni ci racconta di questo turbamento profondo di Gesù in questa circostanza dei Greci: “Ora l'anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo sono giunto a quest'ora! Padre, glorifica il tuo nome".

Gesù è turbato, profondamente turbato di fronte alla sua prossima morte, ma assume, raccoglie questo turbamento e lo consegna al Padre: “Il chicco di grano deve morire per portare frutto… chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita la conserverà per la vita eterna”. E il Padre risponde a quella consegna con la sua voce dicendo“L’ho glorificato e di nuovo Lo glorificherò”.

Gesù conclude il brano odierno dicendo: “Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me".

Carissimi fratelli e sorelle, con queste parole Gesù risponde finalmente ad Andrea e Filippo e a tutti coloro che come quei Greci vogliono vedere Gesù, vogliono incontrarsi con Lui. Per realizzare quest’incontro occorre lasciarsi attirare da Lui, ma non semplicemente attirare dalle sue parole, dalla bellezza del suo messaggio, dalla potenza dei suoi gesti con cui ridava la vista ai ciechi e la vita ai morti, no, ma lasciarsi attirare da Lui nel suo innalzamento sulla Croce dove sembra essere un vinto, uno schiacciato, un perdente, un fallito perché morto, ma Lui in quella morte vince e schiaccia definitivamente la testa al serpente antico.

Cosa significa lasciarsi attirare dal Signore Crocifisso? Significa accettare nella realtà della nostra quotidianità la dinamica della morte: “Il chicco di grano deve morire per portare frutto… chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita la conserverà per la vita eterna”.

Gesù ci fa partecipi del suo gesto divino con cui ha donato la sua vita e ha assunto la nostra morte. Non poteva morire perché Dio, si è fatto uomo per poterlo fare e per insegnarcelo a fare. Gesù con la sua morte ci ha insegnato a morire, senza Gesù non avremmo mai potuto assumere la morte, l’avremmo semplicemente subita. Gesù ci dona la sua vita perché noi possiamo assumere la morte donando la vita come Gesù ci ha insegnato a fare.

Assumere la morte nella dimensione della nostra esistenza significa assumere la mentalità della Croce, lo stile della Croce, di quella Croce sulla quale Gesù si è sdraiato per primo per darci l’esempio. 

Conoscere Gesù, vedere Gesù significa quindi necessariamente partecipazione alla sua morte, chi non partecipa alla sua sorte non Lo conosce né Lo può conoscere. Si conosce Gesù solo seguendoLo e Lo si segue solo amandoLo e Lo si ama solo quando si accetta di vivere come Lui e in Lui. 

Gesù ci attira dall’alto della sua Croce dove consuma tutto l’amore possibile per noi, perché non c’è un amore più grande di quello di morire per chi si ama (cfr. Gv 15,13). AMORE e MORTE si accostano e si identificano sul legno della Croce e ci mostrano il vero volto dell’AMORE e della VITA.

Ad un mondo che ricerca se stesso e una vita che rifugge dall’incomodo, dalla fatica, dal dolore, da ciò che impegna e non dà utilità…; ad un mondo che ricerca se stesso e un amore che riempia, soddisfi, e dia gioia e piacere e gratificazione… Gesù rivela che il segreto della vita, della gioia e dell’amore è nell’assunzione della morte. È qui che il mondo scappa e non Lo vuol sentire, il mondo infatti odia la parola “morte” e tutto quello che gliela fa pensare, come solitudine, fatica, dolore, debolezza, sconfitta e altro.

Eppure il segreto della felicità è nel perder la propria vita, non nel custodirla e difenderla a tutti costi, il segreto è proprio lì, nel donarla, nell’offrirla per amore. La felicità dell’uomo non è in una vita senza sforzo, piena di piaceri e di comodità, ma è nel saper fare della propria vita un dono, un dono fino a donarla completamente del tutto morendo per gli altri come Lui è morto per noi.

Carissimi fratelli e sorelle non è forse molto significativo il fatto che in quei Paesi dove c’è più agiatezza e vita sfrenata vi sia anche il maggior numero di suicidi?

Ecco penso che sia ora di ritornare a quell’invocazione dei Greci: “Vogliamo vedere Gesù”, chissà quanti tra i nostri familiari, tra i nostri parenti, tra i nostri amici e persone che frequentiamo per motivi di lavoro o altro, chissà quanti nel loro cuore, anche senza esserne tanto consapevoli gridano così: “Vogliamo vedere Gesù”. Gesù continua ancora oggi ad attirare le persone dall’alto della sua Croce, solo che oggi ha bisogno di noi, della nostra Croce per farsi vedere, è dalla nostra Croce che Lui vuole attirare a Sé.

Cosa voglio dire con questo? Semplicemente questo, che se chi mi incontrerà vedrà in me una persona che vive la mentalità della Croce con un amore che sa mettersi all’ultimo posto, sa servire senza ostentazione, sa dare senza chiedere nulla, sa comprendere senza pretendere di essere capito, sa amare senza chiedere amore, sa perdonare senza pretendere scuse, vedrà Gesù, sì vedrà Gesù in noi. 

Ma, ci sarebbe da aspettarsi a questo punto una domanda: “Ma padre, le sue sono belle parole, ma come fare nella vita concreta a stare sempre sulla Croce?” Avete ragione per stare lì appesi al legno ci vuole un amore più grande e il nostro è così piccolo che scappiamo da tutto ciò che vorrebbe crocifiggerci, ma è tutto lì, bisogna cessare questa fuga dalla Croce: ecco il senso profondo della confessione pasquale che ci prepariamo a fare, quel “Perdonami Padre, perché ho peccato” che ci accingiamo a dire in ginocchio non significa forse questo nostro desiderio di non fuggirla più la Croce, ma di abbracciarla e portarla con noi?

Carissimi fratelli e sorelle, morire in Croce non è facile, ma è questo il segreto della vita. Non spaventiamoci se questo insegnamento ci sembra duro (cfr. Gv 6,61), Gesù stesso – abbiamo visto – ha tremato di fronte alla Croce e noi dovremmo sorridere? Gesù stesso è cascato più volte e non ce l’ha fatta a portarla da solo quella Croce che il Padre gli aveva appoggiato sulle spalle, e noi dovremmo portarla senza problemi?

Gesù conosce le nostre difficoltà, le nostre incapacità, le nostre debolezze, Lui ben conosce il nostro cuore (cfr. Gv 2,24) e conosce bene il nostro poco amore, per questo ci ha promesso un “cuore nuovo” e una più grande e nuova capacità di amare, la sua (cfr. Ez 11,19-20). 

La vita cristiana è lo svolgersi nel tempo del nostro permettere a Gesù di vivere in noi la sua donazione d’amore, la sua morte di Croce per permetterci di vivere in Lui la sua risurrezione. E ogni Pasqua è una tappa fondamentale di questa storia in cui siamo chiamati a permettere a Gesù di far sua la nostra vita per poterla offrire al Padre nell’offerta che ha fatto di se stesso una volta per sempre sulla Croce.

E così che Paolo, avendo capito questo diceva“ Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20) e se anche noi lo abbiamo capito, non dico proprio come lo capì Paolo, ma un pochino pochino, allora anche noi esperimenteremo in questa Pasqua la gioia di vedere Lui, Gesù, che in noi cresce, mentre noi diminuiamo (cfr. Gv 3,30).

La Vergine Maria che ci accompagna in questo itinerario quaresimale possa avere la gioia di vederci giungere a questa Pasqua 2006 pronti a consegnarci alla morte con Gesù per risorgere con Lui ad una vita nuova e più bella.

Amen.                 j.m.j.

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Prima Domenica di Quaresima – Anno C                          Omelia

 

 

VERSO GERUSALEMME

Carissimi fratelli e sorelle,

mercoledì scorso siamo entrati nel tempo santo della Quaresima con l’austero e  significativo rito delle ceneri che ci ha ricordato la vanità delle cose terrene e la fuggevolezza del tempo che passa e scorre per riversarsi inevitabilmente verso l’eternità di Dio: “Vanità delle vanità, tutto è vanità… tutto è vanità e un inseguire il vento” (Qo 1,2.14). Una cosa è importante, veramente importante quaggiù: riconoscere la presenza e il primato di Dio e darGli il posto suo, da Dio, nella nostra vita di poveri uomini, osservando i suoi comandamenti e facendo la sua volontà in tutto come ci ha insegnato il nostro Maestro, Signore e Dio, Gesù Cristo. Oggi siamo introdotti da questa Liturgia nella prima grande tappa di questo serioso e austero tempo.

Quest’anno siamo aiutati nel nostro cammino ecclesiale incontro alla Pasqua del Signore dall’evangelista Luca. Questo evangelista che scrisse, ispirato da Dio, il Vangelo e gli Atti degli Apostoli, costruisce e orchestra tutta la sua opera letteraria attorno ad un’idea teologica fondamentale: quella del viaggio, del cammino. Il suo Vangelo è il viaggio di Gesù da Nazareteh a Gerusalemme, gli Atti degli Apostoli sono il viaggio della Chiesa da Gerusalemme ai confini del mondo.

C’è un momento fondamentale del Vangelo di Luca che mi piace ricordare oggi, momento che ci può aiutare a suscitare nel nostro cuore profondi sentimenti e atteggiamenti particolarmente idonei a questo momento di inizio Quaresima. Si tratta di quando Gesù, finito il suo pellegrinare per la Palestina, vuole attraversare la Samaria per salire a Gerusalemme e consumare così quella Pasqua, dice Luca: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, Gesù si diresse a “muso duro” verso Gerusalemme» (9,51), le nostre traduzioni normalmente riportano non a “muso duro”, ma “decisamente”: “Gesù si diresse decisamente verso Gerusalemme”, Gesù cioè, incamminandosi verso Gerusalemme, consapevole di tutto quello che lì Lo aspettava, si volge con decisione, “a muso duro”, verso quella città e s’incammina verso di essa desiderando “ardentemente di consumare quella Pasqua con i suoi” (Lc 22,15), con il cuore traboccante di quell’amore incredibile e immenso, divino e magnificamente umano, con cui ci ha voluto amare consegnando la sua vita (cfr. Gv 10,15-17) e lasciandosi svenare d’amore sulla croce per noi…, per me!

Carissimi fratelli e sorelle, penso sia molto bello iniziare questa Quaresima 2004 con gli stessi atteggiamenti di Gesù espressi da Luca quando ci racconta come Lui, “a muso duro”, si diresse verso quella croce che Lo aspettava a Gerusalemme. Che bello se ciascuno di noi inizi questa Quaresima così, con atteggiamento forte, serio, coraggioso e ripieno d’amore, volgendo il proprio sguardo interiore “decisamente” verso la Pasqua che ci attende, la Passione d’amore del Signore che muore e risorge per ciascuno di noi e ci vuole attirare e travolgere nel suo stesso mistero di morte e risurrezione, invitandoci a far Pasqua con Lui, a morire con Lui per risorgere con Lui (cfr. 2Tm 2,11).

“Andiamo anche noi a morire con Lui” (Gv 11,17) dunque e riscopriamo il significato profondo della Quaresima come tempo di riscoperta e rivitalizzazione dei nostri impegni battesimali e, come i primi cristiani, ci volgiamo decisamente”, a “muso duro” verso oriente dove nasce il nostro “sole” (Lc 1,78), Gesù, e volgiamo le nostre spalle ad occidente, da dove salgono le tenebre del male che vogliono insidiare la nostra vita e trascinarci nella loro oscurità, facendo dimenticare che noi siamo “figli della luce” (Gv 12,36; 1Ts 5,5; Ef 5,8) e come tali dobbiamo risplendere nel mondo (cfr. Mt 5,16).

Sapete, una delle cause più ricorrenti per cui spesso le tenebre del male ci vincono e il nostro nemico ha la meglio su di noi, è dovuta al fatto che non “fissiamo decisamente il nostro sguardo su Gesù” (Eb 3,1), non c’è in noi quel “muso duro” di chi ama sul serio, di chi sa di dover andare a morire e va lo stesso perché ama. “Fissiamo decisamente il nostro sguardo su Gesù” (Eb 3,1), e andiamoGli dietro (cfr. Lc 9,23) senza paura: “Andiamo anche noi a morire con Lui” (Gv 11,17). Facciamoci coraggio e scendiamo dalle barche delle nostre paure fidandoci di Lui che ci invita a camminare sulle acque di un mondo che crede di poterci sommergere con facilità impedendoci di camminarGli incontro (cfr. Mt 14,28). Ma non può sommergerci se noi confidiamo in Gesù, nella sua forza, nella potenza con cui è risorto dalla morte, potenza divina che opera con forza nella nostra vita: chiunque ha questa fiducia in Lui non rimarrà deluso (seconda lettura).

Quando il demonio si vede davanti una persona che non ha paura di lui, fugge scornato, perché è un vigliacco, e noi non dobbiamo avere paura di lui perché siamo con Gesù, e Gesù è “più forte di lui” (Lc 11,22), iniziamo con questo spirito nuovo questo cammino quaresimale e andiamo decisamente dietro Gesù che oggi ci porta con sé nel deserto per essere con Lui tentati e uscirne con Lui vittoriosi.

Gesù, nel suo viaggio verso Gerusalemme, entra oggi nel deserto per lasciarsi tentare dal nemico e darci così in Lui la possibilità di vincerlo anche noi. Nel deserto l’antico popolo di Dio era stato tentato e aveva ceduto alla tentazione, il Figlio di Dio ripercorre l’itinerario spirituale di questo popolo e di tutta l’umanità e dà ad ogni uomo, a me e a te, la possibilità di ergersi vincitore nella lotta tremenda tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre che sono in ciascuno di noi (cfr. Gv 1,5; Rm 7,14ss), “senza lasciarci intimidire in nulla” (Fil 1,28).

Il demonio tentò il popolo di Dio nel deserto spingendolo a preferire la soddisfazione delle sue fami materiali alla libertà e spinse i cuori di tanti a desiderare di ritornare schiavi, ma sazi in Egitto: “Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cocomeri, dei meloni, dei porri, delle cipolle e dell'aglio. Ora la nostra vita inaridisce; non c'è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna” (Nm 11,5-6). Si erano stufati della “manna! Gesù, invece, ci insegna a digiunare, fidandosi del Padre, nutrendosi della sua Parola, che è la “manna” di cui ha bisogno ogni uomo per sopravvivere nel deserto del mondo, perché “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.

Nel deserto il demonio tentò il popolo a vivere come tutti gli altri popoli adorando gli idoli e così costruirono un vitello d’oro (cfr. Es 32), simbolo di tutti quegli idoli che asservono gli uomini e li rendono schiavi dell’avere, del piacere e del potere. Non così Gesù che nel deserto disdegna tutto questo splendore effimero che gli offre il demonio: potere mondano, gloria, successo, insegnandoci ad essere persone povere e libere che adorano solo Dio e non danno valore a ciò che non ne ha, perché sanno che “il mondo passa con la sua concupiscenza, ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1Gv 2,17): «Sta scritto: “Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, Lui solo adorerai”».

Nel deserto il demonio spinse il popolo a tentare Dio pretendendo che Lui li servisse facendo la loro volontà piuttosto che loro fare la sua, pretendevano il miracolo, l’intervento di Dio a loro piacimento (cfr. Es 17,1ss). Non così Gesù che ricordò al demonio che non ci si può servire di Dio, ma che invece Lo si deve servire, che siamo noi a dovere fare la Sua volontà, non Lui la nostra: «Non tenterai il Signore Dio tuo».

E così scornato e sconfitto da Gesù il “demonio si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato”, questa annotazione sul futuro ritorno del nemico, è esclusiva di Luca, gli altri evangelisti non la riportano, essa nasconde un particolare messaggio di questo evangelista che ci vuole rendere consapevoli di come, nella sua passione e morte, Gesù subì una nuova e più forte seduzione diabolica. 

Vedete, il demonio pur essendo intelligentissimo, non ha molta fantasia e così le sue arti seduttive sono sempre uguali, e come Lo tentò nel deserto così, con la stessa tecnica, cercherà di annientarlo sulla croce. 

“Se sei Figlio di Dio…”“se sei Figlio di Dio…mangia, bevi, spassatela, non morire di fame… perché soffrire se puoi non farlo?…”, “se sei Figlio di Dio fatti servire non metterti tu a servire, serviti degli uomini per dominarli come Re potente e glorioso…”, “se sei Figlio di Dio fa che tutti ti acclamino e ti osannino, ti riveriscano e ti ammirino”. Così Lo tentò nel deserto.

E così Lo tenterà sulla croce: 

«Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: “Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto”. Anche i soldati lo schernivano, e gli si accostavano per porgergli dell'aceto, e dicevano: “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso”. C'era anche una scritta, sopra il suo capo: Questi è il re dei Giudei. Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!”» – Lc 23,35-39.

Nel deserto e sulla croce e in tutta la sua vita il Figlio di Dio fu tentato di “salvare se stesso” rinunciando quindi a salvare noi, rinunciando ad ubbidire al Padre, rinunciando a consegnarsi, a donarsi per amore, rinunciando a servire per farsi servire. Consapevole di ciò, Gesù ci invita a imitarlo: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà. Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?” (Lc 9,24-25).

Ogni cristiano adulto e maturo dovrebbe essere un esperto conoscitore delle arti subdole del maligno, dovrebbe conoscere bene le sue tecniche di seduzione, “per non cadere in balia di satana di cui non ignoriamo le macchinazioni” (2Cor 2,11). “Macchinazioni”“lacci” (1Tm 3,7; 6,9; 2Tm 2,26), “seduzioni” (Col 2,4; 2Cor 11,3; 2Gv 1,7; Ap 12,9; 20,3) che il nemico usa e che – ripeto – sono sempre le stesse, impariamo a discernerle, è molto facile, il Signore Gesù ci ha regalato un mezzo di discernimento che ci permette di scoprire con semplicità e facilità ogni insidia diabolica. Sottoponiamo la nostra vita al giudizio della Croce, la Croce di Gesù infatti è il primo, principale e assoluto criterio di discernimento cristiano. Se vogliamo capire se veramente stiamo seguendo Gesù e non il nemico, se vogliamo capire se la nostra vita è saldamente ancorata e fondata su Lui e non sulla sabbia (cfr. Mt 7,24-27), se vogliamo scoprire quali sono gli ambiti della nostra esistenza dove si annida il serpente velenoso (cfr. 2Cor 11,3) basta che applichiamo il criterio della Croce a tutto questo, perché – attenti – non dimentichiamoci mai che Gesù ha affermato chiaramente che: “Chi non prende la sua croce e non Lo segue, non è degno di Lui” (Mt 10,38)… e che a tutti, diceva: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23).

Come fare dunque questo discernimento? È molto facile: basta interrogarsi con sincerità se quell’atteggiamento, quell’azione che ho fatto, o quella parola che ho detto o quella situazione in cui mi trovo e vivo esprime un mio consegnarmi per amore, un mio arrendermi per amore, un mio perdermi per amore, un mio morire per amore, se la risposta è sì, sono nel Vangelo e con Gesù e cammino con Lui verso la “vita eterna” (Gv 3,15-16.36; 5,24; 6,40.47…); se la risposta è no, significa che sto camminando a braccetto con il nemico verso la “seconda morte” (Ap 2,11; 20,6; 21,8).

E questo – carissimi fratelli e sorelle – dobbiamo chiederci ogni domenica prima di accostarci alla santa Comunione nella quale il Signore Morto e Risorto per amore, ci invita a consegnarci con Lui al Padre partecipando con la nostra vita al suo mistero di morte e risurrezione. Vedete, la domanda fondamentale che dobbiamo farci non è tanto quella se abbiamo fatto qualche peccato più o meno grave, ma se abbiamo amato veramente, se la nostra vita è illuminata, guidata e sospinta da un amore che sa consegnarsi, sa arrendersi, sa mettersi al servizio, sa morire per amore, perché l’essenza del peccato è sempre una chiusura all’amore, una incapacità di amare, un rifiuto di morire per amore, una ricerca di salvare se stessi. Vedete, il demonio ci tenta di ricercare una felicità che si esprime in un amare senza sforzo, senza croce, senza morte e il peccato dell’uomo e della donna è sempre un cedere a questa tentazione. 

Non lasciamoci sedurre, non lasciamoci ingannare, non lasciamoci abbindolare il cervello e il cuore e lasciamo che Gesù in questa Quaresima ci insegni l’arte del discernimento per imparare, in Lui, a vincere il nemico e riuscire finalmente ad amare nella libertà e nella verità consegnandoci e arrendendoci all’Amore.

Concludiamo guardano la Vergine Maria: chiediamo all’Immacolata che ci ottenga la gioia di partecipare intimamente alla sua vittoria sull’antico serpente (cfr. Gen 3,15) che continuamente insidia le nostre esistenze (cfr. 1Pt 5,8); Le chiediamo di starci vicino e sostenerci per affrontare “a muso duro” il nostro nemico e vincerlo confidando nella potenza del suo Figlio risorto e vivo che vive in noi (cfr. Col 1,27). 

Amen.                      j.m.j.

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Seconda Domenica di Quaresima – Anno C                          Omelia

«MAESTRO, È BELLO PER NOI STARE QUI!» 

Carissimi fratelli e sorelle,

iniziamo le nostre considerazioni dalla prima lettura, perché altrimenti rischiamo di dimenticarcene viste le molte cose che ci sono da dire oggi su questa Parola propostaci dalla Chiesa come nutrimento spirituale in questa seconda grande tappa del nostro cammino con Gesù verso Gerusalemme.

Il passo che abbiamo ascoltato ci ha raccontato dell’alleanza contratta da Dio con Abramo. Abbiamo ascoltato di uno strano rituale che siglò quest’alleanza: una serie di animali tagliati in due che formano un corridoio in mezzo al quale passò un fuoco divino. Rituale misterioso a noi oggi, ma che all’uomo biblico diceva molto. Infatti si trattava di un rituale normale ai tempi di Abramo che veniva effettuato in occasione di patti solenni tra due contraenti. Si dividevano in due una serie di animali e i due contraenti passavano in mezzo ad essi dicendo una frase simile a questa: “Che il Signore mi spacchi in due come questi animali se non manterrò la mia  parola e non sarò fedele a questo patto che oggi ho fatto”.

Una nota commovente: in mezzo al corridoio passò solo Dio, non passò Abramo. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che Dio, ben conoscendo la debolezza e la fragilità morale dell’umanità non pretese da essa, rappresentata da Abramo, quella fedeltà che non poteva assicurarGli. Non era infatti ancora nato dalla Vergine quell’unico Uomo che poteva passare in mezzo a quel corridoio giurando fedeltà a Dio Padre anche per tutti i suoi fratelli.

Detto questo, vi ricordo come, entrati con decisione (cfr. Lc 9,51) nel deserto con Gesù domenica scorsa, abbiamo esperimentato con Lui la fame e la tentazione, ma non abbiamo mangiato i “cibi deliziosi” (Sal 141,4) che ci ha proposto il nemico preferendo nutrirci della Parola di Dio e fatti “forti dello scudo della nostra fede abbiamo spento tutti i dardi infuocati del maligno” (Ef 6,16) e lo abbiamo vinto, ben sapendo, però, che ritornerà per l’attacco finale, quando saliti sulla croce con Gesù, cercherà di farci scendere giù da essa per farci salvare la nostra vita e così perdere la vita eterna (cfr. Lc 23,35-39), ma anche allora saremo capaci di vincerlo e ricacciarlo nelle sue tenebre. E, anche se – come ci ricorda oggi Paolo nella seconda lettura – molti sono “i nemici della croce di Gesù” che vorranno farci scendere da essa per farci salvare noi stessi e non morirvi sopra, noi saremo capaci di rimanere lì con Gesù, inchiodati al legno non già dai chiodi, ma dall’amore per il Padre e i fratelli. Noi abbiamo deciso di seguirlo e non ci tireremo indietro (cfr. Gv 6,67-68) guardiamo, quindi, non a coloro che “hanno per dio il proprio ventre” (seconda lettura) e ritengono cosa stoltissima e sciocca morire in croce (cfr. 1Cor 1,18), perché non sono spirituali, ma naturali:

 «L'uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito» – 1Cor 2,14

Ma guardiamo verso coloro che hanno imitato Gesù e che ci invitano a fare altrettanto (seconda lettura – cfr. 1Cor 11,1), come Paolo che, afferrato dall’amore di Gesù, reputò tutto “una perdita”  (Fil 3,8) e quando venne il suo momento, non si tirò indietro e seppe porgere la testa al suo carnefice. Guardando dunque i nostri fratelli santi, imitiamoli e “andiamo anche noi a morire con Lui” (Gv 11,16) e se loro ce l’hanno fatta a rimanere con Gesù, fermi sotto i colpi di martello, chiediamoci perché “non potremo fare anche noi ciò che fecero questi giovani e queste donne?” (s. Agostino – Confessioni). Sì, anche noi possiamo e dobbiamo dire con Paolo: «Io sono pronto non soltanto a esser legato, ma a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù» (At 21,13).

Ma il Signore Gesù prima di portarci con Lui a Gerusalemme vuole oggi portarci su un monte alto per farci vedere qualcosa di sé, per darci un’esperienza di Lui, della sua gloria, della sua santità, della sua potenza, della sua bellezza. Gesù portò con sé i suoi Apostoli sul Monte della Trasfigurazione perché questa visione della sua gloria li sostenesse nella prossima visione della sua umiliazione e porta anche noi oggi con loro, perché questa visione dia a ciascuno di noi, una volta scesi dal monte, la capacità di consegnarci per amore come Lui e con Lui alla nostra passione quotidiana per completare così “quello che manca ai patimenti di Gesù, a favore del suo Corpo che è la Chiesa” (Col 1,24)

E sale lassù portandoci con sé. Luca, raccontandoci quest’episodio, ci dice che “mentre Gesù pregava, il suo volto cambiò d'aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante”. A differenza di Matteo e di Marco, Luca annota che la trasfigurazione di Gesù avvenne mentre pregava e che essa iniziò dal suo volto. Luca ci mostra sempre Gesù in preghiera quando deve fare qualcosa di importante: al battesimo di  Giovanni (3,21),  prima di 

chiamare i Dodici (6,12), alla Trasfigurazione (9,29), prima della passione (22,41ss), sulla croce (23,34.46). 

Quando Gesù pregava doveva aver un fascino particolare, colpiti dalla sua preghiera i discepoli Gli chiesero di insegnar loro a pregare (11,1) e Lui insegnò loro il “Padre nostro”.

Saliamo dunque anche noi con Gesù sul monte insieme ai tre discepoli a Lui più cari – Pietro, Giovanni e Giacomo – che più tardi saranno “ritenuti le colonne” (Gal 2,9) della Chiesa. Saliamo e fermiamoci anche noi con loro a guardare Gesù mentre prega: il suo volto si trasfigura, il paradiso irrompe sulla terra, una luce divina infiamma i suoi occhi e tutta la sua persona rifulge di luce, anche noi con i tre discepoli rimaniamo esterefatti da tanta bellezza, da tanta santità, da tanta gloria, e non vorremmo scendere più da questo monte, vorremmo rimanere lì in quella nube luminosa che ci avvolge nella gloria del Padre.

Vorremo stare lì con Gesù, “il più Bello tra i figli degli uomini” (Sal 45,3), appaiono pure Mosè ed Elia che parlano con Gesù, Luca – unico tra gli evangelisti – ci svela anche il mistero di cosa parlavano, “parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme”. La visione di Mosé ed Elia è immediatamente indicativa della Sacra Scrittura, infatti un ebreo, per dire che sta leggendo la Bibbia, usa anche l’espressione “leggere Mosè e i Profeti”. Essendo, propriamente, Elia il più significativo tra i profeti, l’apparizione di Mosè ed Elia che discorrevano con Gesù “della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme” esprime chiaramente come tutta la Bibbia ci parli di Gesù e della sua Pasqua di morte e risurrezione, come tutta la storia della salvezza sia orientata e finalizzata a farci conoscere Gesù e il suo amore per noi.

E, mentre stiamo lì estasiati, una “nube luminosa” ci avvolge e dalla nube s’ode la voce del Padre: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo” e tutto poi svanisce e bisogna tornare giù, dove c’è una passione che aspetta Gesù e aspetta anche noi…

Quando contempliamo Gesù non dobbiamo mai dimenticare due principi teologici fondamentali:

  1. Tutto quello che Lui è e che Lui ha è anche nostro perché Lui ce l’ha regalato: il suo essere Figlio di Dio, il suo splendore, la sua gloria, la sua santità, Lui ci ha regalato tutto nel santo Battesimo.
  2. Tutto quello che Lui ha vissuto dal concepimento verginale alla sua morte in croce, ciascun cristiano è chiamato a viverlo nel mistero della Chiesa e dei suoi Sacramenti, Egli infatti ci “ha lasciato un esempio, perché ne seguissimo le orme” (1Pt 2,21).

Premesso questo, volevo farvi notare come ogni volta che noi entriamo in preghiera – attenti però! non semplicemente “diciamo le preghiere”, ma “entriamo in preghiera” – , la nube luminosa dello Spirito Santo ci avvolge in sé e il nostro volto si trasfigura di serenità, di pace, di gioia, di amore, di purezza, di santità e una particolare luce sentiamo emanare dai nostri occhi dai quali trabocca quell’Amore che il Padre riversa nei nostri cuori ogni volta che entriamo come Gesù, con Gesù e in Gesù in preghiera (cfr. Rm 5,5). E noi entriamo in preghiera ogni volta che presi per mano dallo Spirito Santo scendiamo nell’intimo del nostro cuore, lì dove vive nascosto il Verbo, il Figlio, l’“Eletto” che ci unisce in sé al Padre per essere “uno” in Loro (cfr. Gv 17,20ss). 

Avere fede, essere credenti significa non semplicemente credere all’esistenza di Dio e credere che il Figlio suo ci ha salvati e ci ha mandato lo Spirito Santo, no, avere fede significa propriamente credere che Gesù è vivo in noi (cfr. Col 1,27; Gal 2,20) e che, nello Spirito Santo, ci unisce in sé al Padre (cfr. Gv 17,20ss). Quando noi attiviamo questa fede entriamo in preghiera, entriamo nella nube dello Spirito che ci immerge nella luce e nella gloria del Padre e lì sentiamo, nell’intimo del cuore, la sua voce che dice: “Tu sei mio figlio” e la nostra che risponde senza parole: “Padre!”. Fatti figli nel Figlio, nel suo Cuore, mossi dallo Spirito diciamo senza parole: “Padre!”. Ecco la preghiera cristiana: dal cuore del nostro cuore abitato dalla grazia, inseriti intimamente al Figlio nello Spirito Santo diciamo senza parole: “Padre!”

Forti di questa esperienza, poi, scendiamo dal monte della preghiera alla valle della testimonianza dove ogni giorno siamo chiamati a portare la nostra croce dietro Gesù (cfr. Lc 9,23; 14,27; 23,26) e, se avvengono nella storia della nostra vita alcuni momenti in cui la croce di Gesù la lasciamo lungo la via perché stanchi di portarla, è solo perché abbiamo trascurato di salire il Monte della Trasfigurazione abbandonando la preghiera, ma basta un attimo, basta un reimmergerci in Lui, per ritrovare in Lui quella forza che non abbiamo più, quell’amore che non sentiamo più, quella luce che non vediamo più e ricominciare da capo, e ritornare indietro a cercare quel luogo dove avevamo buttato via la nostra croce per cercarla, riprenderla, baciarla e abbracciarla con amore e ricominciare a seguirLo sulla via che porta a Gerusalemme, accompagnati e sostenuti come Lui dalla sua Mamma, Donna Forte, che stette vicino al Figlio fino in cima al Calvario, dove fu pronta ad aiutarLo, se solo avesse avuto bisogno di aiuto per tenere ferme le mani, fermi i piedi mentre Lo inchiodavano al legno. 

Amen.                                                                j.m.j.

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Terza Domenica di Quaresima – Anno C  – Omelia

«Levati i sandali!» 

 

Carissimi fratelli e sorelle,

iniziamo la nostra riflessione anche in questa domenica partendo dal brano del Vecchio Testamento, domenica scorsa era Abramo che ci parlava dell’amore fedele e misericordioso di Dio, oggi è Mosè che ci narra della sua vocazione e chiamata dal roveto ardente.

Siamo in una tappa importante del nostro cammino verso la Pasqua di Gesù e la Chiesa desidera oggi invitarci con forza ad avvicinarci a Dio, non possiamo fare veramente Pasqua con Gesù se non ci fermiamo e, come Mosè, non abbiamo un’esperienza forte di Dio. La preghiera è propriamente l’esperienza dell’incontro con Dio.

Il cristiano è maturo e adulto nella fede quando ha imparato a pregare, quando cioè è un esperto dell’incontro con Dio. Quello che è avvenuto a Mosè, è avvenuto a nostro esempio, tutto quanto ci è stato trasmesso dal Vecchio Testamento ci è stato trasmesso “come esempio per noi” – come ci ha ricordato Paolo nella seconda lettura – non solo per quanto riguarda il viaggio della liberazione nel deserto, ma le stesse storie dei patriarchi, di Abramo, di Isacco, Giacobbe, Mosè e tutti gli altri personaggi del VT, tutto ci è stato tramandato “come esempio” perché ne traessimo insegnamento, e se leggessimo e meditassimo di più la Bibbia, quanto sarebbe più saggio il nostro cuore, quanto saremmo più sapienti! 

Vedete, ogni personaggio biblico rappresenta ciascuno di noi, simboleggia ognuno di noi, ci racconta di noi. Quello che è avvenuto ad Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Sansone, Saul, Davide, ecc., ci viene raccontato perché noi possiamo, attraverso la loro storia, comprendere meglio la nostra storia, dove si rinnova nella nostra esperienza, nella nostra vita di ogni giorno, quello che loro hanno vissuto. Meditando così la loro storia acquistiamo la sapienza, cioè diventiamo capaci di scoprire il vero senso della nostra vita illuminandola con la luce di Dio scoperta attraverso la conoscenza della storia di questi personaggi che, a suo tempo, si sono incontrati con Dio e Questi ha voluto che il loro incontro con Lui fosse esempio e luce per noi, chiamati nella fede a fare la stessa loro meravigliosa esperienza.

Per cui voi capite subito, premesso ciò, come non conoscendo la Bibbia, ignorando la Bibbia, non meditando la Bibbia siamo così scioccamente privati del bene inestimabile della sapienza e come proprio per questo motivo la nostra vita spesso è avvolta dalle tenebre del non-senso, dell’incomprensione, della mancanza di significato, specialmente di ciò che percepiamo come pesante, doloroso e che ci ferisce il cuore. Magari tutti noi prendessimo coscienza dell’inestimabile preziosità che potremmo realizzare ogni giorno dedicando un po’ di tempo a leggere e meditare la Bibbia, ma – come purtroppo spesso ben sappiamo – abbiamo sempre tempo per tutto il resto, per cui non ci può restare tempo anche per questo!  Vediamo ora cosa ci insegna oggi la storia della chiamata di Mosè. 

Mosè viveva un momento di grande scoraggiamento e delusione, era dovuto fuggire dall’Egitto ricercato dagli egiziani e non accolto dai suoi compatrioti, ha trovato nella famiglia di un uomo buono la sua nuova famiglia, ma fondamentalmente egli è solo e si sente solo finché Dio non irrompe nella sua vita chiamandolo dal roveto ardente, chiamandolo per nome e rivelandogli il suo Nome SSmo.

Prima freccia divina che colpisce il nostro cuore leggendo questa storia: l’iniziativa è di Dio, è Lui che irrompe nella vita di Mosè mentre egli sta lavorando, sta pascolando un gregge, non stava quindi pregando, non stava invocando il Signore, stava pensando alle sue pecore, Dio lo chiama.

Ma non lo chiama subito, prima attira la sua attenzione verso un roveto che arde senza bruciare, qualcosa di misterioso che interroga la sua intelligenza lo spinge ad avvicinarsi per vedere meglio, solo quando sarà vicino al roveto Dio lo chiamerà.

Carissimi fratelli e sorelle, se non abbiamo ancora sentito la dolcissima e soave voce di Dio che ci chiama per nome, è solo perché ancora non ci siamo avvicinati al roveto, il buon Dio ci attornia di roveti ardenti, cioè ci attornia di cose che portano in sé una carica di mistero che dovrebbero interrogare la nostra intelligenza creata da Lui appunto per entrare dentro i misteri e, innanzi tutto, entrare nel Mistero dei misteri che è Lui stesso. Tutto porta in sé una carica di mistero inspiegabile: la terra, la luna, gli oceani, gli alberi, i frutti, anche un piccolo fiore porta in sé una carica di mistero, anche un granellino di sabbia…, anche un invisibile atomo, ma soprattutto la persona umana, l’uomo, la donna sono carichi di mistero: come vivo? perché vivo? dove vado? perché soffro? perché muoio?

Ora, solo quando noi ci avviciniamo al mistero sinceramente desiderosi di avere una risposta totale, piena, assoluta e non ci accontentiamo di quelle parziali e monche, quando cioè noi cerchiamo la Verità, Dio ci viene incontro, fa sentire la sua voce chiamandoci per nome. Quando sentiamo la voce di Dio che ci chiama per nome, allora si apre la nostra mente, si allarga il nostro cuore nella gioia di saperci conosciuti, di sapere che Lui ci conosce, ci ama ed è interessato alla nostra storia personale che non è quindi più piccola e insignificante perché guardata con interesse, partecipazione e amore da Dio.

Ma, subito dopo aver sentito il proprio nome pronunciato da Dio, Mosè sente anche l’invito divino a levarsi i sandali. Nella tradizione biblica, i sandali, sono simbolo dell’uomo libero, della dignità, del padrone, di colui che aveva il diritto di camminare nella proprietà terriera. Davanti a Dio l’uomo deve togliersi i sandali: è l’unico gesto che Dio chiede a Mosè. Cosa significa questo gesto? Significa riconoscere che Lui è Dio e noi no, significa che non abbiamo né diritti né meriti da presentare, significa che noi non siamo sullo stesso piano di Dio, Dio è Dio e noi no, siamo sue creature che dipendono in tutto da Lui: il nostro essere, la nostra vita, il nostro respiro, il battito del nostro cuore, la luce dei nostri occhi, tutto, tutto è dono gratuito e immeritato di Dio. 

Togliersi i sandali significa, quindi, riconoscere che noi non apparteniamo a noi stessi, ma a Lui (cf Sap 15,2; 1Cor 6,19; cf Gal 3,29), significa che la nostra libertà – significata dai sandali – non può essere svincolata da Lui, autonoma da Lui, fuori di Lui, senza Lui, perché noi siamo sue creature e fuori di Dio e senza Dio non possiamo esistere, non siamo che nulla, solo Lui è “Colui che è”. Davanti a Dio la persona umana percepisce il proprio niente e che solo Lui, Dio, è “Colui che è”, noi siamo “niente”, Lui è “tutto”, ma questo “TUTTO” è anche una “PRESENZA” che riempie il nostro niente di valore. 

Due sono infatti le possibili interpretazioni del nome che Dio rivela a Mosé: “Io sono Colui che è”, cioè “Io sono l’Essere sussistente che esiste da sé” (comprensione del nome di Dio da parte della cultura greca), oppure “Io sono Colui che sarà con te, che sono sempre con te” (comprensione del nome di Dio da parte della cultura ebraica). Entrambe questi contenuti del nome di Dio possono e debbono coniugarsi insieme se vogliamo veramente conoscere chi Lui sia e chi siamo noi: Lui è Colui che solo è, noi siamo coloro che non sono che in Lui. L’esperienza della conoscenza di Dio si ha quando, nella consapevolezza e nella percezione del nostro niente, viviamo l’esperienza della Sua presenza nella nostra esistenza.

Dio chiede a Mosè solo di levarsi i sandali, cioè di riconoscere il suo niente, non gli chiede altro, ma Mosè fa anche un altro gesto, si copre il viso perché ha paura di vedere Dio:

«Mosè non si limita a levarsi i sandali, ma aggiunge spontaneamente un altro gesto non ordinatogli da Dio: si copre il volto. Egli ha paura. Dio che parla gli fa paura. Si sente morire se dovesse incontrare Dio con i suoi occhi. Mosè intuisce che l'incontro con Dio gli fa cambiare la vita, che Dio gli può chiedere tutto. Ha ubbidito nel togliersi i sandali, ma la paura di rinunciare a se stesso, ai propri desideri e interessi, lo porta a velarsi il viso. Quando l'uomo s'accosta al Dio che parla cerca automaticamente delle difese. Toglie i sandali, ma si copre gli occhi. Cerca di apparire ubbidiente, o di esserlo, ma a modo suo! Per accostarsi alla Parola di Dio è proprio necessario un cuore da bambino, un cuore libero da programmi, un cuore disponibile» – Don Virginio Covi.

Gesù, il Verbo incarnato, ci aiuta e ci insegna ad incontrarci con il Padre a “viso scoperto” (2Cor 3,18), senza paure e ci insegna e ci invita a dire con Lui il nostro “Eccomi” (Eb 10,7).

Ma questo implica una profonda conversione del nostro cuore al Padre abbassando tutte le nostre difese per accogliere la Sua volontà nella nostra vita con amore, con gioia, con slancio. 

Per questo Lui mandò il suo Figlio, perché ci insegnasse a levarci i nostri sandali, ma anche i nostri veli, a vincere le nostre paure, ad abbattere le nostre chiusure, a fidarci di Lui e del Suo amore per noi, ma siamo liberi di credervi, siamo liberi di ascoltare Gesù e aprirci al Padre come Lui, siamo liberi di vivere senza far caso agli innumerevoli roveti ardenti che Dio fa ardere attorno a noi per attirare la nostra attenzione e chiamarci a Sé, siamo liberi di non levarci i nostri sandali davanti a Lui, siamo liberi di continuare a nasconderci il volto, ma – attenzione – non siamo liberi di farlo sempre, il Padre dà un tempo ad ogni persona umana per realizzare quest’incontro con Lui, unico incontro che la può rendere libera e felice.

E Gesù oggi con la parabola dell’albero che il padrone vuol tagliare e bruciare perché non dà frutto e che acconsente a dargli ancora un anno di tempo, ci ricorda che il tempo che viviamo, quest’oggi in cui Lo ascoltiamo, è il tempo della misericordia e non ci è dato sapere quanto lungo esso sia. Approfittiamone dunque subito, non aspettiamo domani, non diciamo: “domani mi convertirò”“domani cambierò”“domani farò”… perché non sappiamo se domani ci sarà per noi. Ritorna così il tema forte della morte con cui abbiamo iniziato il nostro viaggio verso Gerusalemme, quando il sacerdote ha posato sulle nostre teste un po’ di cenere dicendoci: “Polvere sei e polvere ritornerai”. Il pensiero della morte, quanto mai salutare alle nostre anime così tanto distratte, ci scuote dai nostri torpori. Gesù lo sa bene, conosce bene Lui il cuore dell’uomo (cf Gv 2,25) e così, per scuotere i suoi uditori prese l’esempio da due episodi di morte – una repressione politica e il crollo di un edificio – per dedurne la sorte di coloro che non si convertono. 

E la Chiesa che prolunga nell’oggi la voce di Gesù, vuole scuotere anche noi: si avvicina la Pasqua, dobbiamo prepararci alla Pasqua! Siamo invitati a levarci i sandali e anche i veli che coprono le nostre paure e riconoscere il nostro “niente” di povere persone umane che hanno ancora tanta paura di aprirsi a Dio, tanta paura di lasciarsi toccare e amare da Lui perché hanno paura di quello che Lui potrebbe volere da loro e non hanno ancora capito che “Dio è AMORE” (1Gv 4,8.16) e che, quindi, può chiederci solo amore e ce lo chiede perché sa che, essendo fatti da Lui ad “immagine e somiglianza” Sua (Gen 1,26s), se non amiamo e non amiamo innanzi tutto Lui e in Lui tutto il resto, la nostra vita è senza senso, senza valore, senza significato e noi siamo dei poveri infelici!

Vinciamo dunque queste paure e avviciniamoci al roveto ardente del confessionale dove divampa il fuoco dell’amore di Dio per noi, accostiamoci presso questo roveto ardente togliendoci i sandali, presentiamo lì al Padre il nostro “niente” di povere persone che hanno peccato, e lì leviamo i nostri occhi a Lui senza paura di cosa possa chiederci, lì sentiremo la rivelazione del nostro nome nell’esperienza del Suo che è “Padre buono e misericordioso”, lì gusteremo la vera libertà, quella dei figli di Dio che sanno di essere da Lui amati e riempiti della Sua presenza.

Maria SSma guidi questi nostri passi decisivi del nostro cammino verso la Pasqua di Gesù, e ci ottenga la grazia di una sincera e profonda conversione a gioia di Dio (cf Lc 15,7.10.23) e nostra (cf Lc 19,6). Amen.                   j.m.j.

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Quarta Domenica di Quaresima – Anno C                            Omelia

 

«Gli dirò: padre ho peccato contro il cielo e contro di te!»

 

Carissimi fratelli e sorelle,

fra 21 giorni è Pasqua, siamo a metà Quaresima nella domenica chiamata “in laetare” in cui si può usare il colore liturgico rosaceo e si possono anche mettere i fiori sull’altare. È domenica della letizia perché si avvicina la Pasqua di Gesù, si avvicina la nostra Pasqua, gioiamo perché vogliamo fare Pasqua con Gesù partecipando al suo mistero di morte e risurrezione.

In questo clima di festa, ecco la Chiesa ci propone la parabola più bella, più gioiosa e commovente: la parabola del padre buono e del figliol prodigo.

Tutti conosciamo forse anche a memoria questa parabola, sin da quando eravamo bambini, e chissà quante spiegazioni abbiamo già sentito di essa, eppure ogni volta che la rileggiamo, ogni volta che qualcuno ce la spiega ci allarga il cuore, ci commuove, ci addolcisce l’animo, ci penetra nell’intimo e ci apre alla speranza e alla confidenza. È la storia della mia vita che Gesù racconta in questa parabola, per questo ognuno di noi la sente quanto mai vera e quanto mai sua.

Lo Spirito Santo mi aiuti ad aiutarvi a penetrare in profondità questa stupenda parabola perché essa possa operare in noi ciò per cui il buon Gesù ce l’ha raccontata: rientrare in noi stessi e avviarci incontro al Padre in questa Pasqua 2007 con grande commozione d’animo e desiderio di essere quella “nuova creatura” (seconda lettura) che il Padre desidera tanto realizzata in ciascuno di noi, creatura fatta nuova dall’incontro con un amore che va al di là di ogni umana misura, che ci sorpassa e trascende, un amore così potente e grande che nessuna persona umana poteva immaginare o sognare, un amore che ci insegue e ci aspetta, un amore che si offre a noi gratis, senza alcun nostro merito.

Sono i farisei che offrono a Gesù lo spunto per raccontare questa parabola, ma essa non è diretta solo a loro, ma a ciascuno di noi. Ognuno di noi è protagonista di essa, che è e rimane totalmente aperta, raccontando di due figli dei quali non sappiamo se il più giovane si sia poi convertito né se il più grande sia entrato alla festa, il finale della parabola si realizza nella nostra storia personale nella misura che ci lasciamo riconciliare da Dio, ci lasciamo amare dal Padre (seconda lettura) credendo all’amore gratuito con cui Egli ci ha amato e ci ama in Gesù Cristo o meno.

Entriamo dentro la parabola.

Guardiamo questo giovane tutto preso dalla sua sete di avventura, di piacere, di godersi la vita, non ragiona più. Questo è uno degli effetti di chi si proietta come affamato e assetato di terra e cose terrene. Quando la persona umana vive immersa in un orizzonte materiale diventa incapace di elevarsi nei ragionamenti, perché tutti i suoi affetti sono conquistati dai piaceri terreni e il ragionamento non ha più presa su di lei. Quando si vuole qualcosa a tutti i costi si diventa arroganti e ingiusti: “Dammi l’eredità che mi spetta”. Ma quale diritto aveva a ricevere qualcosa dal padre prima che questi morisse? Il padre sa che non serve a nulla cercare di farlo ragionare, potrebbe buttarlo fuori di casa senza un soldo o sopportarlo in casa senza dargli l’eredità di cui non aveva nessun diritto, invece lo fa contento.

Pensiamo alla gioia di quel giovane scapestrato nel vedersi in mano tanta ricchezza, come si sarà sentito nel cuore così pieno di soldi? Quante cose poteva fare con quel denaro!… Ora sì che vale la pena di vivere, di spassarsela e godersela senza sforzo! È la felicità… ma non quella vera, quella falsa e apparente, effimera e passeggera che lascia sempre la bocca amara e il cuore deluso. Eppure bastava che quel giovane ragionasse un pochino per non prendere una simile cantonata! Per questo la spensieratezza è la tentazione più forte con cui il nostro nemico cerca di farci cadere bombardandoci di distrazioni per farci vivere lontano da noi stessi, tutti proiettati fuori verso chissà che o chissà chi.

Ma la vita ti obbliga ad un certo momento a non essere più spensierato perché i soldi – prima o poi – finiscono e quando stai lì in mezzo alla puzza dei maiali con lo stomaco che ha fame, incominci a riflettere, ma mi chiedo: c’è bisogno di finire coi maiali per incominciare a ragionare?

E così il “figliol prodigo rientra in se stesso” e comincia a capire, ma a capire che cosa? Non ha ancora capito che ha sbagliato tutto, no, ha solo capito che a casa di papà si vive senza tanti sforzi e si sta meglio che con i maiali e così comincia a camminare verso la strada di casa pensando cosa inventare a suo padre per farsi accogliere: ”Gli dirò così e così e lui si impietosirà di me e avrò qualcosa da mangiare…”, è lo stomaco vuoto che lo fa tornare a casa non il cuore e il rimorso, ma la fame!

Ma il suo buon papà sconvolge tutti i suoi piani perché gli corre incontro appena lo vede da lontano, lo abbraccia con tutta la puzza dei maiali che si portava addosso, lo stringe a sé in un affettuoso e commosso abbraccio bagnandogli le guance di lacrime perché è troppo felice di rivederlo. Il figlio allora gli dice le parole che aveva imparato a memoria e chissà quante volte le aveva ripetuto per strada per ricordarle bene, ma il papà manco lo ascolta, non sopporta di vederlo in quello stato e gli fa portare un vestito, i calzari e l’anello di famiglia: è suo figlio, non un garzone! 

A questo punto il figlio scapestrato è proprio sconvolto e non sa come comportarsi: “Ma che gli ha preso a papà? È proprio impazzito? Non mi rimprovera…, non mi chiede dove sono andati a finire tutti quei soldi che mi ha dato…, non mi rinfaccia nulla…, e poi… piange pure! Ma perché piange lui?”. 

Un amore così lo spiazza totalmente, cosa fare ora? Rimangono a lui due possibilità: la prima è quella di lasciare piangere suo papà da solo, la seconda è quella di scoppiare in pianto pure lui. Se crederà che suo papà sia solo impazzito per l’età, lo lascerà piangere e si godrà di nuovo il suo posto in famiglia e la lezione avuta con i maiali gli farà guardar bene di allontanarsi più dalla casa del padre. Se, invece, crederà che suo papà sia pazzo sì, ma d’amore per lui, allora si vergognerà e confonderà (cf Ez 16,63), si sentirà piccolo piccolo e non si rivolgerà più a lui con parole imparate a memoria, ma con quelle che usciranno dal suo cuore convertito dalla rivelazione così sconvolgente di un amore troppo grande per lui, immeritato, totalmente gratuito con cui si sente avvolto dal padre. 

Vedete – carissimi fratelli e sorelle – l’umiltà è una virtù fondamentale del cristiano ed è anche una virtù totalmente diversa dalle altre perché essa non si raggiunge con l’esercizio, con l’impegno né con il desiderio di essere umili. Non sarà infatti sforzandoci di essere umili e piccoli che noi diventeremo tali, no, l’umiltà è il frutto della scoperta dell’amore sconvolgente e immenso, gratuito e troppo grande con cui il Padre ci ha amato e ci ama in Gesù. Di fronte ad un amore così ci sentiamo piccoli piccoli, perché consapevoli di non aver nulla con cui ricambiare e di non aver fatto nulla per meritare un simile amore.

Un amore così grande ci spaventa e non ci è facile accettarlo come non fu facile per Giovanni battezzare Gesù (cf Mt 3,14), come non fu facile per Pietro lasciarsi lavare i piedi dal Maestro (cf Gv 13,8), ma è solo quando accettiamo di essere amati così, senza meritarlo, senza esserne degni, che impariamo l’umiltà e cominciamo a conoscere Dio Amore sussistente abbandonando la logica del diritto e del merito, iniziando a godere di essere amati gratis, permettendo a Dio di amarci e di bagnare le nostre guance delle sue lacrime.

Ma come poteva capire quest’amore l’altro figlio, quello più grande? Quanta rabbia nel vedere il fratello trattato così dopo quello che aveva fatto: addirittura una festa per lui! Un comportamento così è proprio insopportabile e ingiusto, sì ingiusto! Chi di noi, in fin dei conti, non dà ragione a questo fratello? E dove sta la giustizia? Fare una festa per il fratello che ha sperperato i beni di famiglia? È assolutamente ingiusto!

Questo fratello si sente a posto perché è rimasto a casa, ha lavorato per il padre, non ha sperperato i suoi beni nel vizio, lui è un bravo ragazzo certe cose non le fa… anche se però le farebbe se non fosse per la paura di finire con i maiali… Lui si comporta bene perché questo gli rende di più, ma un pensierino alla dolcezze di una certa vita a lui non dispiace.

Il padre gli spiega…, cerca di fargli capire che si tratta di suo “fratello che era perduto ed è stato ritrovato, era morto ed è ritornato in vita”, ma quel fratello avrà capito? Sarà anche lui entrato alla festa? O sarà rimasto fuori continuando a servire il padre, ma con il cuore e la mente ben lontana dalla casa paterna?

Ecco – carissimi fratelli e sorelle – chissà se sarà entrato o no! Si sarà lasciato coinvolgere da quell’amore così grande o avrà continuato ad avere il cuore piccolo e ristretto? A ciascuno di noi la risposta con la nostra vita di cristiani che amano stare nella Casa del Padre che è la sua Chiesa. Cristiani convinti ed entusiasti che amano la Chiesa, che non vi stanno dentro per convenienza, ma per amore. 

Nella prima lettura oggi abbiamo ascoltato dell’entrata del popolo di Dio nella terra promessa, una grande tappa della storia della salvezza che si conclude: la traversata del deserto e l’entrata nella terra promessa. Incamminati anche noi verso la Terra Promessa del Cielo riconosciamo nel deserto di questa Quaresima che si distende verso la sua conclusione, una tappa importante della nostra vita in cui siamo chiamati a fare una nuova esperienza dell’amore del Padre per sentirci sempre più figli suoi, amati e benedetti dall’eternità (cf Ef 1,3s).

Maria SSma ci accompagnarci in questo nostro cammino e ci aiuti a riconoscere e ricambiare l’amore del Padre. Amen.                                                             j.m.j. 

 

 

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Quinta Domenica di Quaresima – Anno C                          Omelia

"Donna, nessuno ti ha condannato?"

Prima Lettura: Is 43,16-21 – Dal Salmo 125 – Seconda Lettura: Fil 3,8-14 – Acclam. al Vangelo: Ez 35,11 – Vangelo: Gv 8,1-11

Carissimi fratelli e sorelle,

oggi sembra che il nostro evangelista Luca, che ci sta accompagnando nel nostro cammino verso Gerusalemme per far Pasqua con Gesù, ci abbia abbandonati perché abbiamo ascoltato questo brano stupendo del capitolo ottavo di Giovanni: La donna adultera. In realtà il distacco potrebbe essere  apparente, ma non reale, perché tra gli studiosi della Bibbia, i più sono concordi nell’attribuire a Luca e non a Giovanni questo brano che, non si sa come, fu inserito nel Vangelo di Giovanni per qualche errore di antichi copisti dei manoscritti.

Quello odierno è un Vangelo che si presta moltissimo ad una contemplazione amorosa del mistero. Come vi ho detto già un’altra volta, per contemplare un brano evangelico occorrono essenzialmente due virtù: una fede semplice, senza tanti fronzoli, una fede semplice da bambino e un amore grande, appassionato, per Gesù. Ecco, se abbiamo queste due virtù possiamo avvicinarci a questo Vangelo per tentare una contemplazione di esso.

L’evangelista inizia il racconto ponendo Gesù sul monte degli Ulivi dove passa la notte, possiamo presumere in preghiera: va ad abbeverarsi alla sorgente del Padre, di quella Sapienza che riverserà poi nell'insegnamento al popolo nel tempio.

All’alba scende al tempio e si siede a insegnare attorniato dal popolo che Lo ascolta, che bella questa scena: Gesù che insegna e tanti che Lo ascoltano…, che bevono alla sorgente della vita eterna. Pensiamo alla gioia di Gesù nell’insegnare: Lui è la Parola, il Verbo… e che può mai desiderare la Parola se non di essere ascoltata! Pensiamo all’attenzione con cui era ascoltato da quella gente del popolo. Ascoltavano il Maestro che parlava loro del Regno di Dio, della vita eterna, del Cielo invitandoli ad avere fiducia nel Padre. Pensiamo a queste persone che Lo ascoltavano…, come Lo ascoltavano…, cosa provavano nel loro cuore quando Gesù parlava…

Quanto bisogno ha ciascuno di noi di fare questa esperienza! E la Quaresima, in particolare, è il tempo più propizio per fare questa esperienza: permettere a Gesù di parlarci, toccarci il cuore, illuminarci la mente e sollevare la nostra vita un po’ più in alto per ridimensionare così tutti quei problemi che ci assillano, turbano, angosciano, intristiscono e che hanno bisogno della sua Sapienza per essere affrontati con serenità e pace.

Ecco, mentre Gesù insegnava con amore a quella gente del popolo, arriva quella turba di persone inferocite dalla cattiveria, che gridano, urlano trascinando una povera donna davanti a Lui.

Fermiamoci un attimo a contemplare questa turba di gente: guardiamo i loro visi così stravolti dall’ira, dalla cattiveria… Guardiamo i loro occhi così pieni di malizia… Guardiamo i loro cuori così colmi d’odio… Hanno portato una povera donna per accusarla davanti a Gesù. Sapevano infatti che il Maestro predicava la misericordia, volevano così riuscire a prenderLo in fallo provocandoLo a dire un qualcosa per salvare la vita di quella povera donna.

Sono veramente cattivi, molto probabilmente avevano orchestrato tutto loro, infatti presentano a Gesù l’adultera, ma non l’adultero: dov’era l’amante che, secondo la Legge, doveva essere anche lui lapidato a morte?

Di fronte a questa presenza Gesù si distacca…, non guarda nessuno di loro, non guarda neppure la donna…, non vuole infatti che si senta umiliata da un Suo sguardo mentre è accusata da tutti e additata ad essere guardata come una svergognata da lapidare, non vuole che il Suo sguardo possa essere travisato e confuso con quegli sguardi senz’amore.

E scrive per terra…, non risponde al meschino quesito che Gli pongono se vada o meno lapidata quella peccatrice… scrive per terra. Tanti si sono chiesti: chissà cosa scriveva Gesu? Qualcuno pensa che scrivesse sulla sabbia i loro peccati…, altri che scrivesse: Ipocriti… Ipocriti. Ma qualunque cosa Egli scrivesse, molto probabilmente, era solo un gesto con cui Gesù, che pur essendo Dio dall’eternità, è uomo come noi, stava scaricando la Sua tensione nervosa, la sua santa ira di fronte a tanta cattiveria che Gli vomitavano addosso… Chissà quanta umana voglia aveva di fulminarli tutti, eppure fu anche con loro dolce e misericordioso!

Poiché insistono arrogantemente, il Maestro si alza in piedi e li guarda… Pensiamo a questo sguardo di Gesù…, li penetra con il Suo sguardo… Lui è il Verbo di Dio, la Parola di Dio fatta carne che

“…è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v'è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto” – Eb 4,12-13

Gesù li guarda…, anche loro nella loro cattiveria e malizia, li guarda con amore…, il Salvatore del mondo, il Redentore dell’uomo ha pietà di loro: li conosce uno per uno e per ciascuno di loro fra poco avrebbe donato la vita svenato d’amore!

Li guarda e dice loro: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Quelli erano sicuri di averLo messo con le spalle al muro, di averLo incastrato con il loro tranello, ma si sbagliavano di grosso perché Gesù è Dio e Dio non Lo si può raggirare né incastrare: è Dio!

“Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei…”. E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi".

Ogni volta che Gesù ci parla ci fa entrare dentro noi stessi, ci fa andare in profondità, ci fa scendere nel cuore, ci mostra la nostra verità. Quella gente sbraitava e si agitava per una motivazione apparentemente giusta e si appellava alla giustizia di Dio per avallare la propria iniquità…

Le motivazioni nascoste! Quante volte agiamo iniquamente, maliziosamente travestendo le nostre intenzioni di virtù? Chi può smascherarci quand’anche mentiamo a noi stessi? Solo Lui può farlo perché Lui è “la Verità” (Gv 14,6) che illumina le nostre menzogne (cf Gv 1,5). Entriamo nel cuore di quella gente…, che grazia hanno ricevuto! Quanto amore il Signore ha avuto per loro, sono “rientrati in loro stessi” come il figliol prodigo di domenica scorsa…, hanno capito la loro malizia nascosta, si sono ricordati chissà di quanti peccati che avevano commesso: debolezze, fragilità, miserie… erano dei poveri peccatori anche loro, altro che arrogarsi di giudicare qualcuno! Com’è difficile ammettere di essere dei poveri peccatori… com’è difficile! Eppure finché non hai il coraggio e la sincerità di ammetterlo, Gesù non ti salva perché Lui è venuto solo per i poveri peccatori, non è venuto né per i santi, né per i giusti (cf Lc 5,32; Mc 2,17).

Ecco – carissimi fratelli e sorelle – la grazia che dobbiamo chiedere in questa settimana per prepararci bene a far Pasqua con Gesù, la grazia di un incontro profondo con la Parola, la grazia di incontrarmi con questo sguardo dolcissimo di Gesù per fare verità dentro di me e far emergere alla mia coscienza la mia miseria.

Adesso che tutti se ne sono andati, adesso Gesù la può guardare quella povera donna. La guarda con amore e compassione e in quello sguardo la donna ritrova la sua dignità. Per la prima volta nella sua vita quella donna si sente guardata senza essere giudicata, guardata con uno sguardo che l’accoglie così come è senza giudicarla, guardata con uno sguardo che entra dentro la sua miseria umana non coprendola o scusandola o banalizzandola, ma illuminandola in tutta la sua verità assumendola su di sé, facendosene carico.

E così l’Unico che poteva lapidarla perché veramente senza peccato si fa lapidare al suo posto perché lei fosse liberata dalla vergogna e dalla colpa: Lui si fatto maledetto perché noi fossimo benedetti (cf Gal 3,13-14), Lui si è fatto peccato perché noi fossimo fatti figli (cf 2Cor 5,21), Lui si è fatto brutto, talmente brutto da non sembrare più neanche un uomo (cf Is 53,3), perché noi fossimo fatti belli!

Ecco, carissimi fratelli e sorelle: “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (prima lettura) Guardate quella donna ora che si è incontrata con Gesù, è una donna nuova, un creatura nuova, quella donna che aveva tradito il marito e la propria dignità non c’è più, non è più lei, quella era la donna vecchia ora è donna nuova perché ha incontrato Gesù. Tutto il suo passato, ora che ha conosciuto Gesù, non gli appartiene più, perché Lui glielo ha espropriato e fatto proprio per inchiodarlo sulla croce (cf 1Pt 2,24-25; Col 2,13-14). Guardandosi indietro rileggendo la storia della sua vita, ora lei non vi legge più la parola “miseria”, ma vi legge “misericordia”! Ecco chi è il vero cristiano, ecco chi è la vera cristiana: colui e colei che sanno leggere “misericordia” dove avevano scritto “miseria”!

Possiamo così capire Paolo (seconda lettura), come anche lui, fatto nuovo dentro dallo sguardo misericordioso di Gesù, da quel momento non è più lo stesso e tutto ciò che prima aveva per lui valore, ora non ne ha più, ciò che prima per lui era tutto ora è “spazzatura”, perché quello sguardo lo ha conquistato e ora non può più vivere come viveva prima perché è una “creatura nuova”, infatti “se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17) Il passato così non c’è più: è sepolto da un’oceano immenso di misericordia, anche quando si guarda indietro non vede altro che misericordia e allora corre, corre “tenendo fisso lo sguardo su Gesù” (Eb 12,2), corre, la sua vita ormai è una corsa (cf 1Cor 9,26; 2Tm 4,7) verso quella corona di gloria che il Padre ha riservato per i suoi figli in Gesù (seconda lettura).

La Vergine Maria ci accompagni sempre più strettamente durante questa ultima parte del nostro cammino dietro Gesù che va “decisamente verso Gerusalemme”.(Lc 9,51) e ci aiuti a tenere ben fermo il nostro passo e ben fisso il nostro sguardo su di Lui per partecipare con Lui, fino in fondo, alla sua immolazione d’amore e alla sua risurrezione gloriosa.  Amen.                                              j.m.j.

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