Triduo Pasquale

OMELIE DEL TRIDUO PASQUALE

   

GIOVEDÌ SANTO – PRIMO SCHEMA

Giovedì Santo: Messa “in Cena Domini”                              Omelia

“E COMINCIÒ A LAVARE I PIEDI AI DISCEPOLI…”

 

Carissimi fratelli e sorelle,

entriamo con questa celebrazione della Messa “in Cena Domini” nel Triduo Pasquale di morte e risurrezione di N. S. Gesù Cristo. Siamo nella sorgente, nel cuore, nell’apice della liturgia e della vita stessa della Chiesa. In questa celebrazione madre di tutte le celebrazioni eucaristiche facciamo memoria della sua istituzione fatta dal Signore proprio in quella sera in cui veniva tradito, gli venivano messe le mani addosso per legarLo e trascinarLo davanti ad un tribunale umano, Lui che è il Giudice Supremo di tutti!

Il sacerdote che presiede la celebrazione eucaristica in questo giorno è invitato dalla Chiesa a soffermarsi nell’omelia su tre argomenti: l’istituzione dell’Eucaristia, il comando dell’amore fraterno sancito dal gesto umile di Gesù della lavanda dei piedi, l’istituzione del sacerdozio.

Quante cose si possono dire sull’Eucaristia! Su di Essa si son scritti e continuamente si scrivono libri! In quest’omelia vorrei solo dire qualcosa sull’Eucaristia, ma qualcosa che possa toccare per bene i nostri cuori e spingerli ad una nostra partecipazione più convinta, entusiastica, commossa e seria alla Comunione Eucaristica. L’anno scorso in questo giorno ricordavo soprattutto di non cosificarLa, non riceviamo una “cosa” pur santa che sia, riceviamo Gesù, una persona, una Persona Divina, la Seconda Persona Divina che ha assunto la nostra natura umana per potersi donare a noi come Cibo e Bevanda spirituale, con il suo Corpo Immolato e il suo Sangue versato, e di avere quindi verso l’Eucaristia quelle attenzioni proprie che si debbono alla Persona Divina di Gesù fatto Ostia per noi. È importante questo per cui mi ripeto anche quest’anno: curiamo bene la nostra partecipazione alla Comunione, non solo nella nostra interiorità, ma anche nei gesti esteriori, fatti con amore commosso, serietà e gioia.

Voglio farvi una confidenza da prete. Sapete, il Signore regala ai suoi preti tante grandi e intime gioie nel loro ministero, certamente insieme alla sua croce che non manca mai. Ebbene, una delle gioie più belle che il buon Dio regala a noi preti è – senza dubbio – il momento in cui consegniamo Gesù Eucaristico ai fedeli nella Santa Comunione, quando diciamo: Il Corpo di Cristo e sentiamo rispondere il fedele che dice il suo Amen. Ma cosa ci fa così tanto gioire? Vedere gli occhi dei fedeli che si accostano con amore e con gioia alla Comunione, vedere con quanta fede, rispetto adorante e amore ricevono Gesù Eucaristia nelle loro mani, osservare con quanto amore Lo guardano, Lo prendono nelle dita e se Lo porgono alla bocca… Il prete è costituito da Dio per questo, le sue mani sono il tramite perché tutti possano accostarsi con amore all’Eucaristia, è tutto lì il senso di essere prete: permettere a Gesù di entrare nella vita dei suoi fedeli, permettere ai fedeli nutrirsi dell’Eucaristia per diventare Eucaristia. Cosa pensa il prete mentre consegna Gesù Eucaristia? 

Che bello consegnarLo ai fanciulli (quando sono preparati bene): quando si avvicinano con tanta serietà e amore con quelle manine poste a mo’ di culla… il prete pensa: Chissà come sei contento Gesù di entrare in questo cuoricino… accompagnalo nella sua crescita… fai di lui un buon cristiano…

Che bello consegnarLo agli adolescenti che nel turbinio delle loro problematiche si accostano all’altare, un po’ timidi un po’ spavaldi… il prete pensa: Gesù, illumina questo ragazzo e metti nel suo giovane cuore una così gran sete di verità che nessuna menzogna possa sedurgli il cuore e spingerlo a bruciare la propria giovinezza nel vuoto del non senso, ma sii sempre Tu per lui “Via, Verità e Vita”…

Che bello consegnarLo ai fidanzati – ai fidanzati che sanno mettere Gesù in mezzo a loro – Gesù che ad un tempo li unisce nella tenerezza e li fa stare al loro posto nella serietà di fidanzati e non di più… il prete pensa: Gesù, verginizza questi giovani, rendi sempre più bello il loro amoresostienili nelle difficoltà della purezza e conservali nella limpidezza del loro amore…

Che bello consegnarLo ad un seminarista o a una novizia… di fronte a quel cuore così bello, ripieno di Lui che ha saputo lasciare tutto e seguirLo donando a Lui la propria giovinezza… il prete pensa: Che gioia per te Gesù entrare lì, plasmalo bene questo cuore, innamoralo bene di Te perché conquisti tanti cuori a Te, Signore dei cuori…

Che bello consegnarLo ad un religioso, a una religiosa… di fronte a quell’abito segno di un cuore innamorato follemente di Gesù… cosa pensa il prete: Gesù, imprimi bene nel cuore di questa persona a Te consacrata i tre chiodi dell’amore vero e divino con cui ha deciso di morire per Te nella verginità, nella povertà e nell’ubbidienza…

Che bello consegnarLo agli sposi che, magari, si accostano all’altare accompagnati dai loro figli più piccoli… che bello vedere un papà che fa la santa Comunione portando in braccio il figlio o dando la mano a lui… il prete pensa: Signore Gesù accompagna questi genitori nel loro difficile compito di educatori, fa che siano forti e saggi e non si scoraggino mai…fa che la loro casa sia una tua piccola Chiesa dove Tu possa sempre trovare accoglienza e amicizia come la trovavi a casa di Lazzaro, Marta e Maria…

Che bello consegnarLo alle persone anziane che si accostano tremolanti all’altare. Guardando quei volti segnati dall’età e spesso da sofferenze nascoste ai più… il prete pensa: Signore Gesù, consola questo cuore affranto, solo e bisognoso di affetto… sostienilo nella sua vecchiaia e accompagnalo nel suo cammino incontro a Te…

Che bello consegnarLo ad una persona malata… Il prete pensa: Gesù, Tu che sai cosa vuol dire soffrire e sei morto in croce per amore, aiutala a trasformare il dolore in amore nell’offerta sua al Padre insieme alla Tua…

E con tutti, consegnando loro Gesù Eucaristia, pensare a quelli che sono i loro desideri e speranze più belle che portano nel fondo del cuore: che Gesù regali loro la gioia di vederli realizzati… pensare poi alle loro seti di amore, di affetto, di comprensione: Gesù cresca in loro la Tua presenza di Fratello e Amico che comprende e solleva dalla solitudine… pensare a quelli che sono le loro ferite, i loro dolori, le loro speranze deluse, le loro fatiche e sacrifici di ogni giorno: Gesù accogli tutto questo mare di sofferenza nel Tuo Cuore e presentalo al Padre con la tua offerta d’amore…

Ecco, così vi ho parlato un po’ dell’Eucaristia e un po’ del prete, a proposito non dimenticatevi mai che oggi è la festa dell’Eucaristia, sì, perché oggi viene istituita da Gesù, ma per questo oggi è anche, di conseguenza, la festa di noi preti, perché Eucaristia e Sacerdozio Ministeriale nascono insieme: non c’è Eucaristia senza il prete! E – carissimi fratelli e sorelle – se l’Eucaristia è il dono d’amore più grande che ci ha fatto il Signore, vedete bene che ogni prete che abbiamo è segno che Dio continua ancora ad amarci nonostante tutto, per questo non dimenticatevi mai di fare gli auguri ai vostri preti in questo giorno. Questo pensiero ci invita fortemente a pregare il buon Dio per le vocazioni alla vita sacerdotale, che Lui continui a chiamare e a far sentire la sua voce a molti giovani, conquisti i loro cuori, vinca le loro paure e dia loro il coraggio d’amore di tuffarsi nell’avventura più bella del mondo: rendere presente con la propria persona Gesù, il Redentore e Salvatore del mondo, rendendoLo presente nell’oggi dell’umanità nella propria fragile umanità. Sì, nella propria umanità, perché vedete il prete, pur santo che sia, rimane sempre un povero uomo come tutti, con i suoi limiti, i suoi difetti e – purtroppo! – anche i suoi peccati, talora anche gravi! Quanti vorrebbero invece che così non fosse e che i preti fossero tutti dei perfetti santi! Non è così – fratelli e sorelle – non è così! Anche il prete ha bisogno di un altro prete che lo assolva, lo sostenga e lo incoraggi!

Non fu così all’inizio, ricordiamo come i primi tra essi non seppero neppure stare svegli un’ora con Lui mentre pregava angosciato il Padre e sentiva il bisogno di averli vicino per essere consolato dalla loro presenza amicale (cf Mc 14,34)…, uno di loro poi Lo tradì con un bacio (cf Lc 22,47-48), un altro Lo rinnegò (Lc 22,54ss), “tutti fuggirono” (Mc 14,50) quando Lo arrestarono e uno solo di loro Lo seguì lungo il Calvario (cf Gv 19,26)… Non fu così all’inizio e non è così neanche oggi: sono sempre solo dei poveri uomini quelli che Gesù chiama a seguirLo nella vita sacerdotale, non chiama mai degli angeli, ma dei poveri uomini bisognosi loro per primi di quella misericordia di cui diventano amministratori.

Per questo proprio in quell’ultima sera in cui li istituì prese anche un catino e un asciugatoio e lavò loro i piedi imponendo questo gesto come stile di vita nella sua Chiesa: Vedete, voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene perché lo sono, ma se mi chiamate così dovete dunque fare anche voi quello che avete visto fare da me, dovete perciò anche voi lavarvi i piedi gli uni gli altri. Pietro non voleva, ma Lui l’obbligò, chiediamo allo Spirito Santo che ci introduca nel mistero di questo gesto di Gesù che deve caratterizzare anzitutto la vita di ogni prete prima ancora che di ogni battezzato.

Una lettura parziale di questo gesto ce lo fa leggere soprattutto alla luce dell’umile servizio fraterno: dobbiamo coltivare sentimenti e atteggiamenti di umiltà e di disponibilità al servizio fraterno, ma questa è, seppur vera, solo superficiale e incompleta. Una lettura più profonda e piena di questo gesto di Gesù che Pietro non vuole accogliere e che richiama tanto il rifiuto del Battista di battezzare Gesù, anche Lui come Pietro obbligato al gesto (cf Mt 3,13-15), ce lo fa leggere alla luce dell’accoglienza di un amore troppo grande (cf Ef 2,4) che ci supera e ci trascende e che non possiamo mai ricambiare abbastanza, di fronte al quale siamo tutti debitori insolventi.

Noi che ci nutriamo dell’Eucaristia siamo chiamati dal Maestro a lavarci i piedi gli uni gli altri nell’esperienza fondante e previa di Lui che li lava a noi e Lui non lo farà se noi non glieLo permettiamo! Il prete è innanzi tutto colui che si è fatto lavare i piedi da Gesù e continuamente Gli permette di farlo, infatti se non fa questo come farà ad insegnarlo ai suoi fedeli?

Ecco la Chiesa: insieme di persone che hanno esperimentato su di sé un amore così forte, così grande, così pieno, ma soprattutto così assolutamente gratuito che sanno non poter ricambiare mai abbastanza. Fatte quindi debitrici insolventi dell’amore di Dio, si sentono profondamente debitrici d’amore verso tutti, per cui, quell’amore che non possono restituire a sufficienza a Lui, lo riversano sui propri fratelli e sulle proprie sorelle. E così quello che desidererebbero fare a Dio, ma che non possono fare, cioè amarLo per primo (cf 1Gv 4,19), lo fanno verso di loro, amandoli nella stessa gratuità di quell’amore che li ha investiti e sommersi.

Alle volte si può voler lavare i piedi al fratello, senza però avere l’esperienza personale di essersi fatti lavare i propri da Gesù: si tratta di un servizio apparente che serve per mostrarsi e sentirsi indispensabili, ma che non ha per oggetto l’amore dell’altro, ma l’amor proprio. Ecco il prete, essendo colui che per primo ha permesso a Gesù di lavargli i piedi, deve aiutare i suoi fedeli innanzi tutto a lasciarsi lavare i piedi da Gesù, cioè a lasciarsi amare da Gesù, lasciarsi perdonare da Gesù nonostante che – magari – si continui sempre a cadere nei soliti difetti e peccati. Avendo l’esperienza continua di una misericordia che l’invade e li sommerge non possono poi non accostarsi al fratello rivestendolo con quella misericordia con cui sono stati immersi loro stessi, questo è il senso più profondo del lavarsi i piedi gli uni gli altri: relazionarsi con i propri fratelli in una relazione di misericordia che copre, scusa, perdona, sopporta, esalta, incoraggia e aiuta (cf 1Cor 13,4-7).

Dobbiamo anche saper cogliere l’invito di Gesù a imitarLo non solo nel fatto di ricoprire l’altro di misericordia, ma anche e soprattutto di permettere non solo a Gesù, ma a tutti di ricoprire noi di misericordia. Quanto è difficile questo! Se è difficile lasciarsi lavare i piedi da Gesù, e lo è, molto più difficile è lasciarsi lavare i nostri piedi dagli altri che non sono GesùQuesto è proprio il frutto più bello di un’anima veramente eucaristica: permettere a tutti di lavarle i piedi e quindi di essere in debito insolvente non solo con Gesù, ma con ogni uomo! 

La Vergine Maria, Madre e Regina dei preti, aiuti tutti noi, preti e fedeli, a lasciarci immergere nella misericordia del suo Figlio dal cui Cuore aperto, domani vedremo sgorgare come un fiume d’Amore travolgente, “sangue e acqua” (Gv 19,34).   

Amen.     j.m.j.

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GIOVEDÌ SANTO – SECONDO  SCHEMA

 Giovedì Santo: Messa “in Cena Domini”                                               Omelia

“E COMINCIÒ A LAVARE I PIEDI AI DISCEPOLI…”

Carissimi fratelli e sorelle,

entriamo con questa celebrazione della Messa “in Cena Domini” nel Triduo Pasquale di morte e risurrezione di N. S. Gesù Cristo. Siamo nella sorgente, nel cuore, nell’apice della liturgia e della vita stessa della Chiesa.

In questa celebrazione madre di tutte le celebrazioni eucaristiche facciamo memoria della sua istituzione fatta dal Signore proprio in quella sera in cui veniva tradito, gli venivano messe le mani addosso per legarlo e trascinarlo davanti ad un tribunale umano, Lui che è il Giudice Supremo di tutti!

Il sacerdote che presiede la celebrazione eucaristica in questo giorno è invitato dalla Chiesa a soffermarsi nell’omelia su tre argomenti: l’istituzione dell’Eucaristia, il comando dell’amore fraterno sancito dal gesto umile di Gesù della lavanda dei piedi, l’istituzione del sacerdozio.

 

L’ISTITUZIONE DELL’EUCARISTIA.

Sull’Eucaristia sono stati scritti e si scrivono libri su libri, chiediamo alla Luce divina, allo Spirito di Gesù che ci dia in questo giovedì santo di saper penetrare in questo mistero dei misteri perché la nostra vita eucaristica possa ricevere un perfezionamento e un ravvivamento.

Solo alcuni flash:

  • L’Eucaristia non è una cosa, è una Persona, è Gesù. È lo stesso Gesù che predicava il Vangelo lungo le strade della Palestina, che sanava i malati, risuscitava i morti… è lo stesso Gesù che però si rende presente nel pane e nel vino consacrati come Corpo immolato, come Sangue versato, si rende presente cioè nel gesto d’amore più grande con il quale ci ha salvati: la sua offerta d’amore sulla croce.
  • Gesù comunicandosi a noi nel sacramento dell’Eucaristia vuole comunicarci i suoi stessi sentimenti di amore e di donazione, di consegna di se stesso alla volontà del Padre per la salvezza e la vita degli uomini.
  • Decidere di fare la Comunione significa la decisione di entrare in quel dinamismo d’amore che travolse il Cuore di Gesù e Lo portò in Croce a morire d’amore. Quanti cristiani sono consapevoli di questo e quanti fanno la Comunione con questa consapevolezza di un gesto che implica consegna di sé, resa senza condizioni all’amore, impegno fattivo a fare la volontà del Padre costi quel che costi, anche la morte di Croce?

 

LA LAVANDA DEI PIEDI.

Possiamo leggere questo gesto di Gesù sotto due angolazioni che si compenetrano a vicenda.

  • La prima è quella significata con evidenza immediata dal gesto stesso e dalla spiegazione che ne dà lo stesso Gesù subito dopo: “Io ho fatto questo perché sono il vostro Maestro e quindi vi invito a fare quello che ho fatto io, anche voi. Io vi ho lavato i piedi perché impariate da me a lavarvi i piedi gli uni gli altri”.  È  un gesto molto forte. Con questo gesto Gesù ci ricorda che l’amore fraterno non può essere supposto o desiderato, ma deve esprimersi in gesti. S. Giovanni Bosco diceva ai suoi preti: “Non serve che voi amiate i vostri ragazzi, bisogna che anche i ragazzi capiscano di essere amati”. Impariamo l’importanza della gestualità dell’amore dal nostro Maestro d’Amore.
  • La seconda è quella più profonda, che sta sotto alla prima. Gesù non è solo il Maestro, Gesù è Dio e Dio che si mette in ginocchio davanti a dei poveri uomini, Pietro non vorrà, viene obbligato da Gesù: “Se tu non ti lasci lavare i piedi non avrai parte con me”. E lì quella risposta spontanea di Pietro: “Se è così, Signore, lavami anche le mani e il capo!”                                                          .  
    Qui c’è un grande mistero, è il mistero di un amore la cui caratteristica principale è quella di essere troppo grande. Qui entriamo in una delle difficoltà più grosse della vita spirituale di chi vuole seguire Gesù sul serio: accettare che Lui ti lavi i piedi. Accettare cioè un amore che tu non potrai mai meritare e ricambiare, perché Lui non ci lava i piedi perché siamo stati bravi, buoni o chissà per quale nostro merito, Lui ce li lava perché ci ama e basta, non ci sono altri motivi, ci ama. Accettare di essere oggetto di un amore gratuito significa riconoscere con umiltà la propria estrema povertà.                                
    .
    Sarà proprio questa consapevolezza di essere amati di un amore troppo grande che mi spingerà poi a non cercare motivazioni nel mio amore verso i miei fratelli e a sapermi inchinare su ciascuno di loro con un amore che non cerca che di donarsi, che non cerca contraccambi, riconoscimenti, medaglie e cose del genere, ma con un amore che chiede solo di amare perché Lui ci ha amati così.

 

L’ISTITUZIONE DEL SACERDOZIO.

Carissimi fratelli e sorelle, oggi – ricordatevelo bene! – oggi è la festa dei sacerdoti, non dimenticate di fare gli auguri ai vostri preti.

Il sacerdote, chi è questo sacerdote? La Lettera agli Ebrei (5,1) ci dice, riferendosi al sacerdozio ebraico, che è “un uomo preso tra gli uomini per le cose che riguardano Dio per il bene degli uomini”. 
Qui abbiamo già una prima, fondamentale e importante definizione di chi è il sacerdote: “è un uomo”. E sì, è un uomo, non è un angelo, è un uomo con tutte le debolezze e fragilità degli uomini che viene scelto e chiamato per essere ponte tra Dio e gli uomini. Quale grande responsabilità e quale grande amore questo povero uomo deve avere per Dio e per i suoi fratelli! 

Ma se questa era la grandezza e la responsabilità del sacerdozio ebraico, presente anche nel sacerdozio cristiano, quest’ultimo e nuovo sacerdozio comunica a chi è chiamato ad esserlo e lo diventa, la prerogativa di realizzare questo suo essere ponte tra il Padre e l’umanità in un legame intimo con Gesù Cristo che egli non solamente rappresenta, ma lo rende presente con la sua stessa persona. Il prete cioè è qualcosa di più di un ambasciatore, di un delegato di Gesù Cristo, perché le sue azioni salvifiche sacramentali le compie non in nome di Gesù Cristo, ma nella Persona di Gesù Cristo. Il che vuole dire che quando il prete consacra è Gesù Cristo che consacra, quando il prete assolve è Gesù Cristo che assolve.

Badate bene, questo indipendentemente dalla santità di quel povero uomo. Sì, indipendentemente dalla sua santità. Alcuni vorrebbero che tutti i preti fossero santi e non sopportano che ci siano preti che non fanno proprio tutte le cose giuste e belle, e alcuni ecclesiastici – la storia della Chiesa non solo antica ce lo ricorda – hanno fatto scandali, scandali anche gravi. 

Ebbene se Gesù Cristo avesse stabilito che solo il prete in stato di santità, in grazia sua, potesse celebrare validamente i sacramenti e che il sacerdote in peccato grave non avesse il potere di battezzare, di consacrare, di assolvere…, fratelli e sorelle quando mai avremmo avuto quella serena certezza di fede che Gesù ancora oggi è in mezzo a noi e ci salva toccandoci con la grazia sacramentale?

Sì, carissimi fratelli e sorelle, questi preti sono poveri uomini come tutti, la grazia dell’ordinazione sacerdotale non comporta l’esenzione dal peccato e dalla tentazione. Quelle mani che consacrano il pane e il vino, possono essere macchiate di peccato, di peccato grave. Anche il prete ha bisogno di un altro prete che lo assolva, che lo consoli, che lo aiuti, che lo incoraggi.

Ma il più grande incoraggiamento e sostegno alla santità del prete sono i suoi fedeli: il loro amore, il loro affetto, la loro compassione per i suoi difetti, che mai mancano, la loro preghiera e vicinanza. Quella è la vera forza del prete, perché per loro, per i fedeli è stato costituito; il prete, infatti, non è stato voluto da Dio per se stesso, ma per gli altri.

E quando la gente capisce questo, capisce che la vita del prete è per loro, incomincia a circondarlo d’affetto e di gratitudine, affetto e gratitudine di cui il prete stesso abbisogna per sostenersi nella sua solitudine di povero uomo che, pur vivendo un amore più grande e più assoluto per Dio, sente in sé sempre tutta quella sete d’affetto e d’amore umano che ogni persona si porta con sé dalla nascita.

 

Concludo.

Carissimi fratelli e sorelle, attingiamo da questi santi misteri che celebriamo una carica di amore e di santità che ci aiuti ad entrare in un livello sempre più profondo di fede, di speranza e di amore. 

Amen. 

 

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VENERDÌ SANTO – PRIMO  SCHEMA

Carissimi fratelli e sorelle,

introdotti domenica scorsa nella Settimana Santa, siamo giunti ora al cuore di essa con questa solenne celebrazione della Passione d’amore del nostro amato Signore, dopo aver celebrato ieri sera la Messa in Cœna Domini con la rappresentazione della lavanda dei piedi nella quale abbiamo visti, stupiti e ammirati, Dio che si inginocchiava a lavarci i piedi invitandoci a fare altrettanto gli uni agli altri.

Introducendoci nella Settimana Santa, Luca, nel Vangelo con cui abbiamo commemorato l’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme, ci dava un particolare che è stato per me una particolare luce che sta illuminando e colorando questo santo Triduo Pasquale. Luca ci diceva che «Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme» (19,28). 

Gesù che cammina davanti a tutti… Ed è stato bello vivere questo momento nella liturgia della Domenica delle Palme: il sacerdote presidente che, nella persona di Cristo, dopo aver benedetto le palme e letto il Vangelo procede avanti verso la chiesa con tutto il popolo dietro di lui. 

In quel momento ho pensato a Papa Francesco che proprio in questi giorni il Signore ha voluto mettere a capo del suo popolo per guidarlo nel pellegrinaggio terreno verso la Gerusalemme del Cielo, nostra patria, e mi sono profondamente commosso pensando a tutti i cristiani del mondo chiamati a seguire Gesù nella persona di Papa Francesco, portando ciascuno la sua croce.

Sì, questa è la Chiesa, un insieme di persone che seguono Gesù portando ognuno la sua croce partecipando con la propria croce alla Passione d’amore del Signore.

Gesù cammina davanti a tutti… Lo abbiamo appena visto nel suo procedere lungo la sua Via Crucis… «Gesù patì per noi, lasciandoci un esempio perché ne seguiamo le orme» (1Pt 2,21) «Chi non porta la sua croce e non mi segue, non è degno di Me» (Mt 10,38).

Carissimi fratelli e sorelle, prima vi dicevo come ero commosso al pensiero di questa popolo di Dio che cammina dietro Papa Francesco che, Vicario di Gesù, ci guida nel cammino verso il cielo e come ogni cristiano porti la sua croce dietro di lui. Ma ora bisogna che comprendiamo anche un’altra cosa importante. Dopo il peccato originale nessun uomo è esente dal portare la croce, tutti hanno una croce. Alcune volte ci può sembrare che questo per qualcuno non sia vero:  imbroglioni, prepotenti, disonesti, eppure gaudenti, allegri e tutto va bene a loro… Non è così, spesso hanno una maschera che non lascia trapelare le loro angosce, ma anche loro hanno una croce. Forse qualcuno in questo momento non la sente, ma è questione di poco tempo, tutto passa presto e presto sentirà il peso della croce.

Tutti portano una croce. La croce ha due assi e, dice un antico inno liturgico, l’asse verticale congiunge il cielo alla terra, è il ponte che ha condotto Dio all’uomo per poi condurre l’uomo a Dio. Ma ha anche un’asse orizzontale, quest’asse orizzontale attraversa il mondo, unisce ogni uomo, attraversa ogni vita, penetra ogni cuore e ogni anima, unisce tutta l’umanità: tutta l’umanità è attraversata dal mistero della Croce!

Abbiamo ascoltato dal racconto di Giovanni come Gesù fu crocifisso in mezzo ad altri due condannati alla stessa pena della morte di croce. Non è un caso che Gesù sia stato crocifisso in mezzo a due ladroni. Quei due ladroni rappresentato tutta l’umanità che porta la croce e muore in croce, Gesù è in mezzo.

Ci sono due modi di portare la croce e i due ladroni manifestano ciascuno un modo, si può portare la croce bestemmiando e maledicendo la vita come faceva uno dei due, o si può portare la croce pregando rivolgendosi a Gesù come fece l’altro ladrone: «Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo Regno… In verità, in verità ti dico oggi sarai con Me, nel Paradiso» (Lc 23,42).

«Oggi sarai con Me…», ma era già con Lui, era già accanto a Lui, lo era mentre saliva verso il Golgota con il pesante legno mentre Gesù portava il suo, lo era mentre i soldati lo inchiodavano alla croce, mentre a fianco inchiodavano Gesù, lo era mentre era innalzato sul patibolo a fianco del patibolo di Gesù, lo era mentre gli spaccavano le gambe e moriva avendo a fianco Gesù morto, mentre l’altro ladrone continuava a bestemmiare e imprecare.

Quanti insegnamenti per noi! Vediamone alcuni:

Il primo insegnamento. Nelle avversità della vita, nelle prove, nei lutti, nelle solitudini, nelle sofferenze, saper vedere in tutto ciò che si sta soffrendo e patendo, la croce di Gesù. Quando al mio patire non so dare il nome di croce, essa mi schiaccia, mi avvilisce, mi fa imprecare e disperare. Quando invece al mio patire so dare il nome di «croce» tutto viene sollevato e reso più dolce dalla presenza di Gesù. Lì dove c’è una croce, c’è Gesù a fianco, c’è Gesù vicino, anzi c’è Gesù disteso dall’altra parte di essa che soffre insieme con noi. E allora non si impreca più, non ci si dispera più, perché oggi siamo con Lui nel paradiso del nostro cuore dove Lui, risorto, vive e mi dona la sua vita senza fine già qui sulla terra.

Il secondo insegnamento. Sapendo dare il nome di «croci» alle inevitabili prove e sofferenze della vita, sappiamo leggere in esse un mezzo, uno strumento con il quale partecipiamo alla Passione d’amore del nostro amato Gesù e passiamo con Lui dalla morte alla vita.

Siamo chiamati a partecipare alla Passione di Gesù. Come si partecipa alla Passione di Gesù? Ci sono vari gradi e modalità di partecipazione. Si inizia con una partecipazione affettiva, esteriore, superficiale, anche se alle volte ricca di sentimento e di emozioni. Soffriamo perché Lui soffre. Lo abbiamo ascoltato poco fa nel racconto di Giovanni, nel cammino delle sue umiliazioni, torture, sputi, spogliazione che ha voluto subire e ha subito per me. Come si fa a non compatire? Anche quando vedi soffrire un animale, ti fa pena, compassione, quanto più di un animale abbiamo qui! È Dio che sta soffrendo per me! È Dio che viene umiliato per me! È Dio che muore per me!

Ma la compassione esteriore non basta, una partecipazione affettiva alla Passione non basta, anche se essa può e spesso è l’inizio di una partecipazione più vera, più autentica, più concreta alla Passione di Gesù. Siamo chiamati a partecipare non solo affettivamente, ma anche effettivamente. Paolo dirà: «Completo nella mia carne, ciò che manca alla Passione di Cristo» (Col 1,24). Cosa manca alla Passione di Gesù? La sua Passione è stata piena e traboccante, ma ad essa manca qualcosa: manca la Passione dei membri di tutto il suo corpo mistico di cui io ne sono parte dal battesimo, manca quindi alla Passione di Gesù la mia Passione…, la tua Passione…, manca il mio inserimento…, il tuo…, nella sua Passione, manca la mia Croce…, manca la tua Croce…, che venga innalzata vicino alla sua.

Ci sono poi tre modi di partecipare alla morte di Cristo in un modo effettivo, concreto. Tre modi che rappresentano tre graduazioni di partecipazione. Il primo grado si ha quando, mossi dalla fede finiamo di imprecare, arrabbiarci e protestare e rifiutare la nostra croce e ci fermiamo a raccoglierla, abbracciarla e portarla con pazienza insieme con Gesù. Questo  è il primo grado dell’amore. La fede ci fa accogliere le prove e sofferenze della vita alla luce della Provvidenza del Padre che le ha disseminate nella mia vita perché, io come Gesù suo Figlio, impari a fare la sua volontà e non la mia: «Padre sia fatta non sia fatta la mia, ma la tua volontà…non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi Tu… non come voglio io, ma come vuoi tu» (Lc 22,42, Mc 14,36, Mt 26,39). È bello notare come quando Gesù uscì dal cenacolo per andare alla sua Passione, racconta Giovanni, disse agli apostoli: «Orsù alziamoci da qui e usciamo perché il mondo sappia che io amo il Padre» (Gv 14,31). «Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà» (Mt 6,9-10).

Il secondo grado di partecipazione alla Passione di Cristo si ha quando mossi dalla speranza ci animiamo a portare la croce della nostra vita con serenità e pace confortati dai beni che ci aspettano e che la croce, portata con fede, ci fa meritare in Cristo: «Tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena mi è diletto» diceva il nostro san Francesco. Confortati dal conforto della presenza di Gesù accanto a noi, portiamo la croce con Lui e la sentiamo più leggera e la portiamo con serenità camminando verso la vita eterna.

Il terzo grado di partecipazione, si ha quando mossi dalla carità, mossi dall’amore,  quello stesso Amore che ha tenuto in Croce il Figlio di Dio –, sì, perché non furono i chiodi a impedire che Gesù scendesse dalla Croce, ma l’Amore lo teneva inchiodato lì senza poter scendere da essa, l’Amore! – mossi dall’Amore, portiamo la croce non solo con pazienza e con serenità, ma anche con gioia, una intima gioia prodotta dall’Amore, perché presi, conquistati, sedotti dall’amore di Gesù e avendo Lui sofferto per me amore mio, voglio anch’io soffrire per amore suo, per essere simile a Lui, per imitarlo fino in fondo per amarLo come Lui ha amato me.

Guardando Lui che moriva per me, anch’io voglio morire per Lui, guardando Lui che soffrendo pensava a me…, che morendo pensava a me…, sì pensava proprio a me mentre moriva d’amore per me…, io voglio vivere pensando a Lui…, le sue sofferenza siano stampate nei miei occhi interiori, le sue piaghe piaghino e feriscano in profondità il mio cuore, la mia mente, i miei affetti, la mia anima, tutto in me sia ferito dall’amore con cui Gesù mi ha amato e ha dato se stesso per me…, sì proprio per me!

La Vergine Maria ci accompagni in questo cammino di amore, così come accompagnò il suo Figlio più bello mentre lo vedeva sfigurato dalle sofferenze, dalle umiliazioni e dagli sputi, pronta a tenere salde le sue mani, saldi i suoi piedi se solo avessero avuto bisogno di aiuto per stare fermi mentre veniva inchiodato al legno. Accompagni noi, accompagni me, accompagni te e aiuti tutti noi ad abbracciare la nostra croce fissando lo sguardo su Gesù, portando insieme con Lui con lo stesso Amore con cui la portò Lui a lode e gloria del Padre e a salvezza nostra.

Amen.

VENERDÌ SANTO – SECONDO  SCHEMA

Venerdì Santo: Celebrazione della Passione del Signore       Omelia

GESÙ, IL CROCIFISSO PER AMORE

 

Carissimi fratelli e sorelle,

abbiamo appena finito di ascoltare la passione di Gesù secondo l’evangelista Giovanni che ogni anno illumina la Chiesa nel suo accompagnare, commossa e stupita, il suo Maestro e Signore lungo la via della croce mentre consegna se stesso alla morte per regalarci la sua vita divina (cf Ef 5,2.25; Gal 1,4; 2,20; 1Tm 2,6; Tt 2,14).

Nessuno ha il potere di levarglierla, è Lui che la consegna nella sua maestà divina (cf Gv 10,17-18), la consegna per amore, un amore non compreso, non conosciuto, non apprezzato, un amore misterioso con cui ci ama dall’eternità (cf Ger 31,3).

Consegnando la sua vita alla morte per amore, Egli distrugge la morte in tutte le sue dinamiche oscure che opprimono e schiacciano l’umanità da quando il peccato entrò nel mondo (cf Gen 3,16-19; Rm 5,12-21).

Il vero Dio, in Gesù crocifisso per amore, distrugge tutte le false immagini di Dio che l’umanità si era creata e continuamente si crea nella continua ricerca di un dio che la salvi dalla morte e da ogni fallimento e umiliazione.

A quest’umanità, sempre tentata di lasciarsi ingannare da chi le propone pressantemente una pace e una felicità che rifugge con orrore da tutto ciò che sa di croce e sacrificio, Lui, il Signore Gesù, continua a mostrarsi Crocifisso per amore, appeso a un legno da tre chiodi, mentre grida al cuore di tutti la sua sete di donarci la salvezza, la sua sete di liberarci dalla schiavitù dell’effimero e del vuoto, la sua sete di essere finalmente accolto, capito, amato, la sua sete di donarci la sua vita (cf Gv 19,28), perché possiamo finalmente vivere nella pienezza della vita vera e dell’amore vero, quell’amore che niente e nessuno potrà mai rubarci (cf Rm 8,35ss), perché saldamente riposto in Colui che, Unico, “ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità per mezzo del Vangelo di cui la Chiesa è stata costituita, annunciatrice, ministra e maestra” (2Tm 1,10), quella vita che niente e nessuno potrà mai rubarci perché “chi crede in Lui ha la vita eterna” (Gv 3,36), “non sarà colpito dalla seconda morte” (Ap 2,11) e “anche se muore vivrà per sempre” (Gv 11,25).

All’umanità di tutti i tempi la Chiesa addita Gesù, Crocifisso per amore, come vera Sapienza e Salvezza dell’umanità, Gesù, Crocifisso per amore, che è ancora e sempre “scandalo” e “stoltezza” (1Cor 1,23) per chi non è stato ancora attirato dal “profumo olezzante del suo Nome” (Ct 1,3), ma che è”potenza” e “sapienza” (1Cor 1,24) per chi è “stato conquistato da Lui” (Fil 3,12) e reputa perciò “spazzatura” (Fil 3,8) tutto ciò in cui non può leggervi ben scritto il suo Nome.

Al mondo immerso nella continua ricerca della “propria vita”, la Chiesa addita l’insegnamento di Gesù, Crocifisso per amore: “Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna” (Gv 12,25). Ma per poter leggere e capire quest’insegnamento occorre la FEDE, la SPERANZA e la CARITÀ.

La FEDE è quella luce divina che mi fa accogliere Gesù Crocifisso, morto per amore, “per cui questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20.

Accogliere Gesù, Crocifisso per amore, significa accogliere nella mia vita il mistero della Croce come mistero che illumina e redime. 

Illumina, perché lì dove non c’è la Croce di Gesù non c’è verità. La Croce di Gesù è il criterio assoluto del discernimento cristiano, con la sua dinamica di umile consegna di sé per amore, mi mostra la falsità e l’insignificanza di tutto ciò che nella mia vita non porta ben iscritta questa dinamica. Quell’ambito della mia vita, quella dimensione del mio essere, quell’aspetto della mia personalità dove non c’è ben iscritta la Croce di Gesù, con la sua dinamica di umiltà e di consegna di sé per amore, è un ambito della mia vita falso, è una dimensione del mio essere falso, è un aspetto falso della mia personalità.

Redime, perché lì dove è ben iscritto il mistero della Croce tutto viene purificato, redento ed elevato, tutta la realtà umana ha bisogno di un’immersione in questo mistero per rinnovarsi nella figliolanza divina. Tutti gli ambiti del mio vivere hanno bisogno di questo contatto esistenziale con la Croce di Gesù, Crocifisso per amore, per essere purificati, redenti ed elevati alla mia dignità di figlio, vero figlio di Dio (cf 1Gv 3,1).

La mia relazione con me stesso, con gli altri e con Dio deve essere purificata, redenta e innalzata dall’assumere nella mia vita quegli atteggiamenti, “quei sentimenti propri che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,5-8), fino a poter dire con stupore, commozione e amore: “Non sono più io che vivo, ma è Gesù – il Crocifisso per amore – che vive in me” (Gal 2,20).

Ma per realizzare tutto questo occorre non solo la FEDE, ma anche la SPERANZA, “una speranza viva”  (1Pt 1,3), che è”fiducia non in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti” (2Cor 1,9). Accostiamoci dunque a Gesù, Crocifisso per amore, tutto confidando in Lui e tutto diffidando di noi. La speranza è quell’àncora sicura e salda con cui sono strettamente legato a Gesù (cf Eb 6,18-20) per cui sono sicuro che “il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno” (2Tm 4,18). La speranza è quella confidenza che abbiamo di accostarci “con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno” (Eb 4,16). La speranza come la fede non è mai troppa, non si può credere troppo né sperare troppo, ma troppo poco sì, questo sì, e quanto manchiamo di speranzaGesù, Crocifisso per amore, è tutta la nostra speranza! Dobbiamo perciò avere e coltivare nel cuore una grande fiducia nella potenza della morte salvifica di Gesù: attraverso la sua morte si è riversata su di noi la salvezza e “dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia” (Rm 5,20), nessuna nostra miseria, seppur grande e seppur ripetuta può vincere la forza redentrice della morte di Gesù, Crocifisso per amore. A dirla alla santa Caterina, la speranza è quella atteggiamento interiore per cui noi ci “anneghiamo con fiducia nel suo Sangue” 

Ma la fede e la speranza hanno bisogno, per sussistere nella loro pienezza di significato e di verità, della CARITÀ. L’anima della fede e l’anima della speranza è la CARITÀ, ciò che le rende vive e operose è la CARITÀ.  E la CARITÀ è la nostra partecipazione all’AMORE del PADRE e del FIGLIO

È infatti l’AMORE quello che ci attira a Lui: “Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me” (Gv 12,32) e “nessuno può venire a Me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (Gv 6,44). 

E l’AMORE ha due elementi intrinseci, che sono le sue due ali che permettono all’anima che ama di volare, correndo, incontro all’AMATO (cf Ct 1,4).

Il primo elemento intrinseco dell’amore è lo sguardo del cuore verso l’Amato“Guarderanno a Colui che hanno trafitto” (Zc 12,10). Colui che ama, ama guardare l’Amato e ama guardando l’Amato, se amiamo Gesù, Lo guardiamo e Lo amiamo guardandoLo.

Il secondo elemento intrinseco dell’amore è lo slancio del cuore verso l’Amato, non c’è attrazione senza slancio, senza corsa, senza impeto: “Attirami dietro a Te, corriamo!” (Ct 1,4). Il cristiano non cammina lungo la sua via, bensì corre, anzi vola, perché ama Gesù, il Crocifisso per amore:

“Anche noi dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l'ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio. Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d'animo. Non avete ancora resistito fino al sangue nella vostra lotta contro il peccato” (Eb 12,1-4)

E l’AMORE, ma quello vero per Gesù, il Crocifisso per amore, porta come conseguenza la lotta al peccato, perché chi pecca non ama (cf 1Gv 2,3-5) e chi ama “non può peccare” (1Gv 3,9).

Da qui i “tre gradi dell’amore” che sono i tre gradi della nostra comprensione di Gesù, il Crocifisso per amore:

Il primo grado dell’amoreÈ obbligatorio per tutti coloro che dicono di credere in Lui: amare talmente Gesù da essere disposti a portare con pazienza la sua Croce nei doveri e nelle vicissitudini della propria vita, costi quel che costi. Essere quindi disposti anche a morire in croce, ma non commettere mai peccato mortale o grave. Questo è l’amore che si eleva dalla vera fede che porta alla pazienza (cf Gc 1,3) e ci fa camminare incontro all’Amato: «Gesù tutti, diceva: "Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua"» (cf Lc 9,23)

Il secondo grado dell’amore. È obbligatorio per chi vuol amare di più: amare talmente Gesù da portare con dolcezza, fiducia, confidenza la sua Croce nei doveri e nelle vicissitudini della propria vita. La persona a questo stadio spirituale, ama così tanto il suo Signore Gesù, Crocifisso per amore, che è disposta a tutto, anche a morire in croce, ma non commettere deliberatamente alcun peccato né piccolo né grande, veniale o mortale.

Questo è l’amore che si eleva dalla vera speranza che porta alla piena fiducia e confidenza (cf Fil 1,20) e ci fa correre incontro all’Amato anche rompendo gli schemi usuali del nostro vivere, andando controcorrente: «Attirami dietro a te, corriamo!» (Ct 1,4)

Il terzo grado dell’amore. È il grado degli innamorati, ma quelli però folli! Si tratta di amare tanto Gesù, il Crocifisso per amore, da preferire per amore suo e “rassomigliare più effettivamente a Lui, la povertà con Gesù povero piuttosto che la ricchezza, le ingiurie con Gesù, che ne è ricolmo, piuttosto che gli onori, e preferire essere stimato stupido e pazzo per Gesù, che per primo fu ritenuto tale, anziché saggio e prudente in questo mondo” (S. Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, n. 167).

Questo è l’amore che si eleva dalla vera carità che porta all’amore più grande, qui non si cammina più, né si corre, ma si vola incontro all’Amato: «“Sono stato crocifisso con Gesù e non sono più io che vivo, ma Gesù vive in me” (Gal 2,20)…  “e quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Gesù Cristo” (Fil 3,7)» 

 

La Vergine Maria, che oggi rimiriamo ferma sotto la Croce del Figlio unita nell’offerta d’amore per la salvezza dell’umanità, ci introduca nella comprensione sempre più coinvolgente e amorosa di questo mistero di dolore e d’amore.

Amen.

j.m.j.

 

 

VENERDÌ SANTO – TERZO  SCHEMA

Venerdì Santo: Celebrazione della Passione del Signore                 Omelia

«Egli, il Figlio di Dio, è stato crocifisso dai nostri peccati, piangiamo!
È stato crocifisso per i nostri peccati, esultiamo!». 

 

Carissimi fratelli e sorelle,

vi propongo come omelia sulla Passione e Morte di N. S. Gesù Cristo, il discorso del S. P. Paolo VI, del venerdì 8 aprile 1977, in occasione della VIA CRUCIS presso il Colosseo.

 

Fratelli!

 

Noi siamo turbati! Non si percorre indarno la Via Crucis senza sentire ripercosso nel nostro spirito il dramma doloroso del supplizio straziante ed infamante inflitto al Signore Gesù: la crudeltà della pena e l’ingiustizia della condanna ci commuovono profondamente. «Egli non ha fatto niente di male» (Lc 23, 41). Perfino il Centurione, che aveva comandato il plotone di esecuzione dovette riconoscerlo: «Costui era un uomo giusto» (Lc 23,47). E così gli altri presenti al crudele spettacolo.

 

E noi, Fratelli? anche noi, se abbiamo seguito il triste cammino, se abbiamo intuito il carattere sacrificale e perciò universale della morte sofferta da Gesù Cristo, ci sentiamo coinvolti nella sua uccisione; noi siamo complici ! Ma è proprio al momento in cui la nostra compassione si rivolge contro noi stessi come una inevitabile accusa dell’uccisione di questa vittima innocente che il nostro rimorso si trasforma in speranza, si tramuta in riconoscenza e piange di gioia. Egli, Gesù, il Figlio dell’uomo, Egli, il Figlio di Dio, è stato crocifisso dai nostri peccati, piangiamo; è stato crocifisso per i nostri peccati, esultiamo. Noi ora abbiamo rievocata la tragedia redentrice dell’Agnello che ha dato la sua vita per noi, per ciascuno di noi. Si spalanchi il mistero, con le parole di San Paolo: «Egli, Cristo, amò me, e diede se stesso per me» (Gal 2,20); e salgano alle nostre labbra le impetuose parole: «Signore, io tutto vi do» (Pascal, Bossuet).

 

E gli altri? Noi pensiamo alla moltitudine umana ben più sconfinata che quella ora davanti a noi, la moltitudine della società, del mondo.

 

Giungerà ad essa l’eco almeno di questa grande storia di dolore e di amore, ch’è la via della Croce? Di dolore, ch’è figlio, parente almeno, della violazione dell’ordine, della violazione maggiore, ch’è peccato; di amore, di quello diciamo, che non ha emulo maggiore, se non nel sacrificio di chi dà la propria vita per le persone amate, com’è nel Vangelo della Croce (Gv 15, 13). Ebbene, uditori lontani e al nostro spirito tanto vicini, sappiate che ora voi siete qui presenti, nella nostra affezione, nella nostra stima, nella nostra preghiera per voi! 

 

Per voi uomini di pensiero; dove troverete voi luce maggiore che in questa sapienza della Croce vittoriosa del mistero che avvolge il destino della vita umana? per voi, uomini del potere; dove avrete voi la forza di rendere provvida l’opera vostra, se non nell’economia dell’amore generoso? per voi, per voi, uomini del lavoro e della fatica, che il possesso bramato dell’avere il vostro pane mette spesso in lotta sistematica con la società, chi darà il pane della vita, della libertà e della giustizia, se non Colui che invita senza fallire alle sue promesse: «Venite a me voi tutti che siete affaticati ed oppressi ed io vi ristorerò»? (Mt 11, 29)

 

Oh! come vorremmo che in questo istante, nel quale la Croce di Cristo si fa luminosa, si effondesse dal suo sangue divino la sua divina certezza di bontà, di speranza e di beatitudine!

 

Oh! lo possa in raggio senza confine, con la nostra Benedizione Apostolica!

j.m.j.

 

VENERDÌ SANTO – QUARTO  SCHEMA

 

Venerdì Santo: Celebrazione della Passione del Signore                                                           Omelia

Lo svelamento della s. Croce

 

Carissimi fratelli e sorelle, la solenne celebrazione della Passione del nostro amato Signore ci immette nel cuore del Triduo Pasquale.

Questa celebrazione si svolge in tre parti, la prima iniziata con la Liturgia della Parola in cui abbiamo ascoltato il racconto della Passione del nostro amato Signore, prosegue con questa omelia, terminerà con la solenne preghiera universale dei fedeli dove pregheremo per tutta l’umanità. 

Seguirà quindi la seconda parte: l’adorazione della s. Croce. Sarà portata una croce velata, per tre volte il Presidente dell’Assemblea dirà: Ecco il legno della croce a cui fu appeso il Cristo, Salvatore del mondo, ogni volta togliendo un pezzo del velo che la copre, prima le mani e poi i piedi e così verrà mostrato, ostentato Gesù Crocifisso, il nostro amato Signore, umiliato e straziato, nudo e morto, con il cuore aperto dalla lancia da cui fuoriesce sangue e acqua, torrente di grazia che lava, salva, redime e santifica l’umanità.

Questo gesto liturgico di svelare gradualmente la Croce del nostro amato Signore, ha un suo significato profondo che possiamo riscontrare nella storia della salvezza dell’umanità e nella piccola storia della salvezza della nostra persona.

In Gesù Crocifisso viene svelato in pienezza il volto di Dio Amore che ci ha amato fino all’estremo. La rivelazione di questo amore ha avuto una sua preparazione nell’Antico Testamento e la croce in Esso è stata prefigurata in vari modi. I Padri hanno letto prefigurazione della croce del nostro amato Signore nell’albero della vita del Paradiso terrestre, nel legno dell’arca di Noè per mezzo della quale un resto dell’umanità troverà salvezza, nel bastone di Mosé che percuotendo la roccia ne farà sgorgare una sorgente d’acqua che disseterà il popolo assetato nel deserto. Ma soprattutto la Croce di Gesù venne prefigurata in quell’asta a cui Mosè appese un serpente di bronzo che doveva essere guardato da chi fosse stato morso da un serpente.

Nella terra dove io sono nato, in Somalia, esiste un serpente che viene chiamato «sette passi», perché si dice che chi venisse morso da esso, ha il tempo di fare sette passi e poi muore. Pensiamo a quegli ebrei morsi da quei serpenti velenosi, pensiamo un attimo ai loro sentimenti di persone che sanno che stanno per morire e pensiamo con quale speranza, con quale trepidazione, con quale fiducia guardassero verso quel serpente di bronzo innalzato da Mosè a loro salvezza.

«Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me» dirà prima di patire il nostro amato Gesù. Ma come sono attirato verso di Lui? Come si leva il mio sguardo interiore verso di Lui? Come guardo il mio amato Gesù mentre sta appeso alla croce per amore mio? Il mio sguardo di amore, il mio sguardo di speranza, il mio sguardo di fiducia è paragonabile a quello di quegli ebrei morsicati dai serpenti? Eppure loro in quello sguardo cercavano una vita che avrebbero comunque persa, mentre guardando Gesù otteniamo una vita che non avrà mai fine.

Gesù lo guardiamo con poco amore, con poca speranza, con poca fede perché non siamo consapevoli, come lo erano invece quegli ebrei, che nel nostro sangue scorre un veleno che ci uccide: il peccato. Se fossimo consapevoli di quella morte che circola nel sangue della nostra anima, o come guarderemmo verso Gesù con più slancio di amore, di speranza, di fede!

La Croce ha avuto così una prefigurazione nel Vecchio Testamento e una sua attuazione nel Nuovo Testamento. Nella «pienezza dei tempi» il Figlio di Dio è venuto nel mondo, fatto uomo come noi, nato dalla Vergine Maria per opera dello Spirito Santo. Spoglia Se Stesso della propria divinità per indossare la nostra umanità, per prendere un corpo, perché attraverso quel corpo potesse fare quello che da Dio non poteva mai fare: soffrire e morire. Prende un corpo per soffrire e morire. Vedete, ogni bimbo viene al mondo per vivere, Lui solo, Bambinello divino, Eterno Bambino del Padre, viene nel mondo per soffrire e morire. Per ogni uomo che vive la sofferenza e la morte è qualcosa che sovviene, ma che si cerca di scansare. Lui no, Lui viene per soffrire e morire, per dare la vita. Gesù ha presente costantemente questo desiderio, essendo Dio, lo accompagna nel suo presente divino. Il suo animo umano, supportato dalla Persona Divina del Figlio, è tutto teso verso la sua “ora”, verso l’“ora” in cui ci avrebbe amato fino all’estremo: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi prima della mia Passione» (Lc 22,15).

Ma, nella sua Croce il nostro amato Gesù, ama fino all’estremo innanzi tutto il Padre suo. Prima di uscire dal Cenacolo in quella notte dell’amore in cui lavò i piedi ai suoi apostoli e anticipò l’ora della sua passione istituendo l’Eucaristia, disse loro: «Forza, andiamo via di qui perché bisogna che il mondo sappia che Io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato» (Gv 14,31). 

Gesù si consegna alla morte più infame per amore del Padre, per restituire al Padre l’onore e la gloria che la disubbidienza umana gli aveva ingiustamente tolto. È in questo amore verso il Padre che veniamo amati anche noi, perché è il Padre che lo manda alla morte per noi. Gesù Crocifisso è dono d’amore del Padre che non poteva amarci di più che consegnando alla morte il suo Figlio Unigenito, perché noi avessimo la vita in e per Lui.

E lì su quella Croce, dolce legno, il Figlio di Dio muore d’amore, quel sangue che sgorga da tutto il suo corpo maciullato e straziato e che, ultimo, sgorga dal suo Cuore trapassato dalla lancia, è segno, simbolo e figura reale di quell’amore straordinario e immenso, forte e dolcissimo, appassionato e tenero con cui Egli ci stava amando sprizzando amore dappertutto. Non poteva amarci fisicamente di più. Certamente Gesù ci ha amato spiritualmente più di quanto ha potuto dimostrarci fisicamente. Il suo amore è esagerato, esuberante, eccessivo. Lui, essendo Dio, non può non amarci così, alla divina. Lui ci ha amati così, Lui mi ha amato così… ed io?

Il mistero della santa Croce, prefigurato nell’Antico Testamento, realizzato nella «pienezza dei tempi» del Nuovo Testamento, viene celebrato nel Tempo della Chiesa dal popolo santo di Dio che cammina pellegrino verso la realizzazione piena di quanto il mistero della Croce ci ha ottenuto. Mistero della Croce celebrato nei sacramenti attraverso i quali entriamo in contatto con quella «pienezza dei tempi» e ne attingiamo grazia, salvezza, redenzione e amore.

Ma vi dicevo iniziando questa omelia, questo disvelarsi graduale del mistero della santa Croce ha anche una sua realizzazione non solo nella storia dell’umanità, ma anche in quella della nostra piccola storia personale. È nella nostra vita, è nella mia vita che il mistero della Croce si svela e mi interpella perché io vi entri con pienezza di intelligenza e di amore.

Il mistero si è iniziato a svelarmi quando nella storia della mia vita ho scoperto, nella fede, Dio, il Padre Creatore e attraverso la virtù della giustizia ho capito che a Lui dovevo rendere conto della mia vita. E la Croce allora si è presentata a me come dovere di amore verso il Padre che non va offeso dal mio peccato. All’inizio della mia vita spirituale la Croce significa impegno, fatica, lotta per non offendere più Dio Padre con il mio peccato.

E, quando grazie all’aiuto del Signore, sono riuscito a estromettere il peccato, almeno quello grave, dalla mia vita, allora la s. Croce si è rivelata a me attraverso il dolce e mite volto di Gesù che mi dice soavemente: «Impara da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29) e allora la Croce si è presentata a me attraverso la virtù dell’umiltà, della mitezza, della semplicità con cui Gesù mi chiama a sentirmi ed essere piccolo, piccolo, perché se non divento come un bambino non potrò aver parte con Lui.  E attratti dalla virtù della speranza ci sforziamo di avere in noi i sentimenti del Figlio di Dio, per essere come Lui, piccoli bambini fiduciosi di avere Babbo buono nel cielo che li ama e accompagna la loro esistenza con la sua Provvidenza.

Ma poi, infine, la s. Croce si svela a noi nella sua pienezza di nudità, quando l’Amore viene riversato nei nostri cuori feriti dalla Passione dell’amato Signore e allora la s. Croce si svela ai nostri occhi attraverso la virtù dell’obbedienza consumata fino in fondo, fino all’abbandono più totale e noi veniamo attratti dal Padre che ci attira verso questo Figlio suo più bello che ci affascina il cuore con la forza di un amore sconosciuto fino allora, un amore illogico, folle pazzo. Un amore che ci insegna a servire e non ad essere serviti, a perdonare chi ci offende e percuote, a dare senza chiedere nulla in cambio, a morire perché l’altro viva. Un amore che ci insegna ad obbedire fino in fondo, per amore.

È lo Spirito Santo a portare a compimento la rivelazione della santa Croce di Gesù, è un suo proprio compito, perché Lui è l’Amore, quell’Amore forte e potente, dolcissimo e umile che ha tenuto fermo Gesù mentre lo inchiodavano a quel dolce legno e che ha fatto sì che non scendesse da esso, sì perché non furono i chiodi a impedire che scendesse da quel dolce legno, ma fu l’Amore, quell’Amore esuberante, eccessivo ed esagerato con cui ha amato ciascuno di noi.

La Vergine Maria che proprio lì il suo Diletto Figlio ci donò come Madre delle nostre anime, mentre veniva bagnata dal suo Sangue e Lo vedeva morire d’amore e con Lui anche Lei moriva nell’anima straziata dal dolore, ci ottenga la grazia di essere sempre più attirati da Gesù Crocifisso, che il nostro sguardo interiore diventi sempre più intenso e appassionato verso di Lui. 

E questo sguardo appassionato ci accompagni in modo specialissimo nella terza parte di questa solenne Liturgia quando saremo invitati ad accostarci alla mensa del Corpo e del Sangue di Gesù. Accostandoci alla s. Comunione in cui riceveremo per la potenza della sua Risurrezione, il suo Corpo immolato per me, il suo Sangue versato per me, la Vergine nostra cara madre ci ottenga un forte desiderio di inserirci sempre più nel mistero della s. Croce del suo Divin Figlio, ci ottenga la grazia di estromettere una volta per sempre il peccato dalle nostre esistenze, ci ottenga la grazia di sentirci ed essere piccoli, semplici, umili come Gesù, ci ottenga la grazia di impegnarci ad amare come Gesù, non fuggendo più quelle occasioni della vita, che mai ci mancano, in cui Gesù ci chiama a portare la Croce con Lui, con amore, per amore e nell’Amore, a lode e gloria del Padre e a salvezza dei nostri fratelli.

Amen.                      j.m.j.

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VENERDÌ SANTO – QUINTO  SCHEMA

Venerdì Santo: Celebrazione della Passione del Signore                           Omelia

“TUTTO È COMPIUTO!”

 

Carissimi fratelli e sorelle,

in questo giorno del Triduo Pasquale ogni anno nella celebrazione solenne della Passione del Signore la Chiesa mette alla nostra contemplazione la Passione di Gesù, la morte cruenta di Gesù.

Chiediamo allo Spirito che ci introduca in profondità in questo mistero del Cristo immolato, che ci faccia cogliere la preziosità inestimabile di questo fatto che rappresenta l’amore più grande che il Padre potesse mai manifestarci: la consegna del suo Figlio alla morte per amore nostro (cfr. Gv 3,16).

Per raggiungere questa profondità in questo Venerdì Santo ci lasciamo aiutare da quella precomprensione veterotestamentaria, cioè da quella conoscenza del Vecchio Testamento, di cui ogni cristiano dovrebbe essere fornito e che gli permette di cogliere profondità del Nuovo Testamento che non si possono raggiungere ignorando quanto lo ha preparato nel Vecchio.

L’Evangelista Giovanni ci narra come il Battista si riferì a Gesù chiamandolo “l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo” (Gv 1,30.37). Con questa frase Giovanni rimandava alla vittima sacrificale delle liturgie ebraiche, ricordiamo ora in particolare quell’agnello immolato a cui non veniva spezzato nessun osso (cfr. Es 12,46) e il cui sangue asperso sulle architravi delle porte delle case ebraiche preservava gli abitanti dallo sterminio dell’ultima piaga d’Egitto (cfr. Es 12,22-23). Non a caso Giovanni l’Evangelista ricorderà come neanche a Gesù verrà spezzato nessun osso perché arrivati i soldati per spezzargli le gambe, lo trovarono già morto (cfr. Gv 19,31-33)

Tutti i riti sacrificali ebraici erano un piccolo e lontano segno di quella vittima divina che ora è appesa alla croce, ma in particolare uno dei riti ebraici più importanti ci aiuta a comprendere cosa si realizza in quest’Uomo vilipeso, torturato e appeso ad un legno, si tratta del rito del Kippurrito dell’espiazione (cfr. Lv 16). 

Una volta l’anno il sommo sacerdote eseguiva questo rito che vi descrivo in sintesi. Venivano presi due agnelli, su di uno il sommo sacerdote imponeva le mani dicendo su di esso i peccati di tutto il popolo e poi questo agnello veniva portato nel deserto condannato a vagarvi portando simbolicamente su di sé i peccati del popolo. 

Quell’Uomo sfigurato e abbruttito tanto da non sembrare più neppure un uomo (cfr. Is 53,2-3) è dunque veramente “l’Agnello di Dio venuto a togliere i peccati del mondo” (Gv 1,30.37) annunziato dal Battista, è Lui quell’agnello condannato dal sommo sacerdote a vagare nel deserto portando su di sé i peccati del popolo. Quello che nell’agnello di Aronne era solo un simbolismo e una profezia – che cioè portava i peccati del popolo – ora, in Gesù immolato, si realizza nella pienezza. In Gesù, vero “Agnello immolato”, avviene la realtà simboleggiata dai riti ebraici: Lui è il vero “Agnello di Dio venuto a togliere i peccati del mondo” (Gv 1,30.37) prendendoli su di sé e appendendoli alla croce (cfr. Col 2,14).

Lui, Gesù, porta sul serio i peccati del popolo. È  un peso che lo schiaccia, fu per questo peso che costrinse il Battista, che non voleva, a battezzarlo (cfr. Mt 3,3-13-15). Chiese il battesimo e chiese perdono a Giovanni, non per i suoi, ma per i nostri peccati, Lui, il Figlio di Dio, chiese perdono per i nostri peccati, ma li presentò al Padre non come nostri, bensì come suoi, Lui ci amò a tal punto che fece suo ciò che era nostro per levarci un peso che a noi era impossibile togliere. Lui si fece maledetto (cfr. Gal 3,13) perché “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio” (2 Cor 5,21).

L’altro agnello del rituale del Kippur veniva invece immolato e il sommo sacerdote con il sangue di esso entrava nella parte più santa del Tempio, il “Santo dei Santi” dove veniva conservata l’arca dell’alleanza (finché non si perse in seguito all’esilio) attraversando un “velo”, una spessa tenda che anch’essa veniva bagnata dal sangue dell’agnello immolato (cfr. Lv 16,20). 

Marco (15,30), Matteo (27,51) e Luca (23,45) fanno notare come alla morte di Gesù il velo del Tempio si squarciò in due. È  una annotazione importante che spesso sorvoliamo con troppa superficialità. Non a caso Gesù aveva detto: “Distruggete questo tempio e io in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2,19)! La Lettera agli Ebrei ci dice che Gesù morendo entrò una volta per tutte nel santuario del cielo attraverso il “velo”, della sua “carne” per portare il sangue della sua espiazione (Eb 10,19-20): non c’è quindi più necessità di un velo al tempio, non c’è più necessità di un tempio perché il tempio con tutto il suo santo dei santi e il suo velo d’ingresso non servono più, erano solo un segno di quella “carne” (Eb 10,20) che il Verbo di Dio assunse per opera dello Spirito nel seno della Vergine. Dunque quel corpo straziato appeso ai chiodi è il nuovo e vero Tempio di Dio, quel corpo è il “nuovo e vero velo” attraverso il quale si accede alla divinità, morendo Gesù ci ha aperto le porte del santuario del Cielo di cui quello di Gerusalemme era solo un piccolo segno e in Lui, nel “suo Corpo che è la Chiesa” (Col 1,24), ci introduce alla presenza del Padre eterno.

Ecco, dopo aver ascoltato quel mare di sofferenze, di umiliazioni e di torture che hanno investito e sommerso il il più bello tra i figli degli uomini” (Sal 45[44],3), dopo averlo visto svenato e dissanguato, torturato e morto, due sono le considerazioni finali che dobbiamo approfondire e meditare nel nostro cuore, considerazioni che dovrebbero illuminare e determinare anche le nostre scelte di ogni giorno dove si attua la lotta nascosta in cui ciascuno di noi decide se stare con Lui o meno (cfr. Mt 12,30).

La prima è l’estrema gravità e serietà del peccato, del nostro peccato, del mio peccato. Fratelli e sorelle, dopo aver ascoltata tanta sofferenza, tanta umiliazione, tanto dolore, come possiamo, come possiamo poi non prendere sul serio il “peccato”? Il peccato è una cosa seria, non c’è nulla di ridicolo nel peccato, il peccato è una tragedia. Dopo avere ascoltato questo racconto non posso più ridere del peccato o sul peccato o trattare del peccato con superficialità e ironia. Qualcuno è morto per il mio peccato e per i peccati di tutti, quindi esso è una cosa seria che va affrontata seriamente.

La seconda è che il mio peccato è, per grazia gratuita di Dio, “una felice colpa” (S. Agostino – Liturgia della Veglia Pasquale), perché mai e poi mai avremmo immaginato fino a che punto Dio ci amasse se non avesse scelto di morire in croce per i nostri peccati. La crocifissione di Gesù è il luogo della rivelazione dell’Amore più grande (cfr. Gv 3,16; Ef 2,4; 1Gv 3,1)..

E alla luce di quest’Amore più e troppo grande che siamo chiamati oggi a rileggere la nostra storia personale, storia che è una storia condita di peccati, forse anche gravi e gravissimi. Oggi davanti a quest’Agnello svenato siamo chiamati a ridefinire il nostro passato alla luce della forza redentrice di quel Sangue preziosissimo da Lui versato, perché “dove ha abbondato il peccato” nella mia vita, lì “ha sovrabbondato la sua grazia (Rm 5,20). 

Ecco, fratelli e sorelle, l’augurio fraterno in questo Triduo di morte e di resurrezione: che tutti noi possiamo immergerci totalmente in questo MARE DI DOLORE E DI AMORE e uscirne totalmente rinnovati, fatti nuovi nell’Amore (cfr. Ap 21,5) e possiamo riconciliarci con il Padre, con i fratelli e con noi stessi, con il nostro passato, soprattutto con quel passato che più vorremmo rimuovere dalla nostra coscienza perché ci dà fastidio e ci umilia, con quel passato che ancora forse non siamo riusciti a perdonarci fino in fondo perché stentiamo a credere a quest’Amore più e troppo grande! 

Sì, carissimi fratelli e sorelle, prepariamoci oggi guardando l’“’Uomo dei dolori appeso al legno (cfr. Is 53,3) a cantare nella liturgia della veglia pasquale con tutta la forza del nostro piccolo cuore quel grido di gioia e di incredibile meraviglia che contraddicendo tutte le logiche e i ragionamenti umani ci fa dire: 

"FELICE COLPA CHE MI MERITÒ DI AVERE UN COSÌ GRANDE REDENTORE!”

Non quindi più un passato da rimuovere, da nascondere, non più un passato il cui ricordo mi avvilisce e scoraggia, ma un passato ridefinito tutto alla luce di quest’Amore più e troppo grande, e ciò in cui io più ho peccato, diventa di colpo memoria viva di quest’Amore più e troppo grande.

Piangiamo quindi oggi, sì, piangiamo di dolore perché dai nostri peccati Gesù è stato ucciso.
Piangiamo quindi oggi, sì, piangiamo di gioia perché 
per i nostri peccati Gesù è stato ucciso 

cfr. Paolo VI – Via Crucis 1977)

La nostra autentica conversione avverrà solo quando questa verità conosciuta sin da quando eravamo bambini, che cioè Gesù è morto per noi, diverrà verità non solo conosciuta dalla mente, ma anche verità esperimentata col cuore, con un cuore che ha capito che la sua vocazione profonda è essenzialmente di rispondere a quella richiesta che il Figlio di Dio morente sulla croce ci manifestò quando ci gridò: “Ho sete” (Gv 19,28)!


Amen.

 

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SCHEMA DOMENICA DI PASQUA ANNO "A"

 

Domenica di Pasqua – Anno “A”                                                                                       Omelia

  È risorto!

Carissimi fratelli e sorelle, Cristo è risorto!

Le donne giunte al sepolcro la mattina della domenica sono colte di sorpresa e intimorite dal fragore come di un terremoto. Esse tremano, ma non svengono, davanti ai loro occhi una scena particolare: il sepolcro è vuoto e un angelo siede sulla pietra che doveva chiuderne l’accesso, da una parte per terra ci sono le guardie tramortite dallo spavento. L’angelo del Signore invita le donne a non aver paura e ad entrare nel sepolcro per verificare come esso sia vuoto perché Gesù, “il Crocifisso”, è risorto. 

Matteo riporta anche come, mentre queste donne correvano a dare l’annunzio agli Apostoli con “timore e gioia grande”, apparve loro Gesù Risorto che le invitava ad avvisare gli Apostoli di recarsi in Galilea che là Lo avrebbero visto.

Fermiamoci un attimo a considerare questi due sentimenti presenti nell’animo di queste donne: “il timore e la gioia”, e come questi sentimenti abbiano caratterizzato la vita della Chiesa primitiva e come dovrebbero caratterizzare anche noi cristiani di oggi.

Il “timore” di cui parliamo non è semplicemente “paura” o terrore di qualcosa o di qualcuno, si tratta della consapevolezza di trovarsi davanti a Dio, al Creatore e Signore dell’Universo. Questo “timore” possiamo definirlo come una specie di “senso del sacro” o del “divino” che aiuta la persona a relazionarsi con Dio nella giusta posizione. A Mosè ed ad ogni uomo che si vuole incontrare con Lui, Dio insegna a levarsi i sandali in segno di rispetto della sua presenza (cf Es 3,5).

Ma al “timore” si associa la “gioia” perché questa presenza di Dio viene colta come presenza ricca di amore, presenza che consola, illumina, protegge, benedice e manda. Ed è in questa presenza che trova così un significato la vita stessa e la morte. 

Le donne sono ripiene di questo “timore” e di questa “gioia” perché hanno incontrato il Risorto, il Quale dona loro la missione di annunziarLo vivo ai fratelli. In questo tempo pasquale ci accompagnerà nella Liturgia della Parola, il libro degli Atti degli Apostoli, dove più volte si parla di una comunità cristiana piena di “timore e gioia” (timore e gioia o esultanza: At 2,43-46; 5,5.11; 9,31; 19,17 – gioia: At 8,8.39; 12,14; 13,52; 15,3; 16,34).

L’esperienza della Risurrezione di Gesù non può non comportare questo “timore” e questa “gioia”

Le donne infatti vanno a cercare il corpo morto di Gesù Crocifisso, per ungerLo e abbracciarLo prima della definitiva sepoltura e piangere guardandoLo per l’ultima volta. Lo avevano visto soffrire e morire, inchiodato al legno dagli aguzzini e schiodato da mani pietose, avvolto in un lenzuolo e riposto nel sepolcro e ora Lo vedono risorto e vivo!

Quello che ogni cuore umano ha sempre desiderato di fronte ad una persona cara morta, finalmente si è realizzato! Chi di noi vegliando un defunto amico o congiunto, non ha detto nel suo cuore: “Apri quegli occhi! Muovi quelle mani! Perché non ti alzi?” Eppure la salma è rimasta immobile e la morte ha sembrato avere l’ultima, definitiva, parola.

Ma non è così perché Gesù è Risorto ed è così speranza di risurrezione per tutti i morti e per tutte le situazioni di morte!

La “gioia” che invade l’animo delle donne è appunto questa di sapere che l’ultima parola della vita non è la morte! E che, quindi, tutto ha un senso perché Lui, Gesù Crocifisso, è risorto dalla morte e vuole che questa notizia venga fatta conoscere a tutto il mondo.

Il “timore” che accompagna questa “gioia”, è frutto della consapevolezza della presenza attiva di Dio. Quando la gioia non è condita di questo “timore” è una gioia semplicemente umana, effimera, passeggera che ben presto svanisce lasciando il cuore vuoto e insoddisfatto.

La “gioia” del credente non è una “gioia” umana, è una “gioia” soprannaturale che nasce dalla fede nella risurrezione di Gesù, per cui ha la potenza di permanere e avvolgere qualunque situazione di morte che si possa sperimentare.

Noi possiamo dirci oggi cristiani solo in quanto accogliamo nel nostro cuore l’annunzio delle donne e di chi come loro, Lo videro risorto e vivo: “Abbiamo visto il Signore!” (Gv 20,25).

Le donne strinsero a sé i piedi del Risorto nel desiderio, come i discepoli di Emmaus (cf Lc 24,29) di imporGli una permanenza della sua presenza visibile e tangibile, ma questo non è possibile (cf Gv 20,17). La risurrezione pone Gesù in una nuova dimensione che non è più quella terrestre della vita che passa e muore, ma è nella dimensione della vita eterna, Lui stesso è la “Vita eterna” (cf 1Gv 1, 2). Se Gesù Risorto avesse voluto permanere fisicamente e visibilmente in mezzo a noi, noi avremmo perso il merito della fede (cf Gv 20,29), non saremmo stati ancora introdotti nella dimensione della vita eterna e il numero dei credenti sarebbe ristretto a quei pochi che avrebbero potuto vederLo e toccarLo. Mentre la risurrezione, ponendo Gesù Cristo definitivamente nella dimensione della vita eterna con il suo Corpo glorificato, Gli permette una presenza non più limitata dallo spazio e dal tempo e di essere quindi presente in tutti i tempi e a tutti gli uomini che accolgono l’annunzio di fede nella sua risurrezione trasmesso dalla Chiesa (cf Mt 28,20).

È importante comprendere come l’incontro con il Risorto è sempre un incontro che avviene nella fede. Anche i primi testimoni della sua risurrezione, non s’incontrarono con il Risorto semplicemente su un piano di fisicità. Questo particolare emerge con forza dagli altri racconti delle apparizioni.

Infatti in essi si racconta come Gesù non viene riconosciuto pur essendo visto con gli occhi: i discepoli di Emmaus credevano che fosse un viandante (cfr. Lc 24,15-16), la Maddalena pensò che fosse un giardiniere (cfr. Gv 20,15), gli Apostoli nel cenacolo un fantasma (cfr. Lc 24,35) e sul lago credettero che fosse uno sconosciuto affamato (cfr. G21,4). I Due di Emmaus Lo riconobbero solo allo spezzar del pane, la Maddalena  solo quando la chiamò per nome, gli Apostoli solo quando si mise a mangiare con loro, e Giovanni sul Lago  solo dopo la pesca miracolosa. No, non fu la semplice vista degli occhi che permise a tutti costoro di riconoscerLo, ma arrivarono a questo per mezzo della FEDE. E Gesù chiama beati noi se crediamo senza vedere (cfr. Gv 20,29)!

Ieri come oggi, è la fede che permette alle persone l’incontro con il Risorto.

Ogni persona, aderendo all’annunzio di fede della risurrezione di Gesù permette alla “Vita eterna” di fare irruzione nella propria vita terrena ed è nell’intimità del nostro cuore che avviene l’incontro. L’incontro con il Risorto non è un incontro che comporta una implicazione esteriore e superficiale. Non si può affermare di credere nella Risurrezione del Crocifisso e non esserne implicati profondamente: questo è impossibile! La mancanza di compromissione pratica della propria vita, è segno chiaro di pochezza di fede e di amore verso il Signore Risorto.

Ogni incontro con il Risorto è un incontro dove la persona riceve il mandato di annunciarLo ai fratelli e l’annunzio sarà efficace nella misura che quell’incontro avrà cambiato la sua vita, infatti l’unica prova della risurrezione di Gesù che il mondo di oggi può avere, è la testimonianza di una vita diversa che scaturisce dall’essere stati invasi dalla “Vita eterna” nell’incontro con il Risorto.

Si può affermare di credere nella risurrezione di Gesù Cristo, solo nella misura in cui ci si sente coinvolti esistenzialmente e vitalmente in essa, avendo esperimentato fattivamente la potenza della sua risurrezione nella propria vita di ogni giorno e, questa potenza, Gesù Risorto la offre a chiunque accetta di credere in Lui.

La fede è, dunque, per chiunque voglia credere, la possibilità concreta di esperimentare nella propria esistenza terrena come “nulla sia impossibile a Dio” (Lc 1,37), per cui siamo certi che non esiste una pietra che non possa essere rotolata via, che non esiste una situazione di morte tale che non possa essere assunta da una forza d’amore più grande di essa, e tutto questo perché Lui è risorto da morte!

Ma la partecipazione alla potenza della sua risurrezione non avviene in maniera magica e automatica, essa avviene nella partecipazione alla sua morte: è solo entrando con Lui nella sua passione che possiamo partecipare alla sua risurrezione, è solo morendo a noi stessi che possiamo risorgere nuovi in Lui.

È nell’incontro di fede con il Risorto che il credente viene da Lui reso capace di una forza d’amore così grande che gli permette di non sfuggire più le situazioni pesanti della propria vita, ma prenderle su di sé e portarle con amore come Gesù portò la sua croce per amore del Padre e amore nostro.

È dunque la nostra croce portata con amore e per amore, il segno, l’unico, che possiamo dare a questo mondo incredulo e gaudente, che Gesù è veramente risorto.

La Vergine Maria, Donna della Fede, che mai dubitò davanti al sepolcro sigillato del Figlio morto, che Egli sarebbe risorto, ci aiuti ad aver fede sempre e comunque, e mai dubitare, come Lei, che la morte è stata vinta per sempre. 

Amen.

j.m.j.

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DOMENICA DI PASQUA – SCHEMA ANNO B

Domenica di Pasqua – Anno B                                                                      Omelia

 “CHI CI ROTOLERÀ VIA IL MASSO DAL SEPOLCRO?”

 

Carissimi fratelli e sorelle,

in quest’anno dedicato all’Evangelista Marco oggi siamo in compagnia di quelle donne che alla mattina della domenica andavano al sepolcro per ungere il corpo morto di Gesù come loro ultimo omaggio a Colui che avevano amato e servito.

Esse sanno che c’è un grande masso che impedisce l’ingresso alla tomba e lungo la via si chiedono: “Chi ci rotolerà via il masso dal sepolcro?” È una domanda senza risposta che loro si fanno nel loro cammino, sanno che non potranno rotolare quel masso, ma questo non ferma il loro cammino, vanno lo stesso al sepolcro.

Carissimi fratelli e sorelle solo due brevissime considerazioni.

  1. Le donne vanno al sepolcro cercando il corpo del Morto, non lo trovano perché il Morto è Risorto. Se ne vanno, dice Marco, non piene di gioia, ma piene di paura, sono sconvolte, confuse: un angelo ha detto loro che Lui è Risorto, ma come può un morto risorgere?
    È molto facile avere una devozione al Crocifisso, chi non si commuove davanti a quel corpo straziato e umiliato?
    C’è poi anche un particolare senso di condolenza che nasce nel cuore della persona umana quando vede qualcuno soffrire: poveraccio! Che pena!
    Sembra strano, ma è così, è più facile condividere le sofferenze che le gioie. È  più facile partecipare ai dolori degli altri che alle loro gioie, chissà perché?
    Troppo spesso la spiritualità concreta di tanti nel popolo santo di Dio è una spiritualità monca della resurrezione, tutta improntata su un Cristo morto e che ci chiama a morire e che ci promette tutt’al più – forse! – una vita lassù.
    Non è un caso che abbiamo la devozione della Via Crucis, alla quale ci teniamo tanto durante la Quaresima, devozione che ci commuove profondamente, ma non abbiamo nessuna devozione per il tempo pasquale, eppure questo è il tempo più importante dell’anno liturgico: è la Pasqua del Signore!
    Fratelli e sorelle, “se Cristo non è risorto vana è la vostra fede e voi siete ancora nei nostri peccati!” (1Cor 15,17)
    Noi siamo chiamati a vivere la morte di Cristo con la forza della sua risurrezione, è la risurrezione di Cristo che mi permette di guardare la Sua Croce e tutte le croci dell’umanità senza disperarmi.
    Troppo spesso la devozione alla Passione del Signore viene identificata come l’incoraggiamento alla rassegnazione nel portare gli inevitabili pesi e croci dell’esistenza umana.
    La Passione del Signore non è il segno di identificazione di un popolo di rassegnati, ma di salvati!
    Troppo spesso anche noi preti “usiamo” la croce di Gesù per infondere rassegnazione e non speranza: “Coraggio, forza… anche Gesù ha portato la croce…” e quanto poco invece, talvolta, sappiamo aiutare a portare con amore, con slancio la croce perché strumento della mia partecipazione attuale alla resurrezione di Cristo: “Se moriamo con Lui, con lui anche vivremo” (2Tm 2,11).
    La spiritualità monca della risurrezione vuole un corpo da ungere e da stringersi al petto, è la spiritualità del sentimento e del sentimentalismo che costruisce solo qualche processione e tutt’al più qualche comunione eucaristica quando la persona “si sente”Ma che non riesce a trovare motivazioni profonde quando questo sentire non si fa sentire.
    La vera spiritualità della Croce è quella delle piaghe del Risorto, ma quel Cristo non si fa più abbracciare (cfr. Gv 20,11) e ungere. Questa è la vera spiritualità del cristiano che crede nel Morto che è Risorto. Una spiritualità segnata dall’esperienza concreta della potenza della risurrezione di Gesù Cristo nella propria vita: prima bestemmiavo, ora non più; prima non riuscivo a guardare con uno sguardo limpido, ora invece il mio sguardo è trasparente e senza malizia; primo ero un ladro e imbroglione, ora non lo sono più; prima ero un povero peccatore lontano da Dio, ora invece Dio vive in me e io in Lui…
    E tutto questo perché Cristo è risorto in me, la sua risurrezione ha ridato vita alla mia vita. Questa è una spiritualità che non cerca segni, visioni e cose del genere perché fondata su quella fede che ci hanno trasmesso coloro che hanno visto, contemplato e toccato (1Gv 1,1) e che ci fa beati perché crediamo pur senza vedere (cfr. Gv 20,29) nell’esperienza continua della potenza della risurrezione di Cristo nella nostra vita.
    Se Cristo non è potente nella mia esistenza, se Cristo non dà forza alla mia vita, forse non è risorto ed io sono nell’illusione. Ma non è così perché noi siamo cristiani perché abbiamo esperimentato e continuamente esperimentiamo questa potenza della risurrezione di Gesù nella nostra quotidianità, quella potenza che ci permette di assumere tutte le realtà di morte della nostra esistenza e di trasformarle in offerta d’amore al Padre.
  2. “Chi ci rotolerà via il masso dal sepolcro?”. Quante volte anche noi siamo di fronte a situazioni insormontabili, a massi che non possiamo rotolare, a muri che non possiamo scalare, a difficoltà che ci schiacciano e opprimono?
    Ecco la speranza del cristiano: poiché Cristo è risorto non esistono situazioni irrisolvibili da non poter essere superate; non esistono tenebre talmente fitte da non poter essere rischiarate; non esistono montagne che non possono essere scalate; non esistono prove che non possono essere superate; non esistono situazioni di morte tali da non poter essere vivificate; non esistono croci che non possono essere portate.
    Ecco la potenza della risurrezione di Gesù, se Gesù è risorto tutto può risorge, e tutto risorgerà, anche noi! Ma ci crediamo veramente?

Carissimi fratelli e sorelle: Cristo è risorto! Buona Pasqua!

Il Signore conceda a tutti noi in questa odierna festività un’esperienza sempre nuova e viva della potenza della sua risurrezione nella nostra vita.

Amen.

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SCHEMA DOMENICA DI PASQUA ANNO "C"

 

Domenica di Pasqua – Anno C                                                                      Omelia

Perché cercate tra i morti colui che è vivo?”

Carissimi fratelli e sorelle,   

è Pasqua, Gesù, il Crocifisso per amore, è Risorto e non muore più! Questa nostra Liturgia esprime tutto ciò che la Chiesa crede, spera, ama: Gesù Morto e Risorto! Sì, Gesù è veramente morto, sì, è veramente risorto! Ha vinto la morte e non muore più, vive per sempre nella gloria del Padre!

Le pie donne che avevano accompagnato Gesù nel suo patire, oggi vanno al sepolcro per ungere il corpo morto di Gesù e sono deluse e spaventate: il Morto non c’è più. “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!”(Gv 20,2) gridano a tutti quelle donne impaurite, una di loro rimarrà lì a cercarLo e visto un uomo, Lo scambiò per il custode del luogo e piangendo gli strillò: “Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo” (Gv 20,15). 

Nel Vangelo abbiamo appena finito di ascoltare il rimprovero degli angeli alle donne che cercavano morto Colui che invece era vivo.

«“Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato”. Il rimprovero fatto dai due angeli alle donne di cercare in una tomba uno che è vivo non ha perso la sua attualità. Esso può essere rivolto a quanti lungo i secoli hanno pensato, ed oggi ancora pensano, che Gesù il Cristo è uno dei tanti maestri dell’umanità la cui importanza, dopo la sua morte, è legata esclusivamente alla sua dottrina religiosa e morale. Questi sono coloro che cercano tra i morti uno che è vivo. Vivo non solo perché lungo i secoli ed ancora oggi ci sono persone che ne hanno custodito il ricordo; non solo perché il suo insegnamento continua ad essere seguito e creduto da una comunità umana, la Chiesa. Ma vivo nel suo corpo, nella sua umanità in tutto simile alla nostra, vivo di una vita ormai incorruttibile. Egli non va collocato fra i morti, poiché Egli è vivo oggi tra noi, come persona unica, irripetibile, singolare, così come lo era prima della sua morte per le persone che lo incontravano lungo le strade della Palestina: vivo oggi tra noi con tutta la pienezza di vita immortale».

– Mons. Caffarra – Omelia Pasqua 2001 –

Carissimi fratelli e sorelle, non facciamo anche noi lo sbaglio di cercare tra i morti il Vivente! 

Quando le pie donne andarono dagli apostoli a dir loro che il corpo morto di Gesù non c’era più e che degli angeli avevano detto loro che Gesù era risorto, le presero per pazze: Vaneggiamenti di donnette!

Quando Paolo, come queste donne, testimoniò davanti a Festo governatore della Giudea lo stesso fatto, si sentì rispondere: "Sei pazzo, Paolo, la troppa scienza ti ha dato al cervello" (At 26,24), e ancora per pazzo sarà preso, sempre lui, dagli ateniesi quando all’Areopago annuncerà Gesù, Morto e Risorto (cf At 17,32). Non è né facile né semplice credere in Gesù, Morto e Risorto, come anche Tommaso, l’apostolo scettico, ci ricorda (cf Gv 20,24ss)!

E ancora oggi chi vuole annunciare al mondo questa verità di Gesù, il Crocifisso per amore, che è Morto ed è Risorto e non muore più, è soggetto alla stessa reazione di derisione e incredulità.

Gesù Morto e Risorto è il nucleo, la sintesi e l’apice di tutto quanto la Chiesa crede, spera e ama e il mondo, da sempre, ritiene questo somma stoltezza, pazzia, sciocchezza. Quello che io non riesco mai a capacitarmi di comprendere, quando rifletto su questo giudizio del mondo sulla nostra fede, è come mai con una fede ritenuta così stolta, pazza, sciocca, pochissimi di noi, poi, nella concretezza della propria vita di ogni giorno, vengono presi per stolti, pazzi, sciocchi e via dicendo? E in particolare, mi chiedo: Chi mai ha preso me per scemo perché sono cristiano?

Ma allora, se nessuno mai mi ha preso per sciocco e stolto perché sono cristiano non sarà forse perché dalla mia vita non traspare la vita del Risorto, ma solo di qualcuno che è morto?

È molto facile avere una devozione a Gesù Morto, a Gesù Crocifisso: chi non si commuove davanti a quel corpo straziato e umiliato? C’è poi anche un particolare senso di compassione che nasce nel cuore della persona umana quando vede qualcuno soffrire: Poveraccio! Che pena!

Sembra strano, ma è così, è più facile condividere le sofferenze che le gioie. È più facile partecipare ai dolori degli altri che alle loro gioie, chissà perché?

Troppo spesso la spiritualità concreta di tanti nel popolo santo di Dio è una spiritualità monca della resurrezione, tutta improntata su un Gesù Cristo morto e che ci chiama a morire e che ci promette tutt’al più – forse! – una vita lassù.

Non è un caso che abbiamo la devozione della Via Crucis, alla quale ci teniamo tanto durante la Quaresima, devozione che ci commuove profondamente, ma non abbiamo nessuna devozione per il tempo pasquale, eppure questo è il tempo più importante dell’anno liturgico: è la Pasqua del Signore!

Fratelli e sorelle, “se Gesù non è risorto vana è la vostra fede e voi siete ancora nei nostri peccati!” (1Cor 15,17). Noi siamo chiamati a vivere la morte di Gesù con la forza della sua risurrezione, è la risurrezione di Gesù che mi permette di guardare la Sua Croce e tutte le croci dell’umanità senza disperarmi.

Troppo spesso la devozione alla Passione del Signore viene identificata come l’incoraggiamento alla rassegnazione nel portare gli inevitabili pesi e croci dell’esistenza umana. La Passione del Signore non è il segno di identificazione di un popolo di rassegnati, ma di salvati!

Troppo spesso anche noi preti “usiamo” la croce di Gesù per infondere rassegnazione e non speranza: “Coraggio, forza… anche Gesù ha portato la croce…”. E quanto poco invece, talvolta, sappiamo aiutare a portare con amore, con slancio la croce perché strumento della nostra partecipazione attuale alla resurrezione di Cristo: “Se moriamo con Lui, con lui anche vivremo” (2Tm 2,11).

La spiritualità monca della risurrezione vuole un corpo da ungere e da stringersi al petto, è la spiritualità del sentimento e del sentimentalismo che costruisce solo qualche processione e tutt’al più qualche Comunione eucaristica quando la persona “si sente”Ma che non riesce a trovare motivazioni profonde quando questo sentire non si fa sentire

La vera spiritualità della Croce è quella delle piaghe del Risorto, ma quel Gesù non si fa più abbracciare (cfr. Gv 20,11) e ungere. Questa è la vera spiritualità del cristiano che crede nel Morto che è Risorto. Una spiritualità segnata dall’esperienza concreta della potenza della risurrezione di Gesù Cristo nella propria vita: prima bestemmiavo, ora non più; prima non riuscivo a guardare con uno sguardo limpido, ora invece il mio sguardo è trasparente e senza malizia; primo ero un ladro e imbroglione, ora non lo sono più; prima ero un povero peccatore lontano da Dio, ora invece Dio vive in me e io in Lui…

E tutto questo perché Gesù è risorto in me, la sua risurrezione ha ridato vita alla mia vita. Questa è una spiritualità che non cerca segni, visioni e cose del genere, perché fondata su quella fede che ci hanno trasmesso coloro che hanno visto, contemplato e toccato (1Gv 1,1) e che ci fa beati perché crediamo pur senza vedere (cfr. Gv 20,29) nell’esperienza continua della potenza della risurrezione di Gesù nella nostra vita.

Se Gesù non è potente nella mia esistenza, se Gesù non dà forza alla mia vita, forse non è risorto ed io sono nell’illusione. Ma non è così, perché noi siamo cristiani, perché abbiamo esperimentato e continuamente esperimentiamo questa potenza della risurrezione di Gesù nella nostra quotidianità, quella potenza che ci permette di assumere tutte le realtà di morte della nostra esistenza e di trasformarle in offerta d’amore al Padre.

La Vergine della resurrezione che fu inondata di gioia alla vista del Figlio glorificato ci partecipi nell’intimo il suo gaudio, e la sua gioia diventi la nostra nel possesso sempre più convinto e coinvolgente della nostra fede in Gesù, Morto e Risorto per amore nostro.

Amen.

j.m.j.

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