P. ARMANDO SANTORO OMV
P. PIO BRUNO LANTERI
(1759 †1830)
Fondatore della Congregazione dei
Padri Oblati di Maria Vergine
Edizione a cura della
Provincia Italiana degli O.M.V.
ROMA 2007
INDICE
SEZIONE PRIMA
Il cammino spirituale del P. Lanteri nel suo sviluppo storico
Cap. I: Dalla nascita alla vestizione clericale (1759-1777)
1. Infanzia e adolescenza
2. Il tentativo della Certosa
3. Ripresa degli studi
Cap. II: Dalla vestizione clericale al sacerdozio (1777- 1782)
1. Lanteri studente di teologia
2. Il P. Nikolaus Albert Joseph von Diessbach
3. L’“Aa”
3.1. Devozioni e pratiche di pietà delle «Aa»
4. L’“Amitié Chrêtienne” e l’“Amicizia Cattolica”
5. L’“Amicizia Sacerdotale”
6. La spiritualità del chierico Lanteri
6.1. Una spiritualità trinitaria e cristologica
6.2. Una spiritualità mariana
6.3. Una spiritualità ignaziana
6.3.1. Gli esercizi di pietà del chierico Lanteri
6.4. Una spiritualità salesiana
6.5. Una spiritualità liturgica
7. Aspetti particolari della vita spirituale del chierico Lanteri
7.1. La mortificazione
7.2. I voti del giovane Pio Bruno
7.3. Strategia contro le tentazioni
7.4. La lotta contro il difetto predominante
7.5. Alla scuola del Diessbach: Elia e Eliseo
Cap. III: Dall’ordinazione sacerdotale alla morte del Diessbach (1782-1798)
1. Il contesto globale di questo tempo
2. Dall’Ordinazione alla patente di Confessore (1782-1785)
2.1. Direttore delle opere del Diessbach in Torino
2.2. La morte di Pietro Lanteri il 31 ottobre 1784
2.3. Lo studio della teologia morale
2.4. Lo studio e l’approfondimento personale degli E.S.
3. Dalla patente di confessore alla morte del Diessbach (1785-1798)
3.1. Le attività apostoliche del Lanteri in questo periodo
3.2. Il confessore e direttore spirituale
3.2.1. Il confessore
3.2.2. Il direttore spirituale
4. Il cammino spirituale
4.1. I Catechismi del 1786
4.2. Le risoluzioni degli Esercizi Spirituali del 1789-1793
Cap. IV: Il Lanteri durante l’occupazione francese del Piemonte (1798-1814)
1. Il Lanteri nel contesto storico di questo periodo
1.1.
La dominazione francese,
la parentesi di Souranov
1.2. Il pensiero socio-politico del Lanteri
1.3. La salute del Lanteri e il confino alla Grangia
2. Il cammino spirituale
2.1. Vari fogli di risoluzioni e proponimenti sp. (1798-1811)
2.1.1. Documento “A”
2.1.2. Documento “B”
2.2. I tre anni alla Grangia (1811-1814)
2.2.1. Annotazioni spirituali riportate sul “Libretto”
2.2.2. I saggi e i sunti di commento al Simbolo Apostolico
2.2.3. “Ars semper gaudendi”
2.2.4. “Cibus solidus perfectorum”
2.2.5. Gli scritti mariani
2.2.6.
La vita di preghiera, la
mistica apofatica e gli scritti
sull’Eucaristia e
sull’imitazione di Gesù
Cristo
2.2.7. La devozione allo Spirito Santo
2.2.8. S. Bonaventura e S. Bernardo: la sete d’amore
2.3. Le lettere di direzione spirituale
Cap. V: Il Lanteri nella Restaurazione (1814-1830)
1. Lanteri nel contesto storico di questo periodo
2. Il cammino spirituale
2.1. La fondazione della Congregazione degli OMV
2.2. Dedicati a Maria
2.3. Alcune note del 1816
2.4. Gli Esercizi Spirituali agli Oblati negli anni 1817-1818
2.5. Il
Regolamento
Provvisorio
2.6. La
prima Regola del
1817 &
2.7. Il
Direttorio Spirituale per gli
O.M.V.
2.7.1. Confronto
tra due
Direttori
2.7.2. Povertà, castità e obbedienza
2.7.3.
Altri aspetti del Direttorio per gli
O.M.V.
2.8.
Gli ultimi anni e la morte del
Venerabile
2.8.1.
Gli Esercizi Spirituali
agli Oblati e
2.8.2.
L’aggravarsi della
malattia e la morte del P.
Lanteri
Visione
sintetica Gli Esercizi Spirituali di S. Ignazio
È con mia
grande gioia che consegno questo mio lavoro ai lettori, innanzi tutto
ai miei Confratelli Oblati di Maria Vergine, alle Suore Oblate di Maria
Vergine di Fatima il cui carisma di fondazione si ricollega al carisma
lanteriano, ai laici della grande Famiglia Lanteriana, a tutti coloro
che guardano agli insegnamenti spirituali e alla persona del P. Pio
Bruno Lanteri come ad un punto di riferimento importante per la propria
crescita nello Spirito e anche ai tanti che ancora non conoscono la
ricchezza spirituale di cui è portatore il nostro Venerabile e che
grazie a questo mio studio ne inizieranno la conoscenza a beneficio
delle proprie anime. Questo
studio è
la versione al pubblico della dissertazione dottorale con la quale ho
conseguito il Dottorato in Teologia Spirituale presso la Pontificia
Università Gregoriana di Roma nel 2005, in essa ho provveduto alla
traduzione in italiano dei vari testi riportati in altre lingue per
renderne più agibile la lettura. Presentando
questo lavoro al pubblico desidero ringraziare innanzitutto la
Provvidenza del buon Dio che ha voluto che io mi impegnassi in
quest’opera e che potessi così approfondire la mia conoscenza e l’amore
per il nostro Fondatore, quindi il P. Manuel Ruiz-Jurado sj, buon amico
della nostra Famiglia Oblata e grande estimatore del nostro amato
Fondatore, che mi ha accompagnato e guidato con grande disponibilità,
competenza e interesse lungo l’annoso cammino della raccolta ed
elaborazione dei dati per la dissertazione e ne è stato relatore.
Ringrazio pure il troppo buono prof. Don Fabrizio Pieri, controrelatore
alla difesa della tesi, per le parole di grande encomio che ha voluto
elargire a questo mio studio. Ringrazio
poi
per primo il mio Provinciale del tempo, P. Mauro Oliva OMV, che mi ha
indirizzato e incoraggiato verso la realizzazione di quest’opera e
l’odierno Provinciale, P. Carlo Rossi OMV che ne ha promosso la
pubblicazione. Inoltre
ringrazio per la collaborazione prestatami nelle ricerche presso
l’Archivio degli OMV, la dott.ssa Tiziana Testone, per la revisione
delle bozze, la prof.ssa Paola Palumbo Rocchi, sr Chiara Bortolin omvf
e il carissimo amico, dott. Tullio Bonelli, per la loro consultazione i
padri OMV, Alberto Moscatelli e Andrea Brustolon. Un
ringraziamento particolare va poi anche a tutte quelle persone che in
questi anni di preparazione mi hanno incoraggiato e sostenuto nel
lavoro di studio con il loro affetto e, soprattutto, con la loro
preghiera. Nella
speranza
che questo studio possa contribuire fattivamente a far conoscere di più
e meglio il P. Pio Bruno Lanteri e ad accelerarne così anche il
processo della sua beatificazione a grande gioia di tutta la Famiglia
degli OMV, concludo dedicando questa dissertazione alla memoria del
nostro defunto confratello P. Paolo Calliari OMV,
grande studioso del nostro Fondatore, i cui dati raccolti in una vita
di studi, sono serviti come punto di riferimento costante di questo
lavoro e affido il tutto alla Beatissima Vergine Maria, Madre e
Fondatrice della Famiglia Oblata e a S. Giuseppe, suo castissimo sposo,
e nostro amatissimo Patrono, nel giorno, carissimo a noi tutti OMV,
della Madonna della Neve, 5 agosto 2007, 167° Anniversario della morte
del nostro amato Fondatore.
AOMV
Archivio della Congregazione degli Oblati di Maria Vergine.
AC
Amicizia Cristiana.
AFC
Amicizia Cristiana Femminile.
AS
Amicizia Sacerdotale.
ASCR
Archivio della S. Congregazione dei Religiosi e Istituti Secolari.
Asc
Sezione degli “Scritti ascetici” in ScrL.
Bona
C. Bona, Le
“Amicizie”. Società segrete e rinascita religiosa (1770-1830),
Deputazione Subalpina di Storia Patria, Torino-Palazzo Carignano 1962.
C
Sezione del “Carteggio” in ScrL.
Cahier
Direttorio dell’Aa, in AOMV, S 2, vol. 6, fasc..10. doc. 220.
Carteggio
P. B. Lanteri,
Carteggio, a cura di P. Calliari, Ed. Lanteriana, Torino 1976, V
voll.
Calliari
P. Calliari, Pio
Bruno Lanteri (1759-1830) Fondatore degli Oblati di Maria Vergine nella
storia religiosa del suo tempo – 4 Vol. [pro manoscritto]. CSEL
Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum,
edito dall’Accademia di Vienna dal 1866-1957. CV2
Concilio Ecumenico Vaticano II.
Cristiani
L. Cristiani, Una
croce per Napoleone. Pio Bruno Lanteri 1759 –1830, Edizioni
Postulazione OMV. Denz.
H. Denzinger, Enchiridion
Symbolorum, EDB 20014. DirSp
P. B. Lanteri, “Direttorio Spirituale (1781-1782), in AOMV,
S. 2, vol. 1, fasc. 2, doc. 6 (= Spi, 2006). DirOmv
P. B. Lanteri, “Direttorio di Congregazione”, in AOMV, S. 2,
vol. 8, fasc. 7, doc. 262 (= Org, 2262).
Docas
Documenti relativi alle Associazioni dell’Aa, dell’Amicizia
Cristiana, dell’Amicizia Sacerdotale, dell’Amicizia
Cattolica in AOMV. DocL
Documenti civili ed ecclesiastici riguardanti il P. Lanteri conservati
presso l’AOMV.
EE
Ignazio di loyola,
Esercizi spirituali. E.S.
Esercizi Spirituali.
Gallagher
T. Gallagher,
Gli esercizi di s. Ignazio nella spiritualità e carisma di fondatore
di Pio Bruno Lanteri, Tesi P.U.G., Roma 1983.
Gastaldi
P. Gastaldi, Della
vita del Servo di Dio Pio Brunone Lanteri, Fondatore della
Congregazione degli Oblati di Maria Vergine, Pietro di G. Marietti
Editore, Torino 1870.
Loix
J. Diessbach, “Loix
de l’Amitié Chrêtienne”, in Docas, S 1, vol. 5, fasc. 12,
191.
LG
Concilio Vaticano II,
Costituzione Dogmatica
“Lumen gentium”,
MHSI
Monumenta Historica Societas Iesu, Roma 1932ss.
MR
Nota direttiva della S. Congregazione dei Religiosi e degli Istituti
Secolari e della S. Congregazione dei Vescovi,“Mutuæ relationis”,
del 14 maggio 1978.
OblMaria
P. Calliari,
Gli
Oblati di Maria - Fondazione a Carignano - Primi quattro anni di vita,
Pubblicazione speciale ad uso privato per ricordare il 150°
anniversario della morte del P. Pio Bruno Lanteri 1830-1980, 377.
O.M.V.
Oblati di Maria Vergine
Org
Sezione degli “Scritti delle fondazioni” in ScrL.
ScrIned
Scritti inediti nel P. Pio Bruno Lanteri conservati presso l’AOMV.
Pol
Sezione degli “Scritti polemici” in ScrL.
PL
Patrologia Latina edita dal Migne.
Pol
Sezione degli “Scritti polemici” in ScrL.
Pos.
Sacra Rituum Congregatio, Sectio Historica, Pinerolien Beatificationis
et Canonizationis Servi Dei Pii Brunonis Lanteri, Fundatoris
Congregationis Oblatorum M. V. (†1830), Positio super introductione
causæ et super virtutibus ex officio compilata.
PG
Patrologia Greca edita dal Migne.
Pre
Sezione degli “Scritti predicabili” in ScrL.
Sbaralea
G. C. Sbaralea,
Supplementum et castigatio ad scriptores trium ordinum
S.
Francisci a Waddingo, aliisve descriptos, cum adnotationibus ad
syllabum martyrum eorumdem ordinum, Romæ 1806.
SC
Concilio Vaticano II, Costituzione Conciliare “Sacrosanctum
Concilium”.
ScrL
P. B. Lanteri, Scritti
e documenti d’Archivio, 4 voll.,
Solitario
J. Diessbach, Il
Zelo meditativo di un pio solitario cristiano e cattolico espresso in
una serie di riflessioni e di affetti, Stamperia di Giambattista
Fontana, Torino 1774.
Sommervogel C.
Sommervogel,
Bibliotèque
de la Compagnie de Jesus, 9 voll., Bruxelle-Paris
1890-1900.
Spi
Sezione degli “Scritti spirituali” in ScrL.
L’iter spirituale del P. Pio
Bruno Lanteri, secondo il taglio della mia trattazione, finora non è
stato oggetto di indagine di una tesi dottorale né di alcun altro
studio scientifico. Esistono tre tesi dottorali riguardanti la vita del
nostro Venerabile:
1) la tesi del P. Elio Falera, omv, Il
Lanteri difensore della genuinità della dottrina cattolica in Piemonte,
P.U.G. 1952;
2) la tesi del P. Timoteo Gallagher,
omv, Gli Esercizi Spirituali di S. Ignazio nella spiritualità e nel
carisma di fondatore di Pio Bruno Lanteri, P.U.G. 1983; 3) la tesi del P. Andrea Brustolon,
L'azione misssionaria degli Oblati di Maria
Vergine fuori del Piemonte nel quadro storico della Restaurazione e
della vita della Congregazione,
P.U.G. 2000. Abbiamo poi alcune dissertazioni di
licenza
in scienze teologiche[1] e
tesi di magistero in scienze religiose[2],
che si sono occupate di ambiti particolari della spiritualità del
Lanteri o della sua stessa spiritualità complessiva, ma nessuno studio
che abbia affrontato il distendersi nel tempo della sua vita
spirituale, così come lo si è affrontato in questa tesi, dalla nascita
alla morte. In questo
studio, attraverso l’analisi delle testimonianze biografiche e degli
scritti personali del Lanteri si vuole arrivare a identificare quali
siano stati i punti fondamentali della sua spiritualità e le linee
strutturali della sua interiorità spirituale che gli permisero di
comunicare, all’Istituto religioso degli Oblati di Maria Vergine da lui
fondato e a tante persone da lui guidate, uno stile proprio di santità. Il metodo seguito in questo lavoro è
storico
e spirituale. Ho investigato le fonti
storiche disponibili su quanto c’è
stato trasmesso della vita spirituale del Lanteri nel suo
evolversi nel tempo, analizzando parimenti i suoi scritti per coglierne
i germi, le linee di sviluppo e di maturazione della sua spiritualità.
Chiaramente questo ha comportato un lavoro di interpretazione dei testi
che conduce necessariamente ad una visione soggettiva del cammino
spirituale personale del nostro Venerabile che potrà più o meno essere
condivisa dai lettori.
Per comodità di studio ho diviso la
vita
del Lanteri in cinque periodi:
1
Dalla nascita alla vestizione clericale: 1759-1777.
2
Dalla vestizione clericale al sacerdozio: 1777-1782.
3
Dall’ordinazione sacerdotale alla morte del P. Diessbach suo
padre e maestro spirituale: 1782-1798.
4
Dalla morte del P. Diessbach all’occupazione francese del
Piemonte: 1798-1814.
5
Dalla Restaurazione alla morte del Venerabile: 1814-1830. Nella Prima Sezione del lavoro ho
indicato le fonti della mia ricerca, le cui
principali sono ascrivibili in due
ambiti: Il primo ambito è quello
biografico delle testimonianze storiche sulla vita spirituale del
Venerabile tratte quasi esclusivamente dalle testimonianze accreditate
dalla Positio
della Causa di Beatificazione. Purtroppo pochissimi furono i testi che
riportarono contributi diretti sulla vita del Nostro, tuttavia sono
sufficienti insieme con le testimonianze indirette, giunte a noi
attraverso la tradizione interna alla Congregazione degli Oblati di
Maria Vergine, a fornirci gli elementi conoscitivi necessari per
questo studio. Il secondo ambito è quello
degli scritti lanteriani, in particolare le annotazioni personali
(frutto dei suoi ritiri ed Esercizi Spirituali (= E.S.) spesso
riportate su fogli volanti che usava inserire nei libri o nel
breviario) e i suoi due
Direttori Spirituali scritti, uno negli anni della gioventù per ben
fondare la propria vita spirituale, e uno nella tarda maturità, per
guidare la vita spirituale dei suoi Oblati. Questi documenti costituiscono una miniera
ricchissima dalla quale si sono estratte le deduzioni sullo sviluppo
nel tempo della personalità spirituale del venerabile
Lanteri. È stata utile, inoltre, anche l’analisi di alcuni suoi testi
non personali, ma diretti alla formazione spirituale dei fedeli nonché
alcune lettere di direzione spirituale e schemi di E.S. da lui
guidati ai membri della sua famiglia religiosa. Il materiale a
disposizione è stato senz’altro abbondante e ha permesso di conoscere
tutto l’arco della sua vita spirituale. Nella Seconda Sezione ho seguito
sempre l’evolversi nel tempo della vita spirituale del Venerabile
secondo quelle tappe che ho sopra indicato, dedicando a ciascuna tappa
un capitolo (capitoli da uno a cinque), seguendo questa metodologia:
1.
All’inizio di ogni capitolo ho predisposto una tavola con gli
eventi più significativi della vita del Lanteri temporalmente datati
nonché un riassunto delle
circostanze storiche di sfondo con le implicazioni socio-politiche
corrispondenti.
2.
Ho seguito il distendersi nel tempo della vita del Lanteri in
quella determinata tappa cercando di comprendere quali siano stati gli
eventi più determinanti in ordine al processo della formazione della
sua identità spirituale, avvalendomi anche di testimonianze dirette ed
indirette.
3.
Ho analizzato le annotazioni spirituali personali che il
Venerabile stilava durante questo tempo entrando così in contatto vivo
con la sua intima tensione alla santità, le sue lotte, le sue sconfitte
e le sue vittorie.
4.
Quando inizia l’analisi della vita del Lanteri sacerdote, ho
anche aggiunto lo studio di alcune sue lettere di direzione spirituale
e di altri testi personali riguardanti la sua predicazione e direzione
degli E.S., nonché altri documenti da lui redatti per
l’animazione spirituale delle associazioni da lui dirette. In
particolare, nel quinto capitolo, sarà determinante per la mia analisi,
quanto scrisse per la formazione spirituale e apostolica dei membri
della Congregazione degli Oblati di Maria Vergine. Nella Terza Sezione ho completato
l’analisi cogliendo negli E.S. ignaziani una chiave di sintesi
per la comprensione della struttura spirituale fondamentale del
Venerabile, fondata nella meditazione del “fine dell’uomo”
promossa dal Principio e Fondamento ignaziano[3].
Nella conclusione ho mostrato in
sintesi
il cammino svolto dalla mia ricerca e come essa mi abbia condotto ad
individuare nella vita spirituale del Venerabile un filo rosso
di unificazione, crescita e maturazione che lo condusse ad una sempre
maggior semplificazione nell’unione d’amore con il suo Signore, il
Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, vissuta alla luce di un’intima
devozione a Maria SS.ma, nella Comunione dei Santi e nell’adesione
piena e assoluta al Magistero della Chiesa. sezione
i
Presentazione La vita
del
P. Pio Bruno Lanteri si situa nell’agitata epoca a cavallo fra il
secolo XVIII e il XIX e ha il suo centro nel periodo della Rivoluzione
Francese ed in quello Napoleonico, egli infatti nacque a Cuneo il 12
maggio 1759, fu ordinato sacerdote nel 1782 a Torino e morì a Pinerolo
il 5 agosto 1830 nella casa della Congregazione degli Oblati di Maria
Vergine da lui fondata nel 1826, dopo quarantotto anni di apostolato
indefesso, svolto quasi tutto a Torino.
Per quanto riguarda le fonti della
nostra analisi circa lo sviluppo del cammino spirituale del Lanteri ci
avvarremo di quelle stesse raccolte per la Positio della sua
causa di beatificazione, di seguito presentate:
A.
Documenti di carattere biografico contemporanei alla vita del
Venerabile[4].
B.
Documenti riguardanti le opere di apostolato che egli intraprese
come moderatore o come fondatore[5].
C.
Documenti inerenti alla fondazione della Congregazione degli
O.M.V.[6]
D.
Gli scritti del Venerabile[7].
E.
Testimonianze sulla fama di santità del Venerabile[8]. Le fonti biografiche storiche cui
attingere
per stilare un suo profilo spirituale non sono molte, in quanto a
tutt’oggi non esiste una biografia critica, a parte una monumentale
opera del Calliari[9],
che viene conservata negli archivi degli Oblati di Maria Vergine in
formato
pro manoscritto e mai edita[10].
Il Relatore Generale stesso della sua Positio faceva
notare questa mancanza di fonti biografiche nel suo processo di
canonizzazione: «…
il Processo informativo sulla fama di santità [del P. Pio Bruno
Lanteri] non fu iniziato che dopo un secolo, cioè esattamente il 5
agosto 1930. Naturalmente non vi poté comparire alcun
testimone de visu[11],
onde la causa è divenuta storica. Fra i testimoni, 12 in tutto, ve ne
furono due de auditu a videntibus[12], i
testi I e IV, nati ambedue 30 anni e più dopo la morte del Servo di
Dio. Le loro deposizioni […] sono purtroppo estremamente povere: basti
dire che non raggiungono due pagine di stampa. Del resto anche gli
altri testimoni dicono ben poco, tanto che tutte le loro deposizioni,
riprodotte quasi per intero, occupano appena una sessantina di pagine»[13]. Il Relatore
Generale motiva questa carenza attribuendola a tre circostanze:
1.
la Congregazione degli Oblati di Maria Vergine, cui spettava il
compito di raccogliere le testimonianze storiche del proprio Fondatore,
era agli albori e stressata da impegni apostolici superiori alle
proprie forze;
2.
il segretario del P. Lanteri, il P. Loggero, per vent’anni
testimone intimo della vita del Fondatore, aveva raccolto del buon
materiale, ma mai si accinse a stenderne una biografia, forse – azzarda
il Relatore – per incapacità personale;
3.
nel 1855 la Congregazione degli O.M.V. sperimentò un
forte sbandamen-
to a causa dell’entrata in vigore
delle
leggi soppressive degli ordini religiosi[14]. La Positio accredita nella sua
documentazione biografica 18 documenti conte-
nuti in 149 pagine[15],
affermando che:
«…non tutti
questi
documenti sono di uguale valore; se ne ha però un gruppo
importantissimo (Doc. LXXII, LXXVI-LXXXI) contenenti testimonianze
sulla vita, sulle virtù, sulla morte e sulla fama di santità del
Lanteri, dovute a contemporanei che avevano avuto con lui lunga
dimestichezza o che comunque ebbero modo di conoscerlo o di sentirne
parlare. Dobbiamo la raccolta di tali documenti all’iniziativa del
Padre Loggero (†1847) e del Padre Avvaro, Rettor Maggiore degli Oblati
(1836-1856)»[16]. Di seguito
elenchiamo i documenti biografici ritenuti più importanti dalla Positio: a) Doc. LXXII - Relazione del P.
Antonio
Ferrero[17].
Si tratta di una relazione scritta di getto dal P. Antonio Ferrero, O.
M. V. (1788 †1859), confessore del P. Pio Bruno[18],
il quale fu anche presente al momento della sua morte[19].
La relazione fu scritta ad uso del panegirico funebre di don Rubino[20]
nella S. Messa di trigesimo celebrata a Pinerolo il 7 settembre 1830:
non si tratta tanto di una frettolosa biografia, quanto di un insieme
di annotazioni disordinate, ma vere, sulla vita del Lanteri. Il P.
Ferrero è «quindi un testimone diretto che scrive su cose e fatti da
lui veduti oppure conosciuti in seguito a dichiarazioni dello stesso
Servo di Dio o dei suoi intimi familiari»[21]. b) Doc. LXXVI - Relazione del p.
Enrico
Simonino[22].
Contiene due brevissime memorie sul P. Lanteri redatte dal P.
Simonino (1797 †1863), O. M. V., che, pur essendo entrato nella
Congregazione dopo la morte del Fondatore, aveva avuto lunga
dimestichezza con lui negli anni precedenti.
c) Doc. LXXVII - Relazione del can.
Luigi
Craveri[23].
Il can. Luigi Craveri (1781 †1850)[24]
scrisse questa relazione attingendo ai suoi ricordi personali. Essa fu
importante per quanto riguarda le virtù di Lanteri e la sua fama di
santità. d) Doc. LXXVIII - Relazione del p.
Michele Valmino[25].
P. Michele Valmino (1784 †1852), O. M. V., professò poco più di un anno
prima della morte del Lanteri, scrisse due paginette riguardanti gli
ultimi anni di vita del Fondatore. Nonostante la sua brevità, si tratta
di un documento importante in quanto redatto da un testimone de
visu. e) Doc. LXXIX - Relazione del p.
Giuseppe
Loggero[26].
Il P. Giuseppe Loggero (1777 †1847), O. M. V., fu il segretario
personale del Venerabile: «P.
Giuseppe Loggero, penitente, compagno e segretario del Servo di Dio per
oltre un ventennio… Certo nessuno meglio di lui era in grado di
scrivere una biografia del Lanteri, poiché nessuno aveva avuto tanta
dimestichezza col Servo di Dio quanto lui»[27]. Purtroppo
il P. Loggero non si cimentò mai in una biografia del Lanteri, ma i
dati che raccolse dai contemporanei e la sua memoria di tanti anni di
convivenza furono alla base di ogni altra biografia del Venerabile.
Dopo due tentativi non condotti a termine, del padre Biancotti[28] e
del padre Ceretti[29],
la prima grande e valida biografia del Lanteri sarà redatta dal padre
Gastaldi[30]. f) Doc. LXXX - Relazione del p.
Antonio
Bresciani[31].
Il P. Antonio Bresciani (1798 †1862), celebre padre gesuita dell’epoca,
conobbe il Lanteri[32].
Questo documento è importante per quanto concerne la stima che si aveva
del Lanteri nell’ambito della Compagnia di Gesù e delle notizie
riguardanti l’apostolato del Venerabile e il suo rapporto con il P.
Diessbach[33]. g) Doc. LXXXI - Relazione del p.
Giovanni
Battista Biancotti[34].
Giovanni Battista Biancotti, O.M.V. (1810 †1870), redasse una biografia
del Lanteri tra il 1846-1847. Tale documento, purtroppo incompiuto, è
importante soprattutto per il periodo della giovinezza del Lanteri. Il
Biancotti si avvale per la redazione di tale biografia dei documenti
dell’archivio degli Oblati di Maria Vergine e delle
informazioni orali avute dai primi compagni del Fondatore, in
particolare quelle preziosissime del P. Loggero suo segretario. È una
fonte importantissima, «malgrado la sua incompiutezza, per le numerose
notizie che contiene sulla prima parte della vita del Lanteri»[35]. h) Doc. LXXXVIII - La biografia del Gastaldi[36].
La biografia più ampia e fedele della vita del P. Lanteri, come precisa
la stessa Positio[37], è
quella del P. Pietro Gastaldi, O.M.V. (1827 †1902), pubblicata già nel
1870[38].
Il padre Gastaldi fu in grado di attingere ad una consistente e valida
banca dati sulla vita del Fondatore negli archivi di Congregazione e di
famiglie private. Inoltre egli stesso ricevette la formazione religiosa
proprio dai compagni stessi del Lanteri con i quali convisse anche
diversi anni[39].
Una biografia quindi riconosciuta
come
ottima dalla Positio, al punto da affermare senza tentennamenti
che «la figura del Lanteri rimane e rimarrà quale ce l’ha saputa
ritrarre il Gastaldi»[40].
Tutto questo tenendo presenti i suoi limiti oggettivi dovuti allo stile
storiografico e agiografico del tempo, alquanto ampolloso e non uso a
citare le fonti di quanto affermato, il che ne rende non agevole la
verifica.
Leggendo questa biografia si
percepisce
un certo riserbo dell’autore il quale, nonostante le suddette
ampollosità stilistiche, è molto attento a non gonfiare le cose e a
trasmetterle con sincerità e verità senza stravolgerle[41]. Bisogna osservare che la Positio
riporta solo cinquantotto pagine della biografia del Gastaldi e il
Frutaz[42] si
sente in dovere di precisare che questo taglio è stato dovuto a motivi
pratici (voluminosità eccessiva della Positio e presenza di
molti elementi già riportati dai documenti accreditati) e al fatto che
una copia della biografia viene consegnata ai Rev.mi Padri Consultori[43]. È
chiaro dunque il carattere di fedeltà attribuito alle testimonianze
biografiche del Gastaldi, al quale tutt’al più si attribuiscono
enfatizzazioni e parafrasi di quanto realmente accaduto e vissuto, ma
mai falsità o autentici errori[44]. Per quanto riguarda poi le testimonianze
sulla fama di santità del Venerabile[45],
si tratta, come anticipato, di dodici testimoni: «[…]
di cui nessuno aveva conosciuto il Servo di Dio. Le loro deposizioni si
basano generalmente sulla tradizione orale, sulla lettura delle
biografie del Lanteri, scritte dal Gastaldi e dal Piatti[46], e
infine – i casi sono però rari – su documenti d’archivio. Da ciò si può
subito arguire quale scarsa importanza abbiano in genere per la
conoscenza della vita e delle opere del Servo di Dio; sono invece assai
importanti per provare l’esistenza e la continuità della fama di
santità»[47].
Tra queste testimonianze quelle
ritenute
più solide ed importanti sono due, «quelle cioè dovute al P. Ferdinando
Kerschbaumer[48]
(teste 5) e al P. Giovanni Battista Fogliati[49]
(teste 6)»[50]. sezione ii
1759-1777 Dalla nascita alla vestizione clericale 12
maggio 1759 19
luglio 1763 1764 1770 10
luglio 1771 29
novembre 1772 1776 1777 17
settembre 1777 Pio Bruno
Lanteri nasce a Cuneo Lo stesso
giorno riceve il santo Battesimo nella Parrocchia di S. Maria
delle Pieve Muore
la mamma di Pio Bruno, Margherita Fenoglio Muore
la sorella Margherita Suo
fratello Giuseppe entra in religione Il
suo intimo amico Luigi Virginio entra dai Gesuiti Riceve
il Sacramento della Confermazione Professione
religiosa di suo fratello Giuseppe Muore
la sorella Anna Maria Teresa Pio
Bruno entra alla Certosa di Chiusa Pesio e vi esce dopo pochi giorni Interrompe
gli studi matematici per una infiammazione oftalmica Veste l’abito ecclesiastico
1.
Infanzia e adolescenza Purtroppo, intorno alla vita spirituale
del
nostro Venerabile, non abbiamo alcun documento autobiografico personale
o testimonianza che ci possa permettere di ben delineare un profilo del
suo cammino spirituale durante il periodo della prima giovinezza, come
ben evidenzia il Calliari: «La
vita spirituale del Venerabile Pio Bruno Lanteri è uno dei settori
della sua biografia forse meglio documentati […]. Questa documentazione
però manca totalmente per i primi anni dell’infanzia e della giovinezza
che si riferiscono agli anni da lui passati ancora in famiglia e al
tempo dei suoi studi a Cuneo. I primi scritti a noi pervenuti di lui
datano dal 1781, quando egli era già a Torino sotto la direzione
spirituale del padre Diessbach. Prima di quell’anno nessuno scritto
originale ci è arrivato di lui, né di altri membri della sua famiglia,
neppure del padre dottor Lanteri»[51]. Ma, tenendo conto anche di come svilupperà
la
sua personalità in seguito, gli elementi di cui siamo in possesso ci
permettono di delineare sufficientemente la sua personalità spirituale
nel distendersi nel tempo, nel suo maturarsi, al punto che possiamo
cogliere quei germogli che, come vedremo, fruttificheranno a suo tempo.
Le fonti da cui attingere notizie di
questo
periodo della vita del Lanteri, sono praticamente due: la biografia del
Gastaldi e la biografia incompiuta del Biancotti. La
famiglia
cui apparteneva era numerosa, di profonda tradizione cattolica ed
abbastanza ricca. Il papà, Pietro Lanteri, illustre medico di Cuneo
popolarmente conosciuto e stimato per la sua bontà: «Suo
padre, Pietro Lanteri, apparteneva ad un’onorata famiglia di Briga
(oggi Briga marittima, provincia di Cuneo) nel territorio della Contea
di Nizza, ed era medico. Da Briga egli si trasferì nella città di
Cuneo, ove acquistò fama di ottimo cristiano e di integerrimo
professionista; la sua carità era così grande e i benefici che arrecava
agli ammalati poveri così segnalati che veniva chiamato «Padre dei
Poveri»[52].
Di lui si conserva ancora una pubblicazione di carattere scientifico
intitolata: Febris Epidemicæ quæ Cunei Anno MDCCLXXIV et
MDCCLXXV grassata est, historia, Nizza 1776»[53]. La mamma di Pio Bruno, Maria Margherita
Fenoglio, era una lontana parente del marito e morì nel 1763, quando
Pio Bruno aveva solo quattro anni[54].
Alla morte della moglie, Pietro Lanteri affidò alla Madonna il
figlioletto Pio Bruno, il quale, anche nell’anzianità, ricordando con
commozione questo gesto di suo padre, diceva: «Io quasi non ho
conosciuto altra madre che Maria santissima, e non ho ricevuto in tutta
la vita altro che carezze da una sì buona Madre»[55]. Durante la sua prima adolescenza ci furono
alcune circostanze che certamente influirono nella formazione
spirituale del giovane Lanteri:
- La morte della
sorellina
Margherita nel 1764
- L’ingresso nella vita
religiosa di suo fratello Giuseppe che entrò dai Francescani
nel 1770, quando Pio Bruno aveva undici anni e professò quando ne aveva
17.
- L’ingresso nella vita
religiosa di uno dei pochissimi giovani che frequentavano casa Lanteri,
Luigi Virginio[56],
che entrò dai Gesuiti nel 1771 e prima del 1773 faceva la sua
professione religiosa.
- La morte, nel 1776,
della
ventiquattrenne sorella Anna Maria Teresa. Questo primo periodo della vita di Pio
Bruno
fu caratterizzato da una forte presenza paterna. Papà Pietro, infatti,
nonostante gli impegni professionali si premurò personalmente e
direttamente della prima educazione cristiana, umana e scolastica del
figlio e lo formò sulle linee di una rigida educazione fondata sul
controllo dell’ambiente frequentato dal figlioletto, sullo studio
metodico, la pietà e l’ordine[57].
Quando raggiunse l’età dovuta, intorno ai dieci anni, il dottor Lanteri
mandò il suo figlioletto a studiare presso il locale Collegio Civico[58]. L’infanzia e l’adolescenza fu vissuta da
Pio
Bruno sui solchi tracciati dal padre all’insegna della ritiratezza,
della preghiera, dello studio appassionato e metodico con le giornate
scandite da un preciso orario stilato per lui dal genitore stesso, come
riporta il Biancotti: «Il
padre di Brunone, rimasto solo nell’educazione del tenero figliolo, vi
si accinse con doppia sollecitudine: dapprima si propose e mantenne di
tenerlo costantemente lungi dalle compagnie pericolose, qual sono la
più parte e non pure nella puerile età che non farebbe gran cosa, ma
benanche negli anni susseguenti; quando già grandicello dovea mandarlo
a scuole pubbliche; sicché del giovanetto Brunone fu detto non aver
egli altri compagni da quelli di sua famiglia, né conoscere altra casa
fuorché la paterna, la scuola, la Chiesa»[59]. Ma secondo il Calliari Pio Bruno non fu
istruito, nei suoi studi primari-elementari, totalmente dal Padre come
sopra ha affermato perentoriamente il Gastaldi perché sembra «difficile
pensare che il dottor Lanteri, da solo abbia potuto portare avanti la
scuola del figlio e seguire passo passo, ogni giorno per mesi e per
anni, il corso elementare del piccolo alunno fino al suo ingresso nel
Collegio… le sue occupazioni lo assorbivano troppo…»[60].
Il Calliari è quindi più propenso a supporre una presenza paterna
come aiuto e sostegno nell’educazione scolastica primaria del figlio,
più che essere un vero e proprio maestro del figlio che verosimilmente
– secondo lui – frequentò le pubbliche “Scuole Basse” di Cuneo
che oggi chiameremmo Scuole Elementari, ma questa è solo
un’ipotesi logica che non ha nessun ancoraggio di testimonianze
storiche. L’interesse personale per gli studi del
figlio, fu comunque una costante preoccupazione del dottor Pietro, come
ben ricorda il Biancotti: «Dopo
l’esercizio interno ed esterno delle virtù cristiane, aveva luogo
l’applicazione agli utili studi, dei quali tanto amore aveva il padre e
tanto riuscì ad infonderne in Brunone, che benanche prendendo cibo
proseguivano le letterarie e scientifiche occupazioni, disputando o
leggendo, il qual uso il nostro Lanteri conservava ancora nell’età più
provetta: perocché trovandosi a mensa introduceva destramente discorsi
qualche volta di morale o di altra scienza, ma più spesso di pietà; e
quando si trovava solo soleva tenersi accanto qualche libro, onde
pescarvi per entro da quando in quando e a brevi occhiate»[61]. Queste notizie trovano anche una conferma
nella testimonianza del p. Loggero che, come abbiamo esposto in
precedenza, fu segretario del Venerabile per un ventennio: «Egli
[Pio Bruno Lanteri] precorse negli studi, giacché non avea altra
occupazione, e altra inclinazione che a studiare: “Col mio padre noi
studiavamo sin a tavola”, [mi dicea un giorno]»[62]. Certamente se non vi fosse stata questa
predisposizione naturale di Pio Bruno ad accogliere e far propria
l’educazione paterna, egli sarebbe dovuto crescere in una frustrazione
esistenziale che ne avrebbe povuto fare un complessato e invece
ne ha fatto un santo. La naturale predisposizione al silenzio
ed al raccoglimento del giovane Lanteri trovò indubitabilmente, in
quell’educazione paterna così austera, una provvidenziale circostanza
che contribuì alla formazione in lui di quella personalità spirituale
che un giorno sarà così forte e ricca. Ad acuire questa propensione per il
raccoglimento ed il silenzio senza dubbio contribuì la prematura
scomparsa di mamma Maria Margherita. La ferita profonda della
perdita della mamma accrebbe l’affetto filiale e la devozione verso il
proprio padre, cose che senz’altro lo aiutarono non poco ad immergersi
con amore e senza ribellioni in quel duro e serio stile di vita che il
genitore aveva tracciato per lui con «un orario dettagliato della
giornata, col tempo da consacrare alla preghiera, allo studio, alla
ricreazione e al riposo a cui Pio Bruno vi si attenne fedelmente»[63],
cosicché ci sembra esatta l’osservazione del Biancotti:
«Ad un figliolo di buon’indole lontano dalla dissipazione che per minor
male producono le compagnie de’ cattivelli, riuscì facile al Sig.
Pietro insinuare e profondamente imprimere nella mente vergine e nel
cuor puro le massime celesti del Vangelo, e gradatamente, secondo la
crescente capacità, avviarlo alla fedele osservanza dei doveri che
questa religione prescrive, nonché all’uso assiduo delle pratiche
divote che ella inculca, siccome conducenti per più maniere allo scopo
essenziale della santità dei costumi. Il santo timor di Dio, il suo
amore e una tenera figliale divozione alla Beatissima Vergine Madre
erano il fondamento e la base di sua educazione e condotta»[64]. “Ad un figliolo di buon’indole”
riuscì facile seguire
l’austera e profonda opera educativa di papà Lanteri perché era quella
l’acqua giusta ad irrigare, far crescere e maturare quel piccolo seme
piantato da Dio nel giardino della sua casa. Pio Bruno non
amava le compagnie scherzose e i giochi – grazie al Cielo – perché
altrimenti la sua infanzia e la sua giovinezza sarebbero state ben dure
per lui! Un particolare testimone della vita
spirituale del giovane Lanteri, di cui ci è giunta la voce attraverso
il Biancotti, fu il cugino Agostino Eula: «[…]
l’Abate Eula, suo compatriota, suo cugino e a un di presso coetaneo,
che per conseguenza ebbe frequentissime le occasioni di trattare con
lui in que’ verdi anni con molta dimestichezza, asseriva d’averlo
sempre conosciuto d’illibati eccellenti costumi e di fervorosa pietà»[65].
L’amico e cugino conservò sempre per
il
Lanteri una grandissima stima, che si tramutò in devozione dopo la
morte di questi, convinto com’era della sua santità e che lo rendeva,
pertanto, cugino di un santo: «[…]l’onore
ambisco e la bella sorte spero d’essergli un giorno compagno in Cielo,
anzi che, miserabile qual io mi sono, vantar solo qui in terra i dolci
e stretti vincoli d’un Santo affine»[66]. Certamente possiamo affermare che Pio era
un
giovinetto riservato, non tanto timido quanto riservato, riflessivo,
amante dello studio e dotato di una forte vita spirituale in cui
spiccava la pratica dei Sacramenti, la docilità e la devozione filiale
alla Vergine Santa.
Un aspetto che ci colpisce particolarmente
nel giovane Pio Bruno è la fedeltà al regolamento paterno,
metodo e fedeltà presenti in lui sin dalla più giovane età, che saranno
un giorno il fulcro dell’efficacia del suo apostolato. Il suo carattere riservato, il suo amore
allo
studio e i limiti restrittivi posti dal padre alle sue amicizie, non
devono portarci a pensare che Pio Bruo non amasse le compagnie simpliciter,
non è così, come soprattutto sarà evidente più tardi, egli infatti
amava le amicizie spirituali e l’amicizia con il Virginio, di cui
abbiamo già accennato[67],
ne è una testimonianza. Tre anni più giovane dell’amico Virginio, Pio
Bruno gli era fortemente legato e, senza meno, la partenza di costui
per l’iniziazione alla vita religiosa che intraprese con fervore quando
Pio Bruno era appena dodicenne, contribuì non poco a far maturare nel
giovane Lanteri l’ideale della santità più radicale che lo avrebbe
portato, all’età di diciassette anni a prendere l’ardua decisione di
lasciare tutto per immergersi nel silenzio della
Certosa di Pesio. Decisione questa che subì certamente anche
l’influsso della prematura scomparsa della ventiquattrenne sorella
Anna Maria Teresa alla quale era legato da un profondissimo affetto:
«Brunone, pensata bene
ogni cosa e fatti i suoi riflessi in faccia a Dio e all’eternità,
risoluto si dichiara al padre che lo stato secolare non gli piace,
volervi presto rinunciare per sempre, epperò domandargli licenza e di
volerlo accompagnare colla sua paterna benedizione ad un chiostro. Non
basta, il figlio soggiunge che tra tutti gli ordini religiosi egli si
elegge quello fondato dal suo patrono san Brunone: perché crede che Dio
lo chiami appunto a quella vita contemplativa, solitaria, nascosta; né
egli vuole contraddire alle voci di Dio»[68]. Bisogna che non cadiamo nell’errore di
pensare che la forte e severa educazione impartitagli avesse formato in
lui una specie di dipendenza paterna, una personalità dipendente e
subordinata totalmente al padre. Sarà proprio il modo di esternare il
desiderio di diventare certosino che mostrerà come Pio Bruno tutto
fosse tranne che papà-dipendente e succube di un’educazione frustrante.
Era invece un giovane deciso e forte, che sapeva quello che voleva,
capace anche di insistere e contrapporsi, sempre rispettosamente, alla
stessa figura paterna.
2. Il tentativo della Certosa
Questo desiderio non trovò, infatti,
subito
l’approvazione e l’autorizzazione del padre, anzi determinò una dura e
«meravigliata» opposizione. Nonostante la sua forte fede, Pietro
Lanteri non condivise questo orientamento di Pio Bruno: «Brunone
palesò il suo desiderio al suo padre, il quale avendo sopra di lui
concepito altre speranze e formato altri disegni, fortemente si
maravigliò come il figliuolo disprezzando ogni cosa, di primo slancio
rimirasse tant’alto e volesse così tosto seppellire con se stesso le
sue rare qualità di cuore e di spirito. Troppo gli rincresceva il
privarsi di lui, che considerava come l’unico conforto della sua
vecchiaia e gli sapeva male che quell’ingegno così precoce ed insieme
sì sodo intieramente scomparisse dal mondo per nascondersi nella
solitudine e nel silenzio del chiostro»[69]. Comunque il giovane non si arrese ai
desideri
paterni, ubbidiente e rispettoso, sì, sempre, ma fermo e deciso ad
«occuparsi delle cose del Padre suo» (Lc 2,49), come gli aveva
insegnato quella stessa educazione cristiana paterna che lo aveva
formato:
«Epperciò [suo
padre] dalle replicate e costanti preghiere che Brunone gli faceva
perché volesse pure dargli licenza di andarsene alla Certosa,
comprendendo che Dio voleva da lui quella prova e quel sacrificio,
senza frapporre altri indugi, lo benedisse e l’accommiatò»[70]. Perché Pio Bruno scelse la Certosa? Una
scelta così radicale ed assoluta era stata ben preparata dal suo
cammino spirituale di giovane radicato nella pratica dell’orazione e
dei Sacramenti, docile al suo direttore spirituale[71],
amante della solitudine, della riflessione, ben consapevole della
vacuità e temporalità delle cose, segnato profondamente nell’animo
dalla morte della mamma e di due sorelle, Margherita, un anno
dopo la madre e ultimamente anche la sorella Anna Maria
Teresa. Nulla sappiamo dei sentimenti che lo legavano a questa
sorella, ma la stretta vicinanza della sua entrata alla Certosa con la
di lei morte, ci lascia supporre che «[…]
questo ultimo lutto abbia lasciato un grande vuoto nel cuore del
giovane facendogli ricordare ancora una volta, e quasi toccare con
mano, il vanitas vanitatum, la vanità e vacuità di tutte le
cose umane, la tremenda realtà della morte e l’unica cosa necessaria
nella vita, amare Dio e vivere sempre uniti con Lui…… Dio si serve
talvolta anche del dolore e delle lagrime per meglio far sentire la sua
voce di Padre e il suo invito da Amico»[72]. Il clima particolarmente devoto e raccolto
che papà Lanteri aveva creato attorno a lui, l’esempio del fratello
Giuseppe e dell’amico Virginio, che avevano intrapreso la
vita religiosa, il suo grande amore filiale alla Madonna, di cui
l’Ordine Certosino è così devoto, la particolare devozione che Pio
Bruno aveva per s. Bruno, suo santo patrono e fondatore dei
Certosini[73],
furono tutti elementi che ebbero un peso rilevante per la sua
decisione.
A queste svariate motivazioni il Calliari
ne
aggiunge una abbastanza originale: il Lanteri avrebbe scelto la Certosa
anche come «[…]
reazione alla mentalità illuministica e materialistica del suo tempo
che aveva preso di mira e fatto bersaglio preferito delle sue critiche
in modo particolare la vita di contemplazione e di preghiera…… Pio
Bruno Lanteri non fu mai un facile conformista che si adatti a far
volentieri quello che tutti fanno, solo perché lo fanno gli altri, e ad
accettare a occhi chiusi le opinioni della maggioranza solo perché
sostenute dalla maggioranza. Egli volle sempre, per amore della Chiesa,
andare contro corrente a rischio anche di incontrare vessazioni e
persecuzioni personali o intralci indebiti alla sua attività. Questo
suo carattere lineare e indipendente lo si riscontra in tutta la sua
vita a cominciare ancora dagli anni della sua giovinezza. La scelta
della vita contemplativa in un momento in cui tale forma di vita era
decisamente – ma a torto – in ribasso nella estimazione generale, ne è
una prova»[74].
Ma la
gioia di essere con quei «penitenti solitari»[75]
si scontrò subito con il limite della fragilità fisica del giovane
Lanteri e gli alti desideri di radicalità e di assolutezza dovettero,
nel giro di pochi giorni, scendere dalle loro altezze per coniugarsi
con la dura realtà di una corporeità malaticcia:
«Il Superiore
l’ammise a fare i primi saggi in quell’Istituto rigoroso per ogni
verso, ma, passati otto giorni si credé obbligato a dichiarare
all’aspirante che egli vedeva di complessione troppo gracile al tenor
di vita che la santa Regola comanda; credere inutile per lui, anzi non
conveniente, vestir pur solamente l’abito monacale, perché per ogni
indizio si doveva prevedere che tra non molto l’avrebbe dovuto deporre;
essere volontà dichiarata del Signore che egli ritornasse alla casa
paterna»[76]. L’entrata e la subitanea uscita dalla
Certosa, con lo scontro stridente delle alte emozioni contrarie che
inevitabilmente sommersero l’animo del nostro giovane Lanteri, fanno
emergere un’altra delle sue virtù, colonna e fondamento del suo
impianto spirituale, la quale marcherà fortemente tutta la sua
spiritualità: l’abbandono nelle mani di Dio, il teresiano «nulla ti
turbi»[77]
che il Lanteri adulto saprà proporre con soavità e convinzione alle
anime da lui guidate per i sentieri della santità proprio perché egli
per primo l’aveva ben assimilato sin dalla giovinezza. Il giovane Lanteri non uscì frustrato da
questa esperienza, tutt’altro, essa lo segnò profondamente nell’animo
lasciandogli come eredità un grande affetto per la famiglia religiosa
dei certosini che lo avevano accolto con tanto amore, anche se lo
avevano accomiatato celermente, non certo per mancanza di amore nei
suoi confronti, ma solo per l’evidente sua incapacità di sopravvivere
alla dura vita penitenziale certosina. Il Signore non lo chiamava nella Certosa e
per lui aveva altri disegni, ma quell’affetto che Pio Bruno nutriva per
quel genere austero e aspro di vita e quei «santi solitari»[78] lo
accompagnò per tutta la sua esistenza e lo seppe anche trasmettere agli
Oblati di Maria Vergine, i quali, tra i motti propri della loro
tradizione, hanno appunto quello di «essere certosini in casa e
apostoli fuori»[79]:
«Brunone, fatto poi
fondatore della Congregazione degli Oblati di Maria Vergine, voleva ne’
primi suoi anni consecrarsi a Dio certosino, è forse quella per cui
tutto amore per parte dei Padri della Certosa, tutta riconoscenza per
parte degli Oblati, fa che queste due religioni, strette in particolare
comunione di opere sante, si amino a vicenda di una carità tenerissima»[80]. Tutto questo è un bel segno di come Pio
Bruno
abbia saputo dare una valenza positiva alla frustrazione psicologica di
essere stato rifiutato, scartato perché non idoneo. La sua stima
persistente ed il suo affetto per i certosini dimostrano proprio
l’integrazione positiva di questo duro episodio esistenziale,
nell’armonia di una personalità che sempre più va radicandosi in Dio.
3. La ripresa degli studi
Tornato a casa, il giovane Lanteri riprese
i
suoi studi con più lena e impegno di prima, al punto che suo padre già
sognava per lui una cattedra accademica, come ben evidenzia il
Gastaldi:
«Le
matematiche erano tuttavia la sua principale occupazione, di che il
padre ne godeva assai, non avendo ancora perduto affatto la speranza di
vedere il suo figlio dichiarato maestro in questa scienza così nobile e
austera»[81].
A causa
di
un’infiammazione oftalmica non gli fu più possibile studiare e dovette
necessariamente consacrare la maggior parte del suo tempo alla
riflessione e al silenzio, validi aiuti a percepire l’ispirazione
divina che lo chiamava allo stato ecclesiastico. Ne parlò al padre che
diede la sua autorizzazione, fece richiesta al Vescovo di Mondovì, da
cui dipendeva a quei tempi Cuneo e vestì l’abito ecclesiastico il 17
settembre 1777 a 18 anni compiuti.
Così
anche
questo scacco esistenziale, dovuto al suo fragile fisico, seppe essere
integrato positivamente dal giovane Lanteri, nella fede nella
Provvidenza Divina, alla cui luce gli apparve come segno chiaro che le
aspirazioni del padre terreno non erano quelle del Padre del Cielo: era
la grazia della certezza della vocazione allo stato ecclesiastico.
Questa
decisione così travagliata di abbracciare lo stato clericale fu accolta
senza obiezioni da papà Pietro, che invece si era opposto tenacemente a
quella certosina. Questo comportamento è facilmente comprensibile se si
tiene conto che Pietro Lanteri, esperto medico, conoscendo bene la
gracilità del figlioletto, non poteva vedere di buon occhio la sua
entrata in uno degli ordini religiosi più duri della Chiesa, mentre
l’ingresso nello stato ecclesiastico non comportava nessuna di quelle
austerità di cui sovrabbondava la Certosa. Papà Pietro di fronte alla
prospettiva della vita ecclesiastica nel secolo non aveva più motivo,
lui uomo di grande fede, di opporsi ai desideri dell’amatissimo
figliolo e così, con la vestizione dell’abito ecclesiastico avvenuta il
19 luglio 1777, si chiude il primo periodo della vita del nostro Pio
Bruno Lanteri. Durante questi anni della gioventù
trascorsa
a Cuneo vediamo come si è andata formando la personalità apostolica del
Lanteri adulto in quelle caratteristiche costanti che lo
contraddistingueranno sempre: «[…]
la calma interiore ed esteriore, la ponderatezza nell’agire, la
valutazione concreta delle proprie e delle altrui possibilità, la
scelta del tempo giusto per intervenire nell’azione, il senso
dell’ordine, della misura, delle proporzioni»[82].
A quest’elenco del Calliari,
aggiungiamo
quella che sarà una pecularietà del Lanteri adulto: il fare le cose con
metodo e la fedeltà stessa al metodo, le cui radici vanno ricercate
nell’educazione austera e disciplinata di questi anni.
Un altro aspetto personale
caratteristico del Lanteri adulto, che trova la sua radice nel periodo
della giovinezza, è lo spirito matematico. In tutti gli scritti del
Lanteri si intravederà questo suo atteggiamento matematico, ereditato
dall’influsso educativo paterno:
«La matematica era diventata per lui una seconda natura, uno stile
di
forma letteraria e uno stile di vita. In tutti i suoi scritti
teologici, che sono molti e svariati, egli manifesta sempre una
conoscenza profonda del tema trattato, sia dogmatico, o morale, o
giuridico, o storico, o apologetico, o polemico. La sua preparazione
scientifica è molto seria e gli permette di spaziare dentro un panorama
molto ampio per individuarne i rapporti di causa e di effetto tra i
diversi fatti ed episodi, le relazioni tra errori antichi ed eresie
moderne, logiche premesse storiche sfuggite ad osservatori anche
attenti e curati, ma non a lui. Ma tutto in uno stile che vorremmo
chiamare “matematico” uno stile sempre tormentato e insoddisfatto che
va continuamente in cerca dell’espressione più chiara, della parola più
propria, più adatta a tradurre il suo pensiero… Di qui le frequenti
cancellature, correzioni, pentimenti, aggiunte; di qui le enumerazioni,
le divisioni, le parentesi, le distinzioni, le graffe che raccolgono
intere righe o interi capitoli dando a molte sue pagine manoscritte la
forma schematica e caratteristica di una equazione algebrica»[83].
1759-1782 Dalla vestizione clericale al sacerdozio
17
settembre 1777 1779 16
luglio 1780 15
agosto 1781 22
settembre 1781 22
dicembre 1781 1781-1782 Febbraio
1782 Maggio
1782 25
maggio 1782 Veste l’abito
ecclesiastico e inizia a Torino gli studi universitari Incontro
Diessbach – Lanteri Voto del
Lanteri di dedicarsi alle attività dell’Amicizia Cristiana Scrittura
di schiavitudine alla Vergine Maria Riceve il
suddiaconato Riceve il
diaconato Scrive un Direttorio
per la propria vita spirituale Lanteri è a
Vienna con il Diessbach per preparare la visita di Pio VII Pio Bruno
ritorna a Torino per la preparazione al sacerdozio che farà con il
Virginio Riceve
l’ordinazione presbiterale a Torino nella Chiesa dell’Immacolata
Concezione da Mons. Costa di Arignano, Arcivescovo di Torino
1.
Lanteri studente di teologia
Vestito l’abito ecclesiastico il giovane
Lanteri partì per Torino per iscriversi alla locale Università (a quei
tempi infatti gli studi teologici avvenivano nelle regie università).
Sembra che suo padre propendesse dapprima per farlo andare
all’Università di Pavia a causa del clima più mite[84] e
anche perché egli stesso aveva studiato lì, oltreché amico intimo di
almeno uno dei docenti di quell’ateneo[85]. Il Gastaldi afferma che Pio Bruno
ritenne una grazia particolarissima della Madonna il fatto che
all’ultimo si scartò Pavia per Torino[86],
perché in quel periodo l’Università di Pavia era «covo del giansenismo[87]
più retrivo e più combattivo, fucina di dottrine antiromane e
antipapali che si diffondevano un po’ dappertutto in Alta Italia e in
Toscana»[88]. Il Lanteri giungerà a Torino in un giorno
dell’autunno del 1777: il Gastaldi lo descrive poeticamente nella sua
presa di contatto con quella città, assimilandolo ad uno stratega che
prende visione del campo di battaglia[89].
Tale fu infatti per Pio Bruno Torino per quasi cinquant’anni, ossia lo
scenario del suo indefesso apostolato per mezzo del quale si pose
«sulla bocca dell’inferno per impedirvi che alcuno più non vi entri»[90]. Pio Bruno non andò ad alloggiare nel
locale
seminario, ma in una casa privata, come era consentito dalle leggi
ecclesiastiche: «Nella
Torino del sec. XVIII era uso comune che i chierici studenti di
teologia potessero abitare sia in Seminario che in case private; però
coloro che conducevano una vita privata dovevano, a norma delle
direttive disciplinari di Benedetto XIV del 6-1-1742, presentare un
certificato di buona condotta da parte del parroco della chiesa a cui
il chierico era legato»[91]. I chierici che facevano parte del clero di
una chiesa «dovevano rendere conto ad un ecclesiastico della
parrocchia, sotto il cui controllo vivevano, esercitarsi nelle opere di
pietà e nel ministero e studiare le sacre cerimonie».[92]
E così fu pure per il nostro giovane universitario che dovette
quindi inserirsi nel clero di una chiesa. Sappiamo con certezza che dal
suo terzo anno di studi torinesi, 1780, si appoggiò alla chiesa di S.
Tommaso.[93] Per quanto riguarda la vita spirituale del
Lanteri come studente di Teologia, bisogna tenere presente che il
regolamento di condotta dell’universitario dell’epoca prevedeva molte
pratiche di pietà e impegni di vita: «Nell’Oratorio[94]
interno all’università ogni mattina si celebravano due Messe una prima
e una dopo le lezioni, a cui gli alunni avevano l’obbligo di assistere.
Tutte le feste c’era la così detta “Congregazione”, cioè
l’adunanza per la preghiera in comune con lodi dell’ufficio della Beata
Vergine, la spiegazione del Vangelo, la Santa Messa, l’inno finale.
Ogni studente doveva presentare la sua “scheda trimestrale”
comprovante la sua frequenza alle adunanze religiose e la Comunione
fatta: la mancanza di questa “scheda”, che equivaleva a quella
degli studi, importava l’esclusione dei gradi accademici e anche il
bando dall’Università. Anzi ogni studente era obbligato a collaborare
all’opera della Dottrina Cristiana nel pomeriggio dei giorni festivi
insegnando il catechismo ai fanciulli»[95]. Sappiamo
che
Pio Bruno si tuffò in questa nuova esperienza con serietà, impegno ed
entusiasmo, continuando e approfondendo quello stile di vita cui papà
Pietro lo aveva così fortemente iniziato e condotto, ma la sua debole
salute non gli permise facili studi: «La
sua applicazione era seria, ma avendo fiacchissimo il petto e la vista
logorata e debole, era poco quello che poteva scrivere dei trattati che
si dettavano e spesso niente; ed anche il leggere non gli era sempre
permesso, ma per tratti. E per conseguente egli doveva supplire con
attenzione maggiore alle spiegazioni, col pregare i condiscepoli che
volessero studiare, conferire o disputare con lui; il che facevagli poi
dire che aveva studiato la Teologia più con le orecchie che per gli
occhi»[96]. La necessità di qualcuno che gli ripetesse
o
leggesse le materie oggetto del suo studio sarà occasione perché un
ecclesiastico tentasse di attirarlo verso idee giansenistiche, mediate
da qualche libro infetto messogli in mano[97].
Infatti, l’ambiente universitario torinese, pur non essendo così
impregnato di giansenismo come quello di Pavia, ne era pure inquinato
per la presenza di diversi professori appartenenti a questa tendenza: «Per
quel che concerne direttamente l’insegnamento teologico e canonico
dell’Università, abbiamo prove evidenti dell’infiltrazione giansenista,
gallicana e regalista[98] in
forma abbastanza preoccupante, anche se a Torino non si sia mai
arrivati agli eccessi di Pavia»[99]. Nel 1779 Pio Bruno incontrerà il p. Joseph
Nikolaus von Diessbach, di cui parleremo nel prossimo paragrafo. Il
Lanteri stesso ci riporta l’anno in cui conobbe il p. Diessbach in una
nota schematica e riassuntiva dell’operato del suo maestro e padre
spirituale: «Diessbach conosciuto 779 - 798 morto»[100].
Per questo motivo su tale argomento si deve accogliere certamente
erronea la testimonianza del Craveri che pone l’incontro del
Lanteri con il p. Diessbach nei primi tempi del suo sacerdozio:
«[…] debbo notar
avermi detto il Signor Teologo riferito [P. Lanteri] che dopo aver
ottenuto la laurea all’università di Torino si esercitava con un tale
Cavaliere Pellegrino, che ai miei tempi fu professore di Logica
nell’Università medesima, e conforme avevano ambedue incappato nelle
massime […] tendenti a favorire i giansenistici principi. Avendo poi la
divina bontà disposto che il Teologo Lanteri venisse a conferire con il
P. Diessbach, col P. Bianchi e con altri dotti religiosi, che gli
fecero conoscere migliori libri, e sistemi, per forza di convincimento
abbandonò tosto il rigido sistema per appigliarsi alla dottrina
derivante dalle decisioni della S. Chiesa Cattolica, ed alle opinioni
più benigne, che dagli autori cattolici sono con vantaggio delle anime,
ed alla gloria di Dio sostenute»[101]. Il Craveri infatti scrisse frettolosamente
come osserva il p. Frutaz: «La
sua relazione [quella del Craveri] non è altro che una raccolta di
rapide note e memorie personali consegnate sulla carta «currenti
calamo», onde non fa meraviglia se sono incomplete e talvolta anche
poco esatte in alcuni particolari. Tali difetti sono d’altra parte
inevitabili quando si scrivono ricordi, facendo unicamente affidamento
sulla memoria, a distanza di molti anni dai fatti. Nel suo complesso la
testimonianza del Craveri è degna di fede e ha una grande importanza,
perché l’autore ha conosciuto e praticato il Lanteri per oltre un
trentennio, cioè dal 1795 circa in poi».[102] Se il Craveri si sbagliò sulla data, non
si
sbagliò di certo sul fatto che fu proprio il p. Diessbach a liberare
definitivamente il Lanteri dalla tentazione giansenistica. Di questo
fatto abbiamo anche una conferma dal Biancotti che afferma con certezza
che nel 1780 Pio Bruno era già intimo del p. Diessbach e quest’intimità
di amicizia presuppone necessariamente che il Lanteri avesse
completamente chiarito la sua teologia ed abbandonato definitivamente
ogni tentazione giansenistica: «Essendo
il P. Diessbach in Torino dopo la soppressione dei Gesuiti, non so per
quale occasione né in qual tempo preciso conobbe il Chierico Lanteri,
che era parimenti in Torino per cagioni di studio. Ciò fu certamente
ben per tempo imperciocché nel luglio 1780 il Lanteri non ancora
suddiacono era già molto intimo del P. Diessbach»[103]. Oltre al Craveri, anche il Ferrero è
alquanto
impreciso sulla data dell’incontro del Lanteri con il Diessbach: «Fatto
indi sacerdote [il Lanteri], ebbe offerte di canonicati e li rifiutò,
per essere tutto e sempre a quel che Dio volea da lui. Fu a quest’epoca
in circa ch’egli venne a conoscere il P. Diessbach»[104].
Tuttavia, dal momento che il Ferrero parla di un incontro avvenuto
cinquant’anni prima, tre anni di errore possono entrare in quel «circa»
apposto alla data presunta. Dunque è cosa certa che Pio Bruno, giovane
studente di teologia ed invaghito delle dottrine giansenistiche fosse
stato ben presto liberato da questo obnubilamento della mente
dall’incontro con il Diessbach che fornirà al suo nuovo discepolo le
ali necessarie per volare più in alto nella vita dello spirito. Il p.
Diessbach liberò il Lanteri dalla tentazione giansenistica nella quale
stava precipitando e da ogni altro tentennamento teologico fissandolo
con chiarezza di pensiero sul fondamento della più sana ed ortodossa
teologia cattolica e rendendolo altresì immune dalla possibilità
d’essere anche solo attratto da dottrine eretiche. Il buon p. Diessbach, infaticabile
apostolo
del giovane clero, introdusse il giovane chierico Lanteri nel circolo
di giovani studenti di teologia che egli coinvolgeva nelle attività di
alcune Associazioni spirituali e apostoliche di cui parleremo nei
prossimi paragrafi. P. Diessbach fu infatti il fondatore dell’Amitié
Chrêtienne e dell’Amicizia Sacerdotale e
promotore dell’Associazione Aa. Nel primo documento lanteriano
pervenutoci, datato 16 luglio 1780, leggiamo: «Io
B. [Bruno] fo voto a Dio d’impiegarmi a favore della Società detta
dell’Amitié Chrétienne per lo spazio di due anni da incominciarsi dal
giorno d’oggi, qualunque volta ciò sarà stimato dai miei compagni cosa
necessaria, e che non vi sarà nessuno dei miei doveri che vi si opponga»[105]. Si trattava di un voto personale non
richiesto dagli Statuti dell’Amitié Chrétienne, i cui
membri professavano il più grande attaccamento alla dottrina cattolica.
Questo voto denota anche la serietà e la profondità dell’impegno con
cui il Lanteri affrontava la sua vita spirituale. La sua adesione a
questa e ad altre Associazioni ci mostra anche come egli non fosse uno
studente «secchione» chiuso in se stesso e nei suoi studi, ma un
giovane impegnato e aperto alla condivisione e alla comunione fraterna. Amicizie, sì, ma «cristiane», come
ricordava
il nome dell’Associazione cui apparteneva. Il Calliari nella sua
biografia dedica tre delle sue pagine agli amici di Pio Bruno durante
questo periodo[106];
si tratta di una decina di giovani tutti dediti al Signore e aderenti
al circolo del p. Diessbach, tra cui capeggia l’amico già dei tempi di
Cuneo, Luigi Virginio, “anima gemella”[107]
di Pio Bruno. Il Gastaldi sintetizza tutto il periodo
del
Lanteri studente di teologia così: «Le
virtù che aveva costantemente praticato sotto gli occhi del padre,
continuava a praticarle ora che ne era lontano; e se da giovanetto
secolare già s’era fatto modello di pietà e di raccoglimento, adesso
che era chierico si sforzava sempre più di camminare per quella strada
così bene incominciata e piacere a Dio, a cui si era tutto consegnato.
Epperciò si accostava con grande divozione ai Sacramenti, da cui
riceveva sempre maggior forza e vigore; si era dato all’uso della
meditazione e della preghiera, maestra e ispiratrice della santità e
delle opere buone, e verso nostra Signora e Regina, Maria santissima,
era sempre quello che debb’essere un figlio, docile, obbediente e
fedele. Aveva pochi compagni, e questi per quanto li potesse conoscere
virtuosi e tali che non si annoiassero di parlare frequentemente o di
pietà e di scienza. Il tempo che gli rimaneva libero o dalle pratiche
di religione o dal servizio che con puntualità ed esattezza prestava
alla sua parrocchia, lo impegnava nello studio, nel riflettere e nel
meditare»[108]. Poiché la virtù non s’improvvisa, ma si
costruisce giorno per giorno, quanto il Lanteri ci rivelerà di sé
attraverso i suoi appunti spirituali giovanili pervenutici dovette
essere necessariamente costruito su questa serietà d’impegno e di
donazione.
La fisionomia spirituale che
Pio
Bruno andava assumendo in quegli anni di preparazione al sacerdozio è
un riflesso della spiritualità di quelle Associazioni del circolo del
p. Diessbach di cui egli ben presto divenne membro e colonna portante,
ma prima di cercare di tratteggiarla, sarà opportuno che parliamo del
p. Diessbach e delle sue Associazioni.
2.
Il p. Nikolaus Albert Joseph von Diessbach
Non è possibile dire alcunché sul p.
Lanteri
senza necessariamente prima parlare almeno succintamente del p.
Nikolaus Albert Joseph Von Diessbach, la cui figura è stata
riassunta in modo mirabile dal Calliari:
«Il padre Joseph
Nikolaus
von Diessbach è una figura chiave nella storia religiosa dell’Europa di
fine Settecento. Non esiste infatti nessun campo dell’attività
cattolica di quel tempo in cui egli direttamente o indirettamente non
vi abbia preso parte. Se si pensa al meraviglioso movimento di ripresa
cattolica che si avverrò in campi diversissimi durante la Restaurazione
e gradatamente durante tutto l’Ottocento, dopo un periodo di stasi
sconcertante durata quasi un secolo e che ebbe il suo culmine nella
seconda metà del Settecento e durante il duplice periodo rivoluzionario
e napoleonico, questa ripresa non trova altra spiegazione plausibile se
non si presuppone un lungo lavorio sotterraneo, nascosto, spesso
anonimo, ma profondo e capillare e efficacissimo, che si ebbe in
contemporaneità e che nel silenzio ha preparato i tempi nuovi. Come la
lotta contro la Chiesa e la stessa rivoluzione francese avevano avuto
il loro periodo di incubazione prima di esplodere e di manifestarsi in
pubblico, così anche la rinascita cattolica aveva avuto la sua
preparazione, le sue premesse, i suoi pionieri. Tra questi occupa uno
dei primi posti o senz’altro il primo posto padre von Diessbach»[109]. Come nel
mondo i figli sono la gloria dei loro padri nella carne, così i figli
spirituali del p. Diessbach ne rappresentano la gloria e bastano due di
loro per comprendere quanto grande essa sia. Il primo è il redentorista
san Clemente Maria Hofbauer (1751-1820), grande maestro di
spiritualità, apostolo di Vienna e rievangelizzatore dell’Austria e
dell’Europa del nord. Il secondo è il nostro Venerabile che operò in
Piemonte e in Italia tanto quanto Hofbauer operò in Austria. Entrambi
attinsero la loro spiritualità ed efficacia apostolica alla scuola del
p. Diessbach, loro maestro e padre nello spirito. Il p. Diessbach (1732-1798) nacque a Berna
da
famiglia calvinista: ecco come lo stesso Lanteri, in una sua nota
biografica, descrive la sua conversione e la sua consacrazione a Dio
nella Compagnia di Gesù: «Era
capitano nel reggimento di Berna di fanteria che apparteneva al suo zio
Diessbach. Aveva un fratello colonnello delle Guardie Svizzere al
servizio della Francia. Leggeva molto, e da calvinista divenne
incredulo. Detestava i preti ed i frati, e al solo vederli si
commuoveva internamente dicendo a se stesso: «Ecco quegli impostori
che ingannano tutto il popolo». Questo lo raccontò più volte egli
stesso; però non fu mai apostolo di empietà. L'origine della sua
conversione fu in Nizza ove era di guarnigione. La cagione ne fu la
lettura di un libro (si crede Les égarements de
la raison) trovato in casa del console di Spagna
Saint-Pierre che egli frequentava, ed ove era ben veduto per le sue
ottime qualità, ma compianto per essere eretico: libro postovi ad arte,
per aver rimarcata la sua avidità di conoscere e leggere libri. […]
Fatto cattolico… […] si maritò con la figlia del suddetto Saint-Pierre
console di Spagna, la quale morì essendo egli di guarnigione in
Alessandria. Visse quindi da fervente cattolico. Morta la moglie, si
consacrò a Dio nella Compagnia di Gesù»[110]. Il
Lanteri continua la sua nota biografica parlando del carattere mite e
buono del p. Diessbach e dei talenti naturali messi al servizio del
Regno di Dio: «Fatto
Gesuita, coltivando i suoi talenti, si rese caro a Dio ed agli uomini,
fece gran bene nelle Missioni in Piemonte, e gran bene in Svizzera;
convertì moltissima gente, anche tra i protestanti fece conversioni
segnalate. Predicava talvolta nello stesso giorno in diverse chiese in
italiano, in francese e in tedesco. Era eruditissimo e al corrente di
tutti gli avvenimenti, osservando subito il rapporto che avevano con la
gloria di Dio. Aveva il dono della parola, e il suo conversare era
dolce, manieroso, cordiale, riservato e prudente. Sapeva guadagnarsi i
cuori di tutti, onde tutti lo ricercavano e lo gradivano. [………]. Il
conoscere i libri buoni in ogni materia di religione, e adoperare tutti
i mezzi per promuoverne presso ogni classe di persone la lettura, era,
dirò così, la sua passione, massimamente memore del gran bene che ne
ricavò egli stesso. Vastissima era la sua erudizione in questo genere e
finissimo il suo criterio, con una grande memoria»[111]. Continua
poi il Lanteri raccontando qualcosa di concreto di quella persona che
egli aveva tanto ammirato e verso la quale si sentirà sempre in debito
per il gran bene ricevutone: «Ebbe per molti
anni
una gamba tutta piaghe, per cui non poteva reggersi in piedi e dire
messa, con tutto ciò non lasciava di accostarsi alla sacra mensa, e se
accorreva qualche ammalato che avesse bisogno di lui, in qualunque ora,
anche di mezzanotte, subito si alzava per andarlo ad assistere. Qualunque
occasione fosse occorsa di procurare la gloria di Dio, non tralasciava
alcun mezzo per profittarne. Intraprendeva viaggi lunghissimi anche in
cattivo stato di salute, o senza denaro, fidandosi totalmente alla
divina Provvidenza, dalla quale veniva mirabilmente assistito. Si trovò
un dì in un'osteria del Piemonte, ove ancora ufficiale protestante
aveva fatto cessare di cantare le litanie di Maria Vergine, solo perché
questo l'annoiava. Ivi fece richiamare i padroni dell'osteria che aveva
per ciò fortemente sgridati, chiese loro perdono dello scandalo, e si
diede una forte disciplina per ripararlo»[112]. Dal Lanteri stesso abbiamo anche notizia
circa il suo apostolato itinerante e universale che abbracciava sia i
più semplici tra il popolo che alti prelati e nobili di corte: «Andò
più volte a Parigi, ove era in relazione con le persone più colte e
zelanti. Il suo oggetto principale era la conversione del suo fratello,
colonnello nelle guardie Svizzere, e vi fece del bene, come ne
faceva dovunque andasse. Ebbe in cura di istruire nella fede cattolica
Elisabetta di Württemberg, prima moglie di Francesco arciduca
d’Austria, poscia Imperatore. Non solo il volgo, ma persone di alto
grado, prelati, cardinali, principi, ed anche sovrani si reggevano con
i suoi consigli. Andò più volte in Germania. La prima volta si portò a
Vienna passando per Württemberg, poiché era molto in conoscenza del
principe Luigi, fratello dell’allor Regnante [………] indi si restituì in
ritorno nel Piemonte nel 1788. Vi ritornò poi, richiesto per
l’arciduchessa Elisabetta, prima moglie di Francesco Imperatore, nel
1791, ma la trovò morta pochi giorni prima. Vi ritornò la terza volta
nel 1798, e vi morì ai 23 dicembre di quell'anno[113]
in concetto di santità e [vi] fu sepolto»[114].
L’attività
apostolica del p. Diessbach fu dunque ampia e molteplice. Fu un
apostolo della buona stampa, scrittore egli stesso di opere
apologetiche e catechistiche[115],
difensore del primato del Papa, direttore spirituale di una moltitudine
di persone che guidava nelle vie dello Spirito attraverso gli E.S.
di sant’Ignazio e gli scritti ascetici e teologici di sant’Alfonso
Maria de’ Liguori di cui fu un grande estimatore e diffusore delle sue
opere che gli servirono come mirabile arma contro il giansenismo[116]. Il Tannoia,
primo biografo del Liguori, parlando del rapporto di s. Alfonso con il
Diessbach, riporta il testo di una lettera del Virginio, cui egli aveva
chiesto notizie circa questa relazione: «Mons.
Liguori è stato conosciuto di qua dai monti, ed in vari luoghi di
questi regni specialmente per opera e zelo di G. A. Diessbach, celebre
ex-gesuita. Questi tenevalo pel più esimio tra i dottori, che Iddio in
questi ultimi tempi abbia dato alla Chiesa; dicendo che solo il Liguori
ebbe petto per opporsi ai correnti pregiudizi e per sostenere a fronte
di tanti sfacciati giansenisti la causa della morale evangelica. Molto
contribuì questo a far sì che la morale teologica del medesimo si
divulgasse specialmente nella Svizzera, nella Francia, nella Baviera e
in altri luoghi della Germania. In modo particolare poi apprezzava il
Diessbach tutte le di lui opere ascetiche, riguardandole come opere
piene di spirito di Dio. Le sparse per ogni dove, ne promosse le
traduzioni, e voleva si raccomandassero ai popoli, per fomentare in
essi la vera pietà cristiana. Vivendo monsignor Liguori, veneravalo
come un santo, e godeva in sentire qualche particolare della innocente
sua vita»[117].
Il
Tannoia, in seguito ad una lettera di s. Clemente Hofbauer che come
abbiamo accennato[118] era discepolo del
Diessbach a Vienna, avanza anche l’ipotesi che il Diessbach abbia
conosciuto il Santo vescovo di persona in uno dei suoi viaggi in cui
toccò Napoli[119], ecco il testo della
lettera: «P. Diessbach conosceva molto bene il nostro
Venerabile Padre [s. Alfonso] ed era un grande devoto veneratore di
lui. Non una volta sola affermò a me, sia da solo che in compagni di
altri, che con la soppressione della Compagnia di Gesù, Dio avesse
suscitato il solo Liguori che come un muro si opponesse con tutte le
forze contro i nemici della Chiesa per difendere la Santa Sede e la
purezza della dottrina»[120]. Nel suo primo testo “Le chrétiene
Catholique”[121]
il Diessbach delinea quello che sarà poi il vastissimo campo di
apostolato che attuerà nella sua vita, sempre proteso a combattere
l’«incredulità» nei vari volti che essa assumeva nella storia,
incarnata in molteplici tipi di persone, tutte ricapitolate da lui
sotto l’unica etichetta di «Empi»:
«Gli Empi non risparmiano né fondi né pene per propagare le loro
spaventose dottrine e il mezzo più funesto da essi usato è la
circolazione dei loro Libri dove vengono presentate, sotto tutte le
forme e imbellite dei colori più adatti ad allettare i sensi e a
sedurre i cuori, le loro idee»[122]. Nel “Le chrétiene Catholique” il
Diessbach espone la sua convinzione che sia in atto una cospirazione
mondiale contro l’altare e il trono. In risposta a questa offensiva
egli vuole lanciare la controffensiva cattolica attraverso la
diffusione di buoni libri. La soppressione della Compagnia di Gesù
avvenuta nel 1773 fu un colpo durissimo per il p. Diessbach che l’amava
teneramente:
«Io ho vissuto per 16 anni con i Gesuiti e ho visto delle grandi
virtù
e mai dei vizi. Questa purezza di costumi io l’ho ammirata mille e più
volte nei nostri Religiosi, quella pietà sincera, quell’applicazione
allo studio che è della vera Filosofia! Inviolabilmente attaccati al
Cattolicesimo e alla legge della coscienza, sostennero questo a prezzo
della loro tranquillità e della loro stessa vita. E tutta questa
serietà e fedeltà era vissuta con grande dolcezza, affabilità e
benevolenza verso tutti»[123]. Secondo il Calliari tutto l’apostolato che
il
Diessbach fece dopo la soppressione «appare come la brama di porre in
qualche modo rimedio al gran vuoto lasciato nel campo cattolico dalla
scomparsa della Compagnia di Gesù e dalla segreta speranza di vederla
presto ricostruita»[124]. Il programma astratto presentato nel
“Le chrétiene Catholique” quando era ancora gesuita troverà poi la
sua applicazione nel suo indefesso apostolato e una nuova esposizione
in un altro testo da lui pubblicato nel 1777: “Le solitaire
chrétiene”[125]. In questo testo, fondamentale per
comprendere
quegli ideali che il Diessbach trasmise al suo figlio spirituale,
l’autore afferma con forza che l’«empia incredulità»[126]
dei filosofi anticristiani che stava permeando la mentalità di troppi
ha la sua radice in Lutero e altri che ne seguirono le orme[127].
Questi “guerrieri dell’empia incredulità” sono impegnatissimi a
diffondere le loro perniciose idee attraverso la stampa e inquinano
così ogni ambiente[128].
L’errore viene diffuso ovunque attraverso la cattiva stampa e non è
affatto ristretto ad una letteratura polemica. Solo una persona accorta
e formata riesce a discernerlo[129],
mentre sono moltissimi coloro che ne sono rimasti e ne rimangono
irretiti:
«Or
ditemi, anime sedotte, se non furono i libri degli empj, che tutte, o
la maggior parte di voi trassero nell’apostasia, in cui vivete? Certo
che sì troppo ne lessero le infelici; ed o cercassero, già ree di altre
colpe, di opprimere con queste letture le temute interne voci della
loro irritata coscienza, ovvero le facessero come a caso, guidate da
un’intemperante curiosità, da una colpevole imprudenza; ad ogni modo la
lettura fu quella, che al cuore lor tramandò il fatale veleno, che
estinse la loro fede; ella fu, che la spinta lor diede, per cui
cadettero in quell’abisso, in cui sen giacciono di luttuosa cecità, e
di gravissimi peccati, sulla sponda senza riparo, dell’abisso infernale»[130]. Il Diessbach conclude queste sue
considerazioni invitando tutti i buoni e formati cristiani alle armi,
all’impegno fattivo per la giusta causa della verità, dell’onore di Dio
e della salvezza delle anime: «Ad
un’anima di fede debole, e tenera ben si conviene, l’essere protetta da
una virtù fuggiasca di rei, e guardinga, che abbia per oggetto primario
di rimuoverla da ogni pericolo, sollecita, e di conservarla illesa;
ogni ragion così vuole. Ma a chi a guerreggiare le guerre del Signore è
atto; cercare la pace soltanto, ed una tranquilla quiete in questo
tempo non lice. […] Ora in tempi tali noi siamo appunto, in cui ardendo
piucché mai spietata quella guerra perpetua, che alla Chiesa di Dio
muovono le invise porte d’inferno, all’armi conviene, che corra ogni
animoso amante, e difensore della verità, se può sperare di difenderla
con frutto. All’armi adunque o amici; e se la dottrina, e l’erudizione
v’assistono, colla penna, colla voce vendicate la causa di Dio
oltraggiato; convincete gli empj, o pure confondetegli; scoprite al
mondo tutta la reità delle loro massime, e ed i rei loro disegni,
confutate i loro errori, debole in sé egli è sempre l’errore, e forte
egli divien soltanto per l’altrui ignoranza»[131]. Il Diessbach espone la sua strategia di
lotta
all’empietà sotto tre ambiti. Il primo ambito è la chiamata
generale alle armi rivolta a tutti i cristiani che hanno un’autorità.
Costoro devono impegnarsi vigorosamente in questa lotta con la forza
dell’autorità che hanno: «Che
se non ad una vita letteraria, ma ad una vita attiva vi chiamano
l’indole, l’inclinazione, l’ingegno, la situazione in cui vi trovate,
non tralasciate perciò di combattere, ma sappiate prevalervi di quelle
armi migliori che vi somministra il vostro stato. Se il carattere
sacerdotale, vi adorna, ovvero la dignità di magistrato, o se padre voi
siete, o in qualunque rispettabile grado costituito, usate con vigore,
e forza della vostra autorità per muovere guerra a’ libri degli empj.
Estirpate dal vostro popolo, dalle vostre città, dalle vostre famiglie
quella peste micidiale, né si sgomenti, o si stanchi giammai nella
nobile impresa il santo vostro zelo. Non si tratta qui di meno, che di
un oggetto di sommo rilievo; se l’empietà prevale nel vostro popolo,
nella vostra patria; ogni bella virtù vi è spenta, e forse vi rimarrà
spenta per sempre»[132]. Il secondo ambito della strategia
diessbachiana è la cernita dei libri buoni, fondamento di una teologia
ortodossa: «Per
ottenere adunque il fine, che ci proponiamo, teniamo fisso qual primo
principio, che conviene che scegliamo per le nostre letture que’ libri,
che più atti sono a ispirarci lo spirito della nostra santa religione,
o ad avviarlo in noi; e quindi quei libri soltanto dovremo scegliere,
che lo spirito vero della nostra santa religione in se contengono;
affinché quello spirito, e non un altro comunicato da essi venga al
nostro spirito, ed al nostro cuore. La conseguenza è legittima e
chiara. Quindi per nuova conseguenza ulteriore, Ortodossi
dovranno essere quei libri tutti, che sceglieremo»[133]. Partendo dalla Sacra Scrittura, il
Diessbach
mostra al lettore il vasto panorama degli autori di libri ortodossi,
tra cui in prima linea i Padri della Chiesa e quindi i grandi teologi
del Medioevo: «[…]
il serafico
Anselmo, ed i due gran lumi della facoltà Teologica, l’Angelico
l’ammirabile Tommaso d’Aquino, e l’affettuoso e dotto Serafico
Bonaventura, e ben molti eccellenti, e santissimi Scrittori»[134]. Importante è pure la conoscenza della
Storia
della Chiesa[135]
e il Diessbach, poi, esalta l’importanza delle letture delle vite dei
Santi, anche se riconosce che diversi scritti che le trattano hanno
esagerato alcune cose, dando così modo ai nemici della Chiesa di aver
materiale d’accusa nei suoi confronti. Nondimeno rimangono sempre
numerosissime le storie vere ed edificanti di santi[136]
e i testi ricchi di ammaestramenti spirituali: «[…]
varj egregj autori hanno formato, dagli oracoli delle divine Scritture,
dagl’insegnamenti de’ Padri, dagli esempj, e dalle massime de’ Santi, e
da altre Teologiche dottrine, con saggio, e vago intreccio, un bel
tessuto, or di sacra eloquenza cristiana, ed or di ascetici
ammaestramenti»[137]. Di questa moltitudine di autori, il
Diessbach
si ferma ad indicarne solo due come utilissimi per
il suo tempo: s. Teresa d’Avila e s.
Francesco di Sales. Il nostro Autore si dilunga alquanto nel tessere le
lodi dell’una[138]
e dell’altro[139]: Il terzo ambito della strategia
diessbachiana è quello della diffusione capillare della buona stampa
sollecitando chi può a impegnarsi anche economicamente in questo[140]
e fornendo anche le indicazioni opportune per l’acquisto di buoni libri[141]. Tutto ciò non era per il p. Diessbach solo
un
pio e bel desiderio, ma era la programmazione di quanto attuava nel
concreto. E così, ad esempio, la sua citata “Adresse a Leopoldo II”
corrisponde alla sua azione nel primo campo. Tutta la sua opera
formativa rivolta al giovane clero e i suoi testi apologetici fanno
parte del secondo campo d’azione. La fondazione dell’Amitié Chrétienne,
Associazione dedita alla diffusione della buona stampa, fa parte del
terzo campo.
3.
L’«Aa»
Non si sa con certezza cosa voglia
dire
la sigla «Aa», è probabile che voglia indicare il termine «assemblée»[142].
«L’Aa fu fondata in Francia al collegio della Fèche,
nel 1630 o 1632, dal padre Bagot, famoso teologo, allora professore di
dogmatica a Parigi, poi superiore della casa professa di Parigi. Questi
raggruppò in una pia Associazione segreta l’élite degli membri della
congregazione mariana del collegio»[143].
Le Congregazioni Mariane
erano
Associazioni nate all’interno dei collegi dei Gesuiti che coinvolgevano
studenti scelti, in un fervoroso cammino spirituale mariano:
«Il giovane
gesuita belga, Jean Leunis, recentemente ordinato prete, prese, nel
corso dell’anno scolastico 1562-1563, l’iniziativa di formare con i
migliori allievi della sua classe del Collegio Romano, un piccolo
circolo per la pratica della devozione mariana e per l’esercizio di
qualche opera pia. Non si adula per nulla dicendo che creò una novità
senza precedenti. […]
In questo
circolo
la devozione alla Madonna era in grande onore; la recita del piccolo
ufficio della Vergine era un regola per un certo numero di membri […]
Questi tipi di congregazioni si moltiplicarono
rapidamente in diversi ambienti sociali».
[144]
Un’analisi superficiale delle Congregazioni
Mariane le mostrano semplicemente come una pia Associazione di
fedeli che s’impegna genericamente nella santità sotto la guida e la
protezione di Maria, ma non è così:
«A primo aspetto lo scopo delle Congregazioni Mariane sembra molto
vago: culto e servizio di Maria, santificazione personale, salvezza del
prossimo, difesa della Chiesa. In realtà però, il fine è unico: figlio
della Madre di Dio, il congregato, condotto da essa a Gesù, vive
mediante Maria della vita di Cristo con tale intensità che per
irresistibile spinta interiore, trabocca al di fuori in opere di zelo e
di carità»[145].
Da una lettera del 20 marzo 1784
dell’abbè La Salle, che «era il Directeur dell’Aa di Chambéry»[146] e
dagli Statuti dell’Aa di Torino[147]
sappiamo dell’opera importante svolta per la diffusione delle Aa
da Vincente De Meur[148]:
«Il
S. De Meur pensò che il mezzo più sicuro per togliere questa forte
difficoltà era di unire assieme alcuni degli studenti di Teologia che
per l'ordinario sono arruolati nel Chiericato, o si dispongono per
esserlo, giudicò che la dolcezza dell'unione, la più sincera e la più
intrinseca, sola poteva far loro rompere, ed interamente dimenticare le
alleanze alla salvezza loro perniciose; che in questa maniera,
lasciando loro mettere in pratica il bene con intera libertà, e giusta
il loro piacimento, la virtù di cui verrebbero adorni sarebbe tanto
meno sospetta quanto che gli umani motivi non vi avrebbero alcuna
parte. Ne radunò dunque alcuni, e ciò senza gran pena; la somiglianza
che d'ordinario vi è tra compagni di scuola tanto nell'età, quanto
nelle inclinazioni, gli rese agevole l'esecuzione del progetto, ed ne
ammirò egli stesso i sorprendenti frutti. La virtù travestita con le
dolcezze dell'amicizia parve loro così piacevole, che lo Spirito Santo
si insinuò nei loro cuori per mezzo di questo pio artificio, e
riempiendogli di zelo il più ardente, ne trasferì un grandissimo numero
sino al di là dei mari»[149].
La casa delle Missioni Estere di
Parigi
viene definita da La Salle «le berceau de l’Aa»[150].
Certamente questa sua attribuzione non è da prendere alla lettera, ma
ha un buon contenuto di verità in quanto moltissimi furono i missionari
che ebbero le loro radici spirituali nelle Aa e,
conseguentemente, le Aa ricevevano da questi ultimi una
fortissima carica apostolica missionaria[151]. I membri
dell’Aa
si chiamavano tra loro «confrères» (confratelli) termine che
usualmente veniva abbreviato nella corrispondenza con la sigla “cf”.
Il loro ideale di santità era altissimo e il loro cammino ascetico
molto sostenuto con alla base l’impegno di sottoporsi alla direzione
spirituale ed a metodici esercizi di pietà (orazione mentale, santo
rosario, lettura spirituale), alla devozione a Maria SS.ma e
all’esercizio pratico delle virtù, tra cui spiccava in modo particolare
l’amore fraterno inteso come una forma di amicizia profonda, lo zelo
apostolico e il riconoscimento incondizionato del ruolo magisteriale
del Romano Pontefice.
L’aspetto amicale, che è
riscontrabile
con evidenza nella corrispondenza dell’Aa torinese, fa
naturalmente pensare ad un influsso di s. Francesco di Sales che, se
non fu coinvolto nella fondazione, ne fu certamente membro a suo tempo[152],
essendo stato alunno di diversi collegi dei Gesuiti[153].
I membri delle Aa erano tutti
protesi verso un altissimo ideale di sacerdozio cattolico della cui
dignità avevano una grandissima stima. Per loro il sacerdote è
un altro Cristo e quindi come tale deve presentarsi al mondo, ripieno
di santità in antitesi con le massime e la mentalità del mondo, e
fondato su una pratica molto intensa di esercizi di pietà e delle virtù
proprie dell’animo del sacerdote, in particolare veniva enfatizzata la
carità vicendevole. All’interno delle Aa non esisteva
gerarchia, la presenza interna di qualche sacerdote era da ricondurre
solo alla funzione di assistente ecclesiastico, senza autorità
effettiva di direzione; l’unico vincolo che legava i loro membri era
l’amore fraterno espresso anche dal motto dell’Associazione, C.U.A.U.[154]
(cor unum et anima una) che rimandava all’esperienza agapica dei
primi cristiani (cf At 4,32). Così riporta il Direttorio dell’Aa
torinese:
«Finalmente vi si sforza [nella Aa] d’imprimere con
la
condotta semplice, affettuosa, aperta, sincera, il senso di codeste
parole che sono come la divisa dell’Aa : cor unum et anima una
[…].
Un cuor solo, dunque unità di affetti e di mire, di
risoluzioni e disegni per la gloria maggiore del nostro Re celeste. E
per avere questa unità, conviene unirsi intimamente con Dio, perché chi
non è unito e fedele a Lui come lo sarà con gli uomini suoi pari?
Unione dunque, unione con Dio»[155].
Ogni cosa in questa Associazione
veniva
discussa e messa ai voti, mentre per l’ingresso di nuovi adepti era
necessario il consenso unanime dei confrères che non superavano
mai i venti elementi; le cariche funzionali necessarie alla vita
dell’Associazione venivano assegnate con elezioni e il mandato era
trimestrale.
L’Aa dunque è «una
libera comunità spirituale senza altro fine che quello di una comune
aspirazione alla vita perfetta e a una forte amicizia»[156]. I membri delle Aa si
consideravano le colonne della fede in Francia, come appare dalla loro
corrispondenza: «I membri dell’Aa sono gli strumenti di
moltissime buone opere e le più forti colonne che hanno sostenuto e
sostengono la fede in Francia»[157].
Le Aa si diffusero
gradualmente
anche fuori dell’ambito dei collegi dei Gesuiti e della Compagnia di
Gesù, soprattutto dopo la sua soppressione, trovando un nuovo centro di
riferimento nella diocesi. Nascerà così il desiderio di una revisione
delle proprie regole, indirizzandole non più solo «per le Congregazioni
create presso i Gesuiti», che non esistevano più, ma in genere «a
formare gli studenti di teologia allo stato ecclesiastico»[158],
tuttavia fondamentalmente conserveranno sempre la spiritualità
ignaziana, cui si aggiunse in Francia l’influsso del cristocentrismo
della scuola berulliana[159] e
della devozione al Sacro Cuore, diffusasi particolarmente anche
attraverso l’apostolato della Compagnia di Gesù a partire dalla
promozione che ne fece il gesuita san Claudio de la Colombière[160].
Ci fu un tentativo di diffondere
delle Aa
per gli studenti di filosofia, ma questa nuova istituzione non trovò
pieno consenso nell’ambito delle Aa perché comprometteva la
libertà di accettazione dei membri alle Aa dei teologi una
volta finita la filosofia. In questo modo infatti le singole Aa
non erano più libere di accogliere o meno, ma erano costrette ad
accogliere i membri delle Aa degli studenti filosofi una volta
diventati teologi.
Appare nella storia anche un’Aa
laicale, l’Aa dei laici per non confonderla con l’altra chiamata
anche Aa del clero. Inoltre si è a conoscenza, dagli scritti del
p. Lanteri, che era suo desiderio costituire una Aa di Signore o di
Figlie[161].
Dalla corrispondenza dell’Aa
Torinese sappiamo che essa venne introdotta da un certo «Signor
Murgeray, chierico tonsurato»[162]
inviato a Torino dal sacerdote Daguerre[163]
del quale si sa che fondò l’Aa di Lione e promosse la
fondazione dell’Aa
di Annecy attraverso il sacerdote Thevenet[164].
Il Calliari, su solide basi, avanza l’ipotesi di un’intima amicizia tra
il Murgeray e il nostro Venerabile:
«Il Lanteri era compagno di università del Murgeray – furono
laureati
in teologia lo stesso giorno, 13 luglio 1782 (il Lanteri prima e il
Murgeray subito dopo) – molto legato a lui per affinità di ideali, ed è
facile pensare che una delle prime conquiste del Murgeray per la sua
nuova Associazione sia stato appunto il Lanteri, e con lui, gli
immediati suoi amici e collaboratori, tra cui Luigi Virginio»[165].
Il p. Diessbach pur non avendo avuto
ruolo formale nella fondazione torinese dell’Aa, ne fu un
infaticabile promotore e occupò un ruolo importantissimo all’interno di
questa. Egli infatti convogliava verso l’Aa quei giovani
chierici che riusciva ad avvicinare, per indirizzarli sui sentieri
della santità[166].
Si tenga presente che, praticamente,
molti membri chierici, se non tutti, dell’«Amicizia Cristiana»
da lui fondata poco tempo prima dell’introduzione dell’Aa in
Torino, divennero anche membri di questa Associazione, trascinati,
certamente, dall’esempio del p. Diessbach e dal suo invito. L’attività
dell’Aa torinese cessò in seguito all’occupazione napoleonica.
3.1
Devozioni e pratiche di pietà delle Aa
La devozione al Sacro Cuore di Gesù
insieme con l’affidamento filiale alla Vergine Santa facevano parte
dell’essenza della spiritualità di ogni buon “confrère”: «Dopo
il nome SS. di Gesù, quello di Maria è il più frequente sulle labbra»[167],
così riporta infatti il Direttorio dell’Aa di Torino apponendo
la seguente annotazione in riferimento alla parola “Gesù”:
«Non dimentichiamo il suo
Sacratissimo
Cuore. La sua devozione è graditissima al Cielo, propria dei nostri
tempi per muovere a pietà l’Eterno Padre adirato contro tanti eretici
nemici delle sue infinite misericordie, e per contraccambiare l’umanato
Signore di quell’affetto che ci porta e che trova tanti ingrati. O Cuor
di Gesù, fonte di ogni grazia, cuore liberalissimo, dolce rifugio dei
peccatori, quanti non vivono per te? Deh tu sia la nostra perpetua
abitazione che dentro te rinchiusi non saremo più sì freddi ma pieni di
santo ardore!»[168].
Dall’epistolario dell’Aa
torinese
abbiamo diverse testimonianze di questa devozione, il primo cenno ad
essa lo troviamo in una lettera delle’Abbé La Salle all’Aa di
Torino del 24 settembre 1782:
«P.S. […] ho dimenticato di
dirvi che secondo le nostre esposte risoluzioni, ormai tutti i membri
dell’Aa s’associeranno alla confraternita del Sacro Cuore di Gesù, come
hanno fatto quelli di Bordeaux. […] noi abbiamo preso la risoluzione di
recitare l’Ave Cuore Santissimo[169] alle ore nove del mattino e alle
quattro del pomeriggio, e il Miserere alle sette della sera. Chi vuole
li reciti con le braccia aperte in croce, come fanno quelli di Bordeaux
oppure ad un altro orario se non si può a quello stabilito, in questa
come nelle altre pratiche di pietà nessuno si senta costretto»[170]. Riportiamo
ancora un’altra testimonianza dell’Abbé La Salle:
«[…] la devozione al
Sacro Cuore di Gesù precederà e favorirà i vostri progressi. Il Cuore
di Gesù distruggerà tutte le minacce che l’eresia e lo spirito novatore
e accanito contro Roma fanno nascere contro questo centro di unità e la
Religione cattolica. Senza questo Divin Cuore saremmo perduti: lui solo
ha attuato l’opera della nostra redenzione: lui solo ne ha conservato i
frutti e lui solo deve perpetuarli fino alla consumazione dei secoli.
Da parte mia, io non voglio vivere che per lui, in lui e con lui; e
preferirei per me cento milioni di volte cessare di vivere che cessare
di amare […]. Voi non avete altro di meglio da fare che mettere la
vostra confidenza nel Sacro Cuore di Gesù e sperare che egli vi renda
un degno strumento per sostenere, con tanti altri, la Sede Apostolica e
la Chiesa, compiacendosi così del vostro nulla»[171].
E, in contrapposizione netta al giansenismo, così
scrive l’Abbé Guillet[172]: «Vi abbraccio molto cordialmente nel Sacro Cuore di
Gesù a cui va per sempre la gloria, l’onore e la gratitudine checché ne
dica il Sinodo di Pistoia
[…]»[173]. La
devozione
al Sacro Cuore di Gesù, come accennato, veniva dai membri delle Aa
vissuta strettamente unita a quella del Sacro Cuore di Maria[174]
come risulta, più che dai documenti istituzionali dell’Aa – dove
non si parla tanto del Sacro Cuore di Maria quanto della devozione
mariana in genere –, dal suo Carteggio in cui il Cuore di Gesù
viene menzionato unitamente al Cuore di Maria e anche a quello di
Giuseppe:
«[…] vi abbraccio tutti in
unione ai Sacri Cuori di Gesù, Maria e Giuseppe»[175].
«[…] vi abbracciamo sempre
nel
Sacro Cuore di Gesù in unione al Cuore di Maria»[176].
«[…] in unione ai Sacri
Cuori
di Gesù, Maria e Giuseppe»[177].
«[…] Vi abbraccio nei Sacri
Cuori di Gesù e di Maria»[178]. Per le pratiche di pietà i confrères
avevano in uso un Direttorio al cui interno erano tre le
pratiche principali:
1
L’orazione mentale come strumento eccelso e primario di
santificazione. L’orazione era personale e non comunitaria, ma negli
incontri comunitari i
confrères amavano «comunicarsi con semplicità le pene e le
difficoltà stesse, le dolcezze e le utilità che si ricavano»[179].
2
La lettura spirituale come pascolo dell’anima e strumento per
«conoscere Dio e inoltrarsi nel suo amore»[180].
I confrères usavano prestarsi i testi reciprocamente e i più
comuni da usarsi erano «la Sacra Bibbia, l’Imitazione di G. C.,
le opere di s. Francesco di Sales, di s. Teresa, del Granada[181],
del Rodriguez[182],
la Scala del Paradiso di s. Giovanni Climaco[183]
ed altri simili che ognuno si fa piacere di mutualmente imprestarsi»[184],
tra questi vi erano presenti senz’altro gli scritti di s. Gertrude di
Hefta[185]
che fu tra le iniziatrici della devozione al Sacro Cuore, la prima a
tracciarne una teologia, senza però trattare la tematica della
riparazione che sarà predominante in seguito. Gli scritti di s.
Gertrude influirono profondamente nella spiritualità del Lanteri, che
li apprezzò molto per tutta la sua vita, dai tempi degli studi
teologici fino all’anzianità. L’influsso di questa Santa sul Lanteri si
può facilmente notare nella devozione al Sacro Cuore, nella sua
squisita e infinita confidenza e fiducia nel Signore, nella sua
devozione mariana e spiritualità liturgica come vedremo più avanti[186].
3
Lo studio. I confrères consideravano lo studio come un
esercizio di pietà, anzi «il punto principale della loro pietà»[187],
il tempo di dedicarsi al quale veniva stabilito «secondo l’avviso del
loro Direttore»[188].
Per questo essi si sforzavano di «rendere pio il loro studio
premettendovi il
Veni Sante o l’Ave Maria, o l’Angele Dei e
frammischiandovi sante affezioni»[189]. Interessante è quanto si legge nel
Direttorio dell’Aa torinese riguardo alle altre pratiche di
pietà personali dei confrères:
«Impossibile cosa sarebbe ora descrivere al minuto le altre pratiche
di
pietà che i soggetti dell’«Aa» praticano in particolare. Si possono
scorgere più in lungo nelle lettere. Quelle che furono più comuni sono:
il recitare la Corona almeno una volta alla settimana, e le orazioni
che sono poste in fine del Direttorio[190],
ogni giorno; l’astenersi dalla quarta parte della cena i venerdì,
eccetto i venerdì dopo Pasqua sino alla Pentecoste; le vigilie della
Beata Vergine e degli altri Santi Protettori, e quello delle Comunioni[191],
e delle Rinnovazioni»[192]. Oltre questi esercizi personali,
vi
erano quelli comuni, settimanali, mensili e annuali. Tra quelli
settimanali vi erano la riunione comune e le visite degli ospedali e
delle carceri. Nelle riunioni veniva fatta una lettura spirituale con
la comunicazione delle risonanze e delle esperienze personali dei confrères.
Anche dell’Eucaristia si parla tra gli atti settimanali, ma si
lascia la fissazione della frequenza alla Comunione al direttore
spirituale personale secondo l’uso del tempo[193] (ricordiamo che la Comunione quotidiana
divenne una pratica comune tra i fedeli solo nel ventesimo secolo dopo
Pio X) e di essa se ne ha una stima altissima: «L’Eucarestia è la sorgente di tutte le grazie. I
confratelli dell’Aa fanno professione di approssimarsene il più sovente
che è loro possibile e permesso dal saggio Direttore, come al mezzo più
sicuro e più forte per portarli alla bramata perfezione, è come
all’occasione più grata di trattare i propri affari famigliarmente con
Dio. Una seria, fervorosa preparazione suole sempre precederla. E se si
può, vicendevoli visite alla vigilia per animarsi, infervorarsi,
felicitarsi e comunicarsi i mezzi, le industrie, le preghiere per
riceverLo più degnamente, e ricavarne frutti maggiori. Potendo si
comunicano insieme tanto alla chiesa o parrocchiale o del clero, quanto
ad altra dove non si teme per il segreto ad occasione di comunioni
particolari»
[194]. Mensilmente vi era una particolare
riunione
di verifica nella quale si procedeva anche all’accettazione di nuovi
membri, nel caso vi fossero delle proposte di accogliere qualcuno nell’Aa.
Una o due volte ogni anno poi si rinnovavano comunitariamente gli
impegni presi nell’Aa. Inoltre i confrères, oltre a
questi
impegni fissi, amavano scambiarsi visite e fare insieme passeggiate: «Non
si conoscono fra di essi le visite di convenienza e di cerimonia, non
si ascolta che il desiderio di essere coi suoi confratelli, e purché a
questo si soddisfaccia, si trova contento, sia che riceva visite, sia
che ne faccia. Quivi si conversa apertamente con quell’amabile
semplicità di cui abbiamo fatta menzione. Quivi si gusta con ogni
libertà il piacere di essere con un amico sincero e intrinseco. Quali
forze non hanno dunque queste comunicazioni per accrescere l’amicizia,
e quale consolazione per i soggetti dell’Aa, di poter riempire così
virtuosamente gli intervalli che gli rimangono dopo lo studio? Il
piacere che si ha di ritrovarsi assieme, fa ancora che vi si rende
quasi senza essere prima stato d’accordo, nei luoghi ove prendersi
qualche respiro, e soprattutto nelle passeggiate dopo cena nel tempo
d’estate… La santa allegria che regna nelle passeggiate, le rende così
piacevoli che ordinariamente non è d’uopo di esortare i confratelli a
rendervisi»[195].
4.
L’«Amitié Chrêtienne» e l’«Amicizia Cattolica»
L’Amitié Chrêtienne fu fondata
dal p. Diessbach presumibilmente tra il 1779 e il 1780[196] e
aveva come scopo primario la gloria di Dio e la diffusione del suo
regno nei cuori[197]
attraverso la diffusione della buona stampa[198]:
«P. Nikolaus, dieci anni prima della Rivoluzione Francese, fondò a
Torino l’Amicizia Cristiana, un gruppo di ecclesiastici stimati e di
laici autorevoli che, dalle rive del Po, si diffuse in tutta Europa,
sino a Varsavia. Scopo della società era contrastare sul piano
intellettuale le teorie dei philosophes, le ideologie dei
discepoli di Voltaire, di Rousseau, dell’Encyclopédie, che
preparavano l’esplosione rivoluzionaria. Ma gli «Amici» lottavano, con
le armi della parola scritta e parlata (dunque, libri, giornali,
conferenze, corsi di esercizi spirituali), pure contro le deviazioni
cattoliche, come giansenismo – guarda un po’ – e gallicanesimo, che è
la tentazione, soprattutto francese, di avere una Chiesa nazionale, il
più possibile svincolata da Roma, almeno a livello disciplinare,
liturgico, organizzativo»[199].
L’Associazione quindi procurava di
istituire una biblioteca con libri scelti da distribuire con accortezza
a seconda delle necessità spirituali del ricevente, per cui i libri
venivano catalogati in sette categorie che si riferivano a loro volta
ad altrettante tipologie di persone[200],
senza però voler essere in questo fiscali:
«L’arte di saper
far
circolare opportunatamente i buoni libri dipende principal-mente dal
saper conoscere i libri, gli uomini e le situazioni in cui si trovano.
È dunque difficoltoso dare delle regole esatte per fare bene tutto
questo».[201]
Nel gruppo degli amici erano
ammesse anche le donne:
«§ 7. […] non
solo le donne non sono affatto escluse dall’Amicizia Cristiana, ma è
molto opportuno, a più titoli che ne facciano parte […].
§ 9. Il numero
delle Amiche Cristiane sarà di sei come quello degli Amici.
§ 10. Esse non avranno altro impiego che quello di
Istruttrice delle Aspiranti e avranno tutti voce in Assemblea, come gli
uomini …»[202]. In seguito si formarono dei circoli
riservati
alla partecipazione femminile, Amicizia Cristiana Femminile.
Forse questo avvenne quando la parte maschile degli amici
divenne prevalentemente clericale rendendo così sconveniente la
promiscuità[203]. Per essere ammesso come membro
dell’Amicizia
Cristiana si richiedeva che si avesse “uno spirito coltivato”[204], “molta dolcezza e prudenza”[205], che non si fosse neofiti, ma “che
si frequentassero già da qualche tempo con assiduità i Santi Sacramenti”[206]
e si potevano
proporre come membri solo
«[…] coloro che abbiano dello zelo per la gloria di Dio, uno zelo
forte, che costituisce la loro passione dominante in modo che possano
dire con il vero Zelante delle anime: Un fuoco sono venuto a portare
sulla terra, e come vorrei che si accenda! (Lc 12,49)»[207]. Prima di diventare membro effettivo dell’Amicizia
il candidato o la candidata doveva effettuare un anno di prova durante
il quale non si era ammessi all’Assemblee degli Amici. L’Aspirante
doveva fare una confessione generale, confessarsi e comunicarsi almeno
quindicinalmente, doveva poi quotidianamente consacrare un’ora di tempo
alla lettura spirituale di libri appositamente indicati dagli Amici
e ancora un’ora intera alla meditazione, doveva poi collaborare
all’opera della diffusione della buona stampa. Ogni Aspirante
veniva affiancato e accompagnato nel cammino di prova da un
Istruttore o da una
Istruttrice. All’interno dell’Amicizia erano poi
distribuiti diversi incarichi dei quali, come sopra riportato, le donne
potevano ricoprire solo quello di Istruttrice delle Aspiranti.
La carica maggiore era quella di Primo Bibliotecario e non
decadeva, era un incarico stabile per via dell’esperienza e della
delicatezza del compito.
Poi c’era il Secondo Bibliotecario,
che aveva compiti pratici di inventariare i beni materiali e di
acquistare quanto servisse per la vita dell’Associazione. La terza carica era quella di
Promotore dell’Amicizia Cristiana che aveva tre campi di
competenza: doveva vigilare su eventuali abusi degli Associati; curare
la realizzazione, la conservazione e il progresso di nuove fondazioni
di Amitié che venivano chiamate “Colonie” e curare la
distribuzione generale dei libri, provvedendo a redigere vari cataloghi
di curati o confessori zelanti che s’impegnavano attivamente a
collaborare all’opera del buon libro nei luoghi del loro apostolato. La quarta carica era quella del
Segretario cui era delegata la redazione dei verbali, la
corrispondenza e la raccolta di tutto quanto potesse essere utile in
fatto di libri per relazionarne in Assemblea. La quinta era quella di
Istruttore o di Istruttrice di cui abbiamo già detto
qualcosa. La sesta era quella del
Missionario. Costui aveva il compito di realizzare quanto veniva
deciso in Assemblea, doveva quindi essere persona capace e con molto
tempo a disposizione perché le attività dell’Amicizia erano
molteplici: «… quali sono le fondazioni delle Colonie, i viaggi
d’osservazione e altre cose simili…»[208]. Le Assemblee degli Amis si
svolgevano
per otto mesi all’anno, dalla festa di Ognissanti a fine giugno;
inizialmente furono bisettimanali[209],
in seguito bimensili[210]
e non dovevano durare più di due ore. Dopo la recita di alcune
preghiere prescritte, il Primo Bibliotecario presentava una sua
memoria da discutere ed eventualmente si procedeva alle votazioni per
le decisioni operative, quindi si discuteva su qualche aspetto
particolare dell’Associazione, e poi si passava ad una amicale e libera
conversazione su argomenti degli statuti e regolamenti vari dell’Amicizia[211].
Inoltre una o più volte l’anno, laddove possibile, gli Amis
si riunivano in luoghi solitari per uno o più giorni per infiammarsi
più vivamente gli uni gli altri «di quel generoso e ordinato zelo che
doveva formare il loro carattere»[212].
È importante, per comprendere il
cammino
spirituale del Lanteri, conoscere le regole di vita degli Amici
Cristiani, regole che furono abbracciate dal Lanteri - come abbiamo
visto – anche con un ulteriore vincolo personale di uno specifico voto
di fedeltà.
Gli impegni dell’Amico Cristiano
comprendevano: confessione e comunione almeno quindicinale; mezz’ora
quotidiana di lettura spirituale e di meditazione; solerte apostolato
del libro tendente a fornire del libro giusto la persona la
quale, conosciuto il contenuto, manifestasse desiderio di conversione o
di avanzamento nella vita spirituale; partecipazione alle assemblee
degli Amici Cristiani, E.S. annuali di otto giorni o
almeno di tre. Gli Amici digiunavano poi durante le vigilie
delle feste mariane e dei santi protettori, s. Giuseppe e s. Teresa.
Ogni giorno, nella partecipazione
alla
S. Messa, ciascun Amico doveva, subito dopo la comunione del
celebrante, recitare una lunga preghiera molto significativa dello
spirito dell’Amicizia Cristiana, in particolare della devozione
al Sacro Cuore di Gesù:
«Verbo Eterno, io Ti adoro; io Ti adoro, o Figlio di
Dio; Tu che per l’effetto della tua immensa carità non ti sei
disdegnato di spogliarti della gloria immortale che ti avvolge nel
Cielo, per rivestirti nella nostra fragile umanità al fine di riparare
l’offesa fatta al Tuo Padre Celeste, e così salvare gli uomini; Tu che,
dopo esserti immolato per noi in mezzo agli obbrobri e ai tormenti del
Calvario, ancora vieni a rinnovare questo grande Sacrificio sopra
questo santo Altare, io Ti adoro profondamente e prostro davanti a Te
tutte le facoltà del mio essere; riconosco, o mio divino Salvatore, la
gravità dei miei peccati che necessitano di un simile rimedio; mi pento
amaramente di averli commessi; riconosco la bontà ineffabile del Tuo
Sacro Cuore che merita un amore infinito e a Te consacro interamente il
mio. Riconosco che la più grande felicità che io possa avere è quella
di piacere a Te e così spero sinceramente e ardentemente. Che io possa,
o mio Dio, penetrare di questi sentimenti i cuori di tutti gli uomini
di cui un così grande numero non Ti conosce o Ti oltraggia o Ti
dimentica! Che io possa guadagnarti degli adoratori in spirito e verità
al prezzo del mio sangue, perché il Tuo più grande desiderio è quello
di essere conosciuto e amato da tutte le Tue creature e di salvarle
dalla morte eterna! Dammi i mezzi, o mio Dio, e io mi propongo
fermamente di cooperare con Te. Ma fortificami con la Tua santa grazia;
senza di essa non potrei altro che mancare alla parola, diventarti
infedele, scandalizzare i miei fratelli e perdere me stesso; ma con
essa io posso tutto. E questo che io spero. O Sacro Cuore di Gesù, non
permettere che io venga deluso nella mia speranza.
Il Valentini[214]
così commenta questa intensa orazione:
«[…] in essa è evidente la confidente tenerezza al Verbo Incarnato,
attinta da S. Francesco di Sales, dal Bérulle, da S. Alfonso de’
Liguri, e l’assillo di portare gli stessi sentimenti che animano il suo
cuore a tutti gli uomini, anche a “prezzo del proprio sangue”»[215]. Ecco un passo chiave dei documenti
statutari
dell’Amicizia Cristiana che in poche parole delinea in modo
eccellente lo spirito che deve animare l’Amico Cristiano:
«Ci sono diverse scuole filosofiche che, oltre alla dottrna
esteriore
che esse insegnano pubblicamente, ne hanno una interna che non si
confida che a un piccolo numero di iniziati sotto il sigillo del
segreto. La nostra Associazione ha anch’essa una dottrina interna che
consiste nell’orientare tutti i nostri pensieri, le nostre parole, le
nostre azioni e i nostri affetti a un solo scopo che è quello di
rendere amore per amore al Sacro Cuore di Gesù Cristo, considerato come
il simbolo e il pegno della Carità immensa di questo Uomo-Dio verso gli
uomini. Per ricordarci spesso questo impegno che noi abbiamo contratto
entrando nell’Associazione, ciascuno di noi porterà un’immagine di
questo Cuore adorabile sul suo petto, o la terrà nel suo Oratorio[216],
e la bacerà tre volte al giorno con profondo rispetto»[217]. L’Amicizia fu una esperienza viva
nella realtà sociale ed ecclesiale di Torino fino all’occupazione
napoleonica, quando le riunioni furono necessariamente sospese nel
febbraio del 1801 per poi riprendere tre anni dopo la Restaurazione, il
3 marzo 1817 trasformandosi dapprima nella nuova Associazione della Società
Biblica[218]
che divenne ben presto denominata Amicizia Cattolica[219].
Torneremo a parlare di queste Associazioni quando prenderemo come
oggetto di questo studio del cammino spirituale del Lanteri, il periodo
della Restaurazione[220].
5.
L’Amicizia Sacerdotale
In una memoria del 1803, il p. Lanteri
così
definisce l’Amicizia Sacerdotale: «L’Amicizia
Sacerdotale è una pia unione di giovani sacerdoti, o anche chierici
ferventi, ai quali sommamente sta a cuore il secondare efficacemente
gli altissimi disegni di Dio secondo lo spirito della loro vocazione.
Per questo fine uniti, tentano di rendersi il più che possono strumenti
atti a promuovere nel miglior modo possibile la gloria di Dio, che è la
salute delle anime e il fine della loro vocazione allo stato
ecclesiastico»[221]. L’Amicizia Sacerdotale (AS)
fu
fondata da p. Diessbach intorno al 1781-1782 e fu una trasposizione
clericale dell’Amicizia Cristiana. Da una memoria del p.
Diessbach risulta con assoluta chiarezza che l’idea dell’Amicizia
Sacerdotale, la spinta per la sua nascita e lo stesso sostegno
economico partì dall’Amicizia Cristiana Femminile: «Ciò
che ha dato occasione al pensiero della Sacerdotale e ciò che ha
somministrato i mezzi onde eseguirlo si è la esistenza della AFC [Amicizia
Cristiana Femminile]. Questa per una lunga serie di combinazioni di
ragionamenti, di conseguenze ecc. ha fatto nascere l’idea della
Sacerdotale. Questa ha provveduto il luogo ove radunarsi, i libri che
erano necessari»[222]. Quale sia questa “lunga serie di
combinazioni di ragionamenti, di conseguenze ecc.” non ci è dato
conoscere se non per illazioni, seppur solide come quella che prospetta
il Bona secondo il quale la necessità per le AFC di una Amicizia
Cristiana Sacerdotale forse nasceva dalla grave difficoltà di
procurarsi assistenti ecclesiastici rispondenti alle loro esigenze:
probabilmente da qui nacque in qualche amica l’idea di creare
un’apposita Associazione che «fosse vivaio e scuola di addestramento
per il giovane clero»[223]. Gli associati erano tenuti ad un tenore
molto
alto di vita spirituale e apostolica seguendo le indicazioni degli
Statuti[224]
o Norme, redatte la prima volta dal p. Diessbach e
successivamente riviste da altri per alcuni particolari riguardanti la
segretezza del catalogo dei libri[225]. Il Lanteri, nella memoria prima citata,
parla
dei mezzi particolari di questa Associazione, oltre quelli generali che
ogni buon prete deve attuare per la propria ed altrui santificazione,
che sono due: «1. Unitamente attendere a
formarsi un corso di ottime meditazioni, secondo il metodo proposto da
S. Ignazio nel suo libro degli Esercizi Spirituali. 2.
Attendere a conoscere bene i libri buoni, per togliere di mano dei
fedeli i libri cattivi, e promuovere quelli, comunicandosi così
scambievolmente i lumi e le cognizioni, per potere in questo modo
spargere con la maggior efficacia la parola di Dio a voce ed in scritto»[226]. L’Aa di Torino fu il vivaio
naturale
dell’AS e, anche se non c’erano legami strutturali tra le due
Associazioni, i membri più influenti dell’AS facevano parte di
entrambe. L’Aa si distingueva dall’AS in quanto i suoi
membri erano studenti di teologia che non avevano ancora ricevuto gli Ordini
Maggiori[227],
mentre quelli dell’AS erano sacerdoti e diaconi. Inoltre in
quest’ultima, tutto era orientato verso l’apostolato diretto e in modo
particolare verso la direzione degli E.S. ignaziani nella forma
popolare delle missioni e del ritiro chiuso.
Ogni membro dell’AS doveva impegnarsi nella stesura di una muta
per entrambe, o almeno di una delle due forme di
E.S.; inoltre si dava molta importanza allo studio della dogmatica
e della morale. Gli Amici Sacerdoti dovevano formarsi bene per
imparare ad essere dei “gustatori di anime”[228]. Gli associati non potevano chiedere
compensi
per il loro ministero; da questa esigenza conseguì che, per far parte
dell’Associazione, il nuovo membro doveva avere a sua disposizione una
rendita sufficiente oltreché espressamente vietato aspirare a nuove
prebende o ad altre e superiori dignità ecclesiastiche. Ogni associato doveva fornirsi di una
biblioteca di libri scelti e chiaramente ortodossi che esprimessero «lo
spirito il più puro del cattolicismo e della vita spirituale»[229],
ed impegnarsi fattivamente nell’apostolato della buona stampa. Altro punto importante in comune degli
Associati era il seguire, nell’amministrazione del Sacramento della
penitenza, la morale antirigorista alfonsiana. Forte era anche l’impegno apostolico verso
gli altri membri del clero che si cercava di infervorare e di
coinvolgere nell’Associazione. Pertanto gli associati organizzavano ad
hoc visite nelle carceri e negli ospedali, per permettere ai nuovi
sacerdoti con i quali venivano in contatto di fare queste esperienze di
apostolato. Al di là dell’input dato dai membri
femminili dell’Amicizia Cristiana per l’istituzione dell’AS,
questa nel pensiero del Diessbach rappresentava la realizzazione di un
grande sogno che aveva sin da quando la Compagnia di Gesù era
stata soppressa: «Ricostruire con altro nome e su altre basi,
conservandone in pieno lo spirito, la Compagnia di Gesù»[230].
Su questa linea si esprime anche il Bona che polemizza con il Frutaz il
quale individua e limita le finalità dell’opera apostolica degli «Amici
Cristiani di Torino con a capo il Diessbach […] [nel] portare un
contributo originale e fattivo [alle] iniziative in favore della
formazione spirituale e culturale del clero»[231].
Certamente l’AS contribuì all’opera della formazione dei
chierici non ospitati in seminario, ma la sua origine va ricercata in
una idea apostolica ben più ampia: «La
sua origine
[dell’AS] va piuttosto ricercata nel quadro dei motivi
psicologici che già avevano dato vita alla A. C. [Amicizia
Cristiana], nell’intenzione cioè di costituire un rimedio efficace
ai mali del secolo. […] Dunque quale miglior mezzo di una società che,
opportunatamente diffusa, riprendesse parzialmente quei ministeri
esercitati con tanto frutto dalla soppressa Compagnia di Gesù?»[232]. Questa ipotesi è suffragata da
quanto contenuto in una lettera esortativa del Diessbach all’Amitié
Chrêtienne cronologicamente anteriore alla costituzione dell’AS:
«Potrà mai il Signore essere toccato dalle nostre lacrime
per far dirompere in modo singolare tutta la sua potenza, vorrà Lui
servirsi di noi per formare un nuovo Istituto che consoli la Chiesa e
che porti qualche soccorso in queste calamità…?»[233]. Anche gli Statuti dell’AS
riportano la stessa convinzione: «I
mali morali del mondo sono gravissimi. Non si vogliono ammettere quei
rimedi che consisterebbero in nuove fondazioni religiose di qualunque
genere, mentre si fa guerra alle antiche. Conviene adunque cercar il
rimedio con prevalersi de’ mezzi già sussitenti ed indelebili, perché
intrinseci alla costituzione della Chiesa. Fra questi uno de’ più puri
ed efficaci sarebbe una società di S. A.
[Sacerdoti Amici]… [1. …]. […] 2. Lo scopo
dei
S. A. sarà di sottomettere tutta la terra a G. C. 3.
E per ciò essi cercheranno di far regnare in tutti i cuori la Fede
Cattolica, la Speranza e la Carità».[234] Chiamati a combattere i mali
contemporanei, i
Sacerdoti Amici dovevano per questo anche essere uomini informati
di quanto avveniva nel mondo; a tale scopo era comune nelle loro
adunanze la lettura delle varie Gazzette del tempo, non solo
locali, ma anche estere, soprattutto francesi[235].
La lettura era prevista come modalità d’attesa dei membri all’adunanza[236] e
così veniva giustificata dallo stesso Lanteri in una sua nota sull’AS
del 1803: «Del leggere le gazzette al principio
dell’adunanza Questo
serve: 1. a prendere la carta mondiale del mondo; 2. ad assuefare
l’ecclesiastico a non restringere le sue idee e il suo interessamento
al solo suo paese, ma a riguardare tutto il mondo per sua patria, tutti
gli uomini del mondo per suoi fratelli, e interessarsi come veri figli
e ministri della nostra madre Santa Chiesa Cattolica Romana per tutti i
beni e i mali morali del mondo che tanto vicino interessano il Sacro
Cuore di Gesù; 3. per poter così più facilmente introdursi con i
secolari per parlare poi loro di Dio all’esempio dei Santi.
L’intenzione santa e pura è quella che santifica anche ciò che pare
indifferente»[237].
Il giovane diacono Lanteri, intorno agli
anni
1781-1782 all’età di ventuno-ventidue anni, avvicinandosi al
sacerdozio, scrisse un Direttorio Spirituale personale[238]: «È
un manoscritto di ventiquattro pagine, scritto dal Lanteri negli anni
1781-1782, all'età di ventidue-ventitre anni, con calligrafia
caratteristicamente giovanile. Si tratta di un insieme di propositi
spirituali raccolti dal diacono Lanteri, ormai vicino all'ordinazione
sacerdotale, sotto il titolo di “Direttorio”. Data la natura
essenzialmente spirituale di questo “Direttorio”, il testo viene
abitualmente chiamato appunto “Direttorio spirituale”»[239]. Questo manoscritto, scritto dal Lanteri in
diversi tempi, riporta pensieri e proponimenti spirituali per
progredire nel cammino di santificazione, con l’intenzione di
rileggerli lungo il tempo come momento di verifica e ravvivamento
spirituale. È il documento più importante per la conoscenza e la
comprensione della spiritualità del giovane chierico Lanteri, come ben
osserva il Frutaz: «Per
noi questo documento ha una particolare importanza in quanto che,
essendo il più completo ed organico dei suoi scritti intimi, ci
permette di conoscere assai bene l’intenso lavoro cui egli si
sottopose, sin dalla giovinezza, onde progredire nella vita spirituale»[240]. In esso Pio Bruno manifesta un grande
impegno
ascetico, una forte determinazione della volontà nel cercare Dio come
Primo e Assoluto, vuole ricercare Dio, impegnarsi con Dio, amare Dio,
manifestando quindi una grande sete di santità. Pio Bruno desiderava essere santo e aveva
capito che se voleva essere tale doveva prendere in mano il dominio di
tutta la sua persona, da qui la sua ricerca attenta per fare tutto nel
migliore dei modi. Gli esercizi di pietà, per prima cosa, e poi tutto
il resto. Continuando a mettere in pratica quanto aveva appreso alla
scuola di suo padre Pietro Lanteri, ora, alla scuola di colui che in un
certo senso ne aveva preso il posto, p. Giuseppe Nicolao von Diessbach,
Pio Bruno delineò un minuzioso programma di vita spirituale che
stabiliva punti giornalieri, settimanali e mensili nei quali si
impegnava negli esercizi di pietà, nella mortificazione, nello studio,
nella carità e nell’apostolato e li realizzava poi con fedeltà amorosa
nella ricerca continua della perfezione. Il Calliari annota che il Direttorio
non fu scritto di getto dal Lanteri: «Queste
riflessioni e propositi comprendono un quaderno formato protocollo di
pagine 22, a cui il Lanteri stesso aveva dato il titolo generico di
“Direttorio”, […]. Il
quaderno è tutto autografo senza nessuna interpolazione di altre mani,
scritto in diversi tempi come si nota dalla qualità e dal colore
dell’inchiostro, dalla qualità della carta, dalla diversità delle
penne. Non si notano correzioni di rilievo. Ciò indica che il
“Direttorio Spirituale” era la bella copia di scritti precedenti. Per
fortuna ci rimangono anche questi fogli sparsi[241],
non legati e ordinati tra loro (AOMV II, 3, 4, 5). Le correzioni, così
frequenti e così tipiche in tutti gli scritti di primo getto del
Lanteri, qui abbondano. Lo stesso concetto e pensiero non è mai
espresso una volta sola, ma fatto e rifatto diverse volte prima della
sua trascrizione definitiva in bella copia, talvolta è formulato in due
o tre tempi, sempre con aggiunte e modificazioni nuove. Queste
correzioni indicano che le riflessioni non sono copiature di autori, ma
elaborazione personale, frutto di lunga meditazione e di fervente
preghiera»[242]. Il Lanteri
ebbe sempre in gran conto e consultò frequentemente questo suo Direttorio
Spirituale: «Nella
redazione definitiva del “Direttorio Spirituale”, se non si vedono
correzioni, si notano però aggiunte posteriori, complementi di
pensiero, citazioni scritturali e patristiche, con inchiostro e penna
diversi. Ciò indica che il quaderno non rimase chiuso in un cassetto,
ma fu tenuto sempre a portata di mano, riletto, consultato, aggiornato
in occasione di giorni di ritiro o di Esercizi Spirituali»[243]. Da questo Direttorio Spirituale
trarremo in massima parte la materia per lo studio della sua
personalità spirituale in maturazione durante gli anni degli studi
teologici a Torino.
6.1 Una spiritualità trinitaria e cristologica Il giovane chierico Lanteri viveva la vita
della grazia in una spiritualità eminentemente cristocentrica e quindi
trinitaria. Il suo sforzo era quello di orientare tutta la propria
persona verso Dio e fondarsi in Lui. È utile a questo proposito vedere
in che modo il giovane Lanteri avesse organizzato nel suo Direttorio
Spirituale la materia delle proprie meditazioni quotidiane: «L'ordine
che terrò nelle meditazioni sarà il lunedì sul fine dell'uomo; martedì
su un novissimo; mercoledì sulla vita di Gesù Cristo; giovedì
sull'istituzione dell'Eucaristia; venerdì sulla Passione; sabato
considerazione (fatta nel 1°[244]
o 4°[245]
modo d'orare) o di un qualche dei principali esercizi quotidiani, come
l'ho esercitato in tutta la settimana, o su tutta la settimana in
generale. Domenica considerazione fatta come sopra su una virtù
teologale o sopra lo Spirito Santo. Mediterò particolarmente sulla
Passione esercitandomi nell'umiltà e indegnità di me stesso».[246]
«La
Domenica le virtù teologali, considerazioni con gli esercizi di esse»[247]. Da queste indicazioni possiamo leggere la
sua
fondamentale spiritualità basata sulla struttura degli EE:
4.
Le meditazioni del lunedì vertono sul “fine dell’uomo”, come nel
“Principio e Fondamento”[248]:
Dio Trinità da cui tutto proviene e tutto ritorna. Nelle meditazioni
del martedì ogni “novissimo” richiama questa finalità in quanto
raggiunta, da raggiungere o perduta per sempre, come ogni esercitante
medita durante la Prima Settimana degli EE.
5.
Al Figlio, quelle del mercoledì, giovedì e venerdì. Quella del
mercoledì sulla vita di Gesù Cristo rimanda alla Seconda Settimana
degli EE; quelle del giovedì, intorno all’Eucarestia, e quella del
venerdì, sulla Passione, rimandano alla Terza Settimana degli
EE.
6.
Allo Spirito Santo quella della domenica[249]. La meditazione del sabato si potrebbe
inserire in quelle che sono riferite al Padre quando viene usato il 1°
modo di orare in quanto tratta dei benefici ricevuti e della storia
della ingratitudini personali[250],
mentre si potrebbe riferire alla Santissima Trinità in genere quella
del 4o modo di orare che è un esercizio basato sul
rinnovamento attuale delle tre virtù teologali[251]
che ci relazionano con il Dio Uno e Trino. È anche quanto mai significativa di questa
eminente spiritualità trinitaria la virtù particolare che egli si
propone di realizzare e di cui parla nel suo Direttorio: «Sarà
familiarizzare con Dio, con Gesù Cristo, massime rappresentatomeLo
sovente paziente; indirizzerò le cose a Lui, chiederò lume da Lui e
forza, osserverò come farebbe nel caso mio, Lo pregherò del suo Spirito
nelle mie azioni, etc., noterò gli atti, li significherò al Direttore,
parlerò sovente di tale virtù e procurerò di esercitarla massime con
l'esercizio delle virtù teologali. Ne cercherò le occasioni, paragonerò
i giorni, le settimane».[252] Ogni mattina, appena sveglio, Pio Bruno si
proponeva questo pensiero:
«Voglio
quest'oggi
attendere a piacere a Dio, eseguire in tutto la sua volontà, e fare
ogni cosa a sua Maggior Gloria. La mia vita è dichiarata una battaglia.
Ancora oggi vi sono destinato, e fatto spettacolo a Dio, agli Angeli,
agli uomini. Quanto mi accadrà, sia prospero, sia avverso, mi è
procurato da Dio per occasione di bottino, ne sia sempre lodato, voglio
approfittarmene. Io per me posso nulla di bene, ma posso tutto in Dio
che è così premuroso della mia salute, che non mi manca mai con la sua
grazia. Propongo oggi pensare, parlare, operare da Santo e praticare
atti di generosità:
O Dio vieni in mio aiuto. A te oriento tutte le mie
forze e tutte le mie azioni. J.M.J.A.T»[253]. Quest’altro pensiero lo accompagnava lungo
tutto lo scorrere della giornata: «Sono
da Dio e per Dio solo. Dio solo contiene ogni bene. Dio solo può
saziarmi e rendermi felice. Dunque a Dio solo si indirizzeranno tutte
le mie forze ed azioni. Dio solo sarà il centro dei miei desideri ed
affetti. Mio Dio e mio tutto. Tutto il resto terrò per vanità e vanità
delle vanità. Ciò che non è Dio, è nulla. […]
O.A.M.D.G.»[254]. E si proponeva di cominciare la sua
preparazione immediata alla celebrazione eucaristica con un intimo
colloquio con la SS.ma Trinità: «Per
l'apparecchio penserò cosa va a passarsi sull'altare tra me, il Padre
eterno, e il suo Unigenito, penserò ai 4 motivi[255],
farò 3 colloqui alle 3 Persone»[256]. Nei preludi della
meditazione, invocava l’aiuto dello Spirito Santo: «2o
chiedere l'assistenza dello Spirito Santo J.M.J.A.T.».[257]
Ogni quindici giorni si proponeva di
meditare
«sopra lo spirito di vero Sacerdote, Amis, Cf»[258]
e di recitare in quel giorno il «Veni Creator, e sovente
l'Emitte
Spiritu»[259]. Pio Bruno era perfettamente consapevole
del
ruolo dello Spirito Santo nella sua santificazione e lo invocava
spesso. Allo Spirito Santo chiedeva aiuto per realizzare quell’unione
al Figlio, a Gesù Cristo, verso cui Pio Bruno tendeva con ardore per
animare interiormente ogni sua più piccola azione, sia le azioni di
ogni giorno che gli esercizi di pietà; in tutte il suo modello era
sempre Gesù Cristo:
«Lo spirito santo e vero di un
sacro ministro è secondo i doni e i frutti dello Spirito Santo, e
secondo le doti della carità noverate da S. Paolo»[260].
«Chiederò sovente nei miei esercizi spirituali che Gesù Cristo
m'imprima il Suo santo amore nel cuore e mi dia il Suo Spirito nel
giudicare delle cose e nell'operare»[261]. «… negli esercizi poi chiedere sempre
l'Amore
e lo Spirito di Gesù Cristo»[262]. «… Lo pregherò [Gesù Cristo], del suo
Spirito
nelle mie azioni»[263]. Attratto dal Verbo Incarnato, Pio Bruno
era
costantemente rivolto verso la sua Persona, studiandola, meditandola e
contemplandola:
«Tutti i dì un capo del Vangelo di
Gesù
Cristo per lettura e comprarmi il testamentino»[264].
«Nella visita del Santissimo Sacramento o il 3 o modo di
orare[265],
o familiarizzare con Gesù Cristo»[266].
«Virtù Particolare. Sarà familiarizzare con Dio, con Gesù Cristo,
massime rappresentatomeLo sovente paziente; indirizzerò le cose a Lui,
chiederò lume da Lui e forza, osserverò come farebbe nel caso mio, Lo
pregherò del suo Spirito nelle mie azioni»[267].
«Propongo di praticare in questi esercizi particolarmente la
riverenza
esterna secondo lo spirito di riverenza che praticava Gesù Cristo con
il suo Eterno Padre…»[268].
6.2. Spiritualità mariana
L’amore e la devozione a Maria SS.ma che
il
Lanteri ereditò da suo padre rimarrà sempre una delle sue note
caratteristiche. Quel «propongo di promulgare la Devozione di
Maria Vergine nelle occasioni, massime nei discorsi pubblici»[269]
che scrisse nel suo Direttorio Spirituale, è significativo
proprio di questo. La stessa sigla da lui usata nei suoi scritti «J.M.J.A.T»,
dove «J.M.J.» sta sicuramente per «Jesus, Maria, Joseph» e
«A.T.» per «Aloisius [Luigi], Theresia» secondo
l’interpretazione del Frutaz[270],
indica un orientamento costante della propria persona verso il Signore
Gesù e verso Maria in particolare. Atteggiamento che sarà suggellato
dal suo atto di totale affidamento a Maria che farà il 15 agosto 1781:
«Il 15 agosto 1781,
nell'imminenza dell'ordinazione al primo degli ordini maggiori, il
suddiaconato, avvenuta il 22 settembre dello stesso anno, il giovane
Pio Brunone Lanteri si consacrò a Maria Santissima con un
caratteristico atto di schiavitù, riflesso della tenera devozione che
il Servo di Dio nutriva verso Maria SS., alla quale era stato
consacrato da suo padre sin dall'infanzia. È noto infatti che il
Lanteri soleva spesso ripetere “che egli non aveva altra madre, fuori
di Lei”, cioè di Maria Santissima»[271]. Vediamo dunque questo atto di affidamento
a
Maria, conosciuto come “scrittura di schiavitudine”: «Cuneo,
il 15 agosto
1781.
. Apparentemente questo atto sembra
esprimere
un semplice omaggio a Maria, frutto di una devozione poco fondata
teologicamente, e molto sentimentale, poiché non vi appare nessun
riferimento esplicito a Dio e a Gesù Cristo presente invece nell’atto
di schiavitù proposto da S. Luigi Maria De Monfort[273].
L’assonanza di questo atto di schiavitudine con quello monfortiano è
forte, ma come è noto, quest’ultimo ebbe diffusione solo dopo il 1842,
anno in cui fu ritrovato, il Lanteri quindi non poteva conoscerlo
direttamente. Il Monfort è molto esplicito nel relazionare intimamente
la devozione a Maria e la sottomissione a Lei all’atto della
consacrazione battesimale relativizzandola così a Gesù Cristo[274]. Tutto questo non appare dalla semplice
lettura della “scrittura di schiavitù” del giovane Lanteri per
cui sembrerebbe inesatto affermare che
«… quest’atto non fu
un
qualsiasi omaggio alla Vergine: espresse il desiderio di fare della
vita una perfetta donazione a Dio e la totale fiducia riposta dal
giovane Lanteri nella Madre di Dio, perché tale desiderio si potesse
realizzare»[275].
Ma se
noi
leggiamo anche quanto il Lanteri scrisse sulla devozione a Maria
nell’insieme del suo Direttorio Spirituale, possiamo cogliere
tutta la profondità teologica della sua “scrittura” e la sua
intrinseca relazionalità all’onore e alla gloria di Dio. Possiamo dire
che Maria gli è sempre presente come guida, aiuto e sostegno del suo
donarsi a servizio e lode della SS.ma Trinità:
«Mi approfitterò di
tutti
i meriti, grazie e privilegi di questa mia Signora come chi sa di aver
ad essi quel diritto che hanno i figlioli alla madre, e quando dirò
Messa La supplicherò di prestarmi le Sue vesti, gioie e tutti gli
abbigliamenti di casa per tale funzione, e di poter offrire tutti i
suoi meriti al benedetto Suo Figliolo per ricoprire così l'indecenza di
un sì sordido albergo: il che sono persuaso che farà con grande gusto
come disse a S. Gertrude[276].
Unirò i miei atti di fede, speranza, carità ai meriti di mia Madre, e
così inseriti in un traffico sì grande e ricco, crescerà a dismisura il
povero mio capitale»[277]. Come si può vedere, il Lanteri finalizzava
la
devozione a Maria a rendere sempre più salda, viva e profonda la
propria vita teologale attraverso atti di fede, speranza e carità resi
maggiormenti intensi dall’unione alla Vergine Maria. In un altro passo del suo Direttorio
il Lanteri scrive, riguardo alla celebrazione della santa Messa: «Per
l'apparecchio [alla celebrazione della s. Messa] […] pregherò Maria,
Giuseppe a insegnarmi la maniera di trattare con Gesù…»[278]. Come si può notare con facilità, si tratta
di
una vera imitazione delle virtù e atteggiamenti di Maria nel trattare
con Gesù, secondo la dottrina che sottolineerà il Vaticano II[279]. Non
possiamo disgiungere nel p. Lanteri la devozione alla Madonna da quella
verso S. Giuseppe, in quanto entrambe intrinsecamente ordinate al Verbo
incarnato. Sia Maria Vergine che il suo castissimo Sposo Giuseppe sono
ordinati al mistero dell’Incarnazione: la prima intrinsecamente, perché
il Verbo viene generato in Lei dallo Spirito Santo e Lei è vera Madre
di Gesù in senso pieno, il secondo estrinsecamente, perché il Figlio di
Dio non è figlio suo in ordine alla carne, ma lo è moralmente in ordine
al ruolo umano-sociale di padre e agli affetti e sentimenti che tale
ruolo comporta. Come nella società umana la generazione fisica non è
sufficiente ad esaurire la paternità in quanto necessita anche di
essere completata da una paternità morale e affettiva, così Gesù fu
vero Figlio di Giuseppe in ordine a questa paternità morale ed
affettiva che lo Sposo di Maria ebbe nei suoi confronti. Entrambi
dunque sono i massimi esperti di Gesù, come lo hanno conosciuto loro
non ce ne sono altri ed innanzi tutto Maria. La
“schiavitudine alla Vergine” aveva dunque nella visione del Lanteri
due risvolti particolari: A) il primo oggettivo: vi è un oggettivo
apporto di Maria al fedele che a Lei si affida, vi è cioè una
mediazione reale nei confronti della grazia. Questo è l’aspetto che fa
più problema ai teologi, in quanto entriamo nell’ambito ontologico
della dispensazione della grazia santificante che è ufficio proprio
dello Spirito Santo. Nessuno tuttavia può negare la funzione mediatrice
speciale di Maria, presso “l’unico Mediatore” (1Tm 2,5), nelle
nostre preghiere d’intercessione a Lei rivolte[280]. B) il secondo soggettivo: che consiste
nell’imparare da Maria, nel guardare verso di Lei per conoscere e
comprendere come relazionarsi non solamente meglio, ma nel miglior modo
possibile con il suo Figlio Gesù Cristo[281].
Per il Lanteri, quindi, Maria è Madre e
Maestra Spirituale, in perfetta sintonia con la dottrina del “Trattato
della vera devozione” del Monfort. Ritornando a quanto il Lanteri
scrive nel suo
Direttorio Spirituale, oltre che durante la preparazione alla
celebrazione della s. Messa, c’è un momento di essa che egli anima con
il suo spirito mariano; si tratta del momento della consacrazione
o della comunione o di entrambi. Egli infatti scrive: «Dobbiamo
immaginarci di essere in cielo, non in terra; assistono migliaia di
Angeli adorando e avendo in pregio le mani del Sacerdote; offrire Gesù
alla Santissima Vergine»[282]. Nel paragrafo riguardante la
Spiritualità Liturgica del Lanteri riprenderemo nuovamente e
approfondiremo maggiormente questa sua frase e vedremo come essa non
esprima un esagerato devozionismo mariano o una devianza liturgica,
quanto piuttosto una tenera e affettuosa devozione a Gesù e a sua Madre[283].
Cercheremo ora di vedere come, in
concreto,
il Lanteri visse la propria schiavitudine a Maria. A tale
scopo ci sarà utile, oltre quanto trovasi nelle sue annotazioni
spirituali, anche quanto indicato negli statuti di vita dell’Aa
e dell’Amicizia Cristiana riguardo alla devozione alla Vergine
Maria. Questo ci servirà anche per conoscere quelle pratiche di pietà
che Pio Bruno viveva nella sua giornata:
«La devozione
della
Beata Vergine è la devozione dell'Aa. Tutti i soggetti ne fanno una
solenne professione e la riguardano come loro Regina; di cui vogliono
procurare la gloria come loro Madre a cui ricorrono in tutti i loro
bisogni. Dopo il nome SS. di Gesù, quello di Maria è il più frequente
sulle labbra loro ed è quello che invocano con maggior confidenza, e
che maggiormente si sforzano di farla conoscere, amare e lodare da
tutti quelli appresso dei quali essi lavorano»[284]. Gli Statuti dell’Amicizia Cristiana,
parlano pochissimo della devozione alla Madonna, ma è evidente che se
ne suppone una forte devozione. Ogni riunione assembleare iniziava con
la recita delle
“Litanie della Santa Vergine” e nelle vigilie delle feste
dell’Immacolata, della Natività, dell’Annunciazione e dell’Assunzione
gli Amici, come abbiamo già visto[285], si obbligavano al digiuno. Poi, senza
dichiararlo mai esplicitamente, è abbastanza evidente come le Leggi
dell’Amicizia Cristiana vedono in Maria SS.ma la Patrona principale
della propria Associazione:
«Per ottenere la Benedizione di Dio attraverso l’intercessione della
SS.ma Vergine e dei nostri Santi Patroni san Giuseppe e santa Teresa[286], noi digiuneremo nelle vigilie delle loro Feste. Le vigilie
delle Feste della Santa Vergine che noi scegliamo per questo sono
quelle dell’Immacolata concezione, della Natività, dell’Annunciazione e
quella dell’Assunzione»[287]. Immerso in quest’ambiente spirituale
altamente mariano, possiamo dire che Pio Bruno respirava Maria. L’Atto
di schiavitudine del giovane Lanteri esprime la sua totale immersione
in Maria, il suo farsi servo e imitatore di Maria per essere tutto di
Gesù e del Padre. Tutto questo comportava un certo stile di vita, di
abitudini con cui egli onorava la Vergine Maria, si metteva sotto il
suo manto materno e ne promuoveva la devozione. Pio Bruno esprimeva la sua devozione
mariana
attraverso varie pratiche di pietà. Abbiamo visto, dai regolamenti dell’Aa
e dell’Amicizia Cristiana, i vari digiuni in onore di Maria cui
si impegnavano gli adepti e le preghiere loro usuali. Riguardo alla
recita del santo rosario abbiamo diversi documenti che ci invitano a
pensare che lo recitasse quotidianamente anche se l’Aa, come
abbiamo visto, ne prevedeva come obbligo la recita settimanale.
Probabilmente Pio Bruno spesso ne recitava più di uno al giorno, perché
doveva essere per lui, come per gli altri
“confrères” e gli “amis”, una preghiera che accompagnava
gli spostamenti e i vari spazi di tempo vuoti della giornata: «Nelle
ore libere penserò a me, o ai bisogni del mio stato, o dirò la corona»[288].
E ancora troviamo scritto in una delle note che servirà alla redazione
del suo
Direttorio Spirituale: «Lettura
spirituale, corona, visita al Santissimo, sospiri [giaculatorie], esami
di coscienza»[289],
dove evidentemente si propone di essere fedele quotidianamente a questi
esercizi spirituali. La devozione alla Vergine Santa, come
vedremo
più avanti[290],
sarà indicata dal Lanteri, sempre nel suo Direttorio, come la
terza arma contro le tentazioni, per questo si propone di portare «un
rosario al collo, recitare 9 ave, avere una Sua immagine, parlarLe,
salutarLa sovente»[291].
Per aiutarsi nella lotta contro se stesso si attacca una corona alla
camicia: «Appender alla camicetta la corona per la virtù particolare»[292].
Portare un rosario al collo… parlarLe, salutarLa sovente… sono
gesti che richiamano un forte rapporto affettivo ed esprimono la
profonda intimità che Pio Bruno aveva con la Vergine Maria, suggellata
da quel gesto mai dimenticato con cui papà Pietro l’aveva affidato a
Lei quale Madre carissima e unica, dopo la morte di mamma Margherita e
che nella sua “scrittura di schiavitudine” trova la sua
espansione attuale: «Voglio
avere un amore tenero verso Maria Vergine e confidenza in lei di figlio
a sua Madre, e in grado tale, che mi paia impossibile che mi permetta
di essere vinto e perisca in quella battaglia: ricorrerò dunque a Lei
come un pulcino si ricovera sotto le ali di sua madre alla voce del
nibbio vorace, e dopo l'atto d'amor di Dio dirò:
“Mostrati essere madre… Sotto la tua protezione… Maria madre della
grazia…”, e ciò farò con quella confidenza che un bambino usa con
sua madre domandandole ciò che fa di mestieri con gran sicurezza, come
se fosse tenuta a concederglielo, e a lei ricorrendo in tutti i suoi
travagli, cosicché resta la madre come obbligata, e ricava quindi
motivo di voler più bene al figlio, e se le madri di quaggiù cattive
qualche volta, pur non sanno negare niente, che si dirà della Gran
Madre di Dio?»[293]. Oltre all’influsso di s. Gertrude da lui
espressamente citata in uno dei brani sopra riportati, certamente il
Lanteri avrà subito quello degli scritti mariani dell’abate Henry-Marie
Boudon[294]: «Una
delle guide spirituali più autorevoli delle Aa fu l’abate Henry-Marie
Boudon, autore de Le saint sclavage de l’admirable Mère de Dieu [La
santa schiavitù dell’ammirabile Madre di Dio]. Questo libro fu una
delle fonti più importanti del Trattato della vera devozione di Maria
di san Luigi Maria Grignon de Monfort. Boudon parlò della santa
schiavitù alla Madre di Dio, consistente non nel fare pratiche di
devozione o recitare preghiere o fare mortificazioni, ma soprattutto e
prima di tutto nel consacrare la propria libertà, il proprio cuore e le
opere buone al totale servizio di Maria»[295]. E questa certamente era l’intenzione del
Lanteri nel mettersi totalmente nelle mani di Maria, sua Madre, in
piena fiducia e confidenza. Questo gesto, visto il primato assoluto di
Cristo come unico Mediatore tra il Padre e l’umanità, è giustificabile
solo alla luce della misteriosa volontà di Dio che ha fatto sì che una
piccola fanciulla di Nazareth fosse intrinsecamente inserita nel
mistero dell’Incarnazione del suo Verbo, diventandone madre in quanto
alla natura umana, proprio in Lei e da Lei assunta. È in forza di
questo mistero che Ella partecipa spiritualmente alla generazione di
tutti i membri del Corpo Mistico diventandone Madre attraverso la
Chiesa, la quale estende a tutti i tempi e luoghi la sua maternità.
Questo è, in effetti, quello che il Monfort chiama “il segreto di
Maria”[296].
Sapere cioè che Dio ha scelto Lei per realizzare nello Spirito Santo la
santificazione di tutti i suoi “figli adottivi” (Rm 8,15)
invitati ad affidarsi totalmente a Lei, come mezzo assolutamente il più
sicuro, facile e certo per realizzare la propria santificazione, cioè
la propria conformazione a Cristo. Questa dottrina, certamente implicita
nella “scrittura
di schiavitudine” del Lanteri, rimane ancor oggi un “segreto”
nel senso che pur essendo stata sempre benedetta e approvata dai vari
Sommi Pontefici susseguitisi nei secoli, non è mai stata precisata
teologicamente perché comporta non pochi problemi, che furono anche
all’origine di tutte quelle contestazioni che ebbe Paolo VI nel
dichiarare Maria Madre della Chiesa alla fine del Concilio Vaticano II.
Infatti un tale “segreto”, che, come abbiamo detto, presuppone
una maternità spirituale di Maria su tutta la Chiesa, sembrerebbe
sminuire il ruolo ecclesiale dello Spirito Santo. Problema teologico
che il “segreto” risolve con l’icona di “Maria Sposa dello
Spirito Santo”, vedendo quindi Maria come strumento scelto da
Questi per realizzare in Lei e attraverso Lei la generazione dei figli
di Dio nella Chiesa. La tipicità di questa devozione in cui la
persona si abbandona totalmente e assolutamente nelle mani di Maria per
consegnarsi al Padre sta nella fiducia assoluta della totale e piena
relatività di Maria a Gesù Cristo. L’espressione del “farsi schiavo
di Maria” o altre simili[297],
vogliono infatti mettere l’accento su questa fiducia assoluta in Maria,
nella consapevolezza del ruolo che Ella riveste nell’economia della
salvezza per la santificazione dell’umanità. Riconoscere questo ruolo è
dunque il “segreto” di questa devozione, che vuol imitare
l’abbandonarsi del Verbo in Maria in quei lunghi nove mesi in cui Ella
lo portò in grembo durante i quali la sua vita umana dipendeva
totalmente da Lei.
6.3
Spiritualità ignaziana
La vita spirituale del giovane discepolo
del
p. Diessbach era pienamente incorniciata e strutturata secondo la
spiritualità degli E.S. ignaziani. A questo proposito nasce
spontanea la domanda se egli, a quei tempi, avesse fatto l’esperienza
del mese ignaziano, domanda spontanea in quanto anche una lettura
superficiale del suo Direttorio Spirituale fa supporre che
esso sia il frutto di un prolungato corso di
E.S. Di questo non abbiamo certezza, ma solo una fortissima
probabilità che ciò sia avvenuto. Di certo sappiamo che egli, come ha
ben dimostrato il Gallagher[298],
oltre i prescritti E.S. in preparazione dell’ordinazione
suddiaconale che fece prima del 22 settembre 1781[299].
Presso «i Padri Oratoriani di Mondovì, secondo una prassi abituale
della diocesi»,[300]
fece un altro corso prima dell’ordinazione sacerdotale. Il Gallagher
giunge a questa conclusione da un’analisi interna del testo del Direttorio
dalla quale emerge inequivocabilmente che esso è frutto dell’esperienza
di un corso di
E.S. «che la riassume come proiezione di vari propositi per il
futuro».[301] Tre sono i passi chiave del
Direttorio che propendono per una partecipazione del Lanteri agli E.S.
estensivi. Vediamo il primo: «Propongo
il 6 del mese di Gennaio 1782 di leggere il presente Direttorio, fino
all'Ordinazione del Sacerdozio una volta la settimana».[302]
Quindi sono passati più di tre mesi dagli Esercizi
fatti per l’ordinazione suddiaconale. Vediamo il secondo passo: «Ridurrò
le massime principali che ho apprese nei S.[anti] Esercizi e le
pratiche dei miei esercizi quotidiani in un librettino portatile per
averlo alla mano nelle occasioni»[303].
Se ne deduce che aveva già avuto
l’esperienza
degli Esercizi. E infine, il terzo passo:
«Esaminando la condotta
particolare di provvidenza che il Signore si è degnato di tener con me
sino ad ora, di cui non potrò mai abbastanza ringraziarLo, riflettendo
sulle circostanze particolari in cui ha voluto ch’io mi ritrovassi per
poter fare qualche cosa di Sua Maggior Gloria, e di servizio alle anime
da Lui redente, pensando finalmente allo stato presente di piena
libertà in cui mi ha posto, con il desiderio e l'occasione che mi ha
dato di fare i s.i[304]
esercizj in questa circostanza, non posso [fare] a meno di confessare
che S.D.M.[305]
voglia in quest'occasione qualche cosa di particolare da me misero
peccatore, suo indegno servo»[306].
Da
qui la conclusione certa che prima dell’ordinazione Pio Bruno rifece
l’esperienza degli
E.S. e i dubbi che furono diretti da p. Diessbach sono
praticamente inesistenti. Manca solo la certezza che fece proprio il “mese”
per intero, ma anche a tal riguardo e vista l’entità del frutto, sembra
pacifico che questo tempo di ritiro e di intimità con Dio nel deserto
se non fu di un mese, presumibilmente dovette essere ben lungo. Infatti
è difficile pensare di poter postulare un simile Direttorio
senza un lungo e completo tempo di ritiro spirituale.
Il
dubbio
che non sia stato proprio il “mese” nasce dal fatto che in un
altro passo all’interno di questo documento egli così scrive: «Non
dimenticare la Vigna[307] per condurre altri a
fare gli Esercizi, e farli io di un mese»[308].
Infatti, se desiderava fare il “mese” si suppone che ancora non
avesse avuto questa esperienza, ma c’è anche la possibilità paventata
dal Gallagher che questo passo appartenga a fogli aggiunti
successivamente
[309] e che quindi esprimesse
il desiderio di rifare l’esperienza e non di farla per la prima volta.
6.3.1 Gli esercizi di pietà del chierico Lanteri
La meditazione era ben curata, secondo
tutte
quelle varie indicazioni che S. Ignazio propone nei suoi Esercizi.
Anche i vari preludi e i consigli[310],
che Ignazio dà all’esercitante per disporsi meglio alla meditazione,
vengono totalmente applicati dal Lanteri:
«1. Prevedere il giorno avanti i punti ed il frutto, e rammentarsene
svegliato, per non tentare Dio al tempo dell'orazione. 2.
Giunta l'ora prefissa, procurare di essere tranquillo e raccolto,
dimenticandosi delle creature per entrare come si deve in commercio con
Dio, e di schivare i difetti della meditazione precedente. Quindi 2
passi lontano dall'Oratorio[311]
il segno della S. Croce. Profondo inchino con atto di fede della
presenza di Dio, unico mio scopo che mi vede, mi ascolta, e premuroso
del mio bene mi vuol parlare, considerandone il suo essere bontà e
bellezza, e con atto di adorazione alla Santissima Trinità, o a Gesù
Cristo. Ad te dirigantur
etc. Far più caso dei lumi di Dio che dei miei. […] 1° preludio
secondo la materia; 2° chiedere l'assistenza dello Spirito Santo
J.M.J.A.T.[312],
e grazia di ricavarne il frutto prefisso, ed il tutto in 2 o 3 minuti»[313]. Anche nello svolgimento della sua
meditazione, Lanteri è prettamente ignaziano: «4. Proporre la materia,
atto
di fede, esaminarla con autorità di Scrittura e Santi Padri, con la
ragione, con similitudini ed esempi, dilucidarla, e trarne le
conseguenze certe.
5. Produrre affetti,
risoluzioni, proponimenti massime particolari e riguardanti le pratiche
già proposte, e questo in ciascun punto. 6.
Ringraziare Dio dei lumi, Confirma etc., la supplica del Pater,
Sub tuum etc.»[314]. Pur mutuando da Ignazio, tuttavia il
chierico
Lanteri personalizza gli schemi ignaziani secondo la propria indole,
proponendo così quattro modalità di orazione[315].
La prima ricalca il modello ignaziano dell’esame di coscienza[316]
e poiché si propone di usarlo come preparazione alla confessione, ne
parleremo più specificamente quando tratteremo della spiritualità
liturgica del chierico Lanteri. La seconda tratta come meditare una
verità di fede; in questa modalità il Lanteri si propone anche di «scriverla
dopo, fatta in modo di storia»[317].
La terza è praticamente una lettura o recita affettuosa da usarsi per
le preghiere vocali. La quarta è un’orazione sulla fede, speranza e
carità che ricalca l’ignaziana preghiera delle liste o primo modo di
orare[318]. Nella prima, seconda e quarta modalità, il
Lanteri parla di optando, offerendo e obsecrando, termini che
fanno pensare molto allo schema dell’esame generale[319] e
al triplice colloquio con Gesù Crocifisso degli Esercizi
ignaziani[320]:
«1a […] optando riguardo al tempo passato, offerendo
riguardo al presente, obsecrando riguardo all'avvenire […]. 2a
[…]Rifletterò su me stesso: optando, offerendo, con
sciogliere le obiezioni, obsecrando per le proprie miserie, per
i meriti di Gesù Cristo o dei Santi, per la gloria di Dio che ne
segue[…]. 4a
[…]In tutto riflettere come ci diportiamo.
Optando. Offerendo.
Obsecrando»[321]. Per comprendere il senso di
questi tre verbi – Optando,
Offerendo e Obsecrando – è
utile tener presente quanto lo stesso Lanteri scriverà in epoca
posteriore:
«Applicandoti con la volontà e con sentimento
sul testo da meditare conformemente a quanto spontaneamente senti,
rifletti sulla dottrina esposta chiedendoti: (1) Come tu ti sia
comportato nel passato in riferimento a quanto meditato. Da questa
considerazione ne deriva l’accusa della propria coscienza, la
confusione, il dolore, la supplica e così via. (2) Come ti stai
comportando nel presente, offrendo una nuova risoluzione, spiegandone
le motivazioni profonde confutando ogni obiezione [dell’umana ragione],
prevedendo le eventuali difficoltà, con l’offerta di sé, con il
desiderio di emulare i Santi. Prendi coscienza dei vari sentimenti
presenti nel tuo cuore – sentimenti di amore, di odio, di timore, di
coraggio, di speranza, di disperazione, e altri ancora - e sollecita il
tuo animo a far propri quelli più convenienti [e ripudiare quelli che
non lo sono]. (3) Come ti comporterai nel futuro, supplicando aiuto con
la richiesta, la preghiera, l’azione di grazie rivolta ai Santi, a
Cristo, a Dio. Pertanto, questa triplice considerazione del testo
meditato farà emergere la considerazione delle tue miserie e la
relativa considerazione dei meriti di Cristo, di Maria e dei Santi,
delle perfezioni [divine] e della Gloria di Dio stesso. Sono miniere
d’oro: Cosa devo fare, sfuggire, sopportare? Che cosa ho fatto, ho
sfuggito, ho sopportato? Cosa farò, sfuggirò, sopporterò?»[322]. Il Lanteri si propone di rileggersi «di
quando in quando questi modi di orare per farne l'abito»[323],
manifestando così ancora una volta l’importanza che egli dava a fare le
cose bene e con metodo fino a farsene “l’abito”[324]. Anche nella conclusione stessa della
meditazione, il Lanteri continua a seguire il metodo ignaziano con il
suo tipico esame dell’orazione:
«7. Un'occhiata ai difetti occorsi con proposito di rimediarvi,
un'occhiata ai lumi, risoluzioni, occasioni di praticarle, altrimenti
procurarne atti interni od esterni. I
difetti sono distrazioni, tedio, aridità, desolazione; la causa,
difetto di preparazione, o applicazione e riverenza, esser troppo
attaccato ai propri lumi oppure antecedentemente libertà di conversare,
parlare cose vane, affetti, sollecitudini temporali»[325]. Inoltre, Pio Bruno si propose di
raccogliere
le ispirazioni che sentiva più forti nell’orazione in un piccolo
quaderno tascabile: «[Propongo di] Ridurre le mie massime e il metodo
dei miei esercizi spirituali in un librettino portatile»[326].
La funzione di questo “librettino portatile” era duplice.
Infatti serviva al Lanteri (che, tra l’altro, conserverà
quest’abitudine anche da anziano) per ravvivarsi nella devozione in
quella grazia particolare che gli aveva toccato il cuore attraverso
quella determinata luce in quel determinato pensiero o in quella Parola
di Dio, ma serviva anche per il confronto con il suo direttore
spirituale cui egli rimetteva ogni giudizio con voto di ubbidienza. Alla scuola di Ignazio il giovane Lanteri
imparava, con l’aiuto del suo padre spirituale, a dominare se stesso
nella presa di consapevolezza di sé, attraverso la fedeltà alla pratica
degli esami di coscienza particolare, generale[327],
e nella propria esperienza di preghiera. Quest’impegno fattivo nella
conoscenza di sé si manifesta in altri suoi scritti giovanili:
«– Per l'esame generale: il male, il bene, e quanto ben fatto. – Ricordati
dell'esame in fin della meditazione. […].
– Una mortificazione
la
mattina e la sera a tavola. – Cercare
occasioni per l'esercizio della virtù particolare. – Esame
mattina
e sera; paragonare i giorni e le settimane; per ciò notarne il –
Battere il petto quando si manca: far società per avvertirci
scambievolmente»[328]. Quest’ultima sua frase ci fa pensare che
egli, secondo la prassi usuale nell’Aa, avesse incaricato una
persona amica di ammonirlo dei difetti che dovessero manifestarsi in
lui, come scrive anche in altri fogli d’appunti: «Se
potessi far società con qualcuno per avvertirsi delle pratiche di virtù
sarebbe bene…»[329]. «…
non ho più chi vigili da vicino sulla mia condotta, eleggo V. P.»[330].
6.4 Una spiritualità salesiana Il giovane Lanteri, oltre che l’aspetto
metodologico della spiritualità ignaziana, ne assorbì la carica
affettiva. Tutta incentrata sulla contemplazione amorosa della Persona
del Verbo Incarnato, conosciuto intimamente e amato immensamente[331],
la spiritualità ignaziana indirizza la persona ad una purificazione
degli affetti del cuore attuata attraverso la contemplazione degli
affetti di Gesù Cristo. In perfetto contrasto con la freddezza
giansenistica, questa spiritualità divenne naturalmente la culla della
devozione al Sacro Cuore di Gesù. Una spiritualità dell’intimità divina dove
viene valorizzata l’affettività, non come sdolcinatezza pietistica, ma
come complemento dell’impegno personale di amare Dio costi quel che
costi. Questa affettuosa intimità con Dio a cui porta la spiritualità
ignaziana e ogni altra buona spiritualità, ha un suo risvolto
orizzontale nell’amicizia e amore fraterno con chi condivide la stessa
esperienza. In un certo senso, possiamo dire che l’amicizia spirituale
è il traboccare stesso dell’intimità divina. Una autentica intimità con
Dio, ha come conseguenza concreta la ricerca dell’amicizia spirituale
come aiuto, sostegno e completezza di essa, in quanto siamo chiamati ad
essere Uno in Lui (cfr. Gv 17,11.21-22): non si vede quindi una
intimità con Dio che non trabocchi in un’intimità spirituale verso i
nostri fratelli e le nostre sorelle. Quest’amicizia spirituale non si richiude
in
sé in un vano compiacimento affettivo, ma tende sempre ad allargarsi
per incendiare il mondo dell’amore di Gesù e per Gesù. S. Francesco di Sales fu un maestro
particolare in questo campo e seppe far emergere dalla spiritualità
ignaziana[332]
tutta la sua potenzialità in riferimento alla fraterna comunione
d’animi in Gesù Cristo. Le forti esigenze dell’austerità ignaziana
sembrano rese più dolci e soavi dalla tenerezza dell’amicizia
spirituale, dalla mitezza e serenità del vescovo di Genève. L’influsso
che s. Francesco di Sales ebbe sul chierico Lanteri fu enorme e giunse
a lui tramite l’“Aa” e l’“Amitié Chrêtienne” che, come
abbiamo visto a suo tempo trattando di queste Associazioni, erano
intrise della sua spiritualità, la quale si sviluppava e fioriva nel
clima dell’amicizia spirituale, volta a rendere più soavi le asprezze
dell’ascesi e la tensione continua del rinnegamento di sé. Nel suo Direttorio Spirituale il
diacono Lanteri si propone di leggere continuativamente s. Francesco di
Sales per formarsi lo spirito: «Continuare a leggere soggetti per
formarmi lo spirito, massime S. Francesco di Sales, […]»[333].
Il Lanteri, secondo il Gastaldi, fu più che fedele a questo proposito
in tutta la sua vita:
«Per acquistare
la virtù
della dolcezza si era messo sotto il patrocinio di S. Francesco di
Sales, frequente ne scorreva i trattati, e da questi, come disse
sant’Agostino della S. Scrittura, aveva raccolto le massime più soavi
ed amabili per averle in pronto sia in benefizio proprio che altrui. E
veramente la carità e la tenerezza che mostrava alle anime e ne’
discorsi e nel confessionale e nelle lor malattie o di corpo o di
spirito, erano una conseguenza di quel fare dolcissimo che aveva
appreso da questo esemplare sì amabile e perfetto maestro di amore e di
carità. […]. Per
affetto ancor a lui per molti anni guidò nello spirito del santo
fondatore parecchie buone religiose della Visitazione…»[334]. Ad una di esse scriverà un giorno: «…rimiri
in tutto la volontà di Dio, ed operi un po' più alla buona, ossia
grosso modo, come diceva S. Francesco di Sales; né tralasci di leggere
ogni giorno qualche squarcio delle opere del suo S. Padre, poiché sono
propriamente fatte per procurare la pace al cuore»[335].
Caratterizzata da una grande dolcezza e
serenità, la spiritualità di s. Francesco di Sales imponeva innanzi
tutto che queste virtù fossero applicate verso se stessi nello sforzo
di guardarsi, accogliersi e amarsi così come lo si è da Dio. Senza
amareggiarsi, scoraggiarsi, abbattersi per gli inevitabili fallimenti,
mancanze, debolezze e peccati, sempre pronti a rialzarsi e a riprendere
il cammino con più slancio di prima della caduta, fondati e radicati in
un’immensa fiducia nella sconfinata misericordia di Dio: «Rialza
dunque dolcemente il tuo cuore quando cade, umiliati grandemente
davanti a Dio alla conoscenza della tua miseria; ma non meravigliarti
della tua caduta: è naturale che l’infermità sia malata, che la
debolezza sia debole, e la miseria sia misera. Disprezza con tutte le
forze l’offesa che Dio ha ricevuto da te e, con coraggio e fiducia
nella sua misericordia, rimettiti nel cammino della virtù, che avevi
abbandonato»[336]. Il Lanteri assimilerà alla perfezione
tutto
questo e nel suo Direttorio Spirituale così si esprimerà: «Se
verrò a mancare, anche fosse mille volte, non mi perderò d'animo, non
mi inquieterò, ma sempre pacificamente subito dirò nunc cœpi.
Mio Dio, l'ho fatta da quel che sono. Che altro potevate aspettarVi da
me? Né qui mi sarei fermato, se voi non mi aveste trattenuto. Fatela
Voi ora da quello che siete. Non voglio pensare così male di Voi, che
mi dia a credere che Vi lasciate vincere da chi è cattivo, quando so
che Vi sta tanto a cuore la mia conversione, la mia salute. Sempre
paziente con me e diffidente di me, e tutto confidente in Dio buono»[337]. E ancora, nello stesso documento,
trattando
degli “Avvisi necessari per non errare nel cammino della perfezione”
che formano una sezione all’interno dello stesso documento, al sesto
avviso così scrive il Lanteri riguardo alla possibilità concreta di
cadere nel peccato: «Apprenda
di andare avanti anche con mancamenti, e non si arresti mai per essi a
mezzo del cammino; se l'uomo non sa bene quest'arte, che è la più
difficile, arrischia di tornare indietro. Si presupponga che ha da
commettere dei mancamenti, poiché servire Dio senza di essi solo in
Cielo si fa. Onde si deve imparare a cadere sì, ma a levarsi subito, a
domandare perdono senza meraviglia né rammarico, né venir meno, per
molti e grandi che siano, ma sebbene umiliarsi, compungersi e alzarsi
da essi più alienato, se gli basta l'animo, perché questa è una grande
sapienza e mezzo ottimo per andare avanti»[338].
Da tali
presupposti il Lanteri perviene dunque a questa conclusione logica: «Non
meravigliarsi, né rammaricarsi delle nostre cadute, per molte e grandi
che siano; ma invece umiliarsi, compungersi e tranquillamente alzarsi
da esse più alienato, se basta l'animo, è questa una grande sapienza ed
un mezzo ottimo per correre nel cammino spirituale della perfezione»[339].
In un altro documento dell’epoca il suo
pensiero raggiunge un’ulteriore profondità nella comprensione della
misericordia divina e della confidenza che deve essere presente nel
cuore di chi ha la disavventura di cadere nel peccato: «Dopo
la caduta si abbia maggior confidenza di quella che si avrebbe nella
comunione; più la caduta è grave, e più confidenza; più uno è debole e
maggiore appoggio ha di bisogno»[340]. Sarà proprio l’esperienza di questa
invincibile benevolenza di Dio che farà sì che la persona addolcisca
il suo modo di relazionarsi con gli altri. Tutta la pazienza e
tenerezza di Dio di cui si è stati, e si è, oggetto, straripa
inevitabilmente sugli altri che vengono guardati con occhi diversi,
purificati dallo sguardo misericordioso del Signore. Non si può capire
la misericordia salesiana senza l’esperienza personale della paziente
tenerezza divina. Non abbiamo molte testimonianze dirette
del
Lanteri, in questo periodo della sua vita, riguardo ai suoi rapporti di
amicizia spirituale con gli altri membri delle Associazioni del
Diessbach; possiamo solo supporre che fosse impegnato a vivere la
spiritualità dell’amicizia spirituale in profondità e con fervore visto
che il Diessbach lo mise ben presto a capo di esse. D’altra parte il
voto che fece il 16 luglio 1780 di impegnarsi per due anni nell’“Amitié
Chretienne”, è un forte segno di come egli fosse immerso in questa
spiritualità dell’amicizia in Dio, mentre trovava nella condivisione
fraterna dell’esperienza personale spirituale una delle sue particolari
colorazioni. Uno dei campi in cui il giovane Lanteri si impegnò
maggiormente nel combattimento spirituale fu quello delle relazioni
interpersonali improntate all’accoglienza amorosa dell’altro, vincendo
ogni chiusura, disamore e giudizio di superiorità, volta
contemporaneamente alla presentazione coerente e semplice di sé, con
l’esclusione di ogni timidezza spirituale o rispetto umano. In questa
spiritualità si veniva costruendo così una persona veramente libera e
aperta. La dipendenza del giovane chierico Lanteri
dal Santo Vescovo di Ginevra si nota anche nel suo Direttorio
Spirituale, per quanto egli dice riguardo all’importanza di
conoscere bene se stessi; infatti, tra i suoi “avvisi per non
errare nel cammino di perfezione” pone come secondo avviso il
seguente: «2°
Studiare bene la differenza fra l'appetito sensuale e ragionevole;
dividere bene distintamente se stesso in due persone che sono i due
interni irreconciliabili nemici. Quindi nasce grande luce per
combattere felicemente, scoprire la faccia del nemico, conoscere gli
atti puramente spirituali senza fare fondamento sui sensibili, perché
instabili, e con ciò cessano molte ignoranze, travagli, tristezze,
pensando molti di essere in cattivo stato perché non provano devozione
sensibile»[341]. La duale suddivisione dell’anima umana
«costituisce uno dei cardini della dottrina salesiana»[342].
Nella quarta parte della Filotea, s. Francesco di Sales parla
dell’anima come suddivisa in spirito e senso, per
imparare a distinguere il
sentire dall’acconsentire: «Quanto
alla dilettazione che può seguire la tentazione, siccome abbiamo due
parti nell'anima, una inferiore e l'altra superiore, e visto anche che
l'inferiore non sempre segue la superiore, anzi se ne mantiene
indipendente, può capitare spesso che la parte inferiore si compiaccia
nella tentazione, senza il consenso, anzi contro il gradimento della
parte superiore: è questa la lotta e la guerra descritta da S. Paolo
(cf Rm 7,14-25), quando dice che la sua carne brama
contro il suo spirito, che c'è una legge delle
membra e una dello spirito, e altre cose simili»[343]. Anche nella sua personale strategia contro
le
tentazioni (come vedremo fra poco), il Lanteri sembra dipendere dalla
Filotea, personalizzando e arricchendo l’insegnamento salesiano
con l’eccellente immagine dello “svegliatoio”. Riportiamo quindi
la seconda, tra le sue armi contro le tentazioni”: «2a
Obbligarmi a fare un atto d'amor di Dio ogni volta che mi accorgerò di
essere assalito da qualche tentazione: certo che io mi voglio servire
di te, e giacché non chiamata vieni in casa mia, farò che tu mi serva
di svegliatoio per amare il mio Signore. Perciò S. Paolo chiamava la
tentazione stimolo, perché fa correre più veloce a Dio, e così lo
strumento di morte serve da strumento di vita e miniera di meriti»[344]. Tutta la dottrina salesiana è fondata
sull’amore e così si esprime nella Filotea:
«[L’atto d’amore] è il
mezzo migliore per vincere il nemico, tanto nelle piccole tentazioni
come nelle grandi: l'amore di Dio contiene in sé tutta la perfezione di
tutte le virtù; per questo è il rimedio migliore contro tutti i vizi.
Se in tutte le tentazioni prendi l'abitudine di ricorrere per principio
a questo rimedio, non sarai più obbligata ad indagare ed esaminare di
che tentazione si tratta; ma, con tutta semplicità, quando ti sentirai
turbata, farai ricorso al rimedio sicuro che, oltretutto, è così
temibile per il maligno, il quale quando si accorge che le sue
tentazioni ci spingono all'amore di Dio, smette di tentarci»[345]. Questa spiritualità salesiana così dolce,
tenera e sovrabbondante di fiducia nella misericordia divina trovava
solidi appoggi negli scritti devozionali di s. Alfonso Maria de’
Liguori e negli scritti di s. Gertrude. E se è notoria la stima e
l’importanza che il Nostro dava agli scritti del Liguori, pochi
conoscono l’apprezzamento e il valore che egli dava a quest’ultima: «S.
Gertrude: la vita e le opere stupende per muovere la confidenza. In Dio
non è che bontà, ed in noi non altro che miseria. Fissiamo bene il
nostro sguardo in Dio e troveremo la bontà di Dio sempre propizia alla
nostra miseria; la nostra miseria sempre oggetto della divina bontà»[346].
6.5 Una spiritualità liturgica
Dagli
scritti
giovanili del Lanteri si percepisce che egli presta una forte
attenzione alla Liturgia con un notevole senso di fede e di amore. Si
preparò agli ordini sacri con una grande devozione e profondo senso
della sacralità del ministero liturgico nel quale sarebbe stato
introdotto. La
spiritualità liturgica del Lanteri ha attinto non poco dalla lettura
degli scritti di s. Gertrude, intrisi di tenerezza e partecipazione
affettiva del cuore alla preghiera liturgica e di un fortissimo senso
di unione viva con tutta la Chiesa pellegrina, purgante e trionfante,
nonché di un forte sentimento di appartenenza a questa povera umanità
per la cui salvezza si offre insieme all’offerta del Cristo. In alcuni fogli riportanti alcune massime
spirituali, frutto degli E.S. che fece nel 1782 poco prima
dell’ordinazione sacerdotale, il diacono Lanteri così scrive:
« – Pregando con pause, con enfasi il che serve per
formarsi giaculatorie. – Affectio
excitatur ab æstuatione orationis, a jucunditate ac varietate
affectuum, – S. Narciso
si
componeva tutto nel corpo, nel volto, negli occhi per l’orazione.
–
Al cospetto degli Angeli salmeggio a te, mio Dio. –
Interpolando
giaculatorie e pause. – Cunctante,
non Domine ad festinandum me adjuva. – Ridire l’Apri
Signore le mie labbra a Prima e a Vespro. – Lectio
ascetica, corona, visita ai Santi, sospiri, esami. – Nisi mihi
loquaris, eo quod delector alloquator. – In æternum
non loquar tibi: ideo præceptum.
– In virtute
obœdientiæ,
studiose, devote recitandum. –
Constitue te coram Deo et Curia Cælesti cum toto corde, affectu
laudante.
–
Mai principiar con impeto, ma con elevazione a Dio»[347]. Mostrando con questo una ricerca di
un’attenta, devota e affettuosa preghiera. Il Lanteri si propone di
celebrare l’Ufficio Divino sempre con serietà e impegno d’amore in
un’attenta mortificazione delle tendenze naturali, per ottenere le
disposizioni adeguate alla preghiera: «Recitarlo
con attenzione, devozione e confidenza, quale ambasciatore della Chiesa
per la causa dei suoi bisogni che porge suppliche dettateci da Dio, o
insegnateci dalla sua diletta Sposa»[348]. Abbiamo già parlato di come nel suo
Direttorio Spirituale il Venerabile avesse redatto un metodo per le
preghiere vocali e quindi valido anche per le preghiere liturgiche: «3a
Pregare, leggere, recitare, ma con intervalli, con sospiri, con pause,
con slanci d'affetto, con riflessioni frammezzo. Di questo modo posso
servirmi nel pregare vocalmente, nel recitare l'Officio, nel dire
Messa, nella Visita del Santissimo Sacramento, nella Lettura, fra il
giorno, massime leggendo qualche cosa di Scrittura Sacra, recitando il
Pater, l'Ave, il Credo, etc., e il tutto procurare che sia con viva
fede, speranza, carità»[349]. Era così grande l’importanza che egli dava
ad
una buona e devota celebrazione della liturgia che da diacono, volle
fare voto di essere diligente e attento nel celebrarla:
«Faccio voto a Dio
innanzi a tutta la Curia Celeste di non usare negligenza, né ammettere
distrazione pienamente volontaria nelle tre mie azioni principali della
giornata: Meditazione, Messa, Officio, e questo fino a Natale,
obbligandomi sotto la gravezza della colpa che sarà in sé, riservandomi
in mia libertà tutti i dubbi che mi possano occorrere su un tale punto,
della partecipazione»[350]. Questo voto potrebbe condurci a chiederci
se
il giovane Lanteri desse più importanza alla meditazione personale che
alla celebrazione della Liturgia, visto che nell’enumerare i tre
oggetti del voto di diligenza pone la meditazione al primo posto. Essa
viene posta al primo posto perché è la prima azione che veniva da lui
effettuata nella giornata, seguita subito dalla celebrazione della
santa Messa, per questo situata al secondo posto, mentre celebrava “le
ore piccole prima di pranzo”[351]
e il “Mattutino prima della cena”[352].
È evidente poi che nel Lanteri la meditazione è al servizio della buona
celebrazione liturgica e dell’orientamento spirituale di tutta la
giornata: «Prima avanti e dopo la messa: l'oggetto della meditazione
per strada o quid agendum […]. La meditazione può servire per
preparazione e ringraziamento della Messa»[353]. Il Lanteri pone una cura particolare
nell’attenta e devota recita della Liturgia delle Ore, con la
partecipazione di tutta la propria persona, corpo e anima:
«Notare dicendo
l'officio
certi versicoli particolari per eccitarmi e riscaldarmi la devozione.
In ogni azione esterna di culto divino comporre l'atteggiamento degli
occhi, mani, di tutto il corpo, ricordandomi che parlo a un gran Re e
tratto di grandi affari e farne l'oggetto d'esame la sera»[354]. Egli è consapevole di essere quella
“voce
della Sposa [la Chiesa] che parla allo Sposo”[355]
quando celebra la Liturgia delle Ore:
«Recitarlo
[l’Ufficio
Divino] con attenzione, devozione e confidenza, quale ambasciatore
della Chiesa per la causa dei suoi bisogni che porge suppliche
dettateci da Dio, o insegnateci dalla sua diletta Sposa»[356]. E, se tanta attenzione egli la pone nella
celebrazione della Liturgia delle Ore, molta di più ne porrà nella
celebrazione dell’Eucaristia in cui si proponeva “gravità dei
gesti, ardore nelle parole, affetto nella mente”[357].
Così scriveva da diacono nel suo Direttorio Spirituale
preparandosi alla imminente ordinazione presbiterale:
«La messa è
un'ambasceria
alla Santissima Trinità di tutto il genere umano, della Chiesa
militante, purgante, trionfante per trattare i negozi più gravi e
importanti del mondo, e il Sacerdote ne è il mediatore. La Messa
rappresenta la vita e l'ultima cena di Gesù Cristo è il suo stesso
sacrificio; se si offre con proporzionata devozione siamo assolti da
tutte le colpe, come se non le avessimo commesse. Dobbiamo immaginarci
di essere in cielo, non in terra; assistono migliaia di Angeli adorando
e avendo in pregio le mani del Sacerdote; offrire Gesù alla Santissima
Vergine»[358]. Quest’ultima frase del diacono Lanteri
“offrire Gesù alla Santissima Vergine” ci può apparire un po’
stonata in quanto il sacrificio di Gesù viene offerto al Padre, mentre
qui sembra voler affermare che venga offerto alla Madre, ma non è così.
È chiaro che per il nostro Venerabile il sacrificio di Gesù, al quale
viene associato il sacrificio dell’assemblea celebrante, è offerto al
Padre[359].
Nel brano che fra poco citeremo, riguardante la preparazione immediata
alla s. Messa, egli s’invita a riflettere sui quattro motivi per i
quali si offre al Padre il sacrificio della s. Messa (lautreutico,
eucaristico, propiziatorio, impetratorio), è evidente quindi che con
questa frase, “offrire Gesù alla Santissima Vergine”, il
Lanteri non si riferisce a Gesù in quanto immolato e offerto, la cui
immolazione e offerta è diretta assolutamente ed esclusivamente al
Padre, ma vuole intendere qui non l’offerta sacrificale, bensì la
presentazione amorosa e affettuosa del Figlio alla Madre. Rendendo
presente il Figlio nel Sacramento di cui Maria stessa un tempo si
nutrì, il Lanteri immagina di offrire, nel senso di presentare, dare,
quel Gesù Eucaristico che le sue mani consacreranno e terranno nelle
mani, a sua Madre. Si tratta di una devozione tenera e affettuosa verso
Gesù e verso Maria. Pio Bruno era tutto compenetrato
dall’importanza grandissima della s. Messa, dei suoi fini e della sua
ridondanza spirituale su tutta l’umanità. Comprendeva come il sacerdote
celebrante dovesse necessariamente impegnarsi nel proprio cammino di
santità, chiamato com’è ad associarsi intimamente all’offerta della
Vittima Divina per la salvezza dell’umanità: «Si deve avere tanta forza
d'orazione, fiducia e perfezione da poter placare Dio sdegnato contro
il mondo tutto»[360].
Riguardo alla preparazione o
“apparecchio”,
come la chiama il nostro Venerabile, alla s. Messa, scrive ancora: «Per
l'apparecchio penserò cosa va a passarsi sull'altare tra me, il Padre
eterno, e il suo Unigenito, penserò ai 4 motivi, farò 3 colloqui alle 3
persone, chiederò perdono dei miei peccati, le virtù di cui avrei
bisogno, pregherò Maria, Giuseppe a insegnarmi la maniera di trattare
con Gesù, e l'Angelo Custode ad assistermi all'altare, formerò
l'intenzione e l'applicazione della Messa. Mi vestirò attento alle
orazioni prescritte, e nell'andare all'altare, mi immaginerò di vedere
Simeone che andava in Spiritu nel Tempio per la
presentazione e circoncisione di Gesù, o mi immaginerò di vedere
qualche altro Santo fervente»[361]. È chiaro che il Lanteri per la sua
prossima
ordinazione aveva ben meditato ogni momento di quella celebrazione,
facendone oggetto di studio e di preghiera, vissuti nell’intensità del
suo amore. Riguardo al momento dell’ascolto della Parola, egli scrive: «Figurarsi
Dio che parla in una sua lettera, Parla Signore,
interrogarci di quando in quando, fermarci negli affetti».[362] Ogni gesto esteriore deve essere
accompagnato
da un atteggiamento del cuore, da una preghiera dell’anima: «Alle
genuflessioni: Dio mio, Dio mio e mio tutto. Io vi adoro Gesù, etc.».[363] È particolare nel Lanteri l’aiutarsi a
vivere
in un profondo coinvolgimento affettivo nella celebrazione eucaristica,
suscitando in sé i sentimenti più idonei al momento liturgico celebrato: «Nella
Messa: all'introito prenderò l'affetto e il cuore del pubblicano; al
Gloria quello degli Angeli; alle orazioni quello di legato;
all'Epistola e al Vangelo quello di discepolo; al Credo quello dei
Martiri; all'Oblazione quello di Melchisedec; al prefazio quello della
Corte celeste; alla consacrazione quello di Cristo; al
Pater quello di mendico; all'Agnus Dei quello di
reo; alla Comunione quello di amante; all'Ite quello di
apostolo. Il tutto con viva fede, speranza, carità, con pause, enfasi,
affetto. Nel ringraziamento Lo adorerò prostrato nel mio nulla.
Inviterò a due a due i cori degli Angeli ad adorarLo e ringraziarLo
meco. Mi partirò come spirante fuoco dall'Altare, reciterò con enfasi
il Benedicite, perché ho maggior motivo di ringraziarLo che
quei tre giovani liberati dalla fornace»[364]. Questo moto e ritmo del cuore voluto dal
Lanteri per entrare con maggiore profondità nella celebrazione
liturgica, dobbiamo leggerlo anche come un frutto particolare della sua
vita d’orazione. Infatti l’appropriazione dei sentimenti di Simeone,
del pubblicano, degli Angeli, del discepolo, dei martiri, di
Melchisedec, della corte celeste, del mendico, dell’amante,
dell’apostolo, dei tre giovani liberati dalla fornace e in
principal modo di Gesù Cristo, gli è resa facile per via del
lungo tempo che aveva passato e passava pregando la Parola secondo la
metodologia della contemplazione ignaziana nella quale si viene
introdotti nella Seconda Settimana degli E.S. e che
invita l’orante ad appropriarsi dei sentimenti dei personaggi
contemplati, in particolare dei sentimenti di Gesù Cristo che tra i
vari personaggi da contemplare è senz’altro il primo ed il più
importante. Nella preparazione immediata alla
Comunione
emerge una certa eco della sua lettura di S. Caterina da Siena: «Atto
di desiderio di riceverLo, ottenere tanto bene, incorporarsi con Lui,
annegarsi nel Suo sangue»[365].
“Annegarsi nel sangue di Gesù Cristo” è, infatti, una
espressione tipica della santa senese che è quasi un ritornello
presente in ogni sua pagina. C’è da rilevare come questa espressione si
trovi, oltre che nel suo Direttorio, ripetuta in un foglio
contemporaneo d’appunti[366]
e in un suo testo risalente all’epoca della relegazione alla Grangia
(1811-1814)[367]. Nel ringraziamento alla Comunione, poi,
emerge un’altra caratteristica dello spirito del giovane Lanteri,
quella di avere una concezione grande di Dio, libera dalle strettoie e
riduzioni dei falsi concetti che facilmente ci si forma di Lui:
«Nel ringraziamento Lo
adorerò prostrato nel mio nulla. Inviterò a due a due i cori degli
Angeli ad adorarLo e ringraziarLo meco. Chiederò profusione di grazie,
non poche, ma molte e grandi, perché le profonda da Dio, massime la
grazia di adempiere i miei voti e di praticare la virtù; quindi
pregherò per gli altri bisogni particolari e generali, massime per l'Ai[368].
Finalmente mi consacrerò tutto a Lui di corpo e di spirito, e chiederò
la sua benedizione e conferma prima di partire. Raccomanderò
particolarmente i peccatori»[369].
“Chiederò
profusione di grazie, non poche, ma molte e grandi, perché le profonda
da Dio”. Dio è grande!
Bisogna dunque avere fiducia, confidenza e immensa speranza, non
possiamo eccedere in queste virtù, anzi facilmente pecchiamo per la
mancanza o la ristrettezza di esse:
«Non si misuri Dio con
la
nostra scarsezza, immaginandoseLo quale non è, perché gli facciamo
grande torto e oltraggio, ma a nostro costo impicciolendo la Sua
misericordia, come se fosse un Uomo miserabile come io [sono]»[370].
Nella
spiritualità liturgica del Lanteri emerge con forza anche un aspetto
tipico della sua personalità: la metodicità, la cura dei dettagli
persino nelle cose apparentemente insignificanti, a maggior ragione
nell’atto della celebrazione eucaristica che è il più importante della
giornata:
«Nulla vi è
trascurato, o
lasciato al caso, o all’improvvisazione del momento. Ogni passo, ogni
minima cerimonia, ogni movimento, è studiato, misurato, predisposto, di
modo che quando si arriva a quel punto si sappia che cosa fare e come
farlo, quasi si innestasse automaticamente un ingranaggio segreto che
servisse a rendere più devota, più partecipata, più personale, più
perfetta la celebrazione»[371]. Metodica e accuratamente preparata era
anche
la sua confessione che faceva settimanalmente, come lui stesso scrisse
in mezzo ad altri svariati propositi nel suo Direttorio Spirituale:
«Propongo […] confessarmi ogni settimana»[372] e
come riporta una nota apposta in uno dei suoi fogli di appunti: «La
settimana una meditazione sull'Amitié – 2, o 3 catechismo – 3
comunione, 1 confessione e la rivista»[373].
“1 confessione[374] e la rivista”, sembra indicare che il chierico Lanteri
settimanalmente, in occasione della santa confessione, approfittando
dell’esame di coscienza propedeutico al Sacramento, facesse una
rivista della settimana per evidenziare il cammino spirituale
fatto.
Il modo con cui il Nostro si preparava a
ricevere questo Sacramento lo espone nel suo Direttorio Spirituale:
«Propongo per la Confessione di praticare il metodo infrascritto, e
pensare prima a quel che faccio»[375].
Il metodo per ben confessarsi è dato dalla prima delle quattro maniere
di orazione stilate dal chierico Lanteri al fine di servirsene «nell’esame
particolare, generale e in quello della confessione»[376]:
«1a
[Maniera
di orazione] – 1° Considerare i benefici ricevuti, 2° le ingratitudini
commesse, il male fatto, bene lasciato, o fatto male, 3° il parallelo
di essi ed eccitarsi a contrizione, pensando a cosa avresti dovuto
essere e cosa sei stato, cosa risolvi di fare presentemente, e
colloquio per chiedere soccorso per l'avvenire:
optando riguardo al tempo passato, offerendo riguardo al
presente,
obsecrando riguardo all'avvenire»[377].
Lo
schema
è praticamente quello dell’“esame generale”[378]
degli E.S. ignaziani, ma il chierico Lanteri vi aggiunge, al
fine di suscitare maggiore contrizione, la considerazione di una
qualche parabola come ad esempio quella del fico sterile (cf Lc
13,6-9)[379].
La confessione richiede massima serietà, preparazione:
«[…] avrò
l'avvertenza, quando mi confesserò, di badare a cosa vado a fare, e
confessarmi come se dovessi morire subito dopo. Avrò anche l'avvertenza
dopo confessato di ringraziare Dio, rinnovare il dolore, la protesta,
chiederGli aiuto, fare la penitenza»[380].
7.
Alcuni aspetti della vita spirituale del chierico Lanteri
Tra gli
aspetti particolari della vita spirituale del chierico Lanteri
osserveremo quelli della mortificazione, dei voti, della strategia
contro le tentazioni e della lotta al difetto predominante.
7.1
La
mortificazione
Il
giovane
chierico Lanteri faceva proprio sul serio nella relazione con il suo
Dio, sapeva quello che cercava e lo cercava con tutto se stesso,
giocando tutto per Dio, impegnandosi nel modo più assoluto e radicale
consentito nel suo stato di vita, anche con la mortificazione esterna.
Quella
interna si attuava attraverso il suo severissimo programma di impegni
che prevedeva una lotta continua all’ozio e alla dissipazione. Così si
esprimeva nel suo
Direttorio Spirituale: «Non debbo mangiare e dormire che quando e
quanto bisogna per vivere; non vivo che per gloria di Dio»[381] e perciò «via ogni
pensiero inutile»[382]. Leggiamo ancora nel suo
Direttorio Spirituale e in alcuni fogli di appunti, riguardo
alla mortificazione esterna: «Una (almeno) mortificazione la mattina,
l'altra la sera a tavola, massime il Venerdì, le altre cose, al solito,
2 volte la settimana»[383] e «una mortificazione la
mattina e la sera a tavola»[384].
Non
sappiamo cosa siano “le altre cose” da farsi “due volte la
settimana”. Molto probabilmente si tratta di quello di cui parla in
altra pagina precedente in questo stesso documento, avvalendosi di
abbreviazioni, come cosa da farsi settimanalmente e che successivamente
– facciamo presente che questo documento fu scritto dal Lanteri non di
getto, ma in diversi momenti – propone “due volte la settimana”:
«Ciascuna settimana un quarto cena, cat., brac., disc., […]»[385]. Il Frutaz, interpreta
così queste abbreviazioni: «Ciascuna settimana un quarto cena, cat.
[catenella], brac. [braccialetto], disc. [disciplina] […]»[386].
Nella
stessa pagina precedente il Lanteri parlava anche di “una
mortificazione a tavola per l'Aa”[387]
da farsi quotidianamente, probabilmente inclusa in quelle
mortificazioni di cui scrive più avanti e che abbiamo riportato sopra.
Parlando
poi delle
“armi contro le tentazioni”[388] il
giovane Lanteri nell’undicesima arma include la mortificazione:
«11a Arma
generale: orazione e mortificazione. Questa specie di demoni non si
scaccia se non con la preghiera (Mc 9,29)».[389]
7.2
I
voti del giovane Pio Bruno
Pio
Bruno
ha un grande desiderio di donazione assoluta, radicale, lo stesso
desiderio che lo aveva condotto a bussare al portone della Certosa di
Chiusa Pesio[390], e che ancora non trova
la pace nel nuovo stato di vita clericale per la ricerca ardente di
qualcosa di più. Quel qualcosa di più lo porta a fare diversi voti.
Ogni misura sembra a lui piccola per ricambiare l’amore divino che gli
brucia nel petto e lo conduce a vivere il magis[391] dell’amore autentico.
a) Il voto
di non commettere peccato veniale e il voto di essere diligente.
Alla
scuola ignaziana del p. Diessbach, Pio Bruno perfeziona il suo
desiderio di santità, di radicalità e di totalità, indirizzandolo nella
concretezza della sua vita di studente con una tensione della propria
volontà tutta tesa a realizzare quella divina in ogni più piccola
azione della giornata. Così si esprime nel suo Direttorio Spirituale: «Sono
solennemente consacrato a Dio e totalmente dedicato al suo servizio
A.M.D.G. [ad majorem Dei gloriam] dunque, non debbo mangiare e dormire
che quando e quanto bisogna per vivere; non vivo che per gloria di Dio,
dunque per questo solo, impiegare debbo le facoltà tutte dell'anima e
del corpo, e quando bisogna pensare, parlare, travagliare per Dio, dare
la stessa vita, vada tutto, accada ciò che vuole: questo si deve fare,
fuori di Dio non muoverei neppure un passo, neppure una paglia»[392].
Emerge
qui
palese la volontà determinata di vivere radicato nel “secondo modo
di umiltà” degli Esercizi ignaziani[393], come manifesta
esplicitamente in altri fogli d’appunti dell’epoca:
«Mio Dio e mio tutto.
V'amo sopra ogni cosa. Oggi sono anche destinato alla battaglia, sono
fatto spettacolo a Dio e alla Sua corte; coraggio perché stanno attenti
per soccorrermi; io incomincio a offrirVi ogni cosa; mi protesto di non
volerVi offendere neppure venialmente con deliberazione né per
negligenza né per rispetto umano, e non mi lascerò abbattere per
qualunque caduta»[394].
Il
peccato
veniale era da Pio Bruno tenuto sotto stretto controllo e tra i suoi
propositi del
Direttorio Spirituale troviamo anche quello di «far qualche volta
la meditazione del peccato veniale del P. Huby»[395].
Dentro questa tensione verso la perfezione del giovane Lanteri, va
inserita anche la sua determinazione nel mettere in pratica il
programma spirituale fissato insieme al suo direttore spirituale;
dapprima parla di “proposito” generico e, in seguito[396],
di “voto”, ristretto però alle sole tre azioni principali
quotidiane:
«Per ottenere
poi
da Dio lo spirito di perseveranza, propongo esattezza nei miei esercizi
spirituali quotidiani che sono la Meditazione, la Messa, l'Officio, la
lettura spirituale, la visita al Santissimo Sacramento, se si può, e
l'esame di coscienza»[397].
«Faccio voto a Dio
innanzi a tutta la Curia Celeste di non usare negligenza, né ammettere
distrazione pienamente volontaria nelle tre mie azioni principali della
giornata: Meditazione, Messa, Officio, e questo fino a Natale,
obbligandomi sotto la gravezza della colpa che sarà in sé, riservandomi
in mia libertà tutti i dubbi che mi possano occorrere su un tale punto»[398]. Il giovane Lanteri univa l’impegno a far
bene
con quello di non sprecare il tempo[399]: «Non
abbiamo che il presente. Il passato non è più nostro. Il futuro è
incerto, non abbiamo che il presente per acquistarci meriti certi. Solo
in questa vita si può meritare e far servizio a Dio, nell’altra non
potremo più»[400]. Oltre la partecipazione alle lezioni
universitarie, la giornata di Pio Bruno era densissima di impegni in
cui si profondeva nella tensione alla santità: «Ogni
giorno meditazione, messa, officio, lettura, esercizi, visita al
Santissimo Sacramento, studio, 6 atti di generosità, esame,
mortificazione a tavola per l'Aa. Fra il giorno pensare ai lumi,
affetti, proponimenti, occasioni di generosità, fare atti di fede,
speranza, amor di Dio, e del prossimo, fedele alle ispirazioni,
occasioni di fare del bene al prossimo. Via ogni pensiero inutile»[401]. Questo atteggiamento rimarrà costante
nella
vita del Lanteri, come attesta la testimonianza del suo ventennale
segretario, p. Loggero, che affermò di «non averlo mai visto ozioso, ma
sempre occupato utilmente»[402]. b) I voti di castità, povertà e ubbidienza. Dal Direttorio Spirituale sappiamo
che da tempo il giovane Lanteri aveva fatto voto di “perpetua
castità”, che ogni tanto veniva rinnovato: «…
per il che troppo ingrato io Gli sarei se pensassi ora a rigettare sì
bei lumi, a fare il sordo alla voce che mi chiama, a ricusare una
grazia sì grande che il Signore mi vuol fare di essere tutto Suo, e di
farmi concorrere ad assecondare gli amorosi Suoi disegni sulla salute
delle anime nostre. Pertanto, siccome io Gli ho già consacrato altra
volta il mio corpo con voto di perpetua castità, così rinnovo ora un
tale voto…»[403]. Il voto di castità e il voto di combattere
la
negligenza e le distrazioni nell’orazione non gli bastano. Egli ricerca
la donazione totale, assoluta che comporta anche l’evangelico “vendi
quello che hai e dallo ai poveri” (Mc 10,21). La scelta della povertà come
stato di vita, voto di povertà che ancora non può fare, anche se lo
desidera ardentemente. Chiede la grazia di poterlo un giorno emettere e
intanto chiede al Signore la grazia del distacco dalle cose, lo “spirito
di povertà”, scrivendo così nel suo Direttorio Spirituale: «…e
di più Gli dedico a Suo servizio le facoltà che mi ha date, desiderando
e chiedendoGli la grazia di dedicarGliele, pur anche una volta, con il
voto di povertà, e intanto Lo prego di farmene conoscere la vanità e
concedermi lo spirito di povertà, e di darmi quel disprezzo che Egli
aveva di tutte le cose mondane, e frattanto non disporrò di cosa alcuna
senza previa partecipazione e approvazione del P.[adre] D.[iessbach]»[404]. È chiaro che il suo desiderio è quello
della
consacrazione religiosa con la rinuncia totale espressa dai voti di
castità, povertà e ubbidienza. Così, infatti, continua il suo scritto: «…
Inoltre, dopo essermi raccomandato al Signore e pensatoci seriamente,
risolvo innanzi a Dio e a tutta la Corte Celeste di approfittarmi dello
stato di libertà in cui il Signore mi ha posto per darmi tutto a Lui
senza capitolazioni e riserve, per essere nel numero di coloro che
seppero dare se stessi per il nome di N. S. Gesù Cristo. E per mettere
in pratica e confermare questa mia risoluzione: “Onnipotente eterno Iddio, io P. B. benché
indegnissimo per ogni verso di apparire al tuo cospetto, fiducioso
tuttavia della tua infinita bontà e misericordia, e spinto dal
desiderio di servirti più fedelmente, faccio voto alla tua Divina
Maestà, davanti alla Santissima Vergine Maria e a tutta la Corte
Celeste, di (castità perpetua e)[405] obbedienza al Padre mio Giuseppe Nicolao
Diessbach lasciando tuttavia a lui la facoltà d'interpretare come
crede, e anche annullare questo voto. Perciò domando umilmente alla tua
immensa bontà e clemenza, che ti degni di accettare questo mio omaggio
in odore di soavità, e che come ti sei degnato di ispirare di
desiderarlo ed offrirlo, così mi accordi anche la grazia abbondante per
metterlo in pratica. Amen”»[406]. Da ogni
parola traspare il suo ardente desiderio di farsi religioso. Tutti
questi vincoli che s’impone nei voti privati non gli bastano ancora,
non sono sufficienti a soddisfare la sua brama di donazione totale e
assoluta. Sembra infatti voler fare altri voti, ma si limita a dire dei
“propongo”, forse trattenuto dal suo direttore spirituale:
«Propongo il 6 del mese di Gennaio 1782 di leggere il presente
Direttorio, fino all'Ordinazione del Sacerdozio una volta la settimana.
[…]. Propongo di non tralasciar mai la mia meditazione e farla sempre
con metodo e fedeltà. […] onde propongo per la Comunione di preparare
la sera avanti la materia della preparazione e del ringraziamento […].
Propongo per la Confessione di praticare il metodo infrascritto […].
Propongo, alla prova per un mese, di praticare ogni giorno 6 atti di
generosità e notarli, e procurar di sempre pensare, parlare, operare da
Santo, […]. Propongo di
far
ogni 15 giorni la meditazione sopra lo spirito di vero Sacerdote, […];
dirò in quel giorno il Veni Creator, e sovente l'Emitte
spiritum etc. ed esaminerò come le mie azioni dopo l'ultima
volta v'hanno corrisposto.
Propongo di
dar
tutto il tempo che potrò per formare la mia muta d'esercizi.
Propongo di promulgare
la
Devozione di Maria Vergine nelle occasioni, massime nei discorsi
pubblici…»[407]. «Propongo
oggi
pensare, parlare, operare da Santo e praticare atti di generosità…»[408].
«Propongo di non
lasciare
mai la lettura spirituale, la pratica dell'unione con Dio, l'esame di
detta virtù, e generale della giornata, e questo ogni giorno, e se
potrò, aggiungerò anche la visita del Santissimo Sacramento e
confessarmi ogni settimana.
Propongo a Natale fare
di
nuovo un giorno di ritiro (se si stimerà a proposito) per regolare di
nuovo le mie cose fino ad un altro dato tempo. Propongo
primo,
terminare le mie meditazioni degli esercizi, quindi applicarmi alla
morale per poter lavorare al più presto. Propongo di
coltivare gente per Dio, e procurare d'ispirare zelo per la gloria di
Dio […]»[409]. «…propongo
esattezza nei miei esercizi spirituali […]. Propongo di praticare in
questi esercizi particolarmente la riverenza esterna […] di questa
pratica propongo di farne l'oggetto particolare di esame la sera»[410]. Più avanti nel suo scritto dirà:
«Penso
che è per un qualche fine che Dio mi ha posto in piena libertà; n.b.
[nota bene] quest’epoca penso alla condotta, provvidenza di Dio passata
particolare per me che non posso ringraziare abbastanza[411]. 1. Maggior
inclinazione e dovere di consacrarmi tutto a servizio di Dio, per … [illegibile]
essendo così mutabile la mia volontà; per vincolarmi d'avvantaggio e
accrescere il merito, bramerei far voto del mio servizio. 2. […]. 3.
Siccome è facile sbagliare nelle
determinazioni, entrando così facilmente dappertutto l'amor proprio,
quindi nelle principali non farò niente senza la sua partecipazione e
consenso, e questo 1° per non errare, per vincolare la volontà, 2° per
partecipare del merito dell'obbedienza e del voto, giacché Dio non mi
ha sinora chiamato in Religione»[412]. “Bramerei far voto… giacché non mi ha sinora
chiamato in Religione”!
Sembra chiaro dunque il suo desiderio di farsi religioso e la speranza
che ha di essere chiamato a questo stato di vita.
7.3 Strategia contro le tentazioni
Il chierico Lanteri dedica ampio spazio
del
suo Direttorio Spirituale alla lotta contro le tentazioni. Lì
troviamo una dottrina solida, articolata e molto rasserenante su questa
lotta, a differenza del Direttorio per gli Oblati, dove non
tratta delle tentazioni come tematica a se stante, ma la include quasi
totalmente nell’impegno ascetico per vivere la virtù della castità. Pio Bruno intitola “Delle armi contro
le
tentazioni” una parte del suo Direttorio Spirituale, e
propone dodici armi a riguardo: 1. Non ci si deve mai stupire di qualunque
tentazione, anzi bisogna presupporre che ce ne siano tante «accioché
l'uomo non viva trascurato»[413]. 2. Bisogna acquistare l’arte di
approfittare
di ogni tentazione, per questo il giovane Lanteri stabilisce per sé di
obbligarsi «[…] a fare un atto d'amor di Dio ogni volta che
mi accorgerò di essere assalito da qualche tentazione: certo che io mi
voglio servire di te, e giacché non chiamata vieni in casa mia, farò
che tu mi serva di svegliatoio per amare il mio Signore. Perciò S.
Paolo chiamava la tentazione “stimolo” [cf 2Cor 12,7],
perché fa correre più veloce a Dio, e così lo strumento di morte serve
da strumento di vita e miniera di meriti»[414]. 3. L’unione alla Vergine Maria aiuta a non
cadere in tentazione. Il Lanteri manifesta qui una tenerissima
devozione Mariana fondata sulla confidenza in Lei: «Se le madri di
quaggiù cattive qualche volta, pur non sanno negare niente, che si dirà
della Gran Madre di Dio?»[415]. 4. Ravvivare la fede nella promessa di Dio
di
non lasciarci senza forze sufficienti (cf
1Cor 10,13) e saper vedere in essa una partecipazione alla
croce di Gesù e quindi ringraziare il buon Dio quando essa si fa più
forte[416]. 5. «Ricordati dei novissimi [morte –
giudizio
– paradiso – purgatorio – inferno] e non peccherai in eterno, meditarli
in tempo di pace per farne più facilmente uso in tempo di guerra»[417]. 6. Umiliarsi profondamente, rinnovare atti
di
umiltà «giacché in sostanza la tentazione altro non è che un peso
permesso da Dio per caricare il cuore vano e leggero, acciocché si
sprofondi dentro la sua miseria e ricorra per rimedio a S.D.M. [Sua
Divina Maestà]»[418].
7. «La memoria dei divini benefici»[419]. 8. «Guardarsi dalle occasioni diffidando
di
sé, riconoscendo la propria viltà e impotenza»[420].
9. «Non pigliare le tentazioni per
castighi,
ma stimarle favori e premi… Sono regalie dei suoi santi e prediletti.
[…]. S. Giacomo disse: “Fratelli miei cari, pensate pure che tutta
l'allegrezza di questa vita è posta nell'avere tentazioni” (cf
Gc 1,2)»[421].
In uno dei suoi soliti fogli di annotazioni spirituali scriveva: «Le
tentazioni saranno come ispirazioni; le ispirazioni sono come parole»[422]. 10. «Manifestare tutte le tentazioni al
Padre
Spirituale»[423].
11. «Arma generale: orazione e
mortificazione»[424]. 12. «Disprezzare il demonio, perderne
affatto
la paura, trattarlo con impero, giacché lo si assale in nome di Gesù
Cristo nostro capitano e Re», e far uso di passi della Sacra Scrittura,
«farvi atto di fede espresso e confidare tutto nella santa, efficace,
onnipotente parola di Dio, ad esempio di Gesù Cristo tentato nel
deserto»[425].
L’analisi di questa sua “strategia”
ci permette di osservare come le armi siano tratte in massima parte
dalle regole ignaziane delle Prima Settimana degli E.S.[426].
Il Lanteri amplia le strette indicazioni delle regole ignaziane
nei seguenti tre aspetti: a) nell’espressa devozione a Maria; b) nella indicazione così profonda e
rasserenante di trasformare le tentazioni in occasioni di amore e di
correre più velocemente incontro al Signore; c) nell’esaltazione positiva della
tentazione, «per perfezionare la sua virtù»[427].
7.4 La lotta al difetto predominante
Nel Direttorio Spirituale del
diacono
Lanteri traspare la bellezza di un giovane tutto proteso verso il
sacerdozio, che lotta contro se stesso, immergendosi in quella stessa
spiritualità di cui era portatore il p. Diessbach e che egli aveva
abbracciato. Tale spiritualità, profondamente ignaziana, ha uno dei
suoi punti principali nella lotta alla passione dominante, combattuta
attraverso quello che viene chiamato l’esame particolare[428].
Non manca infatti nel suo Direttorio Spirituale un accenno a
questa pratica, parlando infatti della contrizione da suscitare
nell’animo in considerazione delle colpe commesse. Egli dirà: «Di
questo modo posso servirmi nell'esame particolare, generale e in quello
della confessione»[429].
E in un altro documento contemporaneo: «Per l'esame particolare
familiarizzar con Dio, ricordarsi sovente di qualche mistero della
Passione»[430]. Tra i proponimenti del giovane studente
Pio
Bruno, troviamo anche quello di portare sempre con sé a turno, per
leggerli nei ritagli di tempo quotidiani, due classici della
spiritualità: l’“Imitazione di Cristo” di Tommaso da Kempis e il
“Combattimento Spirituale” del teatino Lorenzo Scupoli[431]:
«…
portare meco o il Gersone[432] o
lo Scupoli, e questo poco per volta finché sia compito»[433]. «[…]
portar seco Thomas a Kempis o Scupoli e fortuitamente leggerne dei capi
lente, attente»[434]. Entrambi i
testi fondano la vita spirituale nella lotta spirituale contro i propri
difetti, ma quali erano questi difetti cui Pio Bruno faceva una lotta
serrata? Abbiamo visto come egli combattesse in genere i diversi
atteggiamenti negativi, ma contemporaneamente anche impegnato in una
strenua lotta contro la propria passione predominante, come egli stesso
ci fa sapere in uno dei suoi fogli di appunti: «Ogni
giorno mi assegnerò alcuni atti esterni o interni di virtù opposta a
quel vizio che più influisce nelle mie azioni. Rifletterò che vale più
un minimo moto soppresso di quella tal principale mia passione che
l'acquisto di 100.000 mondi»[435]. Purtroppo non ci è dato sapere con
certezza
contro cosa, in primo luogo, il giovane chierico lottasse in concreto,
non avendo di questo notizia certa. Sappiamo comunque che si
rammaricava di non pregare abbastanza per vincersi. Evidentemente la
vittoria su questo difetto era chiesta dal Lanteri non solo nei vari
esami generali e particolari, ma anche nell’orazione quotidiana stessa,
secondo gli insegnamenti ignaziani della grazia da chiedere nei
preamboli[436]:
«Attendere a chiedere di più nell’orazione ciò che mi manca, e scendere
più alla pratica»[437]. Da alcuni fogli di annotazioni spirituali
previi o contemporanei alla redazione del suo Direttorio Spirituale,
sappiamo che il giovane Pio Bruno si prefiggeva tre mezzi per
realizzare la santità: la lotta contro il rispetto umano, contro lo
scoraggiamento e contro la negligenza nelle proprie pratiche di pietà.
Questi stessi campi di lotta emergono anche nel suo Direttorio. Sarà
utile analizzarli singolarmente per cercare di trovarvi le tracce di
questo difetto con cui il nostro Venerabile ingaggiò la sua acerrima
lotta. a) La lotta contro il rispetto umano.
Così descriveva il primo
obiettivo da raggiungere per realizzare la propria santificazione:
«1 – Sempre pensare, parlare e operare da santo: il mio stato lo
richiede e le ragioni che mossero i santi sussistono anche per me.
Perciò sempre apertamente e liberamente mi dichiarerò dalla parte di
Dio, mi pregierò a faccia scoperta di essere buon cristiano e vero
ministro di Dio. Se
sarò burlato e deriso dagli uomini, sarò onorato da Dio; anzi
m'intenderò di essere tenuto per grande del suo regno, giacché si degna
di pormi in capo la Sua stessa corona: mezzo ottimo, questo, per
vincere i rispetti umani»[438]. Al primo posto quindi mette l’impegno
nella
lotta contro il rispetto umano, contro la timidezza spirituale che
blocca la libertà della persona nel manifestarsi quale essa è per la
paura di essere derisa e criticata. Si tratta di raggiungere la piena
libertà di spirito nelle relazioni con gli altri, instaurando con tutti
relazioni cordiali, affabili, semplici, allegre, ma soprattutto libere,
cioè libere dalla paura di dire o fare qualcosa che possa contrariare
l’altro, manifestandosi serenamente per quello che si è, ma sempre
pronti ad accondiscendere all’altro per amore, purché venga rispettata
la verità e l’onore di Dio. Così si esprime il Lanteri nel suo
Direttorio Spirituale: «Sempre
apertamente, e liberamente dichiarato dalla parte di Dio, e come già
formalmente consacrato a Lui, tutto impegnato a rapire anime al mondo e
darle a Dio. Sempre pensare, parlare, operare da Santo: così richiede
lo spirito di vero ministro di Dio, d'Ai[439],
Cf.[440],
e le stesse ragioni che avevano i Santi. Parlare di Dio come i soldati
della guerra»[441]. E in un altro luogo specifica: «Sempre
zelante, magnanimo, libero, fedele, semplice, candido, affabile,
tranquillo, rassegnato alla volontà di Dio, ansioso di piacere a Lui
solo e guadagnarGli anime; allegro, compassionevole, condiscendente in
tutto ciò che non è offesa di Dio, mite, umile di cuore»[442]. Mirava a raggiungere quella libertà
interiore
che riconosce importante per potersi relazionare con il prossimo ed
essere per questi strumento di comunicazione della grazia: «Quindi
sempre inviolabilmente fedele a Dio e costante nei miei soliti esercizi
di pietà e a qualunque prova. Perciò: 1o anche di fronte a
qualunque persona autorevole, in qualunque circostanza o avversità,
praticherò la generosità di animo, la libertà e tranquillità di cuore»[443]. «Negli
incontri giammai avversione ad alcuno; onorare tutti; modestia; onesta
libertà; libera onestà; giovialità. Nelle conversazioni: nulla contro
Dio; cordiale, libero, modesto, dolce, docile; aprirsi con prudenza; i
vizi confessarli, mai manifestarli; con gli insolenti, nascosto; con le
libere, timorato, scoperto; con le malinconiche, alla finestra; con i
grandi, onestà, libertà, cioè rispetto, amore; maggiore però sia il
rispetto; con gli uguali, libero e rispettoso; con gli inferiori, più
libero che rispettoso»[444]. Sette volte, nella seconda nota sopra
riportata sulle relazioni sociali, il Lanteri parla del proposito di
vivere nella “libertà” o di essere “libero”. Questo è
certamente segno dell’importanza che egli dava a tale virtù, che
cercava di acquistare anche spinto dalla lettura continua dell’“Imitazione
di Cristo dove la condizione di essere “libero” è fortemente
ribadita: «O
figlio, tu devi attentamente mirare a questo, che dappertutto, e in
qualunque azione ed occupazione esterna, tu rimanga interiormente
libero e padrone di te; che le cose siano tutte sotto di te, e non tu
sotto di esse»[445]. Un altro passo significativo del suo
Direttorio mette in evidenza la preoccupazione del giovane Lanteri
di non vergognarsi del Vangelo: «Sprezzare
i timori vani, massime dicendo Messa non divenire ardito con Dio e
tremare innanzi ai vermini di terra; cercare soprattutto l'approvazione
di Dio e della Corte Celeste»[446]. Pio Bruno non voleva assolutamente che gli
succedesse di tremare “innanzi ai vermini di terra". Proprio il
suo insistere su questo punto sembra manifestare come egli, a tal
riguardo, potesse sentirsi molto debole, riconoscendolo
probabilmente come il suo tallone d’Achille. b) La negligenza nelle pratiche di pietà. Il secondo obiettivo della lotta spirituale
per raggiungere la santità è, per il giovane Lanteri, la costanza, la
fedeltà nel fare gli esercizi di pietà: «2
– Quindi sempre inviolabilmente fedele a Dio e costante nei miei soliti
esercizi di pietà e a qualunque prova. Perciò: 1o anche di
fronte a qualunque persona autorevole, in qualunque circostanza o
avversità, praticherò la generosità di animo, la libertà e tranquillità
di cuore»[447]. È quanto mai significativo il fatto che
egli,
parlando del secondo mezzo che si propone di attuare, riparli del primo:
“Perciò: 1o anche di fronte a qualunque persona autorevole……”,
quasi volesse dire che aveva la consapevolezza di essere tentato di non
svolgere la propria vita di pietà a causa del rispetto umano, di essere
cioè ridicolizzato da chi certe pratiche le riteneva da bigotti.
A questo riguardo è utile sapere come uno dei motivi per cui si
riteneva utile la segretezza delle Associazioni del circolo del
Diessbach era appunto quella di non essere presi di mira dalle critiche
altrui:
«Dopo l’unione,
niente
havvi di maggior necessità per l’Aa che la segretezza, senza di cui una
costante e lunga esperienza dimostrò non poter essa sussistere.
Radunarsi d’una maniera tutta particolare, per mettere in pratica il
bene con maggior perfezione, benché agli occhi di Dio disegno
rettissimo, pare ai prudenti del secolo parrebbe un capriccio, una
singolarità sospetta, una cosa soggetta ad esami e critiche molte…»[448]. Certamente quel clima così intriso di
giansenismo, sempre pronto a criticare un certo pietismo
popolare, rendeva particolarmente difficile la manifestazione della
propria devozione e quindi lo svolgimento sereno dei propri esercizi di
pietà. Tornando al secondo punto indicato dal
Lanteri, nella lotta spirituale e cioè la negligenza, ben conoscendo
«il carattere metodico ed esatto del Lanteri, abituato a mettere una
cura meticolosa in tutte le cose sue»[449],
verrebbe da pensare che questo non potesse rappresentare per lui
campo di lotta, in quanto egli era già metodico e diligente per sua
tendenza naturale. Il Lanteri, tuttavia, più che spontaneamente
diligente, era innanzi tutto persona molto razionale, avvezza alle
scienze matematiche, come abbiamo visto trattando del periodo della
fanciullezza e della prima adolescenza. Il metodo e la fedeltà erano
per lui i mezzi più idonei per il raggiungimento di un fine, la sua
diligenza era frutto di scelta, dell’opzione verso ciò che dà più
frutto, ciò che è migliore; è il magis di chi ama e non si
accontenta del minimo o del pressappoco, ma vuole dare e ottenere per
l’Altro il massimo: impegno massimo personale e massima gloria
all’Amato. In questo impegno per il magis si radica l’“agere
contra” (cioè l’agire in modo contrario alla pulsione che vorrebbe
spingere la persona al peccato) della spiritualità ignaziana e di quel
libricino del “Combattimento spirituale”, che il nostro
Venerabile leggeva e rileggeva di continuo. Tutta la cura e l’attenzione che emerge
nei
suoi scritti giovanili, nel continuo autocontrollo per evitare il vizio
della negligenza, denota l’importanza che egli dava alla virtù della
diligenza e della costanza nel portare avanti il programma personale di
santificazione, così come consigliato dal suo direttore spirituale. No,
il Lanteri non era spontaneamente diligente e metodico; lo era
diventato con l’aiuto della grazia divina e attraverso il suo
incessante impegno a tenersi sotto controllo. Non ci stupiremmo dunque
se un giorno scoprissimo che il difetto con cui lottò di più da giovane
chierico fosse la negligenza e l’incostanza, non perché egli fosse
negligente e incostante, ma perché molto probabilmente ne sentiva la
forza di seduzione interiore, la tentazione di cadere in tali difetti,
tentazione che seppe vincere e distruggere perfettamente. Come vedremo a suo tempo parlando delle
caratteristiche della sua direzione spirituale alle anime, questo era
un punto cui teneva moltissimo: la fedeltà e la metodicità riguardante
gli esercizi di pietà. Prima di pretenderlo dagli altri, tuttavia, il
Lanteri pretendeva questa severità da se stesso fino ad arrivare, come
abbiamo già visto, a fare voto di obbligarsi sotto pena di peccato “di
non usare negligenza, né ammettere distrazione pienamente volontaria”[450]
nel fare i tre esercizi spirituali fondamentali del suo stato di
diacono: la meditazione, la s. Messa e la celebrazione della Liturgia
delle Ore. c) La lotta contro lo scoraggiamento.
Il terzo obiettivo da
raggiungere per farsi santi, indicato dal giovane Lanteri su quei suoi
fogli d’appunti di cui parlavamo è la lotta contro lo scoraggiamento: «In
vista dei miei mancamenti non mi disanimerò mai, terrò per certo che ho
da commetterne molti e che servire Dio senza questi si fa solo in
cielo; rifletterò che se un bambino deve imparare a camminare, deve
cadere più volte, ma alzarsi subito, altrimenti non imparerà mai a
camminare; rifletterò che il sentire travaglio nel domandare a Dio
perdono di sì ripetute cadute, proviene da uno spirito fine di superbia
che non vorrebbe confondersi sì sovente davanti a S.D.M. [Sua Divina
Maestà] e riconoscere le proprie miserie, né dare a Dio la gloria di
buono e di misericordioso; mentre invece gli si dà gran gusto ed onore
col chiederGli perdono»[451]. La propensione allo scoraggiamento doveva
averlo molto provato sia per quanto riguarda il suo desiderio di
portare a termine gli studi, lottando contro una salute malferma e
un’infiammazione oftalmica che rendeva lo studio faticosissimo, sia per
quanto riguarda il suo rapporto con la propria fragilità umana. Questa
propensione era sostenuta dalla mentalità giansenistica che l’aveva
quasi conquistato e che doveva sempre premere sul suo spirito, anche
per via dell’ambiente spirituale respirato all’Università. C’è una
frase nel suo Direttorio Spirituale in cui qualcuno potrebbe
intravedere ancora in lui un influsso del giansenismo:
«Pochi
sono quelli che si salvano, onde se voglio salvarmi debbo conformarmi a
questi pochi e quando qualche cosa mi parrà difficile, se i pochi la
fanno, debbo farla anch’io se voglio salvarmi»[452].
Ma la stessa cosa viene affermata dal
nostro
Maestro quando dice:
«Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la
via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per
essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce
alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!» (Mt 7,13-14). «[…]
molti sono chiamati, ma pochi eletti
» (Mt 22,14). Non si tratta quindi di tendenza
giansenistica, quanto di seria presa di considerazione delle parole di
Gesù e della possibilità reale che ogni persona umana ha di dannarsi.
Questo pensiero non sarà in lui sorgente di scoraggiamento, perché
coniugato e immerso nella più grande considerazione della misericordia
e della bontà di Dio, come emerge potentemente in tutto il suo Direttorio
Spirituale e negli altri scritti giovanili. Sarà piuttosto
occasione di maggior impegno nella propria santificazione per portare
il maggior numero di persone alla salvezza.
Quel «si deve avere tanta forza
d’orazione,
fiducia e perfezione da poter placare Dio sdegnato contro il mondo
tutto»[453] –
che abbiamo precedentemente già riportato – ci manifesta
l’ardore dell’apostolo che tutto è disposto a fare o patire per salvare
le anime dalla dannazione, anche mettendosi «sulla bocca dell’inferno»[454],
se fosse necessario, come Pio Bruno scriverà poi in uno dei suoi soliti
foglietti datato intorno al 1792. Lo scoraggiamento poteva essere anche
provocato dal persistere delle tentazioni (abbiamo già visto
diffusamente come egli tratti della lotta contro le tentazioni con
grande cura e insistenza) e, certamente, come afferma il Calliari: «Il
pensiero della misericordia di Dio è per il giovane diacono un grande
conforto nelle tentazioni»[455]. d) Il difetto predominante. Premesso tutto questo, ora possiamo
chiederci quale fosse il difetto ritenuto dal giovane Lanteri come
predominante nella propria personalità e pertanto preso di mira
attraverso una strenua lotta spirituale: «Il
tema della tentazione ritorna spesso sotto la sua penna, ma sempre in
generale, senza mai specificare di che tentazione si tratti e quale ne
sia l’oggetto abituale. Dall’insieme si avverte che queste tentazioni,
anche se vinte, costituiscono per lui un grande fastidio che egli cerca
di superare e rendere meritorio a forza di raziocinio»[456]. È vero che non abbiamo documenti
dell’epoca
che ci indichino esplicitamente quale fosse secondo il Lanteri il suo
punto debole, ma è anche vero che abbiamo un documento il quale riporta
una sua annotazione in occasione degli E.S. del 1792 fatti
insieme al Sineo[457]
per la novena dell’Assunta, in cui parla di un difetto fondamentale in
lui, per così dire, atavico: «[…]
essendo sempre provenuti i miei difetti o dal timore d’incomodarmi o
d’essere disprezzato»[458]. Per cui possiamo presumere validamente che
anche sin da giovane studente teologo e anche prima, egli lottasse
contro questo “timore d’incomodarsi d’essere disprezzato”. A
conferma di ciò vi è una nota del Lanteri apposta in un altro foglietto
che l’annotazione d’archivio data al 1792, ma che potrebbe essere contemporaneo
al
Direttorio Spirituale[459],
in cui si legge: «Verso
il prossimo: rustico, poca compassione,
pusillanime anche per i rispetti umani, nel fare del bene, impaziente,
sensibile in cose d'antigenio e perciò piccante nel rispondere, incauto
nel parlare del prossimo. M'accuso degli scandali, bugie,
simulazioni»[460]. In cosa poté consistere in pratica questo
timore? Sembra chiaro che voglia indicare il rispetto umano, la paura
di far brutta figura, di essere criticato o deriso, quella paura che
alle volte ci blocca impedendoci di gettarci nella mischia perché c’è
il rischio del fallimento, del non essere accettato, di non essere
capito. È una sorta di accidia spirituale per cui nascondiamo i nostri
talenti, non ci impegniamo in ciò che dovremmo e che le circostanze
pongono alla nostra attenzione e sensibilità a causa di una certa
timidezza di carattere, senso di insicurezza, paura di sbagliare[461].
Tutti elementi che poi impediscono alla persona di essere libera per
darsi con pienezza di libertà e d’amore al Signore. Sappiamo dal suo Direttorio Spirituale
che scelse come virtù da conseguire (normalmente era consigliata quella
contraria alla passione dominante come insegnano s. Ignazio[462] e
lo Scupoli)[463]
la pazienza: «Sarà
familiarizzare con Dio, con Gesù Cristo, massime rappresentatomeLo
sovente paziente; indirizzerò le cose a Lui, chiederò lume da Lui e
forza, osserverò come farebbe nel caso mio, Lo pregherò del suo Spirito
nelle mie azioni, etc., noterò gli atti, li significherò al Direttore,
parlerò sovente di tale virtù e procurerò di esercitarla massime con
l'esercizio delle virtù teologali. Ne cercherò le occasioni, paragonerò
i giorni, le settimane»[464]. Il giovane Lanteri dunque cercava di
essere
paziente come Gesù e se Lo rappresentava “sovente paziente”, ma,
ci chiediamo, paziente in che senso o verso cosa? Mentre subisce i
difetti e mancanze degli altri? Mentre aspetta la nostra conversione?
Tenendo conto delle sue precarie condizioni di salute e della forte
debolezza visiva che dovevano così pesantemente incidere nel suo animo,
sempre sotto sforzo per i pesanti studi e la tensione ascetica,
possiamo pensare che mirasse a conseguire la pazienza e la calma di
Gesù nel portare la sua croce. Sempre nel Direttorio troviamo
questi altri pensieri del Lanteri: «Si
divida l'uomo in due, la parte interiore esamini le amarezze e disgusti
sensibili cagionati dalle colpe, senza avere riguardo all'uomo animale,
e conoscerà che il sentire tanto travaglio nel domandare a Dio perdono
proviene perché non si vuole confondersi alla Sua Divina Maestà, né
riconoscere le proprie miserie, né dare a Dio la gloria di buono e
misericordioso perdonatore che mai si stanca di perdonare, e così si
soffriranno con pazienza i tormenti»[465]. E ancora: «Sempre paziente con me e
diffidente di me, e tutto confidente in Dio buono»[466].
Sorge spontanea l’ipotesi che la virtù su cui focalizzava i suoi sforzi
fosse proprio la pazienza con se stesso, cioè la virtù propria
contraria allo scoraggiamento! Dunque lotta contro il rispetto umano o
contro la negligenza o contro lo scoraggiamento? Quale di questi
difetti era ritenuto dal nostro Venerabile come proprio tallone
d’Achille? È probabile che egli li avesse davanti tutti e tre
simultaneamente, se non addirittura considerati come unico nemico. Se
proprio si vuole trovare una accentuazione di peso per uno dei tre,
penso che il primo posto vada al rispetto umano. In questo caso,
potremmo vedere la diligenza nel fare gli esercizi di pietà in
relazione con la tentazione del rispetto umano. Tali esercizi possono
essere considerati proprio come lotta alla tentazione, avente i due
obiettivi:
il primo, in quanto il Lanteri si imponeva di non
provare vergogna nel manifestare la propria pietà davanti a chicchessia; il secondo, in quanto egli trovava proprio negli
esercizi di pietà la forza per vincere la propria timidezza spirituale. Ma lo scoraggiamento può essere visto
anche
in relazione al rispetto umano e all’amor proprio, nel senso che egli
era fortemente tentato di scoraggiamento a causa del ripetersi di
questa sua debolezza, che lo umiliava, dovendo presentarsi davanti a
Dio con quella
“spina nella carne” (2Cor 12,7). Dunque propendo fortemente
a ritenere che fosse proprio il rispetto umano, la timidezza
spirituale, la mancanza di libertà interiore nel relazionarsi con gli
altri, il difetto che il giovane chierico Lanteri riteneva il suo
predominante. Da combattere quindi senza sosta, con tutte le proprie
forze ed energie spirituali. Questo risulta ancora più verosimile se si
tiene conto come egli fosse membro di Associazioni quali l’Amitié
Chrêtienne e l’Aa, in cui gli associati erano
chiamati a coltivare relazioni amicali altamente profonde, che
richiedevano una grande libertà di spirito. Anche il contesto, quindi,
sollecitava il Lanteri a lavorare spiritualmente nella direzione della
libertà, e a rendersi sempre più consapevole di tutti gli impedimenti o
blocchi psicologici che gli impedivano o rendevano difficoltosa questo
cammino.
7.5 Alla scuola del Diessbach: Elia e Eliseo
Dopo tutte queste premesse possiamo ora
tentare di tratteggiare il profilo spirituale del giovane teologo
Lanteri nel compimento dei suoi studi di preparazione al sacerdozio. Seriamente provato da una salute
cagionevole
e dall’infiammazione oftalmica, dette prova di fortezza nella volontà e
profondo spirito di sacrificio. Fu studente serio con un’alta
spiritualità che andava consolidandosi su quel fondamento che aveva
gettato in lui il padre Pietro. Visse immerso completamente nella
spiritualità propostagli dal suo padre spirituale, p. Diessbach, e le
di lui Associazioni. Tale spiritualità comportava metodico e fedele
impegno nella vita spirituale alla scuola di s. Ignazio, orazione
mentale ben preparata, forte devozione mariana, lettura spirituale,
apertura e docilità al direttore spirituale, impegno apostolico
indirizzato verso l’apostolato della buona stampa e degli E.S.
ignaziani, impegno caritativo. Il tutto vissuto nel contesto di
un’amicizia profonda con agli altri chierici che condividevano con lui
questa tensione alla santità. Alla scuola delle Associazioni
diessbacchiane, Pio Bruno si radicò e maturò in una spiritualità di
fraternità e di comunione che gli permise di essere una persona capace
di intraprendere con tutti relazioni amicali e profondamente
spirituali. Le sue capacità relazionali furono ben colte dal p.
Diessbach che, nonostante la giovane età del suo figlio spirituale, lo
pose ben presto ai vertici delle sue opere apostoliche, confidando,
come poi avvenne, che avrebbe continuato a promuoverle anche dopo la
sua morte. L’incontro di Pio Bruno con il p.
Diessbach
non fu semplicemente un incontro importante che lo indirizzò nella
giusta fede e in una buona spiritualità, ma fu l’evento che determinò
tutta la vita del nostro Lanteri, il quale da quel momento dedicò tutta
la sua esistenza a realizzare quelli che erano stati i sogni apostolici
del suo amico e maestro. Mons. Ceretti[467]
non a torto paragonò i due a Elia ed Eliseo: «L’Eliseo
erede del doppio spirito di questo novello Elia zelator della gloria di
Dio»[468]. I due divennero subito intimi, o meglio i
tre
perché non si può ricordare il Lanteri e il p. Diessbach senza il p.
Virginio di cui abbiamo già parlato: «Costante
fu l’amicizia che legava il P. Diessbach, il P. Virginio ed il T.
[Teologo] Lanteri. Un solo il pensiero di tutti e tre, uno era lo
scopo, quello di servire congiuntamente Iddio e di giovare al prossimo
in quante maniere potessero. Pertanto lavoravano in comune accordo, si
davan la mano, e quello [che]
faceva uno [era] come a nome di tutti. Di che avviene esserne
impossibile sceverare le opere del Lanteri da quelle de’ suoi amici.
Anzi, per amore di verità bisogna dire che la migliore e più nobil
parte di quanto or ora verrò contando, debba attribuirsi al Diessbach e
così ne giudicavano tanto il Lanteri che il Virginio che in lui
conoscevano il loro maestro e direttore: così pure naturalmente
debb’essere, poiché quando il Lanteri fu ammesso all’amicizia del
Diessbach e del Virginio, era al quarto lustro di sua età, né aveva
ancora compiuto il corso di teologia»[469]. Dal p. Diessbach il Lanteri, ancora
studente,
imparò a diventare un buon prete, ortodosso, colto, buon pastore,
perennemente in cerca delle sue pecorelle smarrite, annunciatore della
Parola che salva e canale della misericordia e del perdono di Dio. In
particolare imparò l’arte di sospingere le anime lungo i sentieri della
santità avvalendosi degli strumenti privilegiati degli E.S.
ignaziani e dell’apostolato del buon libro. Pastore dotto e dal cuore nobile, il
Diessbach coinvolse subito strettamente il figlio spirituale nella sua
variegata opera apostolica e caritativa e oltre che indirizzarlo alla
vita delle sue Associazioni, lo volle vicino a sé nelle sue attività
apostoliche: «Al
Diessbach non si offeriva occasione in cui potesse fare del bene senza
afferrarla, e nelle sante astuzie, di cui mirabilmente sapeva giovarsi,
eragli di grande aiuto il giovane chierico. Lo conduceva dunque con sé,
e coi discorsi di pietà e di scienza che sempre facevano, tramischiava
le opere di zelo, di abnegazione e di carità, insegnando e provocando
il suo allievo a farne consimili e maggiori col tempo. […] Le case dei
privati, i pubblici alberghi, le osterie e le piazze davano abbondante
materia alle loro segrete, ma niente meno fruttuose fatiche»[470]. Ogni circostanza era occasione per dire
una
parola buona, suggerire un pensiero spirituale e mettere in mano un
buon libro. Dal Diessbach il Lanteri imparò l’arte della comunicazione:
«Spesso
parimenti [il Diessbach] conduceva con sé taluno dei suoi, ed il
Lanteri eragli frequentemente compagno nei pubblici alberghi, sotto
pretesto di pranzare, per impedire cattivi discorsi, o sparger libri
buoni, o pescare anime con qualche industria di carità»[471]. Non contento di quanto faceva e insegnava
al
suo figlio spirituale di giorno, il Diessbach conduceva con sé il
Lanteri anche in avventure di apostolato notturno: «[Il
Diessbach,] coi suoi più intimi, tra i quali era il Lanteri, […]
scorreva talora le contrade e le piazze della città per prestare
opportuni aiuti ai poveri che mai potessero incontrare senza ricovero
od altra necessità, condurli nelle proprie stanze, scaldarli, pulirli,
ristorarli, e poi catechizzarli, e disporli a ricevere i Sacramenti; od
anche per impedir altri dal mal fare»[472]. La fiducia che ebbe il p. Diessbach nel
giovane Lanteri è manifestata anche dal fatto che lo volle con sé
quando, nel febbraio del 1782, partì per Vienna, per prepararvi
l’annunciata visita del papa Pio VI. Infatti si prospettava per il
Santo Padre una visita molto dolorosa, viste le idee antipapali e
regaliste dell’allora Imperatore Giuseppe II, che ambiva stravolgere
ogni cosa in campo religioso ed ecclesiastico, meritandosi così il
titolo di “Imperatore Sagrestano”.
«Nel 1781 il
Diessbach,
sapendo che il Sommo Pontefice Pio VI aveva risoluto il suo viaggio
apostolico di Vienna, prese con sé il Lanteri e precedé il Vicario di
Cristo onde preparare i popoli alla venerazione dovutagli, e sventare
per quanto sarebbe possibile gli intrighi dei malevoli che certamente
non mancarono, come ognuno sa»[473].
Dal
racconto delle attività apostoliche di Vienna insieme al Diessbach,
emerge, nella biografia del Gastaldi, un altro elemento peculiare della
personalità spirituale del nostro Venerabile: la riservatezza e il
nascondimento, il servizio nascosto, il non apparire, l’amare di non
essere conosciuto, il far passare sotto silenzio la propria persona che
è virtù tipica della santità più elevata:
«…il Diessbach e
Brunone
in tutto quel mese che precedette l’arrivo del Sommo Pontefice sparsero
per Vienna moltissimi libri che in stile semplice e chiaro spiegassero
chi sia il Papa, le sue prerogative, la sua dignità, il rispetto in cui
deve tenersi, e l’ingiuria atroce che fa a Dio chi nella persona del
suo Vicario lo disprezza. Non si potrebbe dire quanto, e con libri e
con discorsi abbiano contribuito a ravvivare la fede de’ buoni
Viennesi, e quale sia stato il frutto delle loro fatiche: perché
Brunone sempre riservato nel parlare di ciò, da cui gli potesse venir
lode, mise sotto silenzio quello che sarebbe pure stato un guadagno il
sapere»[474]. Del
suo viaggio a Vienna il Lanteri accenna solamente in una lettera,
indirizzata presumibilmente ad un certo P. Wagner[475],
in cui scrive: «È possibile che
io
mi sia incontrato con Lei, che solo ora ho l’onore di conoscere, e che
abbia goduto di qualche suo favore quando ero a Vienna con il P.
Diessbach»[476]. E
così, alla scuola di questo grande maestro spirituale, il Lanteri formò
uno spirito totalmente immerso in Dio, con una vita di orazione e
liturgica molto alta, impegnativa, devota e sostenuta da una pari
tensione ascetica. Nello stesso tempo dimostrò una grande apertura al
mondo, alla società e ai suoi problemi, in ordine all’affermazione del
Regno di Dio. Traspare dalla lettura degli scritti giovanili del
Lanteri, unitamente ad un notevole impegno di ascesi e vita d’orazione,
una grande carica apostolica, una sete di accoglimento delle anime e di
diffusione del regno, certamente frutto della meditazione del regno[477].
Tale lettura non poté non segnare l’animo del giovane discepolo
dell’ex gesuita, da cui ricevette il carisma proprio dei membri della
Compagnia di Gesù, chiamati ad essere contemplativi in azione.
Sete di anime che traspare quando scrive:
«Cercare di far il Catechismo ai grandi […]»[478]. «Sempre
zelante, magnanimo, libero, fedele, semplice, candido, affabile,
tranquillo, rassegnato alla volontà di Dio, ansioso di piacere a Lui
solo e guadagnarGli anime […] Tutto è a mio pro e da tutto posso cavare
ragione di merito. Un grado di perfezione o di zelo di più, tante anime
guadagnate e tanto zelo di più»[479]. Il Diessbach lanciò apostolicamente il suo
discepolo prediletto: «Tale
era la scuola di perfezione e di apostolica carità, ove il chierico Pio
Brunone Lanteri si formava quell’instancabile Apostolo che poi riuscì.
E in verità, il lungo esercizio che fece [il Lanteri] di
apostoliche virtù sotto la guida, e dietro l’esempio di tanto maestro
era ben proprio per sortire perfetto maestro egli stesso, appena
giungesse a praticar da sé il sublime ministero di salvatore delle
anime. Il P. Diessbach, scoprendo in questo suo figlio ottime
disposizioni, lo prese ad educare all’apostolato con particolare
diligenza e predilezione, come il suo Beniamino, e, come vedremo,
divenne il depositario di tutti i suoi pensieri»[480]. Negli anni vissuti fianco a fianco con
questo
grande apostolo, in Lanteri andava sempre più maturando l’animo del
buon pastore che dà la vita per le sue pecorelle, va in cerca delle
smarrite, le difende dai lupi e le chiama per nome (cf Gv
10,1-18). Oltre alle opere di apostolato notturno
con i
poveri di Torino e le loro visite nei caffè e nelle taverne
della città, il Diessbach introdusse il novello sacerdote in tutta la
vastità dei suoi campi apostolici e trasmise al suo figlio spirituale,
da buon ex gesuita, il principio di discernimento apostolico del
maggior bene da promuovere: «Perché
nella scelta delle mete sia meglio raggiunto lo scopo, senza perder di
vista mai, quale regola dell'agire, il maggior servizio di Dio e il
bene universale, sembra che della vastissima vigna di Cristo nostro
Signore, a parità di condizioni (e l'osservazione vale per tutto il
seguito), deve preferirsi quella parte, dove maggiore è il bisogno,
così per la penuria di operai come per la miseria e la debolezza, in
cui versa ivi il prossimo, e per il pericolo della sua dannazione
finale. Si deve anche considerare dove, verosimilmente, saranno più
abbondanti i frutti raccolti con i mezzi usati dalla Compagnia: per
esempio, nei luoghi in cui si vedesse la porta più aperta, e la gente
fosse più disposta e più pronta a trarre profitto. Questo si deduce
dalla sua maggior devozione e desiderio (che si può in parte misurare
dall'insistenza fatta), o dalla condizione e qualità delle persone più
adatte a ricavar profitto e a conservare il frutto
raccolto a gloria di Dio nostro Signore»[481]. Per cui dal Diessbach il Lanteri imparò a: «[…]
coltivar nello spirito specialmente la nobile gioventù, come quelli
che, essendo poi negli impieghi primari dello Stato, avrebbero potuto
operare il maggior bene […]. Frequentava pure col suddetto P. Diessbach
le conversazioni di nobili case per trarre a Dio le anime di quelli che
ivi frequentavano collo spirito mondano»[482]. Il Diessbach era un finissimo
cacciatore di persone per coinvolgerle poi con impegno ed
entusiasmo nella diffusione del Regno di Dio attraverso le sue opere
apostoliche. Tra i suoi mezzi per scovarle c’era anche quello di
visitare le chiese in ore insolite; se c’era qualcuno che pregava era
buon segno di persona devota e buona, sì da essere agganciata e portata
a collaborare all’apostolato del Regno[483]. Il Lanteri studiava con il Diessbach come
realizzare quel loro forte desiderio di «amar Dio e di farLo conoscere
e amare dagli altri, di rapire anime dal mondo e darle a Dio»[484]: «Dallo
stesso Diessbach gli venne pure trasfuso, nelle ore notturne
soprattutto che passavano sovente assieme fino a oltrepassare di molto
la mezza notte, ragionando sempre di Dio e pregando e comunicandosi i
reciproci lumi dell’orazione ricavati e fortificandosi così nella buona
dottrina, gli fu, dico, trasfuso quello zelo instancabile che lo faceva
studiare dì e notte i mezzi più acconci per guadagnare più anime a Dio
e metterli tosto in pratica a fronte qualunque contrasto…»[485]. Di queste particolari ore notturne
trascorse
dal Diessbach con i suoi discepoli abbiamo l’interessante descrizione
del Biancotti nella sua relazione: «Questo
era un altro mezzo di che i tre amici [Diessbach, Virginio, Lanteri]
si servivano per santificare se stessi ed altrui. Principalmente la
sera, quando la notte avanzata li costringeva a ritirarsi dalle opere
di zelo, solevano dapprima attendere alla preghiera e alla lettura; e
poiché aveva ciascuno soddisfatto ai suoi obblighi ed alla sua
devozione, tutti e tre animati dallo stesso spirito, deludevano la
stanchezza ed il sonno per mezzo di ferventi colloqui spirituali»[486]. Di cosa parlavano in questi “ferventi
colloqui spirituali”? Gli oggetti dei discorsi erano svariati: «Alcuna
volta si animavano a vicenda all’acquisto della perfezione e
s’accendevano d’amor di Dio, discorrendo delle sue perfezioni. Altra
volta si comunicavano i pensieri che ciascuno aveva concepito, e le
industrie che lo zelo gli aveva suggerito, onde promuovere la gloria di
Dio e la salute delle anime. A tal fine se qualche buon pensiero
veniva, onde che fosse, sel notavano per proporlo poi ai compagni ed
esaminarlo insieme […]. Altre volte poi si trattava dei libri, qual
cosa di buono contenesse questo, qual cosa contenesse quello, come
giovarsi dell’uno o dell’altro, qual penna potrebbe impiegarvisi con
successo. Vi sarebbe su questa o quella materia libro adatto?
Potrebbesi presto avere? Potrebbesi tradurre o ristampare? E di tutto
si prendeva memoria per pensarvi meglio ovvero per averne la
risoluzione pronta all’uopo e non lasciar che fuggisse l’occasione di
compiere il progetto»[487]. Da queste notti tra intimi amici nascerà
l’idea delle conferenze spirituali al clero, non un clero generico, ma
particolarmente predisposto a ricevere un messaggio di radicalità
spirituale e zelo apostolico: «Divisi poi i tre amici, ciascuno divenne
promotore di simili conferenze»[488]. Era proprio in queste notti passate nel
dialogo spirituale che il Diessbach formava il cuore dei suoi discepoli
indirizzandoli verso una forte spiritualità che ricalcava le linee
portanti già tracciate nella soppressa Compagnia di Gesù, con l’unica
esclusione della vita comune: «Questi
preti
[coinvolti dal Diessbach nelle sue Associazioni], che in apparenza
erano separati e vivevano nelle proprie case, erano legatissimi d’animo
e di metodo di vita»[489]. Il Diessbach trovò nel Lanteri l’erede a
cui
trasmettere questo suo carisma di formatore di cuori sacerdotali:
«[…]
quello, in cui il P. Lanteri secondò a maraviglia i progetti del
Diessbach si fu nel formare dei giovani sacerdoti secondo la perfezione
religiosa, sebbene punto non comparissero al di fuori»[490]. È interessante questa testimonianza del
Bresciani[491]
perché parla chiaramente della futura opera del Lanteri volta a formare
preti alla “perfezione religiosa”. Ritorna qui quanto già detto
sul desiderio del giovane Lanteri di farsi religioso, già alla Certosa,
ma anche durante i suoi studi teologici come abbiamo ampiamente
scritto. Quella sete di assoluto e di radicalità
evangelica che il giovane Lanteri pensava soddisfare rinchiudendosi
nella solitudine della Certosa, trovò una nuova realizzazione nella
spiritualità del suo maestro. Gli si aprivano i vasti orizzonti
dell’universalità del mondo con le sue contraddizioni di tenebre e di
luce, di bene e di male. Finalmente Pio Bruno scopre la sua vera
vocazione, ossia combattere gli errori, le tenebre, i mali del mondo
per portare nel mondo la verità, la luce e l’amore di Dio. È
disponibile ad impegnarsi con tutte le proprie forze, a farsi
trascinatore di tanti verso il bene, pronto a tutto perché si salvino
il maggior numero possibile di persone, continuamente assillato dalla
sete delle anime da conquistare a Dio. A Torino, in altre parole, sotto
la guida del p. Diessbach, nel Lanteri si forma l’animo dell’apostolo,
del missionario chiamato all’evangelizzazione non semplicemente di un
luogo o di una città o di una comunità, ma del mondo intero. Questa apertura all’universalità ereditata
dal Diessbach è frutto della spiritualità profondamente cattolica
dell’ex gesuita, cattolica sia nel senso dell’apertura universale della
missione, sia nel senso dell’assoluta fedeltà alla dottrina cattolica
ed al garante di essa, il Santo Padre. L’aspetto dell’universalità missionaria
sarà
caratteristica della personalità spirituale del Lanteri in tutta la sua
vita, e quantunque non emerga esplicitamente dai suoi scritti
giovanili, ne sono un chiaro e palese segno la sua appartenenza alle
Associazioni del circolo del Diessbach e l’apostolato svolto con il
maestro, in specialissimo modo quello a Vienna. Un’annotazione importante riguardo al
viaggio
apostolico a Vienna con il Diessbach, è che esso si svolse
nell’imminenza della sua ordinazione sacerdotale. Il diacono Lanteri
lasciò, infatti, il Diessbach a Vienna da solo e tornò a Torino verso
la fine dell’aprile del 1782[492].
Non poteva esserci per lui una preparazione migliore e più
significativa a questo giorno, che una missione apostolica di tale
portata, in difesa della Sede Apostolica. A Torino, poi, penserà il P.
Virginio alla sua preparazione immediata all’ordinazione sacerdotale: «L’ordinazione
ebbe luogo il 25 maggio, sabato delle quattro tempora di Pentecoste
nella chiesa intitolata all’Immacolata Concezione di Maria Santissima
annessa al palazzo arcivescovile. Celebrante era lo stesso arcivescovo
Monsignor Vittorio Gaetano Baldassare Costa dei Conti di Arignano
(1727-1796), che nel 1789 sarà creato Cardinale da Pio VI. Il giorno
prescelto, 25 maggio, era dedicato alla memoria di un grande papa,
martire della causa cattolica, san Gregorio VII, il forte Ildebrando:
coincidenza casuale, forse, che tuttavia non mancò di impressionare e
di rallegrare il giovane Lanteri […] era presente anche il dottor
Pietro Lanteri. Egli vedeva in quel momento coronati non soltanto i
voti del figlio, ma anche il suo stesso desiderio più vivo coltivato
nel cuore per cinque anni»[493]. Quasi due mesi dopo l’ordinazione, il 13
luglio 1782, si concludeva anche il cammino degli studi universitari
del Lanteri con il conseguimento della laurea in teologia, summa
cum laude[494],
nonostante i gravi disagi che ne avevano contrassegnato il suo cammino
universitario, come ricorda il Ferrero: «[…]
avendo distrutto la sua vista, dovette pigliar i gradi per le orecchie,
come diceva scherzando, cioè coll’ascoltar chi leggesse, eppur fece una
laurea onorevolissima»[495]. Il Gastaldi ci tiene a precisare che il
Lanteri conseguì il titolo di “teologo” o di “maestro di
divinità”, come allora anche si diceva, non per ambizione
personale, ma per «meglio promuovere la gloria di Dio»[496]:
«[…]
come gli onori anche in faccia agli uomini quando siano presi in quella
misura e con quel delicato riguardo che è loro dovuto, possono essere,
ed il sono infatti, aiuto e scala a far del bene»[497].
1782-1798 25
maggio 1782 13 luglio 1782 31
ottobre 1784 22 ottobre 1785 1789 1796 22 dicembre 1798 Riceve il sacerdozio
presbiterale Poiché il Diessbach rimase a
Vienna, il Lanteri prende il suo posto
a capo di tutte le sue opere torinesi Si laurea in Teologia Muore il dottor Pietro
Lanteri, padre di Pio Bruno Consegue la patente di
Confessore Rivoluzione Francese Inizia l’occupazione francese
del Piemonte e dell’Italia Morte del Diessbach
1. Il
contesto globale del tempo
Nel cuore
del
periodo che abbiamo preso in considerazione vi è lo sconvolgimento
storico della Rivoluzione Francese (1789) che avrà le sue fortissime
risonanze nel contesto storico piemontese prima ancora dell’occupazione
delle truppe francesi. Gli Amici Cristiani in particolare
seguivano con grande apprensione lo sviluppo delle vicende d’oltralpe[498]. Prova ne è ad esempio
il Virginio, che già dal 1786 si era trasferito a Parigi con il compito
di fondare e avviare una sezione dell’Amitié Chrêtienne, compito
che assolse egregiamente. Nella sua brevissima vita l’Amitié
Chrêtienne parigina dimostrò una grandissima vitalità[499] fino al 1792, quando
cessò di esistere in seguito allo scatenarsi della persecuzione cruenta
che costò la vita anche a diversi Amici[500];
il Virginio riuscì a fuggire a Torino, e da lì si trasferì a Vienna
dove divenne, alla morte del Diessbach, il direttore della locale Amitié
Chrêtienne. Nel 1796
appare
sul palcoscenico del mondo europeo Napoleone Buonaparte, giovane
generale sconosciuto, di origine corsa, che veniva nominato capo
dell’armata francese d’Italia. Nell’aprile di quello stesso anno
costringeva il re di Sardegna e Piemonte, Vittorio Amedeo III,
all’armistizio di Cherasco, con cui il Piemonte cedeva alla Francia le
piazzeforti di Cuneo – che ricordiamo essere la città natale del nostro
Lanteri – e di Tortona. Dall’armistizio si passò al trattato di pace di
Parigi del 15 maggio seguente con cui la Francia, tra l’altro, si
annetteva i territori di Nizza e della Savoia. Tutto questo
non poteva non generare paura e apprensione a Torino e nel cuore di Pio
Bruno, sempre attento a quanto succedeva nel mondo, informato com’era
degli avvenimenti attraverso la lettura assidua delle varie Gazzette.
Tali avvenimenti erano poi anche oggetto di riflessione e di dialogo
nelle adunanze delle
Amicizie torinesi che egli stesso dirigeva[501].
Le crudeltà del terrore rivoluzionario si prospettavano ormai imminenti
anche per il Piemonte, nonostante le rassicuranti parole dei vari
proclami che i francesi avevano cura di diffondere fra le popolazioni
per tranquillizzarle[502]. Tutto questo non poteva
non portare in fibrillazione le Amicizie e il Lanteri con esse[503]. Durante
questi
travagliati anni il Lanteri subì anche tre duri colpi che dovettero
provocargli non poca afflizione d’animo: la defezione dalla vita
religiosa dei suoi due fratelli (Giuseppe, fratello maggiore,
francescano conventuale fino probabilmente al 1798; e Giuseppe Tommaso,
fratello minore, barnabita, che rimase in religione probabilmente fino
al 1796-1798) e anche del cugino Agostino Eula, agostiniano fino al
1796. Nessuno dei primi biografi del Lanteri ci parla di questo, forse
per un certo senso di delicatezza nei confronti della famiglia del
Lanteri, che non si voleva infangare con questo ricordo[504].
2.
Dall’Ordinazione alla patente di Confessore (1782-1785)
I primissimi anni di Lanteri prete, furono
caratterizzati in particolare da queste quattro circostanze storiche
che ebbero ad incidere profondamente nel suo animo: la direzione delle
opere del Diessbach a Torino, la morte di suo padre, Pietro Lanteri, lo
studio della morale per il conseguimento della patente di Confessore,
lo studio e l’approfondimento degli E.S. di S. Ignazio. 2.1
Direttore
delle opere del Diessbach in Torino Il Lanteri,
che
era già fortemente introdotto come chierico nella organizzazione delle
Associazioni del circolo del Diessbach, con l’ordinazione sacerdotale
ne divenne dirigente a pieno titolo, trovandosi ben presto a capo di
tutta l’organizzazione apostolica del suo padre spirituale e maestro in
Torino. Il passaggio delle redini al giovane prete Lanteri si rese
necessario in quanto il Virginio che era già da tre anni sacerdote e
braccio destro del Diessbach, si trovava spesso assente dalla città,
dovendosi occupare delle relazioni con le Associazioni del Diessbach
fuori Torino e della loro promozione. Il Diessbach stesso era rimasto a
Vienna per promuovere le sue Associazioni, dopo il loro comune
apostolato in occasione della visita del Santo Padre Pio VI. Si
necessitava, dunque, di qualcuno che sostituisse il Diessbach nella
direzione delle sue opere nella capitale piemontese, soprattutto quando
nel 1786 il Virginio si trasferì a Parigi per fondarvi una sede locale
dell’Amicizia Cristiana. E chi altro poteva essere costui, se
non il suo “Beniamino”[505]? È vero
comunque
che il Diessbach continuava a venire a Torino, pur operando
prevalentemente in Austria, e continuò quindi fino alla morte a
dirigere l’operato del Lanteri e a guidarlo spiritualmente per mezzo
delle sue visite[506] e della corrispondenza,
come ci riporta il Ceretti:
«Il Lanteri lasciato
in
Torino, a continuare da solo le opere del suo Maestro, si giovava però
dei suoi consigli, trattenendo con lui un continuo carteggio»[507].
C’è da dire
anche che, pur essendo il Diessbach l’indiscusso direttore delle sue
Associazioni torinesi, egli le aveva dirette sin dall’inizio
coinvolgendo nelle decisioni il Virginio e quindi il Lanteri, come fa
notare bene il Calliari:
«Prima di allora la
cosa
si era presentata per lui molto più facile in quanto il lavoro
direzionale era stato condotto in una forma che potremmo chiamare
collegiale, basata sul trinomio Diessbach-Virginio-Lanteri. Tale forma
la si troverà anche in seguito, finché Diessbach e Virginio saranno in
vita, tanto che non è sempre facile al biografo distinguere con
esattezza quello che si deve ascrivere a uno o all’altro di questi tre
e quello che è opera collegiale di tutti e tre»[508].
Come
infatti ci riporta il Biancotti: «Costante fu
l’amicizia che legava il P. Diessbach, il P. Virginio ed il T.[teologo]
Lanteri. Un solo era il pensiero di tutti e tre […]. Pertanto
lavoravano di comune accordo, si davan la mano, e quello [che] faceva
uno [era] come in nome di tutti. Di che avviene essere impossibile
sceverare le opere del Lanteri da quelle de’ suoi amici. Anzi, per
amore di verità, bisogna dire che la migliore e più nobil parte di
quanto or ora verrò contando, debba attribuirsi al Diessbach e così ne
giudicavano tanto il Lanteri che il Virginio»[509].
Quanto il Lanteri fosse assorbito dal
lavoro apostolico delle Associazioni del Diessbach, viene
particolarmente manifestato durante la malattia del padre, che causò
una sua prolungata e imprevista permanenza a Cuneo:
«Il medico
Pietro
Lanteri nel 1784 aveva 63 anni […]. Dopo la partenza del figlio Tommaso[510]
entrato nei Barnabiti, viveva solo con la figlia Maria Angelica,
confortato di tanto in tanto, ma per pochi giorni dal figlio teologo
dimorante in Torino
[Pio Bruno] […]. Però nell’estate del 1784 la permanenza del
Venerabile a Cuneo dovette per forza di cose essere prolungata a tre
mesi e più»[511].
Durante questo soggiorno, il Lanteri
scrisse una lettera ad un non identificato amico in cui si dilunga
nell’esporre molte faccende che stava portando avanti e che la malattia
del padre impediva di seguire. Questa lettera è particolarmente
interessante per capire quanto fosse importante e pieno di
responsabilità l’inserimento del Lanteri nelle Associazioni del
Diessbach, il Calliari così la introduce:
«È
cronologicamente
la
prima lettera che è conservata del Lanteri, allora di 25 anni. La
lettera è scritta dalla mano del Lanteri, ma non ha indicazione del
destinatario. Anche se la lettera è stata scritta in circostanze
dolorose per il Lanteri, allora al letto del padre morente, ci fa
vedere tuttavia il suo continuo interessamento per le opere che aveva
lasciate a Torino e che aspettava di riprendere quanto prima.
Le lettere del
Lanteri,
in questo primo periodo devono essere state molte, ma solo pochissime
ci sono pervenute. Evidentemente sono state distrutte appositamente
quelle che potevano in qualche modo comprometterlo davanti alla polizia
napoleonica. Questa lettera si è salvata, ma è in parte mutila, perché
il testo presenta visibilmente dei ritagli dove c'era A.C. e A.S.,
ossia Amicizia Cristiana e Amicizia Sacerdotale (almeno così si pensa).
Nell'impossibilità di poter indicare con precisione la sigla usata
volta per volta dal Lanteri, le lacune saranno indicate con dei puntini»[512]. Riportiamo, di seguito, parte del testo
della
lettera:
«Quantunque io non
abbia
speranza alcuna umana del mio ritorno a Torino (giacché se mio Padre
continua in tale stato, mi è affatto impossibile), pure io spero
fortemente nel S. Cuore di Gesù, e particolarmente spero nella prossima
novena di S. Teresa, in cui farò anche pregare da altri per tale
intenzione, il Signore ha mille mezzi a noi ignoti per trarmi da ogni
difficoltà, se tale sarà la sua santissima volontà. Ma siccome conviene
provvedere le cose anche secondo le leggi della prudenza, perciò
conviene che P.D. [Padre Diessbach] e V.S. esaminino lo stato futuro
delle cose in caso di mia assenza, moralmente certa, parlando
umanamente, e quindi pensino a provvedervi: perché S.G. [Saint-Georges[513]]
dovendo prender la licenza, e quindi attendere più di proposito agli
studi, non sarà il caso d'attendere a tutte le cose agibili dell' […],
e quand'anche avesse il tempo, non so se sarebbe abbastanza al fatto
delle cose, inoltre l'[…] correrebbe rischio, perché S.G.
[Saint-Georges]
per la detta ragione non può comporre, come neppure Botta[514],
il T.S. [Teologo Sineo[515]]
neppure può fare lo stesso, come abbiamo già sperimentato, né vi
sarebbero altri, perché dei Filippini non si può farne caso, sicché non
vi sarebbe che l'[…], che nonostante, spero continuerà a fiorire: da
questo, e da altre ragioni che essi prevederanno meglio di me, ne
verrebbe per conseguenza che vi sarebbe necessaria la persona di V.
[Virginio]. Pure per altra parte, capisco che V. [Virginio] dovrebbe
rimanere costì per l'[…]; dovrebbe anche recarsi a M. [Milano] per
l'[…]. Essi esaminino, decidano, ma spero che il S. Cuore di Gesù, e S.
Teresa spianeranno ogni cosa; quanto a me dispongano, decidano, che io
sono pronto ad ogni cosa per l'[…], quand'anche dovessi andare […]. Non
è molto che ho ricevuto lettera da Torti[516],
mi diede nuove della futura […] che si spera, mi significa pure che ha
ancora ricevuto i libri. Ho scritto in seguito a Peyla[517]
che mi risponde essere essi sicuramente giunti alla loro destinazione,
non v'è altro se non che gli scriva a chi sono stati indirizzati dal
Sig. Peyla, perché li ripeta da essi. Mi rallegro pure dell'Aa che V.
[ostra] S.[ignoria] introduce costì»[518].
In questa situazione difficile e
complicata si manifesta la sua fiducia nella protezione e intercessione
di s. Teresa, e la misericordia provvidente del Cuore di Gesù.
2.2
La
morte del dottor Pietro Lanteri, avvenuta il 31 ottobre 1784
Pio Bruno stesso ci parla della sua
permanenza accanto al padre malato in una sua lettera ad una persona
amica non nominata:
«… avendo io sempre
avuto
occasione di visitarlo più volte al giorno, né avendovi mai rilevato
mutazione sostanziale da tre mesi che si trova detenuto a letto per tal
incomodo, non ostante i fortissimi rimedi che si son già applicati»[519]. Così poi Pio Bruno annunziò ad un non
identificato amico prete la morte del padre chiedendo un suo ricordo
nella s. Messa: «Amico Car.mo Ho perduto
il
mio povero Padre domenica scorsa, lo raccomando nei S.S.S. [Suoi Santi
Sacrifici]»[520].
Conoscendo il forte legame che il nostro Venerabile aveva con il
padre,
possiamo ben immaginare lo strazio del suo cuore per la sua dipartita,
che ebbe oltre tutto la conseguenza di catapultare il giovane teologo
nell’angustiante mondo dell’economia, dovendo ora lui amministrare la
cospicua eredità paterna di cui era l’erede universale:
«Tutto questo [la
grande
carità che Pietro Lanteri aveva avuto verso i poveri da lui assistiti],
e massimamente l’essere lui sempre vissuto da buon cristiano e morto
d’una maniera edificante, munito dei santi Sacramenti, temperava non
poco il dolore che la morte di un sì caro padre doveva recare al
giovane sacerdote Brunone; ma pur lo sentì vivissimo e cocente. E tanto
più perché egli diveniva capo di casa con mille piccoli e grandi
interessi temporali da aggiustare, rivedere, e conchiudere; e le noie,
i dispiaceri senza numero che provengono sempre da tali faccende»[521]. Dalla stessa lettera all’amico sacerdote
in
cui lo informava del lutto, sappiamo che egli chiese il consiglio del
Diessbach per le nuove circostanze, confi-dandogli che egli aveva un
piano su come organizzare le cose, non condiviso però da sua sorella
Maria Angelica:
«… Ho tutto a mio
dosso,
perché è morto, sento, testé: pensi che peso mi tocca. Non so cosa
riuscirò di fare a cagione della sorella che non potrò volgere a mio
modo. P. D. [Padre Diessbach] mi dia alcuni punti di vista, non cerco
che la volontà di Dio: mi aiutino con la loro preghiera O.P.V.
[522]
Cuneo 2 novembre
[1784].
Lanteri»[523]. Dal
Biancotti sappiamo che riuscì a tornare ben presto a Torino
nominando un curatore dei suoi beni:
«… appena assestati
gli
affari più urgenti egli [il Lanteri], per non sospendere troppo a lungo
le sue più dilette occupazioni passò procura generale ad un suo cugino
il sacerdote Pietro De Medici e lo pregò volesse a nome suo aggiustare
alcuni affari temporali che sopravvenivano a Briga, e per gli affari
che occorrevano in Cuneo ne incaricò qualche suo parente, ed egli ratto
si recò in Torino»[524].
2.3
Lo studio della Teologia Morale
Il Lanteri
dovette studiare ancora tre anni sistematicamente la teologia morale –
com’era uso a quei tempi – per conseguire la patente di confessore che
otterrà il 22 ottobre 1785[525]:
«La patente di
confessore
non fu per il Lanteri un documento in più da aggiungere alle sue carte
personali, o un titulus sine re[526],
o una qualifica inutile o di puro valore nominale. Il Lanteri fu
sempre, durante tutta la sua vita, un confessore assiduo, zelante,
molto ricercato da tutte le categorie di persone. Nei quarantacinque
anni che decorrono dal 1785, quando fu abilitato la prima volta alle
confessioni, fino alla sua morte, pochi furono i giorni in cui egli
mancò a questo servizio, tanto necessario e fruttuoso quanto faticoso
ed estenuante»[527].
C’è da
rilevare che lo studio personale della morale sarà sempre presente
nella vita del Lanteri, impegno che lascerà in eredità ai suoi Oblati
di Maria Vergine:
«Lo studio, dopo
l'orazione, formerà il principale oggetto che sia a cuore agli Oblati
di Maria, perché così esige il servizio di Dio, l'onore ed il vantaggio
della Chiesa e il dovere del proprio stato, sapendo che, senza
dottrina, l'Ecclesiastico si rende inabile ed indegno per un tanto
ministero, giusta la minaccia fatta dal Signore, e nocivo agli altri,
per il danno che cagiona, poiché se un cieco conduce un altro cieco
cadono entrambi nella fossa (Mt 15, 14); ed a se stesso, per la
rigorosa rendita di conto dei talenti abusati e tenuti oziosi (Mt 25).
[…] Il soggetto poi del loro studio sarà la Teologia dogmatica, morale
e polemica, tutto con il debito fine, modo e tempo»[528].
Da buon
discepolo del Diessbach, il maestro di morale del Lanteri fu senz’altro
il Liguori.
2.4
Lo studio e l’approfondimento personale
degli ignaziani
In questi primi anni del suo sacerdozio,
il
Lanteri studiò e approfondì maggiormente gli E.S. di s. Ignazio
divenendone ben presto eccellente maestro. Al novello sacerdote non
mancarono allettanti offerte di canonicati e pingui benefici, in quanto
laureatosi a pieni voti e appartenente a una famiglia di aderenze
altolocate. Ma Pio Bruno le rifiutò tutte, come ricorda il Ferrero:
«Ordinato poi
Sacerdote dall’Arcivescovo di Torino nella cui Diocesi stabilì d’allora
in poi la sua dimora, rifiutati gli onori e comodi canonicati e pingui
benefizi che gli si offrivano»[529]. Il Gastaldi
motiva
il rifiuto di queste offerte con la considerazione che Pio Bruno, di
fatto molto ricco e già desideroso di spogliarsi dei suoi beni, non
desiderava averne altri per «essere sciolto da ogni legame che lo
impedisce nelle mire affatto speciali che aveva di fare il bene»[530]. Egli ci dà anche
un’indicazione concreta di alcune offerte ricevute:
«Per questi motivi
ancora
dicesi aver ricusato la carica di istitutore del figlio del duca di
Modena e, più tardi, quello di bibliotecario della biblioteca ducale»[531]. Ma più che per i motivi ipotizzati dal
Gastaldi, il Lanteri molto probabilmente rinunciò a queste offerte
perché gli avrebbero impedito di svolgere quel lavoro dirigenziale di
cui era stato investito, nelle Associazioni del circolo del Diessbach.
Compito che era diventato particolarmente gravoso per via dell’assenza
del Diessbach da Torino. Il suo impegno ai vertici dell’Amicizia
Sacerdotale porterà il nostro Venerabile ad un approfondimento
degli E.S. ignaziani che formavano il cuore della spiritualità
e del carisma di questa Associazione. Se il
Diessbach
affidò la dirigenza dell’Amicizia Sacerdotale al Lanteri era,
appunto, perché aveva trovato in questo suo discepolo e figlio
spirituale una particolare, se non meglio “eccezionale”,
sensibilità a riguardo degli
E.S. che, certamente, fece ripetutamente sotto la sua direzione,
assimilandone così lo spirito (come abbiamo ben visto attraverso le
numerose citazioni tratte dal suo Direttorio Spirituale). Di questo
periodo della sua vita ci sono pervenute alcune note personali da lui
redatte durante un corso di E.S., datate al 1788[532]:
«Il corso deve essere
stato fatto privatamente, senza predicatore, con la guida di autori
appropriati. Sono citati tra parentesi quattro autori gesuiti, Bellecio[533],
Le Gaudier[534],
Neumayr[535],
Bourdaloue[536],
autori che sappiamo anche da altre fonti essere stati sempre molto
familiari al Lanteri»[537]. Il Curatore
dell’edizione degli Scritti del P. Lanteri è di diverso parere
e propende per una probabile loro datazione al 1781-1782, quando fece
gli
Esercizi da diacono e scrisse il suo Direttorio Spirituale:
«Il richiamo che egli
fa
nella prima e seconda istruzione dell'ottavo giorno “Massime per il
regolamento” che poi nell'interno scritto non ci sono, fa pensare che
questi esercizi siano quelli fatti da diacono»[538]. In ogni caso
è
certo che si tratta di documenti non posteriori agli anni 1781-88, con
un Lanteri che al massimo aveva l’età di 29 anni. In questi appunti
appare l’uso, da parte sua, di denominare ciascun giorno degli E.S.
con un titolo particolare atto ad accendere il fervore
dell’esercitante. Molto probabilmente tale uso il Venerabile lo mutuò
dal Neumayr[539]. La vita
spirituale del Lanteri nei primissimi anni del suo ministero
presbiterale si svolse in piena continuità con quella che lo aveva
formato e condotto al sacerdozio. Di questo periodo non ci sono
pervenuti molti scritti, ma quei pochi sono sufficienti a comprendere
come la sua vita spirituale continuasse imperterrita nella sua
altissima tensione verso la santità su quella linea trinitaria,
mariana, ignaziana, salesiana e liturgica che abbiamo cercato di
tracciare.
Interessante, in questi primi tempi dopo l’ordinazione, è uno
dei
suoi soliti fogli di appunti e memorie, scritti di proprio pugno, in
cui riporta «i suoi propositi e pensieri spirituali da Esercizi,
datati dalla Postulazione 1782-1783»[540].
In massima parte si tratta di riflessioni e pensieri sull’inferno.
In queste poche righe che iniziano con la frase: «Amar Dio è il
solo importante necessario affare mio».[541], si intravede nel giovane prete una
forte lotta contro tutto ciò che impedisce di amare Dio:
«Dunque in questo fine
[amare Dio] debbo tener d’ordinario la mente, fra le occupazioni non
debbo divertirla in altre, questo deve pararsi davanti la mattina,
accompagnarmi la maggior parte del dì e rubarmi il sonno. Dunque cada
il cielo, rovini il mondo, si perda la roba, l’amicizia, la
reputazione, la vita, etc. Vivere non è necessario, salvare la mia
anima è necessario. Il chiodo è fisso: Voglio, voglio salvare la
mia anima e amare il mio Dio»[542]. Lanteri non
ha
mezze misure: per lui salvarsi dalla dannazione e farsi santo sono la
stessa cosa. Sembrerebbe, infatti, da una lettura superficiale di
questo foglio, che egli vivesse nel timore di finire all’inferno, ma
non è così. Per il Lanteri la meditazione dell’inferno e la possibile
dannazione della persona umana sono in ordine all’impegno di amare Dio
al massimo. Il peccato è un’incredibile mancanza di amore:
«Come se un figlio,
nell’atto stesso suo padre amorosamente lo tien fra le braccia e lo
stringe al seno, gli sputasse ingiuriosamente sul viso, abusando per
strumenti dei suoi stessi doni gratuiti… […] è forse tutto questo minor
male che lo scannar il proprio padre, o precipitarsi a rompicollo dalla
sommità di una torre, e se mi par ridicolo pensare che io abbia una
volta di nuovo a offendere Dio»[543]. Durante un
corso di Esercizi da lui fatto tra il 1781 e il 1784, così
meditava a riguardo della dannazione come conseguenza del peccato:
«Negli Angioli pareva
che
vi fossero ragioni per scusarli, o per meglio dire, parevano più
scusabili dell’uomo, eppure quelli condanna subito, ed a questi
esibisce il perdono. Si assume Egli la soddisfazione, e questo perché
chiarissimamente comprendiamo quanto inescusabili siamo quando
pecchiamo, e quale incomprensibile grazia sia il perdonarci. Inoltre
negli Angioli ci fa comprendere cosa merita il peccato nell’altra vita,
in Adamo cosa merita in questa vita, e come per tutto questo la
giustizia di Dio non era soddisfatta se non si vedeva innanzi una
vittima infinita, sicché peccato, inferno e la passione d’un Dio sono i
tre soli oggetti proporzionati»[544].
“Peccato, inferno e la passione d’un Dio sono i tre soli oggetti
proporzionati”! In queste
poche righe il Lanteri ci manifesta come la meditazione del peccato e
delle sue conseguenze fosse in lui occasione per l’approfondimento
dell’infinito e gratuito amore con cui siamo stati amati da Dio in
Cristo Crocifisso e Risorto. Egli si riconosce salvato dall’inferno e
per questo in debito d’amore con Gesù Cristo: la meditazione
dell’inferno, non è per lui fonte di timore, ma di amor di Dio:
«Se Dio avesse voluto far
giustizia, io a quest’ora da quanti anni sarei ad ardere nell’inferno
ed soffrirvi un cumulo di tutti i mali, senza speranza d’una minima
soddisfazione e di uscirvi, e questo per sempre ora, se Dio mi
graziasse d’un’ora, d’un giorno per nuovamente recuperarmi il cielo e
scamparla da laggiù, quanto non farei? E quanto farei in quel caso,
perché non lo faccio adesso? Non vi sarà ugual ragione? Forse perché
non provai ancora cosa sia [l’] inferno? Ma se chiedo questa prova sarà
finita per me, perché lì non c’è redenzione»[545]. Dalla
meditazione dell’inferno germoglia nel cuore del Lanteri un sentimento
di grande riconoscenza verso Gesù Cristo che lo ha salvato, unito ad un
grande desiderio di patire per amor suo:
«E se l’inferno
sarebbe
di presente la mia dimora, avrò difficoltà a sopportar ora per amor del
mio Liberatore qualunque pena, contrarietà e miseria?»[546]. Fondato
nelle
verità ultime, immutabili, il Nostro ripete ancora da prete quel
pensiero che, come un ritornello, lo accompagnerà per tutta la vita,
che aveva già scritto nel suo Direttorio Spirituale[547] e conservato anche in un
altro foglio d’appunti dei suoi anni di chierico[548]:
«Le verità che ora mi
persuadono e che persuasero i santi sono sempre le stesse, né il tempo,
né la mia inconsiderazione fan perdere lor la forza, perché la verità è
una e costante, dunque come mi muovono ora, mi dovranno sempre muovere»[549].
Concludendo questo periodo della vita del Lanteri, possiamo dire che
si
situa in continuità con quello precedente, senza particolari stacchi o
salti, se non quello dell’acquisizione di una notevole maturità umana e
ministeriale conseguita anche attraverso l’amministrazione del
patrimonio ereditato dal padre e la direzione delle Associazioni
affidategli dal Diessbach. Si forma così sempre più in lui l’animo
dell’apostolo, esperto della vita umana e delle vie del Signore, sulle
quali saprà guidare i tanti che lo cercheranno.
3.
1785-1798: dalla patente
di Confessore alla morte del p. Diessbach
3.1 Le
attività apostoliche del Lanteri in questo periodo
Con la
patente di confessore il nostro Venerabile iniziò l’amministrazione del
sacramento della riconciliazione e della direzione spirituale, aspetti
che caratterizzeranno maggiormente la sua personalità apostolica e che,
giustamente, l’Antonelli, Relatore della sua Positio, pone al
primo posto tra le “Preferenze e caratteristiche dell’apostolato del
Venerabile”:
«In primo luogo è da
mettere in evidenza il ministero del confessionale, nel quale il Servo
di Dio fu sempre assiduo e al quale era solito dedicare lunghe ore,
ricercatissimo com’era quale direttore spirituale, date le sue
eccellenti qualità di maestro di spirito»[550].
Nel
seno
di questo ministero spirituale certamente un particolare risalto va
dato alla formazione e guida spirituale, che egli esercitò nei
confronti del giovane clero e dei chierici che si preparavano a
ricevere il sacerdozio, come ben ricorda ancora l’Antonelli:
«Il Lanteri ebbe la
costante preoccupazione di attirare a sé studenti di teologia e giovani
sacerdoti, per formarli ad una soda pietà e ad una cultura sana e
profonda, onde renderli capaci di un apostolato veramente fruttuoso. Le
sue cure per le due società già commemorate, l’Aa dei chierici e
l’Amicizia sacerdotale, sono espressioni di questo zelo
illuminato e ardente del Servo di Dio. A ciò si deve aggiungere la
predicazione di molti corsi di esercizi spirituali per ecclesiastici;
la fondazione del Convitto ecclesiastico di Torino[551]
[…]; e in particolare la direzione spirituale che lo rese padre di un
largo stuolo di sacerdoti insigni per virtù e opere di apostolato»[552].
È da
rimarcare in questo periodo anche la predicazione nelle cosiddette “fabbriche”:
«È certo che Bruno
abbia
predicato, tra il 1786 e il 1800, parecchi ritiri in quelle apposite
case che allora venivano chiamate ‘fabbriche’ e non erano altro che
ambienti attrezzati ad accogliere per qualche giorno i gruppi degli
‘esercitandi’. Durante l’occupazione francese quelle case vennero tutte
chiuse o quasi tutte»[553].
Possiamo
anche presupporre che diversi figli e figlie spirituali del padre
Diessbach passassero sotto la direzione del Lanteri già in questo
tempo, prima ancora della morte del maestro. Infatti, essendosi il
Diessbach trasferito a Vienna, non poteva più seguire i suoi figli
spirituali torinesi così come quando abitava a Torino[554]. Sappiamo da una lettera
di direzione spirituale scritta dal Lanteri, che il Diessbach stesso
indirizzava le anime a lui, per la guida e il sostegno della loro vita
spirituale:
«Dapoiché il Car.mo P.
D.
[Padre Diessbach] mi ha imposto di prendere cura dell’anima sua,
crederei di mancare al mio dovere, se ciò non lo facessi con tutto
l’interessamento possibile, con la riflessione e con le preghiere;
conosco bene l’insufficienza mia, ma mi consola il pensare che siccome
non è questa un’incombenza da me cercata, ma impostami dal mio
Superiore, per conseguenza da Dio, quindi spero che Dio pure assisterà
ambedue, e perciò non lascio di pregare per questo ogni mattina
all’Altare»[555].
Il
Gastaldi così riassume tutte le varie attività apostoliche che il
Lanteri svolgeva in questo periodo:
«[…] avvegnaché
lasciando
per ora in disparte i disturbi e la fatica che gli dovevano essere il
rispondere a tante lettere che gli erano indirizzate o per consiglio o
per conforto, l’invigilare sul buon andamento delle tre società di cui
parlammo più sopra
[l’Aa, l’Amicizia Cristiana, l’Amicizia Sacerdotale], presiedere le
adunanze e conferenze per giovani sacerdoti e de’ chierici, non perdere
mai di vista né l’opera degli esercizi e delle missioni, né quell’altra
di propagare dovunque e quanto più potesse i buoni libri, scrivere e
dettare opuscoli ed articoli quando a difendere la verità, quando a
combattere l’errore, l’essere assiduo al confessionale, e a non mai
rifiutarsi a quanti sapesse abbisognare di lui; a tutto questo egli
aggiunse il guidare nelle cose dello spirito alcuni monasteri di sacre
Vergini, ed in modo speciale quelle del SS. Crocifisso e della
Visitazione in Torino. In ogni settimana consacrava due giorni per
quelle ottime religiose»[556].
4.1
Il Confessore e Direttore Spirituale
4.1.1
Il Confessore Alla scuola del Diessbach il Lanteri fondò
la
sua teologia morale, come abbiamo già accennato, su sant’Alfonso Maria
de’ Liguori. Per comprendere meglio il Lanteri in merito, sarà
opportuno leggere quanto dicono a riguardo gli Statuti dell’Amicizia
Sacerdotale, che diresse sin da quando il Diessbach si trasferì a
Vienna. «Circa
l’amministrazione dei sacramenti i S. A [Sacerdoti Amici] non si
obbligano a seguire sentenze morali controverse, ma ognuno seguiterà il
dettame della propria coscienza, avvertendo però sempre di usare vera
prudenza e vera carità, portando un odio implacabile al peccato, ed una
paterna e dolce compassione al peccatore»[557]. Era un tempo in cui c’era in atto una
fortissima controversia nella teologia morale che era una scienza
ancora giovane, la cui distinzione dalla teologia dogmatica, anche se
da questa inevitabilmente dipendente, era cominciata dopo il Concilio
di Trento. Tre erano le principali scuole di teologia morale di questo
tempo: la domenicana, la gesuitica e l’agostiniana. Nel Settecento
nella morale si nota: «[…]
una sottovalutazione e un abbandono quasi generale della teoria e della
dottrina a tutto vantaggio della pratica e della casistica, cosicché il
moralismo aveva preso il posto della teologia morale. Di qui una
presentazione troppo legalistica della morale cristiana, un eccesso di
giuridismo […]. Il risultato pratico era un impoverimento e un
inaridimento della vita religiosa autentica. Dal moralismo, inteso in
senso stretto, al rigorismo è breve il passo»[558]. Il rigorismo giansenista provocò forti
controversie, insieme ad alcuni interventi di condanna da parte della Santa
Sede. Oltre ad esso si sviluppò anche un rigorismo mitigato[559]
che non fu mai condannato dal Magistero Ecclesiastico. Gli Amici
Sacerdoti dovevano quindi avere quella «paterna e dolce compassione
al peccatore»
[560],
che contraddistinse sempre lo stile del dialogo sacramentale con i
penitenti nel nostro Lanteri, che promuoveva e favoriva la frequenza
del Sacramento della penitenza, a quei tempi resa troppo spesso
impossibile dal rigorismo giansenista: «Essi
avvertiranno in modo speciale di non lasciarsi stringere il cuore da
que’ scrupolosi affanni, che rendono la frequenza de’ Sacramenti
moralmente impraticabile al Confessore, ed a’ penitenti»[561]. L’Amico Sacerdote doveva radicarsi
sulla linea di un’accoglienza benevola del penitente: «Circa
la Confessione: parlare dell’immensità della misericordia di Dio e come
il Signore guarda con occhio misericordioso tutti i peccatori, anche
quelli che si macchiano dei peccati più orribili e ripetuti e come
sempre pedona [chi si pente]»[562]. Inoltre, tra le cose “Utili pel
Direttore
d’A.S.” troviamo l’invito a «scrivere sui Rigoristi»[563],
«troncare dettagli inutili in Confessione»[564]
e seguire il «Liguori intero»[565].
Il Lanteri consigliava sempre a tutti, in particolare a confessori e
predicatori, il Liguori: «Attaccatevi
al Liguori, al Liguori; e soggiungeva: Se si vuol far del bene
alle anime bisogna che ci appigliamo alla dottrina di quest’autore;
bisogna rivestirci del suo spirito, se vogliamo portare anime a Dio. Oh
benedetta la dottrina di questo vescovo, e benedetto il Signore, che in
questi tempi ci diede un uomo che è tanto secondo il suo cuore»[566]. In tutta la sua vita sacerdotale il
Lanteri
fu pronto ad accogliere i penitenti sempre e comunque, anche quando il
suo stato di salute gli rendeva questo ministero molto pesante. Durante
il periodo che stiamo esaminando, troviamo alcune annotazioni
personali, relative ai suoi E.S. del 1790, riguardanti
istruzioni sul modo di accostarsi a questo Sacramento. Le note parlano
di come lui desiderava accostarsi al Sacramento in quanto penitente e
saranno utili anche a capire il Lanteri confessore. Bisogna, comunque,
sempre tener presente quanto egli aveva già scritto sulla
partecipazione alla Confessione da chierico, nel suo Direttorio
Spirituale[567].
Infatti possiamo logicamente supporre che egli abbia continuato la sua
partecipazione a questo Sacramento secondo quelle modalità prefissatesi
da diacono, tenendo conto anche del fatto ormai noto che quel Direttorio
Spirituale il Lanteri lo conservò sempre con sé rileggendolo
spesso. Intorno alla grande importanza del Sacramento della penitenza
scriveva così nel 1790: «Io
debbo concepire una grande stima di questo sacramento istituito da Gesù
Cristo per condonarmi miei peccati, essendo questo fonte perenne di
grazie. Questa grande stima non mi deve allontanare, perché così non
sarebbe secondo la volontà di Dio; ma deve fare sì che io frequenti
sovente questo sacramento con le dovute disposizioni»[568]. Interessanti sono le sue riflessioni
sull’esame di coscienza come disposizione necessaria ad una buona
Confessione: «La
prima di queste è l'esame di coscienza. In questo esame mi debbo
guardare dai due eccessi: l'uno nel farlo con poca attenzione e
diligenza, l'altro dallo starvi troppo, così che manca poi il tempo per
eccitarmi al dolore. Una cosa che io debbo fare è di entrare nel mio
cuore ed espiare le passioni più dominanti e le inclinazioni, giacché
da queste ne derivano i peccati; e però sarà più facile il ricordarmi
di ciò che ho fatto»[569]. Occorre
quindi
“entrare nel cuore”, non per semplicemente conoscerlo, vagliarlo,
esaminarlo, ma per “espiare le passioni dominanti e le
inclinazioni, giacché da queste ne derivano i peccati”! Si tratta
di un’azione diligente e profonda nell’osservazione di se stessi,
prendendo consapevolezza della propria malizia e cattiveria e
presentarla al Padre del Cielo per esserne purificati. Queste dunque le
fasi di tale osservazione attenta:
6
la presa di coscienza conoscitiva della propria malizia (in
particolare quella più profonda e inquinante, ossia la passione
dominante);
7
l’accoglienza di essa, non nel senso di giustificazione, ma nel
senso che si accetta con semplicità e vera umiltà che queste tenebre
siano le proprie, vincendo la rabbia (provocata da una certa sottile
superbia sotterranea camuffata da umiltà) per non essere stati perfetti
come si doveva;
8
il grido di aiuto al Signore, il Quale risponde attraverso la
mediazione del Sacramento. Ad una
persona
che vive questa dimensione di consapevolezza della propria interiorità
sarà poi facile svolgere l’esame di coscienza di preparazione alla
Confessione in pochissimo tempo. Accostarsi
così
al Sacramento della penitenza implica una grande forza d’animo, un
grande coraggio nel non aver paura delle proprie tenebre. Per questo
differire questo Sacramento è, per il Lanteri, segno di “codardia”: «O
mio Dio Voi sapete quante volte trascurai di accostarmi a questo
salutare sacramento per pura codardia. Quante volte mi sono accostato
senza il dovuto rispetto e le necessarie disposizioni massime
nell'esame. Non voglio più fare così. Voglio fare di questo sì prezioso
tesoro quella stima che merita, e in quel modo che merita. Mi assista
la Vostra grazia. Amen»[570]. Così, poi,
il
Lanteri si esprime a riguardo della disposizione al dolore, che deve
essere motivato dalla fede e dalla conoscenza della bontà di Dio: «Oltre
l'esame, in questo sacramento è anche necessario, più di tutto, il
dolore, il quale deve provenire dal cuore commosso per motivi di fede,
e massime dalla bontà di Dio; deve comprendere almeno tutti i peccati
mortali commessi; deve essere maggiore di quello che si proverebbe per
ogni altro sinistro accidente. Non già che sia necessaria
l'esteriorità, perché potrebbe essere che i seni venissero commossi più
da altra disgrazia, ma bensì che il dispiacere sia maggiore. Io
devo spendere più di tempo nell'eccitarmi a questo dolore che è dono
gratuito di Dio, senza il quale varrà nulla la mia confessione. Io ho
sempre fatto così? Ah, purtroppo mi sono più e più volte ingannato,
accostandomi al confessore soltanto contento di aver fatto l'esame, ed
appena fatto l'atto di contrizione!»[571]. Un dolore,
quindi, interno e profondo, ben più grande di ogni altro dispiacere
della vita, che si può raggiungere solo attraverso un’approfondita
meditazione sul peccato e le sue conseguenze. Per raggiungere così un
proponimento fattivo, forte, che cambi realmente la vita, tenendo
sempre in conto, prudentemente, la nostra fragilità e debolezza:
«Ah, Signore, quanti
inganni mi fate Voi conoscere! Vi ringrazio e vi voglio porre rimedio.
Le medesime qualità deve avere poi il proponimento, non essendo però
necessario fingersi le occasioni che si potrebbero presentare per non
lasciarsi così intimidire dal demonio»[572].
Il
tutto
vissuto con fede sincera e spirito ecclesiale:
«La confessione deve
essere accompagnata dalla sincerità, figurandoci di essere ai piedi di
Gesù Cristo ed armarci così della spada di verità e di giustizia, come
sarà Egli nel giudizio, al fine di non scusarci, spiegare tutto e
conoscerci colpevoli; quindi stare pronti ad eseguire ciò che ordinerà
il confessore ed accettare la penitenza ordinata. Questa la devo fare quale mi fu
data e quanto prima. E poiché è sempre minore di quanto io meriterei,
offrirò a Dio in soddisfazione tutto quanto mi occorrerà patire,
soffrendolo con pazienza e rassegnazione per questo fine. E procurerò
di profittare del tesoro della Chiesa, di acquistare cioè le
indulgenze. Questo è quanto debbo e prometto di fare nella nuova vita
che io voglio con la vostra grazia, o Signore, intraprendere. Amen»[573].
In
questi Esercizi
del
1790,
dopo l’istruzione sul Sacramento della
penitenza, il Venerabile meditò sulla parabola del figliol
prodigo, o meglio, del padre buono. Vale
la pena, vista la pregnanza spirituale, di riportare per intero le
sue considerazioni:
«Finora ho meditato i severi giudizi di Dio, i
quali mi debbono fare concepire un santo timore, principio della vera
sapienza, e mi devono condurre a Dio. Ma non mi devono troppo far
temere così che anche non confidi nella bontà di Lui. Per questo
effetto Gesù Cristo ci propose la parabola del Figliuol prodigo. O
anima mia, indurita nel male, se ora non ti muovi con questi pensieri,
temi pure la tua durezza. Non sei tu forse quell'ingrata che ricevuta
in abbondanza la tua porzione, cioè la grazia del Battesimo da Dio, da
Lui ti partisti a scialacquarla, da Lui lontano, onde fosti ridotta
all'estrema miseria, schiava del demonio, a pascere le tue passioni? Oh
estrema tua povertà molto più deplorabile di quella del figliuol
prodigo! Non sei tu che non solo mossa da te stessa, ma di più a guisa
della smarrita pecorella, fosti ricercata dal tuo celeste Padre,
accettata, accarezzata e restituita al primiero stato con mille favori
e finezze, quasi che fossi qualcosa d'importante per Lui? Come non ti
si spezza il cuore di tenerezza e confusione a tali riflessi anche
lontani, da quel tanto che è in verità? Non vi è forse con te più che
col prodigo? Ah si che vi fu! E Voi lo sapete, o mio Dio, che non una,
ma infinite volte con sempre maggiori carezze mi accoglieste, da Voi
sempre più ingiustamente partito! Eppure? Oh insensatezza
incomprensibile! Tanta bontà non valse a trattenermi con Voi: di nuovo
mi sono partito da voi, sì di nuovo, con qual fronte adunque oserò
ancora… Ma no, Voi già (o bontà infinita) Voi già mi preveniste col
condurmi in questo santo ritiro, farmi conoscere i miei inganni passati
e farmi sentire in questa meditazione il Vostro desiderio e la vostra
prontezza in accettarmi. Si, coperto di confusione ma pieno di
confidenza vengo da Voi, a Voi ritorno, o celeste Padre (o nome dolce e
rimproverante!): Padre ho peccato contro il cielo e contro di te:
non sono degno di essere chiamato figlio tuo, trattami dunque come uno
dei tuoi garzoni. Troppo ho peccato, non merito più di nome il
figlio, e però fate almeno che da figlio io Vi ami e Vi serva, ma Voi
trattatemi soltanto e chiamatemi servo. Amen»[574]. 3.2.2 Il Direttore Spirituale
Come abbiamo già accennato il giovane
sacerdote Lanteri, dopo la partenza del suo maestro dalla capitale
piemontese per quella austriaca, ereditò ben presto buona parte, se non
tutti, i suoi figli spirituali torinesi. Purtroppo il carteggio del p.
Lanteri pervenutoci è quanto mai mancante, perché pochissime sono le
lettere sopravvissute alle vicissitudini storiche, mentre esse dovevano
essere molto numerose. Ciononostante quelle di cui siamo oggi in
possesso sono in grado di dimostrarci come, pur così giovane, il
Lanteri guidasse i suoi figli spirituali con scioltezza e profonda
competenza, come un anziano conoscitore delle vie dello Spirito[575].
Queste lettere erano indirizzate a persone residenti fuori Torino, che
non avevano possibilità di avvicinarlo facilmente in questa città. In particolare abbiamo una sua lettera di
direzione spirituale di questo periodo, che è un piccolo gioiello di
scienza delle anime e che prenderemo come modello dello stile della sua
direzione spirituale. Si tratta di una lettera senza data, scritta ad
una sconosciuta signora, certamente non posteriore al 1798 in quanto vi
si accenna ad un Diessbach vivente[576]. Da questa lettera emergono tre elementi
posti
dal Lanteri a fondamento del suo accompagnamento spirituale delle
persone:
4
Il direttore deve interessarsi della persona che aiuta,
riflettendo ponderatamente sulla sua esperienza, e quindi deve essere
un buon conoscitore di quanto i più grandi maestri spirituali hanno
insegnato.
5
Il direttore deve accompagnare il cammino di chi assiste
spiritualmente con la propria continua preghiera.
6
Il direttore deve sentire la propria inadeguatezza a questo
compito così delicato e contemporaneamente deve fidarsi di Dio, il
quale lo ha investito di questo mandato, affidandosi con fiducia a Lui. Il Lanteri applicava alle persone che si
affidavano a lui quegli stessi principi che egli stesso osservava e
viveva. Quanto abbiamo visto che si era prefissato nel suo Direttorio
Spirituale,
come strategia da usare nella lotta alle proprie tentazioni, viene
proposto quasi ad litteram ai propri figli spirituali. Infatti
così scrive alla
sconosciuta signora:
«V.S.
[Vostra Signoria] dunque dice di essere molestata da
tentazioni. Avverta 1° di non riguardare questo come male, anzi
presupponga per certo che si ha da soffrire tentazioni. Dio vuole così,
perché vi siano occasioni di esercitare le virtù, perché l'uomo non
viva trascurato; questo è chiaramente espresso nella S. Scrittura, Militia
est vita hominis [Gb 7, 1],
Fili, accedens ad Deum, præpara animam
tuam ad tentationem [Sir. 2, 1]. La vita
dell'uomo,
dice Giobbe, è una continua guerra. Figliolo, accostandoti al servizio
di Dio, prepara l'anima tua per la tentazione, dice l'Ecclesiastico [il
Siracide]. Appunto perché eri accetto a Dio, fu necessario che la
tentazione ti provasse, disse S. Raffaele a Tobia [cf Tb. 12,13].
Quindi è che i Santi furono tentati. S. Paolo anche dopo essere stato
elevato al 3° cielo, dovette soffrire lo stimolo della carne, perché
così più si purificasse in lui la sua virtù [cf 2Cor 12, 2-7].
Che più il Santo dei Santi Gesù Cristo volle anche Egli essere tentato
[cf Mc 1,12-13; Mt 4,1-11, Lc 4,1-12; 23,35-39]. Perciò dovremo stimare
le tentazioni per favori, e riempirci di spirituale allegrezza,
conforme a ciò che comanda S. Giacomo: Fratelli miei, pensate pure che
tutta l'allegrezza di questa vita è posta nell'avere tentazioni,
sapendo che con le tentazioni si esercita la pazienza, con la pazienza
si esercitano tutte le virtù [cf Gc 1,2-4], infatti fa bello essere
benigno senza contrarietà, paziente senza occasioni, casto senza
battaglia. Persuadetevi dunque che le tentazioni sono un bene che Dio
vi procura, e siate certi che Dio, com'è di fede, non permetterà mai
che siate tentati sopra le vostre forze [cf 1Cor 10,13]»[577]. Abbiamo
voluto
riportare tutto questo lungo brano per far notare l’abbondante uso
della Scrittura da parte del Lanteri nella sua direzione spirituale.
Vediamo, in questo stralcio di lettera, applicare la prima, la
quarta e la nona delle
armi contro le tentazioni del suo Direttorio Spirituale[578]. Passiamo ora al
proseguo della lettera:
«2. S'impari ad andare
avanti
con i mancamenti, quindi presupponga anche di certo che ha da
commetterne molti, poiché senza di essi, servire Dio, è concesso
solamente in Cielo, e S. Francesco di Sales dice che la perfezione non
consiste in non mai cadere, ma in rialzarsi subito, riconoscendo la
nostra miseria, chiederne perdono a Dio, ma tranquillamente e senza
meravigliarci, dicendo a Dio che la facciamo da quel che siamo, la
faccia lui da quegli che è. Ciò che si deve imparare è cadere, sì, ma
levarsi subito in piedi, domandando perdono, né mai stancarsi di
rialzarsi, anche se cadessimo mille volte, perché se un fanciullo non
volesse più rialzarsi e camminare, perché cade sovente o per timore di
cadere ogni passo, mai più imparerà a camminare»[579]. Qui ha
ripreso quasi alla lettera il “sesto avviso necessario per non
errare nel cammino della perfezione”[580] ed
il “primo rimedio contro i mancamenti”[581]
del suo Direttorio Spirituale.
Così
continua il Lanteri:
«E perciò concepiamo
un'idea grande della bontà di Dio, non misuriamola con la nostra
scarsezza, figurandoci che si stanchi di tanta nostra instabilità,
fiacchezza, dimenticanza, abbia da vendicarsi dei nostri peccati,
toglierci gli aiuti, negarci le grazie, e per questo rispetto non
ardire d'andargli [a] domandare perdono, quando si manca nei propositi.
Non è tale il nostro buon Dio. Dio non ha bisogno di noi, se non per
usarci misericordia. Attribuiamogli ciò che è suo, cioè l'essere buono,
misericordioso, compassionevole, padre amorevole che ci solleva, non
mai si stanca di perdonarci, che, anzi, gli diamo grande gusto ed onore
quando gli andiamo a domandare perdono»[582].
Quest’altro testo riporta in pratica il “decimo avviso
necessario
per non errare nel cammino della perfezione”[583].
Il Lanteri prosegue così:
«3. Si prefigga di non
voler mai con deliberazione fare cosa che conosca faccia dispiacere a
Dio, quindi non si prenda alcuna pena delle tentazioni, né di qualunque
cosa che in sé possa essere cattiva, finché non le avverte; subito poi
che se ne accorge, non ne faccia caso, anzi le consideri e se ne serva
come uno svegliatoio per farle fare un atto di amore di Dio, di
confidenza, di pentimento dei peccati e simili, e quand'anche queste
tentazioni le durassero tutto il giorno, neppure si perturbi per
questo, perché non c'è male; non è cosa che stia in sua mano, le lasci
andare e venire, si protesti con Dio che quella è involontaria e la
soffrirà finché gli piacerà, eserciti soltanto la pazienza, e libertà
di spirito e tranquillità di cuore»[584]. In questa
direttiva possiamo notare come il Lanteri prete metta in maggior
risalto l’indifferenza, il “non darsi alcuna pena”,
l’esercitare “soltanto la pazienza, e libertà di spirito e
tranquillità di cuore” come atteggiamento fondamentale di lotta
alle tentazioni, fondato sull’opzione fondamentale di servire il
Signore costi quel che costi. L’immagine dello “svegliatoio” per
amare il Signore era presente anche nella “seconda arma contro le
tentazioni” del suo Direttorio Spirituale[585].
La lettera di direzione continua così:
«Dopo la tentazione
poi
non stia mai ad esaminare se abbia acconsentito o no, ma si diverta ad
altro, se poi non le riesce, e le viene scrupolo d'aver acconsentito,
allora o lei dubita solo se le abbia acconsentito, e in tale caso non
ne faccia caso, disprezzi ogni dubbio, faccia questo sacrificio del suo
spirito e della volontà, e ubbidisca a P.D. [Padre Diessbach][586],
o lei è certa, e tranquillamente lo disapprovi innanzi a Dio, si
riunisca a Dio, conoscendo la debolezza, detestandolo, chiedendo
perdono sicura che l'ottiene. O solo si accorge di avervi usata qualche
negligenza, esservi accorsi alcuni difetti, e si ricorda che servire
Dio senza difetti è solo concesso in Cielo, s'umili, e le serva di
maggior confidenza in Dio. Sicché e nella tentazione e dopo, conviene
che mantenga sempre tranquillità di spirito, libertà di cuore, e così
servirà meglio e allegramente il Signore»[587]. Anche in
questo
passo c’è uno sviluppo dell’aspetto della tranquillità in mezzo alle
tentazioni e cadute. Non dice nulla di assolutamente nuovo rispetto a
quanto si era prefissato di vivere nel suo Direttorio Spirituale, solo
che qui si sente maggiormente un certo afflato, una certa pregnanza di
dolcezza e l’enfasi cade con forza, come detto, sulla pace, sulla
tranquillità di chi sa di essere amato dal Signore così com’è, non
perché santo o bravo, ma perché Suo figlio. La conclusione del testo è
anch’esso in perfetta armonia con il suo Direttorio Spirituale:
servire Dio allegramente in mezzo alle tentazioni e alle mancanze e
cadute stesse. Qui andiamo proprio in profondità nella manifestazione
di una spiritualità che, se da un lato è alta ed esigente fino alla
radicalità, dall’altro è comprensiva e incoraggiante e mai s’arrende di
fronte alle umane contraddizioni e fragilità. Detesta e disapprova il
male, ma non diffida mai della divina misericordia.
Torniamo ora alla nostra lettera di
direzione che continua così:
«Questo stesso io dico
riguardo all'ardore che prova nel fare le cose; non se ne prenda
fastidio, Dio permette questo in lei [per] farle esercitare la
pazienza, quindi non se ne prenda fastidio, finché non se ne accorge;
subito che s'accorga che sia eccessivo, non si turbi, procuri di
moderare il puro eccesso, e quantunque vi succeda qualche difetto, non
si meravigli, perché non è ancora un Angelo»[588]. Prosegue
sempre
nella linea della pace e della tranquillità d’animo, dove bisogna non
darsi cura né pena dei moti dell’animo finché non se ne prende
coscienza, fin dunque ad intervenire senza turbarsi, come ben aveva
imparato alla scuola di S. Teresa[589],
che lui stesso citerà nel proseguo della lettera:
«Con tutti questi
avvertimenti non tralascerà di sentirsi a sé di peso, e svogliata; non
pensi già che sia per sua colpa, è perché Dio vuole che si porti la
croce e così si vada in Cielo. Così S. Teresa. Sicché conviene
ascoltare S. Paolo, che pure portava la sua, e diceva che conveniva
aver pazienza anche con se stesso. Nella vostra pazienza
possederete le vostre anime [cf Is 30,15]; e comunque si trovi a
compiere le solite sue pratiche di pietà alla bella e meglio che può,
confidando tutto e sempre nella bontà di Dio; impari ad andare avanti
anche con mancamenti, servire Dio con la buona o cattiva disposizione,
perché queste sono cose involontarie. Del resto sia certa che
mantenendosi in lei il desiderio di piacere a Dio, quantunque segua
qualche mancamento o difetto, non lascia per questo Dio di volerle
bene, sa Dio nostro buon Padre compatire, perché sa di che cosa siamo
composti»[590]. Anche qui
riprende quanto si era prefissato nel Direttorio Spirituale
come
“secondo rimedio contro i mancamenti”[591], e
che aveva anche riassunto con la frase: «Sempre paziente con me e
diffidente di me, e tutto confidente in Dio buono».[592].
Il Lanteri conclude poi così la sua
lettera di direzione spirituale:
«Coraggio dunque,
procuri
di stare sempre allegra, e abbandonarsi più che può in Dio, disprezzare
ogni dubbio, protestarsi sempre di non mai disgustarlo, conoscendolo.
Del resto non si prenda fastidio, Dio è con lei e l'assiste e non la
lascerà cadere. Legga il cap. 9 e 10 della Filotea[593].
Preghi per me, e mi creda»[594]. Il richiamo alla lettura di san Francesco
di
Sales fa da cornice a questa splendida lettera di direzione spirituale,
in cui il giovane prete Lanteri ci ha regalato una eccellente lezione
di come si spingono le anime nella corsa alla santità, riconfermandoci
l’influsso che questo Santo ebbe sulla spiritualità del chierico
Lanteri. Facciamo ora due annotazioni a questa
lettera. La prima è che per quattro volte il Lanteri parla in
questo scritto di tranquillità: - “La
perfezione non consiste in non mai cadere, ma in rialzarsi subito,
riconoscendo la nostra miseria, chiederne perdono a Dio, ma
tranquillamente e senza meravigliarci”. - “Le lasci
andare e venire [le tentazioni], si protesti con Dio che quella è
involontaria, e la soffrirà finché le piacerà, eserciti soltanto la
pazienza, e libertà di spirito e tranquillità di cuore”. - “Disprezzi
ogni dubbio, faccia questo sacrificio del suo spirito e della volontà,
e ubbidisca a P.D. [Padre Diessbach], o lei è certa, e tranquillamente
lo disapprovi innanzi a Dio”. - “Sicché e
nella tentazione e dopo, conviene che mantenga sempre tranquillità di
spirito, libertà di cuore, e così servirà meglio e allegramente il
Signore”. La
seconda è la citazione esplicita di s. Francesco di Sales
in due occasioni: -“…S. Francesco
di Sales dice che la perfezione non consiste in non mai cadere…”. -“Legga il cap.
9 e 10 della Filotea”. Questo fa
capire come il Lanteri fosse consapevole che questa visione spirituale
così fortemente dolce, umana, incoraggiante, richiamante la serenità e
tranquillità del “bimbo svezzato in braccio alla mamma” (Sal
130,2) gli derivasse da s. Francesco di Sales.
4. Il
cammino spirituale
Per
delineare il cammino spirituale del nostro Venerabile durante il
periodo storico che stiamo esaminando, ci serviremo dell’analisi di un
suo scritto del 1786 intorno ai Catechismi e delle risoluzioni da lui
prese durante gli E.S. che fece tra il 1789 e il 1793[595].
4.1
I
Catechismi del 1786
Il Curatore dell’edizione degli “Scritti
e documenti d’archivio” del Lanteri introduce il testo “Catechismi”
con queste parole:
«Calligrafia di Guala.
AOMV, S. 2, 14, 2: 336. È da chiarire il perché della presenza di
questo testo fra gli scritti di Lanteri. Testo alquanto noioso per
delle lezioni a famiglie, come si dice nel finale»[596]. Con
l’espressione “è da chiarire” sembra alludere alla possibilità
che questo testo non abbia per autore il Lanteri visto che la scrittura
è del Guala. Si tenga sempre presente che diversi testi del Lanteri
sono giunti a noi redatti dal Loggero o dal Guala. In ogni caso, anche
se non avesse per autore il Lanteri, si tratterebbe comunque di un
testo accuratamente conservato da questi fino alla morte, per ben
quarantaquattro anni. Il che ci fa supporre la considerazione che egli
aveva per questo testo e come esso sia altamente espressivo della sua
spiritualità. Comunque noi, consideriamo, fino a prova contraria, il
Venerabile come autore di questo documento, rispettandone la
tradizionale collocazione tra i suoi scritti.
L’espressione “è da chiarire”, appare comunque alquanto
infelice perché denota una limitata comprensione della spiritualità
lanteriana, le cui radici affondano nel terreno degli E.S.
ignaziani letti e vissuti focalizzandoli nel loro “Principio e
Fondamento”[597], in cui viene presentato
Dio come il fine assoluto ed ultimo dell’uomo. È proprio
quell’apparente “noioso” studio su Dio ed i suoi attributi
eterni che ci permette di capire la profondità e la forza della
spiritualità del Lanteri, mutuata dal Diessbach e maturata nella Amicizia
Sacedotale, dapprima come semplice membro e ben presto come
animatore e direttore per buona parte della sua vita sacerdotale. Uno dei
documenti più importanti dell’Amicizia Sacerdotale, “Alcuni
punti di vista per li A.[mici] S.[acerdoti]”, che ne delinea le
finalità e lo spirito, così riporta nel suo inizio:
«Arma invincibile
contro
tutti i nemici: l’Eternità.
Per maneggiarla
conviene:
1. Conoscerla,
sentirla.
Quindi stare in solitudine, fare noi stessi li Esercizi.
2. Saper dare agli
altri,
e dare effettivamente gli Esercizi.
3. Mediamente per
mezzo
dei libri.
Quindi: Formar delle
Biblioteche.
1. Per mezzo di queste
formare persone capaci di dar gli esercizi, e disporre gli altri a
farli.
2. Formare degli
uomini
perfettamente agguerriti, e bene instruiti […]
3. Bisogna che siano
fortemente penetrati dell’importanza dell’ultimo fine, e sopra tutto
dell’Eternità.
Conseguenze che ne
hanno
da derivare:
1. Purità di
coscienza, e
per ciò frequenza dei sacramenti ed orazione.
2. Siano penetrati
della
dignità delle anime, e del gran bene che è per noi stessi il cooperare
alla loro salute:
1. In vista di Dio, e
del
desiderio che egli ne ha manifestato col prezzo della Redenzione e
colle sue parole;
2. in vista altresì
del
vantaggio che ne risulta per noi; per noi ci rendiamo Iddio molto più
propizio in ogni senso;
3. per compassione;
4. per la dolce
consolazione che ne nasce: Divengano (secondo l’espressione di S.
Caterina da Siena[598])
Gustatori delle anime»[599]. “Arma
invincibile contro tutti i nemici: l’Eternità!”. Bisogna
dunque “conoscerla, sentirla”, cioè studiarla, approfondirla
nello studio orante e adorante, gustandola intimamente[600], per essere “penetrati
dell’importanza dell’ultimo fine e sopra tutto dell’Eternità”, cioè
di Dio e dei suoi attributi eterni. Da qui lo zelo apostolico fondato
sul desiderio di Dio di salvare l’umanità e sulla grande stima delle
anime, delle quali l’Amico Sacerdote deve diventare
“Gustatore”. Il manifesto rimando alla Santa senense ci mostra il
colore appassionato che dovevano avere l’amore per Gesù e per le anime
i membri dell’AS. Stesso zelo dovevano avere i membri dell’Aa:
«Uomini dai desideri,
gustatori
delle anime, giusta la frase di S. Caterina da Siena. Oh zelo,
magnanimo zelo dove sei tu? Dove sei tu, o nobile fame di anime
peccatrici? “Cade un asino e c’è chi lo solleva, perisce un’anima e non
c’è chi se ne interessi?” (S. Bernardo). Per il passeggero, e per lo
scherzo, l'impegno dura, ma per Dio, per il Creatore delle anime
neppure s'incomincia, si teme ogni eccesso, quasi che a suo riguardo
fosse impossibile»[601]. Tornando al
testo dei Catechismi, esso porta il sottotitolo di
“Istruzioni teologiche e morali sopra il Simbolo” e si compone di
due parti, di cui la prima molto più consistente, tratta del Simbolo in
genere. In questa prima parte c’è una sessione sul primo articolo del
Simbolo che è in pratica un piccolo trattato “De Deo Uno”, in
cui il Lanteri tratta con profusione delle perfezioni divine. Nella
seconda sessione di questa prima parte egli riassumerà il “De Deo
Trino”. Nella seconda parte di questi Catechismi, molto più
breve della prima, tratterà degli articoli del Credo riguardanti la
creazione del mondo e degli angeli e concluderà parlando della carità e
della speranza. All’inizio
del
suo scritto spiega perché è necessario formarsi un’idea giusta di
Dio e come la conoscenza di Dio sia finalizzata ad adorarlo e amarlo
nella verità. Qui si vede la relazione del testo con lo scopo degli Esercizi.
A chi scrive questo testo non è sembrato essere “noioso”, ma
molto utile per sviluppare la meditazione del “Principio e
Fondamento” nella sua predicazione:
«Poiché noi dobbiamo
adorare Dio, conviene per una parte formarsene un'idea verace, per non
adorare un fantasma ed una finzione di nostra immaginazione in luogo di
Dio; conviene per l'altra parte che quest'idea verace ci rappresenti in
Dio tutto ciò che vi è di più capace per ispirarci rispetto, e
sommissione alla sua grandezza; e, poiché dobbiamo amarlo, conviene
cercare di concepire in Lui tutto ciò che può servire a far nascere ed
accrescere il nostro amore, il quale non può portarsi verso ciò che non
si conosce»[602]. Subito dopo
il
Lanteri inizia il lungo elenco degli attributi divini, analizzandoli
singolarmente nel loro significato in sé e in relazione all’uomo.
Vediamo di seguito una buona parte degli attributi divini analizzati
dal Lanteri. Il
primo attributo analizzato è l’essere spirituale: Dio è spirito ed
in quanto tale è semplice. Dal fatto che Dio è spirito derivano diverse
conseguenze per l’uomo:
«La prima: che
Dio,
essendo spirito, secondo il Vangelo bisogna adorarlo in spirito e
verità [cf Gv 4,23].
La seconda: che tutto
ciò
che è corporeo, è indegno di Dio, se non è congiunto con un culto
spirituale.
Terzo: che dobbiamo
bandire dal nostro spirito, adorando Dio, tutti i fantasmi corporei; e
che dobbiamo dire a tutti i corpi, sebbene belli e splendenti ci
sembrino: “Voi non siete il mio Dio”. Quarto: che noi non siamo
creati per i corpi, e che la nostra felicità non può consistere
nell'amore dei corpi, e che così dobbiamo distaccarci ogni affetto, e
guardare d'attaccarvisi»[603].
Bisogna
dunque
relazionarsi con tutto ciò che è materiale «come scala per andare a Dio»[604] e tra questo vi è
l’«umanità di Gesù Cristo, che è un mezzo scelto dalla Sapienza di Dio
per innalzarci alla Divinità»[605].
Dal fatto che Dio è semplice, cioè, «senza diversità molteplicità di
parti»[606], deriva all’uomo
l’obbligo di tendere alla semplicità in tutto, onorando la semplicità
di Dio così:
«1. Allontanare
il
nostro spirito quanto si può dalla molteplicità delle creature per
attaccarlo a questo essere semplice, a questa unità immutabile.
2. Riconoscere
l'imperfezione del nostro essere in questa molteplicità di pensieri e
desideri che dividono lo spirito e il cuore.
3. Non pretendere di
piacere a Dio con la moltitudine di parole e riflessioni ricercate
nelle nostre preghiere.
4. Cercare di non
avere
se non un desiderio, che è di piacere a Dio; se non una mira che è di
camminare nella sua strada, e bandire dal nostro spirito e nostro cuore
ogni sorta di doppiezze, di mire, d'intenzioni e di desideri»[607].
Il
secondo attributo divino, di cui tratta il Lanteri, è
l’immutabilità che non possiamo concepire se non per contrasto della
nostra naturale mutabilità in cui siamo immersi con tutto il mondo
creato:
«È così naturale
all'uomo
la mutabilità che gli diviene necessaria, di modo che l'uniformità
d'una azione è bastante a distruggerlo. Se egli mangia, se egli dorme,
se egli riposa, se egli cammina, se egli travaglia senza interruzione è
morto. Se egli s'applica lungo tempo in uno stesso oggetto senza
variare, egli è pazzo… […].
Per concepire dunque
l'immutabilità di Dio, non si ha da fare altro che troncare tutte le
idee della mutabilità delle creature. Il suo essere è incapace
d'alterazione, non riceve né aumento, né diminuzione, né diversità di
perfezioni; perciocché, essendo perfetto, nulla può perdere di ciò che
aveva, e nulla può acquistare di nuovo … […]. Dio cambia tutto, ma non
si cambia in lui stesso; Egli sa operare, dice S. Agostino, senza
cessare d'essere in riposo, e fare nuove opere con un consiglio eterno.
Dio agisce nel riposo e riposa
nell'azione. Può applicare ad un'opera nuova una determinazione non
nuova ma eterna (Agostino d’Ippona, La Città di Dio,
XII, 17)»[608].
Le
conseguenze
che si devono trarre dall’immutabilità divina sono:
«Primo, che dobbiamo
attaccarci unicamente a Dio, perché solamente in Dio possiamo avere un
sodo appoggio, essendo tutto il restante mutabile e passeggero; il
torrente del mondo ci guadagna contro la nostra volontà, ed altro non
ci può restare che il dispiacere d'averlo amato.
2. Adorare con
profonda
umiltà l'immutabilità dell'essere di Dio, considerando la nostra
mutabilità, e l'incostanza dei nostri pensieri, di nostre inclinazioni
e disposizioni, e perciò dobbiamo mettere ogni nostro appoggio e nostro
sostegno nell'amore immutabile di Dio sui suoi eletti.
3. Desiderare con
fervore
lo stato felice che ci viene promesso, dove saremo resi partecipi, in
qualche maniera, dell'immutabilità di Dio, dove i nostri corpi saranno
rivestiti per sempre di una visione eterna, ove l'ameremo con amore che
durerà sempre, ed ove saremo liberati da quella agitazione di pensieri
e di movimenti che ci stancano durante questa vita.
4. Procurare, durante
questa vita, d'avere una pietà uguale ed uniforme, rendendo-si
superiori all'ineguaglianza delle nostre inclinazioni, operando con
pace e tranquillità, sebbene si provino interni tumulti, e questo è il
modo con cui vuole Dio che imitiamo ed onoriamo in questo mondo la sua
immutabilità»[609].
Dopo la
considerazione dell’immutabilità tocca all’attributo divino
dell’eternità che ha queste conseguenze per l’uomo:
«1. Una
conseguenza
generale del nulla delle creature, le quali non sono più ciò che sono
state, e che non sono ancora ciò che saranno, e che non possiedono se
non il loro essere presente, il quale si riduce a ben poca cosa; il che
ci obbliga ad annichilarci sotto l'essere eterno ed immutabile.
2. Dobbiamo aspirare a
quest'eternità in quella maniera che potremo possederla; ora i Beati la
possederanno in qualche maniera, perché la vista e l'amore di Dio che
faranno la loro felicità, non avranno né vicende, né cambiamenti… »[610].
Quindi tocca
all’«infinità, necessità e indipendenza di Dio»[611],
da questa pienezza dell’essere di Dio ne consegue per l’uomo:
«1. Che è
un'estrema follia l'attaccarsi alle creature limitate, essendo noi
chiamati al possesso di un essere infinito che comprende e sorpassa
infinite volte tutto ciò che esse sono in realtà; questo è appagarsi
d'una goccia d'acqua quando ci è permesso di servirci dell'oceano.
2. Che Dio, possedendo
tutto in se stesso, noi siamo incapaci d'aggiungere cosa alcuna alla
sua felicità e sua gloria; e così, tutti gli onori che noi gli rendiamo
non ridondano che in nostro vantaggio, perciocché con ciò noi
pratichiamo la giustizia, ma non aggiungiamo cosa alcuna all'onore, né
al bene di Dio»[612].
E dalla
sua necessità:
«Dobbiamo riconoscere
che
non avendo alcun diritto all'essere, e ricevendolo di continuo dalla
liberalità di Dio, siamo perciò obbligati ad impiegare unicamente per
Dio questo essere che ci ha donato, perché non ce lo ha donato che per
questo fine»[613].
Dalla
sua
indipendenza si ricava:
«1. che l'indipendenza
non appartiene che a Dio, e che non potendo appartenere alle creature è
cosa ingiustissima il bramare l'indipendenza, perché nulla più ci
conviene che lo stato di dipendenza.
2. Che siamo obbligati
ad
amare questa dipendenza non solo come creature, ma altresì come
peccatori, perché essendosi perduto il primo uomo per aver bramato
l'indipendenza, ed avendo impresso nel cuore dei suoi discendenti
questa maledetta inclinazione, Dio non ha voluto che gli uomini
potessero guarire da questa profonda piaga che hanno ricevuto, se non
con l'amore e colla pratica d'una dipendenza maggiore di quella a cui
sarebbe stato obbligato l'uomo innocente […]. Dobbiamo dunque amare
questa legge di sua giustizia, ed abbracciare con umiltà tutte le
dipendenze che ella c'impone, come altrettanti rimedi convenienti al
nostro orgoglio.
3. Ma sebbene dobbiamo
amare di dipendere dalle creature nella maniera che Dio vuole, dobbiamo
schivare però la dipendenza che Dio condanna. E così, il rispetto che
dobbiamo avere per l'indipendenza di Dio, non ci obbliga solo a
sottometterci a coloro cui Dio vuole che siamo sommessi, ma ci obbliga
ancora a rompere tutte le dipendenze umane che diminuirebbero quella
dipendenza che dobbiamo avere per Dio»[614].
Dio è anche
verità, sapienza, giustizia e luce, da cui ne consegue:
«[…] che la bontà
delle
nostre azioni dipende dalla loro conformità alla verità, sapienza,
giustizia e lume di Dio; che bisogna fare continua attenzione a questa
verità, giustizia, sapienza, a questo lume; dobbiamo consultarle su
tutte le nostre azioni; e bisogna chiederne istantemente a Dio la
cognizione e l'amore. […].Oltre ciò conviene concludere che per quanti
lumi umani o naturali che possiamo avere, siamo nondimeno ciechi, se
non siamo illuminati col lume di Dio»[615]. Dio è
inoltre
puro e santo, per questo ci invita alla santità: “Siate santi,
perché Io sono santo” (Lv 11,44), obbligandoci dunque:
«1. Ad odiare e
distruggere in noi, quanto si può, la concupiscenza ed i suoi effetti,
e non cessare giammai dall'indebolirla e combatterla, mentre Dio
giammai cessa dall'odiarla e dal condannarla.
2. Ad umiliarci avanti
alla santità infinita di Dio, in vista della nostra indegnità fondata
sull'impurità del nostro cuore.
3. A far conto delle
minime colpe in vista della purità di Dio suprema che non può soffrire
la minima macchia.
4. A riempirsi di
sentimenti di timore quando siamo nelle Chiese, o ci avvicinia-mo ai
santi misteri; e quando pratichiamo qualche azione del culto di Dio,
perché in queste occasioni specialmente dobbiamo essere toccati dalla
Santità di Dio»[616]. Dio è anche
buono e misericordioso, è il bene perfetto che può appagare al di là di
ogni misura ogni desiderio umano per cui:
«La pienezza dei beni
che
possiamo trovare in Dio, deve svegliare una viva idea della bassezza
del nostro cuore che si occupa di correre dietro a vili creature
incapaci di riempirlo, e di contentarlo.
Ciascuno dunque deve
dire
a se stesso con S. Anselmo “Cuore piccolo ed angusto, perché corri tu
dietro tanti oggetti per brama di soddisfare la vostra anima, e il
vostro corpo? Ama quel bene unico che comprende tutti i beni e ti
basterà […] (Anselmo c. 25 Prosolog.); deve dire ciascuno a se stesso
con S. Agostino, che un'anima è ben avara se Dio non le basta. La
volontà dell'uomo è pur corrotta all'eccesso dal peccato, perché ella
gusta sì poco del sommo bene capace di riempirla e colmarla d'ogni
sorta di beni, della maniera che il corpo gravemente infermo ha perduto
il gusto dei cibi, così l'anima è gravemente inferma quando ha perduto
il gusto di Dio […] (Aug., Enarratio in Ps. 30, n. 4). L'amore
di Dio è il sentimento della bontà di Dio, perché non sappiamo amare
cosa se non perché ella è buona»[617].
Poiché
l’anima vive in quanto ama Dio, ne consegue che:
«[…] un'anima che non
ha
alcun gusto, né alcun sentimento per la bontà di Dio, non vive, perché
non ama. È vero che questo gusto e questo sentimento può essere
talmente spirituale, che nessuna parte ne abbia l'immaginazione, e
allora non vi è punto di sensibilità con cui si possa conoscere il
gusto dell'anima, essendo tutto interno. Sarà cosa utile eccitarsi a
conoscere e lodare la Bontà di Dio.
Siccome nulla vi è di
più
atto a guadagnarsi il nostro amore che l'idea della bontà di Dio, e
l'amore è il principale, anzi, l'unico culto che possiamo rendere a
Dio, dobbiamo fare ogni sforzo per conservare in noi quest'idea della
Bontà di Dio e renderla più viva e più forte per praticare ciò che dice
il Savio: “Abbiate sentimenti del Signore, degni di lui”. Rettamente
pensate del Signore (Sap 1,1). I sentimenti di timore intanto sono
buoni, in quanto ci conducono all'amore, ma i sentimenti d'amore sono
buoni per se medesimi»[618]. Degno di Dio
è
dunque solo l’amore. Bisogna sempre star ben attenti a non prendere
motivo dell’infinita bontà e misericordia di Dio per dimenticarci della
sua infinita giustizia, ma sempre nella consapevolezza che:
«[…]perciocché
saremo sempre ben lontani dal giungere coi nostri pensieri alla sua
grandezza infinita. Soprattutto guardatevi bene dall'immaginarvi che vi
sia alcun peccato che superi la sua misericordia; dovete all'opposto
intendere che tutti i peccati immaginabili degli uomini, paragonati a
questa misericordia, sono come una goccia d'acqua in paragone di
quest'oceano infinito, e che perciò non devono punto impedire la nostra
speranza e fiducia in Dio»[619]. Dio,
inoltre, è
anche paziente, la sua pazienza deriva dalla sua bontà e sapienza:
«Per la sua bontà
ritarda
il supplizio dei cattivi, gli dà tempo di convertirsi; per la sua
sapienza usa il ritardo per cavare dai cattivi medesimi diversi
vantaggi per il bene di sua Chiesa e dei suoi eletti»[620].
La
considerazione della pazienza di Dio:
«1. Deve darci grandi
sentimenti di riconoscenza per quella che usò verso di noi, perché cosa
saremmo noi divenuti, se Dio non ci avesse sofferti?
2. Deve moderare la
nostra impazienza e farci soffrire tranquillamente i ritardi di Dio […].
3. Deve far [sì] che
noi
non troviamo lunga la felicità dei cattivi, o l'afflizione dei giusti;
perché cosa è mai la durazione dell'una o dell'altra per riguardo a Dio
ed alla sua eternità?»[621]. Dio è
altresì
immenso, Egli è dappertutto:
«1. con la sua
presenza,
perché tutto è presente ai suoi occhi; 2. con la sua potenza, perché
Egli opera in tutto; 3. con la sua essenza, perché operando in tutto
deve essere per tutto, non essendo la sua operazione distinta dalla sua
essenza. E siccome Egli è in tutte le cose, tutte le cose sono
parimenti in Lui, perché Egli le opera, le produce e le conserva»[622]. Questa sua
presenza impone all’anima queste riflessioni:
«1. Che, essendo noi
attaccati sì inseparabilmente all'essere ed all'operazione di Dio, e
non potendo separarci da Lui, abbiamo un sommo interessamento di
rendercelo favorevole durante questa vita […].
2. Serve l'Immensità
di
Dio per umiliarci, dandoci una viva idea della grandezza di Dio, e
della nostra bassezza. Noi siamo ristretti e rinchiusi in un piccolo
spazio, noi siamo come inghiottiti nell'immensità dell'universo, invece
che il mondo intero è inghiottito dall'immensità di Dio.
3. Chi sa che Dio è
dappertutto, egli sa che Lo può pregare e adorare dappertutto, che ha
dappertutto un tempio ed un santuario, che ha dappertutto un rifugio ed
un asilo; che egli giammai è solo e abbandonato; che non ha da fare
altro che tenersi alla presenza di questo Dio, il quale è presente
dappertutto, ed esporgli le sue piaghe e le sue miserie: Manifesta
totalmente a Dio te stesso e Lui ti risanerà.
4. La cognizione che
Dio
è dappertutto deve servirci a diversificare in infinite maniere le
nostre adorazioni, ed il nostro amore.
5. Questa cognizione
medesima deve eccitarci ad un'esatta modestia in ogni luogo, ad un
contegno simile a quello che osserveremo in una chiesa»[623]. Il Lanteri
considera anche la scienza di Dio che tutto conosce e da questa
onniscienza trae queste conseguenze:
«1. Dobbiamo
concludere
che siccome v'è nulla di nascosto a Dio, dobbiamo fare nulla che Gli
possa dispiacere.
2. Ogni peccato deve
comparirci tanto più grande quanto che è fatto alla vista di Dio;
perché è una grande ingiuria l'offendere Dio sotto i suoi occhi. […].
3. Dobbiamo servirci
di
questo sguardo continuo di Dio per mantenerci alla sua presenza e
regolarci in tutte le nostre azioni.
4. Dobbiamo pensare
unicamente a fare il nostro dovere e rimettere il resto nelle mani di
Dio che vede i nostri bisogni ed i disegni degli uomini, e sa ben farli
riuscire a sua gloria.
5. Dobbiamo usare
tutta
la nostra cura di purificare il nostro cuore dalla minima macchia;
perché ella è esposta di continuo agli occhi di Dio. […].
6. Non possiamo mai
avere
troppa attenzione alle nostre parole; poiché come dice la Scrittura “un
orecchio geloso ascolta tutto”; Quoniam auris zeli
audit
omnia [Poiché un orecchio geloso
ascolta ogni cosa] (Sap.
1,10), cioè a dire che nessuna parola sfugge dalla cognizione di Dio.
7. Non dobbiamo
prenderci
gran fastidio dei giudizi degli uomini, perché abbiamo Dio per
testimonio e giudice di tutto ciò che facciamo»[624]. Dio è anche
onnipotente, questo fatto:
«1. Deve ispirarci
sentimenti di terrore che ci allontani dall'offendere un Dio
onnipotente […].
2. Deve farci
disprezzare
tutta la potenza degli uomini e specialmente di coloro che attaccano la
sua Chiesa, perché cosa possono fare contro un Dio onnipotente che in
un momento rovescerà tutti i loro disegni, quando non servano, i loro
disegni, d'avviamento ai suoi? Si
Deus pro nobis, quis contra nos?
(Rom. 8).
3. Deve ispirarci gran
confidenza nelle nostre debolezze, assicurandoci che vi è nulla
d'impossibile a Dio onnipotente; diceva S. Agostino, Omnipotenti
medico nullus
languor insanabilis occurrit, vi è nulla
d'incurabile ad un medico onnipotente (Aug. Enarr. in Ps. 102 n. 5).
4. Deve impedire di
disperare di cosa alcuna, perché non solo nulla è impossibile a Dio, ma
anche si piace, alcune volte, di rovesciare i progetti degli uomini, e
di farci trionfare sui più potenti nemici, allorché siamo nella più
grande debolezza»[625]. Certamente
questo scritto dei Catechismi, non è un qualcosa che si possa
leggere con facilità. È uno studio filosofico-teologico, e sotto questo
punto di vista è comprensibile che qualcuno lo percepisca come “noioso”.
Ma chi non si esimerà dalla “noia” di leggerlo, potrà
conoscere la profonda spiritualità del Lanteri, che in queste
speculazioni è immersa e da queste speculazioni si eleva all’amore
sempre più grande e totale per il Dio trascendente ed ineffabile, da
lui appassionatamente contemplato e gustato. La
contemplazione delle perfezioni divine nel Lanteri, però, non è solo
contemplativa o fine a se stessa, ma si coniuga con la consapevolezza
della condizione presente e collegata alla contraddizione del peccato.
Infatti si osserva in lui, sistematicamente, il passaggio dalla
contemplazione delle divine perfezioni alle conseguenze sulla nostra
storia umana, in cui ciascuna di essa inevitabilmente riflette. Da qui
la considerazione del peccato dell’uomo come ostacolo alla sua
realizzazione in quanto immagine di Dio, come fa sant’Ignazio nella Prima
Settimana degli Esercizi a continuazione della
considerazione del Principio e Fondamento. Penso che
sia
appropriato concludere questo paragrafo con una citazione di Paul De
Jaegher[626]:
«Quante anime,
purtroppo,
conoscono poco Dio e le perfezioni divine così utili ad aumentare la
nostra fiducia e a darci una pace perenne. Hanno di queste perfezioni
solo un’idea imperfetta, soprattutto teorica e sterile. Gli attributi
divini, che dovrebbero occupare un posto preminente nella loro vita
spirituale e formare l’oggetto preferito della loro contemplazione,
sono per tali anime un qualche cosa di inerte, di morto. […] Le anime
veramente interiori, invece, trovano nelle perfezioni divine la loro
gioia. Vivono incessantemente in contatto e in unione con esse. Mentre
le anime imperfette fanno fatica a fissare per qualche istante il loro
sguardo su queste amabili perfezioni, esse invece resterebbero per
delle ore a contemplarle con felicità ed amore, ad ammirarle, ad
amarle, a trovare in esse la gioia. Secondo le circostanze vivono o con
l’una o con l’altra di queste perfezioni. Nei momenti di infedeltà o di
caduta, l’amore misericordioso le conforta e le incoraggia. Nella
tentazione, si gettano fiduciosamente nelle braccia della santità
divina, come in un rifugio sicuro. Quando si vedono in preda ad
insormontabili difficoltà, pensano a lungo e con amore all’onnipotenza
divina, e in essa trovano una pace immutabile. In mezzo alle
contrarietà e al disprezzo, traggono dall’amore infinito tutto l’amore
di cui hanno sete. Nelle sofferenze e nelle pene, il pensiero della
divina felicità stende sulle loro ferite un balsamo delizioso. Insomma,
Dio è quaggiù ogni cosa: Mio Dio e mio tutto, poiché esse hanno
compreso e intraveduto un po’ queste perfezioni. Si sono abituate a
vivere con esse, ad assaporare le loro delizie e a dipendere da esse
per ogni cosa. E in tal modo, nessun difficoltà, nessuna pena, nessun
avvenimento può smuovere la loro pace e la loro serena fiducia»[627]. Il Lanteri
fu
certamente una delle anime descritte così bene dal De Jaegher e
potremmo benissimo anche attribuire al nostro Venerabile, per la
comunanza di pensiero, l’elevazione spirituale dell’autore belga posta
a conclusione delle sue considerazioni sulle perfezioni divine:
«Coraggio, anima mia!
Sali anche tu un po’ al di sopra del sensibile, delle cose effimere che
ti circondano e ti tengono prigioniera: sali allegra come un’allodola
in un’atmosfera più pura, verso le perfezioni e le amabilità divine;
inebriati senza fine di amore e di luce. Prova a contemplare la
bellezza di Dio. Cerca di “realizzare” qualcosa di queste divine
perfezioni. Non è giusto che le meschine perfezioni delle creature –
queste ombre delle perfezioni divine – ti attraggano profondamente, e
che le infinite perfezioni, sorgente, d’ogni bellezza creata, ti
lascino fredda e indifferente»[628].
4.2
Le
risoluzioni degli del 1789-1793
Saldamente
ancorato in quella spiritualità trinitaria, mariana, liturgica,
ignaziana e salesiana, il Lanteri prosegue il suo cammino di
santificazione e maturazione in Cristo. Le sue annotazioni, prese
durante gli E.S. da lui fatti nel 1789, riportano alcuni
elementi di novità, quali la coscienza, la grazia e la pace. La
coscienza esprime la volontà di Dio in noi:
«Tanto è vero
che
sono in questo mondo per fare la volontà santissima di Dio, che se non
la faccio, ne sono subito rimproverato dalla mia coscienza, che esige
come un tribunale, e nel momento stesso mi condanna, e sarà questa
stessa condanna che Dio ripeterà con tutta solennità il dì del
Giudizio. Bisogna che io mi guardi dal fare il sordo quando mi
condanna, o di disprezzarla quando mi avverte del pericolo»[629].
Riflettendo
poi sull’esame di coscienza, scrive:
«Conviene che l'esame
sia
serio, attento, esatto anche ad indagarne le cagioni, non però
scrupoloso: la coscienza va rispettata, va ubbidita, non però
inquietata»[630]. È vitale, per il Lanteri, corrispondere
alla
grazia, la pace e la tranquillità. In questa corrispondenza la pratica
della meditazione ha ruolo talmente importante che egli si propone di “appigliarsi”
(cioè aggrapparsi) ad essa:
«Cos'è la grazia, cosa
costò a Gesù Cristo per meritarcela, quale degnazione di Dio
esibircela? Non possiamo santificarci senza questa corrispondenza, non
possiamo godere vera pace e tranquillità se non abbiamo questo grado di
santificazione a cui Dio ci vuole; come quella è onnipotente, è la
stessa voce e virtù di Dio che cavò dal nulla l'universo, che fece
tutti i santi, si isti et istæ cur non ego[631]?
Quale fu la nostra corrispondenza? Quale numero di grazie disprezzate,
impedite che sarebbe bastato a santificare tanti altri? Cosa potevo
fare e non feci? Quale terribile rendimento di conto? Pregare Dio di
volerci restituire in tempo; appigliarsi alla meditazione, mezzo
efficacissimo per corrispondere alla grazia di Dio»[632]. Fiducia,
dunque, nella potenza della grazia divina. Unita però alla
consapevolezza di una vittoria non magica né facile, ma
impegnativa e ardua:
«Sovvenirmi che la
grazia
non mi arreca palme di vittoria, ma la spada per combattere:
non arreca la vittoria, neppur rende facile il combattimento, ma dà la
forza»[633].
La
tranquillità e la pace dell’anima si raggiungono con la mortificazione
delle passioni:
«Le passioni vanno
conosciute, vanno domate; sono le radici dei nostri peccati, di ogni
nostra inquietudine, risoluzione seria di attendere a mortificarle»[634]. La pace
dell’anima è frutto della sottomissione delle passioni alla ragione e
della ragione a Dio:
«Est tranquillitas
ordinis[635],
gli appetiti soggetti alla ragione, la ragione a Dio; i mezzi per
acquistarla sono la mortificazione dei nostri appetiti, il continuo
studio di piacere a Dio, cioè di fare la Sua santa Volontà, il
disprezzo delle cose di questa terra e il coraggio nelle difficoltà,
cioè la libertà di spirito; conviene guadagnarla faticando, guadagnata
conviene cautamente custodirla»[636].
Durante
questo periodo traccia un altro modo per fare orazione:
«Altro modo per far
orazione: 1) intraprenderla con affetto, tranquillamente, 2) prendere i
punti ed il frutto, 3) quis, cui, ob quam rem[637],
4) proporre con la memoria la materia dei punti, 5) l'intelletto la
svolge, non abbandonar finché la verità speculativa sia chiara ed
evidente, ne deduce la verità pratica, esamina in relazione ad essa la
condotta passata, presente e futura, 6) la volontà affezionata fa il
suo ufficio etc. etc. etc.»[638]. In pratica,
di
novità rispetto alle sue quattro maniere di orazione c’è questo
“intraprenderla con affetto, tranquillamente”. Sempre in questi
Esercizi del 1789, il Lanteri si ferma a riflettere sulle
tentazioni, tema da lui molto sviluppato nel Direttorio Spirituale[639], ora qui approfondito:
«Ritorna sulle
tentazioni e semplifica il suo [loro] pensiero: entrare nei disegni di
Dio quando ce lo permette e secondarli e trarne partito; non darsi mai
per vinto; riflettere che allora possiamo dire di cercare di piacere
puramente a Dio, di offrire a Dio qualche atto virtuoso, libero e puro
che ci costa, guardarsi dalla inquietudine e tristezza; non farne
l'esame subito dopo; ricordarsi che Dio guarda, aiuta e premia;
l'esempio del Redentore: Alzatevi e andiamo [Mc 14,42]»[640]. In questo brano il Lanteri non fa altro
che
riprendere ed applicare a sé la dottrina salesiana sulle tentazioni;
non si deve far caso alle numerose e piccole tentazioni di ogni giorno,
ma con semplicità e pace bisogna rivolgersi al Signore con atti
tranquilli d’amore, senza esaminarsi[641].
Infatti un esame immediato di come si è reagiti nella tentazione
porterebbe molta confusione, mentre quando si è nella calma e
tranquillità d’animo tutto viene giudicato più facilmente nella verità.
L’esame, quindi, non viene soppresso, ma rimandato a tempi tranquilli,
per impostare, in una visione calma e serena della propria vita, le
singole scelte in ordine ai comportamenti personali[642]. Il giovane prete Lanteri continuava e
approfondiva quello stile di vita spirituale cui l’aveva iniziato il p.
Diessbach, fatto di serietà, impegno, sforzo e fiducia immensa in Dio.
Analizzeremo adesso alcune sue risoluzioni fatte negli Esercizi
tra il 1789 e il 1793. Alla ricerca di un’interiorità sempre più
profonda, focalizza le intenzioni e le motivazioni del suo agire:
«Esercitarmi sovente a
perfezionar vieppiù l'intenzione nelle azioni, ed a moltiplicare i
motivi buoni che ne sono lo spirito, e renderanno oro lo stesso fango.
In qualunque azione cercar la volontà di Dio, se la voglia, come la
voglia»[643].
Sintetica
e profonda la sua visione della santità:
«1° La santità
consiste
nel cercare sempre la maggior gloria di Dio.
2° La maggior gloria
di
Dio consiste nella maggior somiglianza dell’intelletto e della volontà
con Cristo, per prima cosa nell’umiltà come base di tutte le virtù
verso Dio, il prossimo, se stesso.
3° Le virtù di Cristo,
cosa abbia fatto e cosa no, verso Dio: l’amore della solitudine e
dell’orazione; verso se stesso: l’amore del digiuno o per meglio dire,
austerità di vita; verso il prossimo: senso del dovere, amore alla
fatica, in altre parole, opere di misericordia.
4° Perciò la santità
consiste in ciò che a) nei confronti di Dio sia maggior
solitudine e grazia; b) davanti a se stesso, maggior austerità
di vita; c) nei confronti del prossimo, maggiori opere di
misericordia.
5° Esercita maggiore
orazione, austerità, misericordia chi si serve di ogni occasione con
maggior prontezza, alacrità e fortezza contro una volontà pigra,
ristretta e debole.
6° Di conseguenza è
santo
chi ad imitazione di Cristo usa l’occasione dell’orazione,
dell’austerità e della misericordia con prontezza, alacrità e fortezza»[644].
Fedele
a
questo concetto di santità, il Lanteri si propone:
«Rinunciare a tutti i
comodi del corpo che la necessità non esiga, avere sempre innanzi agli
occhi Gesù Cristo che ebbe sempre per compagni l'ignominia, la povertà,
il dolore, e protestarsi di voler essere sempre di questa compagnia»[645]. “Rinunciare a tutti i comodi del corpo…”, non è solo una bella frase messa lì, ma un
impegno costante di tutta la sua vita, vissuta sempre in un corpo, il
suo, malaticcio e fragile. Questa fragile fisicità bisognosa di
particolari comodità e attenzioni, che certamente il Lanteri non gli
volle mai concedere:
«Quanto al corpo
questo è
un carcere in cui vivo e un sacco di vermini e un pugno di putredine
che mi fece tante volte offendere Dio, che mi mise in tanti rischi, che
mi darà fastidi tremendi, che mi farà bene arrossire al tribunale di
Dio. Debbo averne quel riguardo che ne avrò quando sarò già a marcire
perché è lo stesso, se non che ora è ancora coperto di un po’ di neve.
[…] Ecco ciò che io vado a nutrire quando vado a pranzo, ecco ciò a cui
procuro dar sollievo quando vado a passeggio etc. Ecco ciò che vuol
sedurmi quando mi tenta, ecco il mio traditore, il mio nemico, che ho
sempre meco… Convien pure che quando ho da somministrargli qualche cosa
o di cibo o di sollievo gliene somministri per necessità, per pura
carità, per Dio, giammai per contentare quest’asino[646]
che ricalcitra facilmente»[647]. “Avere sempre innanzi agli occhi Gesù
Cristo che ebbe sempre per compagni l'ignominia, la povertà, il dolore”:
è Gesù che il Lanteri cerca, non la mortificazione per se stessa, o la
povertà per se stessa, o le umiliazioni per se stesse, cerca Gesù e per
questo abbraccia ogni mortificazione e povertà, per amore a Gesù
povero, addolorato ed umiliato. Durante questi anni appare chiaro dai
suoi scritti personali come fosse impegnato a raggiungere l’obiettivo
spirituale della massima libertà di spirito, nella sequela di Gesù
Cristo, nel suo abbassamento e spogliamento fino alla morte di croce (cf
Fil 2,5ss). In un suo scritto del 1790 che voleva
essere “un
primo abbozzo per una muta di Esercizi, in forma di dialogo con la
propria anima”[648],
dopo aver contemplato con grande commozione la povertà del presepe e
come s’inganni il mondo inseguendo ricchezza e comodità, e come invece
non si fossero ingannati i Santi distaccandosi da tutto questo, così
scriveva: «Ah,
mio Gesù, quanto Vi ringrazio di questo disinganno che mi fate e di
avermi messo in uno stato in cui possa facilmente, volendo, praticare
questo distacco! Sì, lo voglio, a Vostra imitazione, e fate che lo
diventi ogni volta di più e meglio per imitarVi, volendo essere, come
Vi ho già promesso, tutto Vostro, e quello di cui non posso fidarmi di
avere da me stesso, lo aspetto da Voi. Amen»[649]. Questi non erano semplicemente pii
desideri
momentanei, ma esprimevano il profondo orientamento della persona a
Dio, l’impegno costante di rassomigliare quanto più possibile a Gesù
Cristo, adoperandosi incessantemente in un cammino di purificazione e
correzione di se stesso, attraverso la vigilanza e gli esami di
verifica che continuamente faceva. In uno di tali esami riscontrò i
seguenti difetti che lo ostacolavano lungo questo cammino:
«Negligenza nelle cose
di
Dio; perciò fatte con leggerezza, con niente d'impegno, durezza,
rusticità col prossimo, poca carità; sollecitudine per il corpo e per
l'anima; sollecitudine nimia per il temporale; troppo attacco alla
roba, agli onori, ai piaceri; paura d'incomodarmi, di patire nella
sanità; niente d'irascibile, cioè di coraggio nelle cose ardue e
difficili: ciò che impedisce di avere una fede viva, una grande
confidenza in Dio e tutto quell'amor che debba a Dio»[650].
Consapevole
dei suoi limiti, il Lanteri si propone i seguenti rimedi:
«Provarsi sovente fra
il
giorno, cioè con frequenti esami se veramente:
– amo Dio sopra ogni
cosa;
– amo il prossimo come
me
stesso;
– e se attendo
seriamente
all'annegazione di me medesimo.
Quindi concepire: un
santo impegno a contrariarmi e praticare la virtù nelle occasioni per
formarne l'abito, un distacco e disprezzo delle cose puramente
temporali, indegne dell'affezione del mio cuore, una santa ostinazione
a trattare santamente le cose sante»[651].
Per
questo
dovrà tenere viva l’attenzione nell’azione:
«Nell’esame cercherò
se
ho cominciate, continuate, finite le mie azioni per passione o per
ragione o per fede, se si è accompagnata la negligenza»[652]. Sembra certo che la negligenza
fosse
ciò che il Lanteri sentiva come uno dei maggiori ostacoli nel suo
cammino di santità: «Ambiti di impegno per
la
riforma.
Con Dio: rispetto,
fedeltà in ogni pratica di religione, è necessario che io abbia tutta
l'applicazione interna ed esterna: non litigare con la negligenza. Confessione
settimanale.
Con me stesso: non
litigare, ma guerra decisa; pronta guerra al superfluo, ai comodi e
soddisfazioni»[653]. “Non litigare”,
né
con la
negligenza né con se stesso, “ma guerra decisa”. In queste
frasi così forti possiamo individuare una delle caratteristiche
fondamentali della spiritualità del Lanteri, ossia una guerra decisa,
assoluta e a tutto campo a se stesso. Una guerra senza angosce, ansie,
inquietudini, bensì tranquilla e serena, fiduciosa nella vittoria. Una
lotta serrata, che aveva nella Confessione settimanale una sua tappa
fondamentale, in cui rifaceva il punto della situazione e si ricaricava
spiritualmente per rimettersi nuovamente in combattimento. Negli E.S.
del 1792, al termine della prima tappa, durante il quarto giorno di
essi, così scrive:
«La 3a meditazione fu sulla
ficaia, ove riconobbi il mio stato pericoloso di tiepidità, avendo
finora vissuto con ingratitudine somma inutilmente, e di più con
pregiudizio altrui. Ho osservato che Dio non poteva far di più per
farmi fruttificare, eppure attendeva che facesse uva buona e invece
fece uva selvatica – [Is 5,2], lo stesso ben fatto quanto
malamente fatto. Ho finalmente osservato la bontà di Dio nel volermi
perdonare e continuarmi (se cambio) gli stessi favori, e anche farmene
dei maggiori. Ho risoluto profittarmene tanto più che può essere
l'ultima prova, che se ora non profitto e fruttifico per Lui, si
effettua la sentenza di cui, finora fu differita l'esecuzione del
taglio, del fuoco, ogni albero che non produce frutti buoni sarà
tagliato [Mt 3,10]»[654]. Gli E.S. fatti nel 1792 durante la
novena dell’Assunta, furono fatti insieme a p. Giuseppe Andrea Sineo in
un momento di grazia particolare per il nostro Venerabile, come si può
dedurre dalle annotazioni quotidiane pervenuteci (alla fine di ogni
giornata Pio Bruno riportava una sintesi di quanto aveva meditato, le
luci avute, i propositi fatti). Al secondo giorno, dedicato alla
meditazione sul peccato, così scrive: «Ho determinato di andare
piuttosto nell'inferno che commetterlo [il peccato] nuovamente,
e fare di tutto per impedirlo in altri. […].
Ho poi anche
accresciuta
l’idea della malizia del peccato considerandolo in sé…»[655]. Molto interessante è una annotazione fatta
al
terzo giorno “destinato a piangere i peccati veniali”[656]
in cui sembra avere ottenuto dallo Spirito Santo una luce
particolare di comprensione della sua anima e delle proprie debolezze:
«Gli esami furono 1°
sulla vita finora trascorsa con tanta tepidezza, e quindi il numero
immenso dei veniali, cercandone le radici che sono la rusticità e la
poca applicazione alle opere di religione».[657]
“Rusticità” e “negligenza” sono sempre più
chiaramente i nemici da abbattere. Nulla di nuovo, quindi, per il
giovane prete Lanteri. Al termine di questi E.S. confermerà
l’analisi del terzo giorno con una chiara e precisa lettura dei suoi
punti deboli, stilando una precisa strategia di combattimento a se
stesso:
«Vizio dominante
è
l'accidia, da cui proviene la rusticità; onde rimediata quella sia
rimediata questa. Infatti tutti i miei difetti con Dio e il prossimo
provengono da ciò che non ho una stima grande, un grande amore a Dio e
al prossimo e questo da ciò che non mi applico seriamente a conoscere
ciò che faccio, non mi applico perché mi rincresce la fatica di mente,
cioé l'applicazione seria, dunque ho bisogno d'un
ressort per superare questa pigrizia spirituale»[658]. Un’analisi accurata, fredda e precisa che
lo
porta a individuare con esattezza il suo difetto predominante:
l’accidia o pigrizia spirituale. Individuato il nemico, il Lanteri
passa all’attacco:
«Se io la prendo solo
sotto l'aspetto di mortificarmi, questo è come uno stato violento che
non dura, conviene che lo prenda (come l'esperienza me lo comprovò)
sotto l'aspetto di libertà di spirito, di generosità d'animo, e per
procurarmi più efficacemente questa virtù, non trovo miglior mezzo che
il prefiggermi di cercare in tutto la maggior gloria di Dio…»[659]. Interessante la sua strategia: no ad un
attacco sotto l’insegna della mortificazione frustrante, perché questa
provoca
“uno stato violento che non dura”. Qui il Lanteri dimostra acume
psicologico e spirituale non indifferente. Una lotta intrapresa
all’insegna di una spinta o motivazione positiva (qualcosa di buono o
migliore da acquisire), che ha più presa nell’animo e possibilità di
durata nel tempo che la stessa lotta intrapresa per una motivazione
negativa, ossia qualcosa di non buono da togliersi. In altre parole è
più entusiasmante e facile lottare per acquistare una virtù, che per
togliersi un difetto, e poiché la lotta è la stessa, ne segue che è più
facile eliminare i difetti lavorando sulle virtù contrarie. Per questo
il Lanteri pianificherà la sua lotta all’accidia impegnandosi
maggiormente per la gloria di Dio, mostrandoci così come egli vada
sempre più in profondità nella comprensione di sé, nella precisa
individuazione del suo costante nemico da annientare: negligenza e il
rispetto umano. Questi sono da lui avversati con impegno, come abbiamo
potuto ben vedere[660],
sin dai tempi della giovinezza:
«[…] esaminandomi
sovente
se quel che faccio è il meglio che possa fare per glorificar Dio, e se
lo faccio nel miglior modo possibile, sempre con Gesù Cristo per
esemplare, così mi rendo superiore a me stesso e trovo un motivo nobile
ed efficace per disprezzare i miei comodi o altro fine umano nell'agire
che son gli impedimenti dell'applicazione, essendo sempre venuti i miei
difetti o dal timore d'incomodarmi o di essere disprezzato»[661]. È Gesù, quindi, non se stesso, che il
Lanteri
tiene sempre davanti agli occhi, e la vista di Gesù lo fa correre
“con perseveranza nella corsa che ci sta davanti” (Eb 12,1).
È l’esempio trascinante di Lui che “in cambio della gioia che gli
era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l'ignominia, e
si è assiso alla destra del trono di Dio” (Eb 12,2). Questa analisi che il Lanteri fa di sé in
riferimento al suo nemico principale, che sarebbe a questo punto il
“timore”, ci spinge a cogliere il nesso tra la negligenza o timore
di incomodarsi e il rispetto umano o timore di essere disprezzato da
cui egli riteneva derivassero tutti i propri difetti. “Il timore di
incomodarsi”, manifesta chiaramente “svogliatezza”, una
volontà che rigetta lo sforzo, la fatica, il sacrificio e che ricerca
sempre la propria comodità e il proprio benessere. Il “timore di
essere disprezzato” indica la paura di essere ridicolizzato, di
fare brutte figure, di essere oggetto di critiche, quindi indica una
volontà che rigetta l’umiliazione e ricerca sempre e solo la
gratificazione di sé. Entrambi questi timori sono frutto dell’amor
proprio, della ricerca di se stessi e di “salvare la propria vita”
(Mc 8,35) invece di perderla, ricerca di sé che contrasta l’amore verso
Dio e il prossimo. Il Lanteri ha la certezza che la sua forza
interiore è assolutamente dipendente dalla fedeltà ai vari esercizi
spirituali impostisi, attraverso i quali acquistava la consapevolezza
di sé e delle motivazioni profonde del proprio agire, rendendosi così
capace di ricevere maggiori grazie di santificazione da Dio. Sente
quindi il bisogno di un imput, di uno scossone per svegliarsi
da un certo torpore, pigrizia spirituale che gli rallenta il cammino di
santificazione. Capisce con certezza e chiarezza che ha necessità di
esaminarsi e di far bene la sua ora di meditazione: «Per
tenermi poi costante in questo esercizio, è necessario un vincolo che
mi assicuri ogni giorno frequenza d'esame e un'ora di meditazione ben
fatta»[662]. Cerca così un qualcosa che lo aiuti a
impiegarsi sempre in modo “costante in questo esercizio”[663]
e questo aiuto lo trova come sempre nel “voto”:
«L'esame particolare
secondo S. Ignazio sulla purità d'intenzione nel senso come
sopra. Meditazione quotidiana. Voto di queste due cose fino alla
Natività di Maria Vergine ristretto come segue»[664]. Il voto è
una
cosa seria e il Lanteri si obbliga con voto, con la stessa serietà con
cui al tempo dei suoi studi teologici aveva fatto tutta quella serie di
voti e propositi, di cui abbiamo già parlato[665], precisandone
le modalità di attuazione:
«Quanto all'esame 2
volte
al giorno, senza ora fissa, non vi manco, se lo dimentico, oppur se lo
differisco o tralascio per qualunque menoma causa; vi manco solo
qualora avendo tutto il tempo, avendone piena avvertenza, per pura
negligenza grave, deliberatamente tralascio di farlo due volte prima di
andare a dormire. La meditazione: voto di farla prima del pranzo,
eccetto che debba lasciarla per una qualche causa grave, o almeno
dubbia; lasciandomi in mio favore ogni dubbio e lasciando la facoltà
per qualunque e menomo titolo al confessore di torlo a piacimento»[666]. Siamo nel
1792;
a dieci anni dalla stesura del suo Direttorio Spirituale, il
Lanteri non è per nulla cambiato, è sempre lo stesso fedele ricercatore
di perfezione che era, preciso fino alla pignoleria, stabilisce le
modalità della sua obbligazione nei minimi particolari.
Concludendo a riguardo delle sue annotazioni fatte in questi E.S.,
il Lanteri riporta il risultato del proprio discernimento operato in
funzione della revisione della propria vita, come suggerisce s. Ignazio
a coloro che fanno gli
E.S., avendo già operato una scelta definitiva di stato
di vita[667]:
«Ho trovato l'affetto
a 3
cose, letto, libri, debbo disfarmi subito delle posate d'argento, o
aspettar un'occasione determinata, segno determinato della volontà di
Dio.
Esame di
previdenza.
Avvertimenti sulla
coltura delle anime e carattere dolce».[668]
Interessante
questa indicazione: “letto, libri, debbo disfarmi subito delle
posate d'argento”. a)
Letto. Prima di
scrivere questa frase, il Lanteri si era anche soffermato alquanto sul
problema del “sonno”. Da un altro foglio di annotazioni
risalente al periodo 1789-1791 conosciamo il suo orario giornaliero: «Alle ore 5 o alle 4 e
mezza
in giorni festivi, levata, Prima, meditazione, Messa. Quindi al più
presto le ore piccole, lettura (alle 9 della sera Mattutino, esame,
punti, meditazione). Altrimenti non andare a pranzo finché sia detto il
Mattutino o fatta la meditazione, Vangelo.
Riposo finché si sia
fatto l'esame e un po' di lettura. Scrittura.
Fra il giorno nei
momenti
liberi portarsi in una chiesa, dire le ore piccole, esaminare, pregare,
etc.»[669].
Evidentemente aveva dei problemi di forte stanchezza, a causa del
lavoro apostolico sempre più pressante e del suo debole stato di salute
che lo accompagnava sempre. Cercava la giusta misura quotidiana di
sonno, guardando con un senso di apprezzamento verso gli orari e i
mezzi di santificazione della vita religiosa e di cui si sente privo
non senza rammarico, manifestando così quella nostalgia della vita
religiosa che aveva accompagnato la sua gioventù e che si realizzerà
solo nell’anzianità con la fondazione della Congregazione dei Padri
Oblati di Maria Vergine:
«Chi è in religione
ubbidisce e non sbaglia, e poi nella religione ogni cosa ha il suo
tempo, v'è per il riposo, come v'è per l'anima non solo, l'aiuto della
meditazione, ma tanti altri mezzi di cui manco, non avendo io che la
sola meditazione per vincolo non avendo tempo neppur per leggere»[670]. Nel
prosieguo
di questo scritto egli parla di un «voto mensuale prima di andare a
pranzo»[671] della cui consistenza
non ci è dato di sapere con certezza[672],
proseguendo poi con un lungo ragionamento in cui si domanda «se debba
piuttosto differire il pranzo che anticipar la levata»[673] e concludendo che andrà
«più di buon ora a dormire; che poi una volta o due la settimana tolga
un'ora di riposo, non importa»[674]. Quanto il Lanteri ritenesse importante il
dominio di sé, nell’ambito del riposo, ce lo mostra anche un altro suo
documento, un foglietto autografo del 1796 che riportiamo di seguito:
«1796, 13 ottobre. Voto di non
continuare a letto se mi sveglio a 5 ore ne’ giorni di confessionale a
S. Rocco, gli altri giorni alle ore 6. Ma nota bene:
1. non essendo
incomodato
per niente
2. che le ore siano
suonate
3. che lo sappia di
certa
scienza
4. che pienamente
avverta
al voto
5. che non sia andato
a
dormire dopo le 11 ore
6. da durare fino a
Natale [cancellato: per un anno]
7. con approvazione
del
confessore
8. tutti i dubbj
[dubbi]
si potran [sciogliere] in favore della libertà»[675]. Come si può vedere chiaramente da questo
foglietto, il Lanteri persevera sempre nello stesso stile spirituale
strettamente analitico, minuzioso, matematico e quindi, sotto diversi
aspetti, pesante, ma si tratta del suo stile personale, del suo modo di
impegnarsi ad amare il suo Signore costi quel che costi, aiutandosi
nelle sue determinazioni anche attraverso il vincolo di un voto. Interessante è il commento del
Calliari:
«È il solito problema
del
sonno e del riposo che lo tormentava […]. Nulla di nuovo di questa
testimonianza scritta, se non il rinnovato proposito di non frustrare o
render vano quello che da anni ormai formava l’oggetto del suo esame
particolare e l’obiettivo ascetico da lui maggiormente ambito. Sembra
che il Lanteri non avverta neppure la tempesta che rugge fuori dalla
porta della sua casa. Il suo pensiero è altrove, la sua attenzione è
tutta concentrata su quanto avviene nel piccolo grande mondo del suo
spirito ed egli vuole conservare il pieno controllo fino in fondo».[676] b)
Libri. Il Lanteri aveva capito di avere un
attaccamento disordinato alla sua biblioteca. È pervenuta fino a noi,
in una lista scritta di sua mano, dei libri da lui acquistati tra gli
anni 1781- 1794[677]
per la spesa complessiva di quasi 4.000 lire piemontesi. Il Calliari
così commenta questa lista: «Esaminando
gli autori e i titoli vediamo in prima linea gli autori moralisti in
commento agli Esercizi di sant’Ignazio e i più famosi predicatori
quaresimalisti del tempo, francesi e italiani, i primi sono dati nella
lingua francese, difficilmente nella traduzione italiana [Cheminais[678],
Neuville[679],
Personio
[680],
Nieremberg[681],
Pinamonti[682],
Cattaneo[683],
Rossi Quirico[684],
Bordoni[685],
ecc] […]. Una seconda
categoria comprende autori ascetici [Diotallevi[686],
Baudrand[687], Liguori,
Giovanni d’Avila[688],
Vittorelli[689],
Scupoli, Da Ponte[690],
ecc], agiografici[691],
mistici [Scaramelli[692],
Tempesti[693],
S. Teresa d’Avila, S. Francesco di Sales, ecc.]. Una terza categoria
comprende gli scrittori apologetici [Bergier[694],
ecc.]; una quarta gli scrittori che potremmo chiamare di letteratura
amena con opere di viaggi, di storia o di poesia religiosa [Filicaia[695],
Sappa[696],
ecc.] e finalmente una quinta che comprende i giornali e i periodici[697]
[…]»[698]. In realtà, non sappiamo se questi libri
fossero suoi o dell’Amicizia Sacerdotale (molto probabilmente
erano dell’Associazione) e comunque non indifferente doveva essere la
sua biblioteca personale. A questo riguardo è utile ricordare che cosa
era prescritto ad ogni
“Amico Sacerdote” dai propri statuti, per formarsi un
spirito buono: «Ognuno
ha un angolo (di sua casa) dove sta ordinariamente (per le sue
occupazioni ordinarie di leggere, scrivere, studiare, ecc.). Bisogna
circondare quest’angolo di libri scelti, che convengono maggiormente a
ciascuno, libri che contengano lo spirito il più puro del Cattolicismo
e della vita spirituale: e questi libri non debbono mai essere tolti da
quest’angolo, anzi non vi si metteranno altri libri che quelli, eccetto
qualche altro libro di passaggio che si finisca di leggere, e che
subito dopo d’averlo letto si mette in disparte»[699]. Come ogni cosa di quaggiù, pure la più
santa,
anche i libri buoni possono diventare qualcosa cui la persona si
attacca disordinatamente, trovando in essi un certo senso di sicurezza
e di importanza. Il Lanteri se ne accorse e lottò per annullare questo
disordine e relazionarsi con questi strumenti di formazione personale e
di apostolato, nella libertà interiore più grande.
c) Posate
d’argento.
Il Lanteri capì in questi Esercizi
di
essere attaccato a delle “posate d'argento”, molto
probabilmente si tratta di cari beni di famiglia, ereditati dopo la
morte del padre, che dovevano avere per lui un valore non semplicemente
venale, ma anche affettivo. Rendendosi conto dell’attaccamento in atto
e anche, molto probabilmente, per un desiderio di una maggiore
conformità a Gesù povero, decide di disfarsene. Ma forse appunto perché
erano un bene prezioso di famiglia preferisce, prima di disfarsene, di
«aspettar un'occasione determinata, segno determinato della volontà di
Dio»[700].
Come sempre cerca di fare tutto con tranquillità, senza fretta,
affidando alla Provvidenza le circostanze migliori perché tutto venga
sempre fatto nella pace del cuore.
1798-1814
23
dicembre 1798 1809 –
1812 24
gennaio 1811 Marzo
1811 17
aprile 1814 20
aprile 1814 Morte del Diessbach
a Vienna Pio VII imprigionato
a Savona Perquisizione
della polizia napoleonica in casa Lanteri Relegazione alla
Grangia Napoleone firma
l’abdicazione Ritorno
a Torino del Lanteri e ripresa delle attività apostoliche
1.
Il Lanteri nel contesto
storico degli anni 1798-1814
1.1.
La dominazione francese, la parentesi di
Souranov
e
l’attività del Lanteri
Nel periodo sotto la dominazione
francese si attuò in Piemonte il diffondersi delle idee giacobine, con
la conseguenza di non poche defezioni tra il clero secolare e religioso
aderente alle nuove idee[701].
A ciò si univa “una irreligiosità sempre crescente frutto
dell’illuminismo e del razionalismo imperante”[702] e
la diffusione sempre più vasta di “teorie e prassi, nel campo
morale, perniciosamente inquinate di giansenismo”[703].
All’improvviso si accese la speranza
di
un ritorno al vecchio regime: Souranov, celebre generale dell’armata
austro-russa, il 26 maggio 1799 entrava in Torino vittorioso,
ricacciando i francesi battuti oltre le Alpi. Solo Genova rimase in
mano francese, mentre il resto dell’intera Italia settentrionale era
tutta sotto il dominio austro-russo:
«La liberazione dal regime francese non ha soltanto importanza
politica
o militare ma anche religiosa. Con la venuta degli Austro-Russi si
trattava – almeno in teoria – di un ritorno alla normalità, di un colpo
di spugna sul passato, della fine della rivoluzione che si riteneva e
si sperava definitiva. I Russi ortodossi e gli Austriaci cattolici
avrebbero finalmente fatto il punto delle troppe infamie che la
prepotenza gallica aveva moltiplicato ai danni della coscienza e della
sensibilità del popolo cattolico italiano […]. Il triste incubo è
passato, almeno pare che sia passato, e un’era nuova di libertà
religiosa è iniziata»[704].
Fu tuttavia una gioia e una speranza
di
brevissima durata, tredici mesi, perché già a metà del 1800 le truppe
francesi ritornavano padrone d’Italia e il 20 giugno si installava a
Torino il nuovo Governo francese. Il sogno dunque era presto infranto.
C’è da dire, però, che il governo austro-russo fu disastroso e la
popolazione fu ridotta così alla fame che il ritorno dei francesi fu
visto con una certa simpatia che si estese anche alle idee giacobine da
costoro promosse.
In quel contesto di guerra e di
povertà
il nostro Venerabile si adoperò con le armi della carità, come ci
racconta il Ferrero:
«Quando si formarono poi gli ospedali, se non poteva lui stesso,
cercava fosservi sacerdoti per assistere i Francesi, gli Austriaci
gelati o feriti, e non si perdessero; e qui, quante limosine raccolse
perché fosser provveduti di un po’ di vino, come di qualche sollievo o
ristoramento, non lasciando di provveder libri, acciò s’istruissero, si
confermassero nella fede, si salvassero»[705].
Il dominio francese ritornò ad
attaccare
apertamente la Chiesa di Roma e chiunque difendesse il legame
ecclesiastico con Roma. Il Concordato del 1802 tra la Santa Sede e
Napoleone migliorò lievemente la situazione della Chiesa in Europa,
anche se la sua libertà era apparente e sempre sotto la minaccia dello
scisma nazionalista. Nel 1806 si arriverà pure ad istituire per il 15
agosto una festa in onore di un san Napoleone, mai esistito, e si
promulgano catechismi imperiali.
Le truppe napoleoniche procedono
all’occupazione dell’Italia, nel 1808 entrano a Roma e Pio VII viene
imprigionato e relegato a Savona dal 1809 al 1812. In questo clima
tempestoso il Lanteri entrò nel teatro della storia come
indomito guerriero e stratega del Regno dei Cieli, con la sua azione
apostolica instancabile e vastissima, iniziata negli anni precedenti ed
ora ulteriormente aumentata e che in questi anni certo non diminuì,
bensì aumentò.
Attraverso le “Amicizie”
provvide a diffondere opuscoli e libri che difendevano l’autorità del
Santo Padre ed il suo primato, così come altri che diffondevano la sana
dottrina morale di S. Alfonso, confutando i vari errori diffusi dagli
illuministi del tempo. Instancabile era la sua attività di lettura e di
informazione su quanto si stampava a livello europeo, come sentinella
della verità, pronto a segnalare e refutare l’errore, cosa nella quale
era un maestro impareggiabile:
«Ed in ciò non si poteva desiderare più abile maestro; poiché esso
aveva logorata col leggere la vista, e la sanità, e leggeva con sì
profondo criterio, che a prima giunta, ed a pochi tratti conosceva non
tanto lo scritto, quanto lo spirito dello scrittore; nemmeno leggeva
solo di passaggio, ma con serbar impresso talmente il giudizio di
ciascuna dottrina, che di moltissimi autori teologici, ascetici,
polemici, o morali che fossero, ben sapeva accennare in qual argomento,
e per qual capo il tale o tal’altro avesse detto meglio, e quale in una
materia, quale in un’altra dovesse preferirsi»[706].
Il Lanteri stesso scrisse diversi
opuscoli polemici che diffondevano le “Amicizie”, quali ad
esempio: “Examen impartial des questions proposées par l’Empereuer
au Comité Ecclesiastique séant à Paris. Suivi d’un appendix sur les
articles organiques du Concordat, et de quelques observations sur
plusieurs articles du Code pénal”[707]
– “Réflexions sur les demandes du pape Pie VII”[708]
– “Éléments de controverse”[709]
– “Esame del libro «Vera idea del matrimonio analoga ai principi
religiosi»”[710]
– “Obbligo di professare esternamente la fede”[711]
– “La Chiesa è una società monarchica”[712]
– “Alcune osservazioni sul nuovo catechismo”
[713]–
“Vera idea del nome «cattolico»”[714]
– “Idea della Società biblica”[715]
– “Sul concilio nazionale di Parigi del 1811”[716]
– “Sovra il supposto Concordato pubblicato con decreto imperiale il [13
febbraio] 1813”[717]
- “Esame teologico della formula di giuramento imposto ai cattolici
inglesi nel 1813”[718]
– “Lettera ad un nipote sulle quattro proposizioni gallicane”[719].
Oltre tutto il Venerabile provvide a
diffondere quanto più poteva vari documenti magisteriali e altri che
confermavano la santa dottrina del primato del Santo Padre nella Chiesa
universale:
«Dirò circa la fede, che premeva sempre nell’inculcare l’unione
colla
Chiesa Romana, al quale intendimento divulgò quanto poté la raccolta
delle migliori pastorali de’ Vescovi di Francia contro la scismatica
Costituzione civile del Clero, e quelle, in cui si spiegavano i
caratteri dell’ubbidienza di cuore e universale dovuta alla Santa
Romana Sede; gli scritti dell’Abate Barruel contro lo scisma, i Brevi
del Sommo Pontefice Pio VI e la Bolla Autorem Fidei[720],
di cui ne procurò e distribuì
molte copie. Quando poi in quell’epoca infelice s’insegnavano le
quattro proposizioni contenute nella supposta difesa della
dichiarazione del Clero gallicano, vi si oppose con un’edizione
dell’opera del Ballerini De vi et ratione Primatus Rom. Pontificis,
di cui me ne regalò una copia: divulgò la Conclusione teologica
d’Onorato Tournely portante che l’unione colla Sede di Pietro, vale a
dire col Romano Pontefice sia «de necessitate salutis»[721],
e che il Papa sia infallibile nelle sue decisioni dottrinali»[722].
Il Lanteri non si limitò a difendere
con
la penna, con la carta e con la parola il Santo Padre e il suo
magistero, ma si diede anche da fare per sovvenire direttamente alle
necessità di Questi nella sua relegazione savonese:
«Il Servo di Dio, che aveva nutrito sempre una particolare devozione
per il Sommo Pontefice, nel momento della violenta lotta Napoleonica
contro Pio VII, non risparmiò industrie e sacrifici per venire incontro
ai desideri dell’augusto prigioniero di Savona (1809-1812). Napoleone,
come è noto, aveva fatto sì che il Papa venisse a trovarsi nel più
completo isolamento morale: né persone né cose potevano giungere a lui
se non attraverso il più rigoroso controllo della polizia. Ora fu
proprio il nostro Servo di Dio che si preoccupò di formare a Torino una
specie di comitato segretissimo per venire incontro al Sommo Pontefice,
sia con somme pecuniarie, sia col fargli pervenire, nella maniera più
segreta, documenti e notizie che potessero essergli utili in una
situazione tanto dolorosa e angustiata[723].
Degno di nota a questo riguardo il seguente episodio che rispecchia al
vivo la situazione. Si venne a sapere che Pio VII desiderava avere gli
atti del Concilio Ecumenico di Lione, allo scopo di dimostrare a
Napoleone le infondatezze delle sue pretese. Il nostro Servo di Dio
trascrisse subito quegli atti e li affidò al coraggioso Cav. d’Agliano[724];
il quale essendo riuscito ad ottenere finalmente una udienza del Papa,
mentre si prostrava al bacio del sacro piede, lasciò scivolare il
fascicolo fra le pieghe della bianca veste del Santo Padre, il quale
poté effettivamente servirsene»[725]. Durante questo periodo, in seguito alla
chiusura delle “fabbriche” ordinata dall’autorità occupante, il
Lanteri decide di adibire a questo uso una sua proprietà: «Allora il Lanteri decise di crearne una che fosse di sua
proprietà e avesse così la tutela della legge. A una ventina di
chilometri da Torino possedeva una casa di campagna chiamata
La Grangia. Era un insieme di costruzioni diverse che potevano
adattarsi assai bene allo scopo che aveva in mente. Nel 1798 e negli
anni successivi fece fare le necessarie modifiche per accogliere,
durante otto giorni e anche un mese intero, i sacerdoti e i laici che,
sotto la sua direzione o quella di un predicatore di sua scelta,
venivano a fare gli Esercizi Spirituali»[726]. Il bene che il Lanteri seminò nella sua
tenuta della Grangia fu immenso: «Era in queste intime riunioni e conferenze spirituali,
fatte sempre nella luce della fede e sotto lo sguardo di Dio, che il
Lanteri infervorava gli spiriti, liberava le anime dei sacerdoti dal
veleno del giansenismo. Era là che denunciava le follie demagogiche e
gli abusi del potere dispotico e riconduceva gli animi alla purezza
della verità evangelica e dei principi cattolici. È
impossibile
misurare tutto il bene che il Lanteri fece in quei ritiri. Del resto
egli sapeva di non far altro che obbedire al comando evangelico del ‘compelle
intrare’[727]…»[728]. Lanciato nella direzione dei ritiri
e
degli E.S., il Lanteri riuscì anche a riattivare nel 1807 una Casa
di E.S. presso il santuario di S. Ignazio, in Val di Lanzo
nei dintorni di Torino (la Casa è tuttora attiva), dove egli stesso
diresse diversi corsi di
E.S.[729].
Il giovane clero permane sempre l’oggetto prediletto dell’apostolato
del Lanteri, il quale cercava di attirare proseliti, in modo
particolare verso la direzione degli E.S. ignaziani: «Premuroso
[il Lanteri] soprattutto di ben incamminare il giovane clero, circa
l’anno 1803-1804 teneva in un giorno della settimana qualche conferenza
di spirito, a cui intervenni in una sala dell’Ospedale di S. Giovanni
[…]. Mi sovviene però che non rifiniva di animarci allo studio, al
lavoro, ed alla perfezione per guadagnare anime a Dio: epperò ne
invitava a prevalersi di sua biblioteca, quale a’ giovani chierici, o
preti era sempre aperta. Si più raccolto buon numero de’ medesimi,
propose di tenere (come tenne talora in casa propria, e talora presso
alcuno de’ soci) un’Accademia settimanale, lì di cui membri dovessero
lavorare le meditazioni pe’ S. Spirituali Esercizi conforme il metodo
di S. Ignazio, ed a loro volta leggerle, ed esporle alla critica, che
ci faceva per ordine. In ciascuna di tali adunanze doveva pure uno de’
soci dare la notizia ragionata sovra un libro od opera, affine di
promuoverla se utile, o di bandirla via, se fosse scoperta pericolosa»[730]. La sua opera di formatore delle coscienze
e
delle anime sacerdotali non si fermava all’educazione all’intimità
divina, ma si estendeva anche alle attività concrete di apostolato in
favore dei più bisognosi. Attraverso l’“Amicizia Sacerdotale”, da
lui sapientemente diretta, introduceva il giovane clero all’apostolato
degli ultimi, così come egli stesso aveva imparato dal p. Diessbach,
indirizzandolo all’assistenza spirituale dei poveri, dei malati, dei
prigionieri e carcerati.
1.2. Il pensiero
socio-politico del Lanteri Ci sembra opportuno, a questo punto della
nostra trattazione, aprire una breve parentesi sul pensiero politico
del Lanteri perché la sua azione apostolica, svoltasi in un’epoca
travagliatissima, ebbe necessariamente un’incidenza nell’ambito
socio-politico del tempo. In quest’epoca era in atto in Europa la
tendenza degli Stati sovrani ad esercitare la loro sovranità anche
sulla Chiesa e su questioni ecclesiastiche, vedasi la Rivoluzione
Francese ed il suo acceso anticlericalismo. Il 1798 segna uno
spartiacque nella vita del p. Lanteri, non solo per la morte del p.
Diessbach, al quale egli doveva tantissimo ma anche perché fu l’anno in
cui di fatto iniziò l’asservimento piemontese alla Francia napoleonica: «… a partire dal 1798 e soprattutto dopo la vittoria dei
Francesi a Marengo, nel 1800, le sorti del Piemonte furono guidate
dalle autorità francesi per tutto il tempo che durò l’era di Napoleone»[731]. Il Lanteri alla scuola del Diessbach aveva
ben imparato ad avere una visione ampia e globale della storia del
tempo, nella quale era inserito come lottatore di primo piano. La sua
lotta fu tuttavia esclusivamente per il Regno di Dio, e anche se per
forza di cose dovette scegliere linee di azione che avevano risvolti
politici, egli non fu mai per un’azione meramente politica nel mondo,
ma per un’azione innanzi tutto di santità. Certamente fu contrario alla
rivoluzioni e alle idee nuove in genere[732],
ma la sua contrarietà non nasceva da una speculazione politica, quanto
dalla constatazione della devastante esperienza in atto relativa alla
Rivoluzione Francese. Con i suoi eccidi e i suoi eccessi da un lato, e
da un’ecclesiologia che non poteva ammettere la liceità della
subordinazione della Chiesa allo Stato nelle questioni ecclesiali,
dall’altro. Il Lanteri visse in un tempo
travagliatissimo
di passaggi epocali, per cui il suo pensiero politico risente di questo
condizionamento storico. Ad esempio, certe sue idee antidemocratiche
incondivisibili oggi, sono invece ben comprensibili in quel contesto di
disordini terrificanti effettuati all’insegna di odi anticlericali. In
un brano di una sua lettera diretta ad uno sconosciuto alto
ecclesiastico, vediamo appunto che egli negli anni 1818-1820[733]
cercava di bloccare la proclamazione di una Costituzione Piemontese: «Un
altro oggetto pare sommamente interessante per il momento, ed è il
cercare subito ogni mezzo per tentare d'impedire, per quanto sarà
possibile, che si adotti dal Sovrano qualche specie di Costituzione,
bastando a giudizio delle persone sensate l'osservanza delle leggi
esistenti per rimediare agli abusi introdottisi, tanto più che si è
osservato che non sono quelli che potevano credersi realmente aggravati
che presero parte in questa Rivoluzione, ma soltanto spiriti oziosi,
inquieti, imbevuti di cattivi principi contro il Governo e contro la
Chiesa, in una parola, senza religione. La ragione di questa mia
proposizione è che non può questa adottarsi veruna Costituzione senza
che si adotti espressamente o implicitamente il principio della
sovranità del popolo, che è il principio favorito dei protestanti, dei
filosofi, dei Giansenisti […]; il che sarebbe la sorgente di
incalcolabili disordini per la Chiesa, per il Governo, e per gli stessi
privati, come la storia ce l'ha [ci ha] dimostrato finora»[734]. Da
questa lettera arguiamo che tre sono le motivazioni che muovono il
Lanteri a fare di tutto perché non ci sia una Costituzione piemontese:
9
Una motivazione teologico-apologetica: il
principio della sovranità del popolo è il principio favorito dei
protestanti, dei filosofi illuministi anticlericali, dei Giansenisti.
10
Una motivazione storica: la Rivoluzione
Francese
con il suoi eccessi e con i suoi terrori e devastazioni anticlericali
prova di fatto a cosa porti la sovranità popolare.
11
Una motivazione sociale: “sarebbe la sorgente
di
incalcolabili disordini per la Chiesa, per il Governo, e per gli stessi
privati, come la storia ci ha dimostrato finora”. Non dobbiamo comunque pensarlo
semplicisticamente vittima di un condizionamento epocale che lo portò a
scelte politiche per noi obsolete e oggettivamente negative, perché
questo sarebbe un giudizio quanto mai superficiale e non veritiero. Il
Lanteri si mosse in quella direzione che lui, uomo spirituale, nella
precisa circostanza che lo interpellava all’azione, riteneva la più
corretta a pro del Regno di Dio. E se noi teniamo conto di quanto
accadde effettivamente quando il Piemonte si diede una Costituzione,
non possiamo non capire le scelte del Lanteri che, da sapiente
conoscitore del mondo del suo tempo, aveva già previsto a grande linee
quello che sarebbe successo con quella novità, come osserva il
Calliari: «La
Costituzione, dopo molte polemiche pro e contro che si prolungarono in
Piemonte per più di 30 anni, fu finalmente concessa dal re Carlo
Alberto col famoso Statuto del febbraio 1848, a cui in breve tempo
successe l'espulsione dei Gesuiti e delle Dame del Sacro Cuore,
l'abolizione del Foro Ecclesiastico e, poco più tardi, la persecuzione
contro l'arcivescovo di Torino Mons. Luigi Fransoni. I timori e le
riserve del Lanteri nei confronti della Costituzione, espressi una
trentina d'anni prima che fosse concessa, si vede che non erano del
tutto infondati»[735]. Certamente il Lanteri non poteva prevedere
gli sviluppi di questa nuova istanza sociale che attraverso la
purificazione del tempo, sarebbe poi diventata un’istanza comune alla
stessa Chiesa. Semplicemente allora non poteva vederne la bontà etica e
sociale, ma solo il grave danno per le istituzioni ecclesiastiche e i
cattolici tutti. Sotto questo punto di vista dunque dobbiamo leggere la
sua attività antinapoleonica, legittimistica e contraria ad ogni
cambiamento sociale in direzione di un riconoscimento della sovranità
popolare, svolta personalmente e attraverso le Associazioni da lui
dirette. Non ci dilungheremo molto su questi
aspetti,
che vogliamo toccare solo appena, in quanto l’argomento oggetto del
nostro studio non è il pensiero politico del Lanteri quanto invece lo
sviluppo della sua personalità spirituale nel tempo.
1.3. La salute del Lanteri
e
il confino alla Grangia Il periodo che stiamo considerando della
vita
del Lanteri, 1798-1814, è quello che egli trascorse tra i quarant’anni
e i cinquantaquattro, un’età in cui la persona, normalmente, vive al
massimo delle proprie energie fisiche. Ma non fu così per il nostro
Venerabile. Durante questi anni, infatti, lo stato della sua salute
continuò non solo ad essere cagionevole, come sempre era stato, ma
peggiorò ed ebbe diversi crolli. Così scriveva al Cav. Leopoldo Ricasoli[736]
scusandosi di non poter ritornare in Toscana in quell’estate: «Mi
accuso anch’io di aver lasciato passare lungo tempo senza scriverle, ma
mi fu veramente come impossibile, tanto più che ho voluto profittare di
alcuni giorni ancora per fari i miei S. Esercizi, i quali peraltro mi
riuscirono non troppo bene, perché la mia sanità non è troppo in ottimo
stato»[737]. Sappiamo di una brutta malattia che lo
indispose con una lunga convalescenza nel 1806, avendone notizia da lui
stesso quando, nell’autunno di quell’anno, si scusa ancora con il Cav.
Ricasoli per non essersi potuto recare a Firenze come programmato per
dirigere un corso di
E.S.: «Il
Signore ha così voluto disporre per i miei peccati, perché appunto in
tal tempo io ero ammalato, ed ho dovuto fare una convalescenza assai
lunga, in cui ero incapace affatto di applicarmi a qualche cosa, ed
infatti me l’aveva espressamente proibito il medico»[738]. Non sappiamo esattamente quale malattia
l’affliggesse, ma siamo a conoscenza di un peggioramento della sua
vista nel 1807; così infatti scrive alla Contessa Gabriella Solaro
della Margarita[739]
il 4 luglio 1808:
«[…] Vi prego di rendermi conto di
tutto
questo e prego il buon Dio che ve lo farà praticare. Se avrò vostre
notizie sarà per me una grande consolazione, e lo spero molto, tanto
più che la mia vista che si affievolisce sempre più non mi permetterà
di liberarmi, come l’anno scorso, dalle altre occupazioni…»[740]. Quest’aggravarsi della malattia oftalmica,
testimoniato anche da una serie di sue lettere al Cav. Leopoldo Ricasoli[741],
lo condurrà a chiedere dispensa dalla recita del breviario per
incapacità visiva, dispensa che gli fu accordata dalla Sede Apostolica
il 26 aprile 1809[742]. Interessante questo commento del Calliari
alla salute del Lanteri: «Abbiamo
già detto che il Lanteri non ebbe mai il dono di una robusta salute. Al
mal d’occhi si erano presto aggiunti, ancora in gioventù, altri
acciacchi dolorosi e noiosi, mal di gola, debolezza di voce, difficoltà
di respiro, e quindi facilità di stanchezza fisica, debolezza cardiaca
e necessità di molto riposo corporale. Egli finché poté ignorò questi
malanni. Continuò ad attendere alle sue normali occupazioni con un
sovraccarico di lavoro che non gli lasciava che pochissimo tempo libero
per il riposo e per il sollievo fisico, che difficilmente avrebbe
potuto essere sostenuto da una persona sana, fingendosi di non
accorgersi della ritrosia di “frate asino”»[743]. Utile, riguardo a ciò, quanto ci racconta
il
Loggero: «Attesa
la sua debolissima sanità non potendo appagare il proprio ardentissimo
zelo coll’assistere in persona agli infermi negli ospedali, od ai
prigionieri nelle carceri procurava d’incamminarvi giovani
ecclesiastici sì per soccorrerli nell’anima, come anche per addestrarli
meglio nel loro ministero delle confessioni in que' luoghi. E quelli
che tra gli ecclesiastici conosceva capaci inviava pure agli ospedali
militari francesi per guadagnarvi anime a Dio e (con loro grande
merito) dispregi, e maltrattamenti per amor di Dio Procurava poi egli
per mezzo di tali ecclesiastici gli esercizi spirituali specialmente
nelle prigioni, ove in tali circostanze, sebbene con suo grande stento,
e patimenti per l’oppressione di petto, andava anch’egli sovente volte
per aiutare a confessare»[744]. Nel periodo successivo a quello che stiamo
esaminando, il nostro Venerabile, in alcune note spirituali per i suoi
Oblati, scriverà proprio quanto egli aveva sempre vissuto, riprendendo
l’allegoria dell’asino o giumento: «Né
deve usarsi troppa indulgenza ma allenarlo alla fatica, ma avvezzare il
corpo a faticare, patire per servizio di Dio ad astenersi da gusti non
necessari, a guidarsi coi dettami della ragione, non con gli istinti.
Chi fa altrimenti serve più al corpo che a
Dio: est modus in rebus. Il corpo né
deve trattarsi con tanta piacevolezza che diventi insolente e
capriccioso, né con tanta austerità che resti inabile a servire Dio e
l'anima. Si pasca quasi giumento, ma con esigerne insieme che porti la
soma. Foraggio, bastone e pesi per l'asino; pane, castigo e lavoro
per lo schiavo (Eccli.
33, 25)»[745]. Dal 1809 la salute del Lanteri è molto
compromessa; questa notizia ci giunge attraverso una lettera che
l’Arcivescovo di Torino, Mons. Giacinto della Torre, inviò al Ministro
dei Culti in seguito alla richiesta fattagli di sospendere al Lanteri
la patente di confessore per via delle sue attività antinapoleoniche. La lettera dell’Arcivescovo è in pratica
un’autodifesa del Lanteri, perché essa fu scritta basandosi su note
personali che a questo proposito il Lanteri aveva scritto e fatto
pervenire all’Arcivescovo dietro sua richiesta[746],
sotto forma di sua lettera personale al Ministro dei Culti francese.
L’Arcivescovo si servì appunto di questo scritto per redigere quella
parte della lettera in cui difende il Venerabile, «copiando
talvolta ad litteram»[747]. Un’affermazione del Lanteri che
l’Arcivescovo
riportò nella sua lettera di difesa, parve ritenersi come
“menzogna” e quindi rischiò di inficiare la causa di beatificazione
del Nostro[748]; la frase del Lanteri era questa:
«Il Teologo Lanteri ha l’onore di assicurare Vostra Eccellenza che
non
ha mai avuto alcuna conoscenza a Savona»[749].
L’Arcivescovo così scriveva al Ministro
dei
Culti:
«Ma, se Vostra Eccellenza mi permette di dirle francamente la
verità,
io ho l’onore di assicurarla che il Teologo Lanteri non ha mai avuto
conoscenze a Savona»[750]. Sembrerebbe quindi che il Lanteri si sia
servito di una bugia per salvare se stesso. Fu presentata
quindi una
obiezione al Promotoris generalis fidei in causa Pii Brunonis
Lanteri alla quale il Promotore, Mons. Salvatore Natucci,
rispose affermando la liceità dell’affermazione del Lanteri in quanto restritio.
Così commenta il Calliari: «Se
egli affermava che “a Savona non aveva avuto nessuna conoscenza”, non
diceva né più né meno che quanto corrispondeva a verità. Fino ad allora
egli non aveva mai messo piede nella città ligure, e là non c’era
nessuno con cui avesse una “conoscenza” personale. Se egli ebbe
corrispondenza particolare con qualche savonese o con qualche persona
al seguito del Papa che si trovava a Savona – il che è probabilissimo –
ciò non entrava nel novero delle “conoscenze” in senso stretto e non
veniva a contraddire la sua affermazione precedente: la
“corrispondenza” non significa sempre e del tutto una conoscenza”. Non
si può dire perciò – come a prima vista potrebbe sembrare – che il
Lanteri abbia cercato di salvare se stesso dicendo una bugia. Negò una
parte sottintendendo il più, sottintendendo il tutto che non era
obbligato a dire»[751]. D’altra parte chi perseguitava il Lanteri,
se
avesse conosciuta tutta la verità «ne avrebbe preso occasione per
infierire contro la Chiesa e i suoi difensori con acrimonia ancora
maggiore»[752].
L’Arcivescovo, nella sua lettera di difesa dell’operato del
Lanteri, dapprima parla dell’apostolato di questi come confessore: «È dello stesso genere l’accusa che si porta contro il
Lanteri, di ricevere in casa molte persone per confessarle. Questa
accusa è del tutto gratuita e non può essergli imputata a colpa,
perché, sì è vero che confessava delle volte molte persone, di tutti i
sessi, e anche qualche francese a causa del fatto che conosce la
lingua, ma non è meno vero che tutto era in regola, cioè questo veniva
fatto in pubblico e in chiesa e molto poco presso casa sua, essendo
ordinariamente occupato a visitare i malati»[753].
Quindi precisa che tutto questa attività
apostolica del Lanteri si riferisce ad un anno e mezzo prima, in quanto
da allora il cattivo stato di salute non permetteva al Lanteri che
pochissimo apostolato:
«Inoltre è un fatto che questo ecclesiastico da un anno e
mezzo
circa è abitualmente seduto in poltrona, e soffre di violenti attacchi
nervosi [di asma] che hanno condotto in questo tempo i medici a
consigliarlo di disimpegnarsi dal suo ministero. Da allora il Padre
Lanteri non è più andato in chiesa per confessare ed è costretto a far
venire in casa sua coloro che desiderano confessarsi con lui, per cui
da diciotto mesi egli non confessa che un piccolo numero di persone»[754]. L’Arcivescovo continua dicendo che
sospenderlo come confessore farebbe solo del male ai suoi penitenti e
tanto bene a lui che ha così tanto bisogno di riposo e prosegue
aggiungendo:
«Ma quello che trovo ben duro e penoso e che non mi sembra che lo
abbia
punto meritato, è di essere relegato nel suo stato attuale di infermità
presso la sua campagna che è ben lungi di essere a poca distanza da
Torino, in effetti è troppo lontana per un malato che spesso ha bisogno
del pronto soccorso dei medici e di rimedi che non si possono
provvedersi nei dintorni in quanto affatto sprovvisti»[755]. Riportiamo di seguito uno stralcio del
rapporto del Direttore della Polizia francese, Mons. d’Auzers,
trasmesso al Ministro della Polizia Generale di Parigi. In questa
lettura si conferma l’alta considerazione e stima che il Lanteri godeva
a Torino:
«Signore, […] Questo ecclesiastico che qui passa per uomo molto pio
e
onesto, mi era stato segnalato da un agente segreto, come non avente
un’opinione favorevole al Governo particolarmente dopo le difficoltà
con il Papa. Adesso, dato che è troppo prudente nei suoi discorsi e nei
suoi passi[756], non avendo ottenuto nessuna prova, feci esercitare su di
lui una sorveglianza segreta»[757]. Nel brano successivo l’ufficiale parla
delle Associazioni
segrete di cui sarebbe a capo proprio il Lanteri, si tratta
evidentemente delle Amicizie e della Aa:
«Io ho scoperto che esisteva a Torino in altri tempi, cioè prima
dell’occupazione di questo paese da parte della Francia, una specie di
associazione di preti e di chierici Gesuiti, dopo la loro soppressione.
Queste associazioni si obbligavano a tenere segreto, anche ai propri
confessori, quello che discutevano nelle loro assemblee. Il Padre
Lanteri era il capo di queste riunioni […] »[758]. Nel prosieguo Mons. d’Auzers dà il
resoconto della perquisizione in casa Lanteri, avvenuta il 24 gennaio
1811, giorno in cui la Chiesa festeggia s. Francesco di Sales. Come
ricorda, certamente non senza commozione, lo stesso Lanteri in una sua
nota scritta al tempo della Restaurazione[759].
La perquisizione non diede il frutto sperato[760],
ma fu sufficiente per bollare il Lanteri come antinapoleonico.
«Subito dopo l’interrogatorio, feci procedere alla perquisizione
delle
sue carte. Non fu trovato nulla di sospetto se non una copia della
lettera del Papa, datata da Roma 10 giugno 1809[761]. Ho l’onore di trasmettere a Vostra Eccellenza una
traduzione dei paragrafi più caratteristici di questa, affinché Lei
possa capire, a colpo d’occhio, in quale spirito è stata scritta, e
cosa si debba pensare dell’opinione politica di chi conserva presso di
sé tale manoscritto»[762]. L’ufficiale di Polizia propone quindi,
subdolamente, di far prima togliere al Lanteri la facoltà di
confessare, perché ritenuto troppo influente verso molte persone
dell’aristocrazia torinese, e poi di esiliarlo non lontano dalla città:
«Non posso nasconderle, Signore, che il Padre Lanteri ha una grande
influenza qui per mezzo delle confessioni. Infatti egli è uno dei più
ricercati della città. Da parecchi mesi una cattiva salute lo relega
nella sua camera e una grande quantità di persone, anche delle classi
più alte lo tiene come direttore spirituale. Sarebbe conveniente, io
penso, che Mons. l’Arcivescovo di Torino gli revochi l’autorizzazione
per le confessioni. La cagionevole sua salute non gli permetterebbe di
essere trasferito molto lontano».[763] A coronamento di tanto zelo apostolico, il
nostro Venerabile dovette così abbandonare la sua Torino, come lo
stesso Lanteri ricorda in alcune note del 1817 che scrisse per la prima
adunanza dell’“Amicizia Cristiana” una volta che questa riprese
vita nella Restaurazione: «Indi
il T. L.
[Teologo Lanteri] fu esiliato a Bardassano come sospetto di
corrispondenza segreta con Savona, per ove partì il 25 marzo 1811, e vi
stette più di tre anni cioè fino all’arrivo del nostro Re»[764].
2.
Il cammino spirituale
2.1. Vari fogli di
risoluzioni
e proponimenti spirituali Vale la pena di riportare quanto scrisse a
suo tempo il Calliari in merito a questi preziosissimi
foglietti: «Quando
ci capitano tra mano i foglietti irregolari, vergati in fretta tra una
meditazione e l’altra dal Lanteri, o i propositi formulati e messi in
carta alla fine di un corso di Esercizi Spirituali, ci sentiamo subito
trasportati in un’altra sfera, diversa da quella di cui la storia e la
cronaca ci tengono prigionieri, priva di rumori di battaglia che fanno
fremere l’anima, lontana dallo squallido spettacolo della lotta contro
la fede e la religione fatta a colpi di leggi e di soppressioni col
compiacente concorso talvolta di uomini di Chiesa. Questi foglietti ci
trasportano in un ambiente di serenità, di sicurezza, di certezza, di
pace; in un clima spirituale in cui a larghi polmoni si respira la
presenza di Dio, in cui si riflette la semplicità dell’anima che cerca
Dio solo e che vuole raggiungere l’intimità con la perfezione del
proprio sacrificio e del proprio amore»[765].
2.1.1. Il documento “A”: “Fascicoletto di appunti spirituali in fogli
sciolti”[766] Si tratta di uno dei suoi soliti fogli
d’appunti che si portava dietro inserito in qualcuno dei suoi libri,
sia per rileggerseli spesso, sia per ricordarsi qualcosa di pratico che
doveva fare, mischiando così i richiami spirituali ai vari impegni
pratici che doveva assolvere. Il Curatore dell’edizione degli Scritti
del P. Lanteri, così commenta questo documento: «Dopo
brevi richiami per la confessione generale ed affari vari, stende un
programma di vita per ogni giorno, ogni settimana, ogni mese dove si
vede che ormai ha raggiunto la maturità dell'uomo di Dio e
dell'apostolo: “Quello che vuole Dio e come lo vuole”»[767]. Poche righe dunque, ma preziose perché
rivelatrici di una maturità raggiunta e saldamente posseduta.
Analizziamo ora da cosa traspare questa maturità omettendo l’analisi
delle annotazioni riguardanti cose pratiche da sbrigare:
«Confessione generale. Parlare di
beneficio
laicale. Restituzione p. d. [padre Diessbach]. Aggiustare le scritture
e riordinarle.
Ogni giorno, mezz'ora almeno di
meditazione
seria e preparata secondo l'ordine di S. Ignazio, e in essa ordinare i
miei affari della giornata, per fare più sicuramente in tutto la
volontà di Dio e procurargli la sua gloria non aliud sed
aliter, non ex
more sed ex amore[768].
Esame di coscienza almeno per strada,
secondo il mio metodo o di Neumayr. Entrare in chiesa per adorare il SS.
Sacramento
e chiedere grazia a Gesù, a Maria. Lettura spirituale e studio,
per quanto si potrà»[769]. “Confessione generale – esame
di coscienza almeno per strada…”: Lanteri è nel pieno della sua vita
apostolica, sovraccarico di impegni, ma non rinuncia a tutta quella
impalcatura spirituale, analitica e precisa, che aveva caratterizzato
il suo cammino; solo che essa diventa più, per così dire, fluida e
pratica. L’annotazione circa la “confessione generale”[770] e
“l’esame di coscienza” ci mostra come egli fosse sempre vigile e
teso verso la conoscenza di se stesso, per purificarsi in
profondità. Ma non ci sfugga quell’“almeno per strada”, che ci
indica come fosse consapevole delle difficoltà pratiche di realizzare
tutti gli esercizi di pietà che si prefiggeva nel vortice della vita
apostolica. Stessa considerazione per la durata della
meditazione dove è presente lo stesso avverbio, “almeno”: “Mezz’ora
almeno di meditazione seria e preparata secondo l'ordine di S.
Ignazio” in cui sottoporre al discernimento gli impegni della
giornata “per fare più sicuramente in tutto la volontà di Dio e
procurargli la sua gloria non aliud sed aliter, non ex more sed ex
amore”: nient’altro, ma solo questo, la volontà di Dio, non per
abitudine, ma per amore e l’amore richiama, e questo l’aveva capito
bene il Lanteri, la consapevolezza continua di chi ama. Uno dei frutti
di quest’esercizio, di sottoporre quotidianamente a Dio nella preghiera
i propri impegni per ordinarli in Lui, è proprio quello di una maggiore
consapevolezza delle proprie azioni e quindi una maggior carica di
fervore d’amore nel compierle. Il Lanteri ha ormai raggiunto in questo
stadio della sua vita, una maggiore facilità e semplicità nel trovare
Dio e la sua volontà. “Entrare in chiesa per
adorare il SS. Sacramento e chiedere
grazia a Gesù, a Maria…”: nessuna indicazione per la visita al SS.
Sacramento oltre quella generica di
“adorare”; nel suo Direttorio Spirituale era stato molto
più dettagliato: «Nella
visita del Santissimo Sacramento o il 3° modo di orare[771],
o familiarizzare con Gesù Cristo. […] Visita del Santissimo Sacramento:
Atto di fede, di adorazione, supplicarLo del patrocinio negli affari o
meditare una domanda del Pater, o con la sua assistenza porgere
la supplica del
Pater, ringraziamento, Sub tuum»[772]. La
sua vita spirituale, pur rimanendo molto analitica, si è dunque
semplificata. Sappiamo inoltre, riguardo la sua devozione eucaristica
che intorno al 1800[773]
si iscrisse all’Associazione del Sacro Cuore Piagato di Gesù,
che era stata eretta canonicamente presso la chiesa torinese della
Visitazione. L’appartenenza a questa Associazione implicava l’impegno
generico all’adora-zione quotidiana del Santissimo Sacramento pregando
per la conversione dei poveri peccatori e l’obbligo di un’ora di
adorazione annuale che il Lanteri scelse di fare ogni terzo venerdì
d’ottobre dalle ore otto alle nove[774]. “Lettura spirituale e studio, per
quanto
si potrà…”: quel “per quanto si
potrà” è analogo a quell’“almeno” di cui sopra e ci rivela
l’affanno dell’apostolo intrepido che vorrebbe conquistare il mondo a
Dio e al suo Regno e il sospiro del discepolo amante, che vorrebbe
rimanere ai piedi del Maestro a gustarsi “la parte migliore” (Lc
10,42). Ormai egli sa bene che non sempre potrà fare tutto
quello che aveva analiticamente e con tanta precisione stabilito, ma
potrà fare solo quello che la Provvidenza del buon Dio gli permetterà.
Vive, quindi, sempre più immerso e abbandonato alla volontà di Dio, che
giorno per giorno gli si manifesta nelle circostanze della sua vita e
che egli s’impegna a discernere nella orazione.
Continuiamo la presentazione di questo foglio di annotazioni: «Ogni settimana una mattina a giovani
ecclesiastici; almeno un'ora per pensare agli affari spirituali e
temporali di A.C. [Amicizia Cristiana] e privati.
Penitenze solite. Confessione; manifestazione dell'interno. Voto per l'esame e meditazione o 7
[franchi] e mezzo elemosina. Av. Verne»[775]. “Ogni
settimana una mattina a giovani ecclesiastici”: questa annotazione
non deve trarci in inganno, come se il Lanteri dedicasse al giovane
clero solo una mattinata. Il tempo speso per questo ministero di
formazione e guida era certamente maggiore. Questa nota probabilmente
si riferisce all’apostolato con cui cercava di agganciare il giovane
clero all’Amicizia Sacerdotale.
Infatti, se si fosse trattato di giovane clero appartenente
all’Associazione l’avrebbe certamente indicato con la sigla usuale di AS.
A questa mattinata dedicata alla “cerca” si
dovrebbe aggiungere, quindi, tutto il tempo che dedicava all’AS.
“Penitenze solite”: Alcune delle penitenze del Lanteri chierico le
abbiamo conosciute e ne abbiamo a suo tempo parlato[776],
ma quali erano le “penitenze solite” del Lanteri prete? Alcune
persone che lo conobbero, riferirono di lui che abitualmente amava
usare strumenti di penitenza anche molto rudi: «Fu tutto
mortificazione, prima che la sua sanità lo logorasse, sceglieva alla
mensa sempre quel che vi era di peggio; poi sotto pretesto di
rinforzare lo stomaco, masticava cose amare, per spirito di
mortificazione ritardava ad aprire una lettera, a leggere un libro, che
l’interessavano moltissimo. Ne’ suoi discorsi spirituali e quando dava
egli stesso i Santi Esercizi, avea un’arte mirabile per far abbracciare
la mortificazione, ed ogni giorno facea trar a sorte le pratiche da
esercitarsi, portava cilici, e usava discipline assiduamente, e ne avea
sempre un ricco fondo preparato per chiunque desiderasse strumenti di
penitenza, e fra questi anche dei più orridi e sanguinosi»[777]. In
un altro foglio d’annotazioni del 1806 parla della necessità di
esaminarsi quotidianamente sugli “atti di umiltà e di
mortificazione interni e esterni”[778],
ma non indica quali siano i suoi atti di mortificazione esterna
abituali. In un foglio di risoluzioni scritto intorno al 1803, scrive: «Penitenza
non tralasciata»[779]
ad indicare il suo proposito di non trascurare le solite penitenze che
si era prefisso, come se nel suo esame egli avesse riscontrato una
certa trascuratezza in questo, ma anche qui non dice nulla che ci possa
far capire di quali penitenze si tratti. Abbiamo visto nella sua vita
da chierico, come molto probabilmente usasse “catenelle –
braccialetti e discipline”[780] e
sappiamo con certezza, dalla testimonianze di chi gli fu vicino, che il
Lanteri usò simili strumenti per tutta la vita, divenendo un maestro
nell’iniziare i suoi figli spirituali alla mortificazione[781].
Al Cav. Leopoldo Ricasoli, tentato di incostanza nei proponimenti, in
una lettera del 10-12-1812, suggerisce questa terapia spirituale: «[…] la frequenza
stabile dei Sacramenti non mai interrotta qualunque sia il motivo,
accompagnata dalla pratica costante della meditazione e lezione
spirituale, e dall’esercizio frequente di qualche mortificazione
esterna»[782]. Il
Lanteri non indica però quali potessero essere queste “mortificazioni
esterne” aggiungendo, tra l’altro, che «tutto questo non è poi
così difficile»[783].
Sembra abbastanza chiaro che egli non fondasse la sua spiritualità su
mortificazioni straordinarie, anche se sapeva suscitare, nelle anime,
la sete di mortificazione esterne. La sua fu sì una spiritualità
altamente mortificata, ma fondata principalmente sulla mortificazione
ordinaria, mortificata nel dovere fatto costi quel che costi, nella
ricerca continua della perfezione in tutto, nel costante assillo di non
perdere «quel tempo così prezioso che il Signore ci dona»[784].
Su questa linea anche quest’altro brano di una lettera del Lanteri,
databile presumibilmente tra il 1790 e il 1814[785],
ad una Dama sconosciuta sua penitente: «Procurerò
di mortificarmi, sebbene in piccole cose nella lingua, e negli occhi, e
non lascerò passare giorno senza riportare qualche vittoria sulle mie
passioni, ora con rinnegare la mia volontà, ora con soffrire con
dolcezza le cose avverse; rifletterò su quanto ha fatto Gesù Cristo per
salvarmi, e mi animerò con il pensiero che tutto merita chi tutto
diede, particolarmente poi mi mortificherò la mattina nel levarmi dal
letto per tempo, per poter adempiere come si deve alle obbligazioni del
mio stato, ed usare le mie pratiche di pietà»[786]. In
un testo diretto ad aiutare la vita spirituale di una monaca, forse
visitandina, il Lanteri così scriveva in un’epoca presumibilmente
contemporanea ai fogli in esame: «1. Insegna S.
Tommaso tre essere le parti della penitenza: digiuno, orazione,
elemosina sì corporale che spirituale. Non bisogna dunque credere di
non fare penitenza, perché non macerate la carne, o non fate molti
digiuni. Le altre due parti cioè orazione ed elemosina suppliscono a
questo dovere del cristiano. 2. Il ricevere
con
rassegnazione i travagli, infermità, aridità, disgrazie è una penitenza
tanto più grata a Dio, quanto meno eletta da noi»[787]. “Voto
per l'esame e meditazione o 7 [franchi] e mezzo elemosina”: come si
può vedere, il Lanteri prosegue sempre con il “voto”, legandosi
con un voto a tempo su alcuni esercizi spirituali ritenuti determinanti
e importanti. Il voto gli ottiene un maggior merito nel compiere
l’azione oggetto di vincolo, e gli assicura anche una carica
psicologica volitiva più determinata e forte. Ma qui abbiamo una
novità; la possibilità di onorare il voto con una “multa”
pecuniaria di “7 [franchi] e mezzo” da elargire in elemosina.
Quest’ultima opzione ci manifesta come il nostro Venerabile avesse
raggiunto la realistica consapevolezza che non sempre gli sarebbe stato
possibile fare i suoi esercizi di pietà cui tanto teneva, e pur
tuttavia non si arrende ad accettare semplicemente la sua incolpevole
insufficienza di tempo, ma si impone una multa pecuniaria per ogni
mancanza. Questo atteggiamento non è casuale, ma è una nota costante
del Lanteri, almeno in questo periodo che stiamo esaminando; infatti in
un altro foglio simile in cui annotò le risoluzioni personali degli E.S.
da lui fatti tre anni dopo, nel 1807, così scriverà: «Votum
sub veniali[788]
di almeno mezz’ora di meditazione, finché si può prima di pranzo, colla
pena in difetto di franchi 1,7,6[789]
di elemosina, e di farne un’ora un altro giorno, exludes solo causa
legittima, o vere dubia[790],
fino a Natale, o da rinnovarsi con giorno di ritiro. Il giorno che
trascurerò la prima volta la meditazione, d’allora in poi tutto andrà
male»[791]. Questo inciso finale potrebbe essere
interpretato in due modi. Il primo, dove il Lanteri presupponesse che
tutto sarebbe andato male il giorno che avesse trascurato la
meditazione (il che significherebbe che fino a quel giorno mai aveva
omesso la meditazione quotidiana, cosa inverosimile) o, molto più
realisticamente e semplicemente, il Lanteri aveva l’esperienza di non
aver potuto ottemperare a questo suo impegno ascetico, come ben annota
il Calliari: «Quest’ultimo
inciso fa pensare che qualche volta il Lanteri, o per troppa
occupazione, o per malattia, o per stanchezza, abbia dovuto lasciare la
sua meditazione quotidiana, ricevendone poi un senso di vuoto
spirituale durante la giornata, l’impressione di qualche cosa che
mancasse per dare la stabilità e la direttiva sicura al suo operare e
al suo vivere»[792]. Quanta importanza egli desse alla
meditazione
quotidiana emerge da queste ultime risoluzioni prese in considerazione,
in ottemperanza alle quali il Lanteri decideva di sottoporsi a due, per
così dire, penalità: la prima è la multa pecuniaria e la
seconda è “farne un’ora in un altro giorno”. Qui vediamo uno
sviluppo rispetto alla sola pena pecuniaria impostosi nel 1804 per
assolvere l’inadempimento dell’orazione. Ora invece non basta il solo
pagamento di una multa, ma bisogna altresì anche pregare “un’ora in
un altro giorno”. Possiamo interpretare questa cosa nei due
seguenti modi. Il primo modo è che il Lanteri stabilisca
di
recuperare la mezz’ora non fatta con un’ora di meditazione. Un’ora, non
mezz’ora, il doppio quindi del tempo dell’orazione votata. Se così
fosse, possiamo pensare che questo passaggio di severità con se stesso
probabilmente fu causato nel Lanteri dall’accorgersi che il sentirsi
sciolto dal voto con una pena pecuniaria poteva farlo scivolare, anche
inconsciamente e lentamente, nel rilassamento spirituale. Nelle
periodiche verifiche ed esami della propria vita spirituale, è
possibile che si sia accorto come, alcune volte, se avesse applicato
maggior impegno, determinazione e spirito di sacrificio, il tempo di
pregare avrebbe potuto trovarlo. Per cui, con questo accorgimento di
una penalità di orazione aggiuntiva, aiutava se stesso a dare il
massimo al Signore, cioè la maggior gloria possibile come si auspica
nella massima ignaziana, “O.A.M.D.G.”, che lui aveva fatto sua
e che vedremo riportata più avanti nel foglio in esame. Il secondo modo di interpretare la frase
“un’ora in un altro giorno” è che la mezz’ora non fatta verrà
recuperata in altro momento, aggiungendola alla mezz’ora dovuta per
quel giorno e divenendo così un’ora. Nessuna maggiorazione dunque, ma
solo recupero dell’orazione inadempiuta con l’aggravio di una multa.
Questa seconda possibilità sembrerebbe essere quella più probabile. Strettamente legata alla volontà di fare
bene
la meditazione quotidiana, è la preoccupazione che il Lanteri ha di
alzarsi presto la mattina. Abbiamo già visto, nel periodo precedente,
qualcosa della sua lotta con il “letto”[793],
lotta che porterà avanti tutta la vita avvalendosi anche dell’aiuto
psicologico-spirituale di sottomettere a voto la levata mattutina: «1800,
24 novembre. Voto di levarmi alle 5 i giorni di confessionale, e 5
mezza gli altri da rinnovarsi questo fino a Natale»[794]. In un altro foglietto simile, sempre di
questo periodo, troviamo lo stesso proposito di fare della levata
mattutina oggetto di voto. Lo riportiamo ugualmente sia perché ci si
possa rendere conto di come il Lanteri si mantenesse costante nel suo
uso dei voti per determinarsi maggiormente nel fare bene qualcosa da
lui ritenuto vitale, sia perché in quest’altro documento si dilunga
alquanto sulle modalità della meditazione:
«Far voto di
levarmi alle 5
ore i giorni di Confessione per assicurare mezz’ora di meditazione,
preparata la sera avanti. Subito svegliato, il cuore a Dio, indi la
Meditazione, la cui preparazione consiste nelle parole Quis-Cui[795],
la miseria e la misericordia. Il modo di farla consiste nelle parole: Quærite,
Petite, Pulsate[796],
atti di fede, speranza, carità: gli Esercizi di S. Ignazio ne
somministrano la materia»[797]. Nota costante del Lanteri è questa sua
preoccupazione “per assicurare mezz’ora di meditazione, preparata
la sera avanti”. Ma se da un lato emerge sempre questa sua
caratteristica spirituale analitica, precisa, direi fin troppo pignola
nel curare a dovere ogni particolare, dall’altro emerge possente, qua e
là, una nota di sintesi, di unificazione profonda del suo animo.
Lo scopo di tutto l’impegno che pone nel far bene ogni piccola cosa
possiamo paragonarlo alla cura che deve avere ogni aspirante pianista
nell’esercitarsi ore e ore in piccoli esercizi di movimento delle dita,
fino a quando verrà poi il giorno in cui esse suoneranno,
sciolte e perfettamente libere, le sinfonie più difficili. Così il Lanteri si esprime sulla vita
spirituale, e questo foglio che stiamo esaminando ne è un esempio
lampante:
“La Meditazione, la cui preparazione consiste nelle parole Quis-Cui, la
miseria e la misericordia”. Solo poche parole, due, ”Quis-Cui”,
per sintetizzare cos’è la preparazione della meditazione: “miseria e
misericordia”, far memoria della miseria per essere risucchiati
dalla misericordia divina. E tutta la meditazione in che cosa consiste?
Tre parole per spiegarla: “Quærite, Petite, Pulsate” a cui
accosta le tre virtù teologali che gestiscono il nostro incontro con
Dio. È come se dicesse:
“Quærite con la fede, petite con la speranza, pulsate con la
carità”,
in una sintesi stupenda della vita di orazione. La materia con cui cercare,
chiedere e bussare la si troverà in abbondanza negli E.S.
ignaziani, interpretati come strumentali alla vita teologale e
nello stesso tempo ritenuti fondamentali, in quanto permettono una vita
teologale “fondata sulla roccia” (Mt 7,24) e non su un vano e
vuoto sentimentalismo. Torniamo ora al nostro documento in esame
riportandone il seguito: «Ogni mese un giorno di ritiro se si può. Ogni
mese rivedere i proponimenti. “Ogni
mese un giorno di ritiro se si può”: anche qui il “se si può”
ci mostra quanto il Lanteri fosse impegnato in questo periodo della sua
vita, tanto da prevedere fortemente probabile la possibilità di saltare
il ritiro spirituale mensile. Nel caso di non riuscire a fare il
ritiro, si impegna a “rivedere i proponimenti” mensilmente. Il
Lanteri dimostra così il suo perseverare nel tenersi sotto stretta
osservazione, nella massima vigilanza, per poter mantenere alto il
livello di impegno nella santificazione personale. “Quid
hæc ad vitam æternam? Quod
vult Deus et quomodo vult. O.A.M.D.G.”: sono tutte
massime spirituali che il Lanteri si propone di incarnare e che
denotano la sua ferma volontà di amare il Signore costi quel che costi.
La prima massima che richiama alla memoria la vita eterna, ci ricorda
la spiritualità dell’“Amicizia Sacerdotale[800]
nei cui Statuti l’eternità era indicata come «arma invincibile
contro tutti i nemici»
[801].
Il pensiero dell’eternità di Dio aiutava il Nostro a
ridimensionare ogni cosa per vederla alla luce del Regno. L’obiettivo
della riflessione sull’eternità è quello di stimolare la persona al
ridimensionamento di tutte le problematiche e faccende della vita, al
ridimensionamento di se stessi, nella consapevolezza della propria
limitatezza. Il Lanteri, educato dal Diessbach, era abituato a ruminare
nel suo spirito l’eternità, grazie in particolare alla pratica degli E.S.
ignaziani, sia da lui svolti come esercitante che come direttore.
Il pensiero dell’eternità, infatti, è oggetto immancabile delle
considerazioni sul “Principio e Fondamento”[802]
ignaziano in cui la persona viene messa di fronte alla necessità di
ordinare tutta la propria vita a Dio, staccandosi da tutto ciò che le
impedisce di farlo nel miglior modo possibile, nella ricerca continua
di quanto “più” orienta e apre verso Dio. Gli E.S. ignaziani
spingono la persona non solo a cercare e fare la volontà di Dio, ma a
farla nel miglior modo possibile, non solo a fare ciò che vuole Dio, ma
anche “come” Dio vuole: da qui le altre massime del Lanteri: “Quod
vult Deus et quomodo vult” e “O.A.M.D.G.”. “Appropriarsi lo spirito e il
Cuore di Gesù in tutto. Magister dixit, Magister fecit”: quest’altra massima, sulla
quale il Lanteri si propone di fondare la sua vita spirituale, ci
rivela la sua maturazione nello spirito evangelico, il continuo studio
amoroso della Persona di Gesù Cristo che vuol far vivere dentro di sé
in pienezza, eliminando tutto ciò che ostacola o impedisce questa
pienezza. Il verbo “appropriarsi” ci mostra l’attitudine
particolare dello spirito del nostro Lanteri ad unirsi allo spirito di
Gesù, spirito sia con la “s” minuscola nel senso dell’animo umano di
Gesù Cristo, sia con la “S” maiuscola nel senso del suo Santo Spirito
che lo unisce al Padre dalla e nell’eternità. La funzione propria dello
Spirito Santo è quella di comunicarci gli atteggiamenti e i sentimenti
di Gesù Cristo, anzi, Questi tutto ci ha comunicato di Sé donandoci il
suo Santo Spirito ed è quindi lo Spirito Santo che permette di potersi
“appropriare” di Gesù Cristo, rivestirsi di Gesù Cristo (cf Rm
13,14). Il santo Battesimo segna il momento in cui quest’azione dello
Spirito Santo inizia (cf Gal 3,27), ma essa si sviluppa e raggiunge la
sua pienezza con la corrispondenza umana attraverso la vita di fede,
speranza e carità, nella partecipazione ai Sacramenti, nella vita
d’orazione e nell’ottemperamento della volontà del Padre nella vita di
ogni giorno, nella sequela del suo Figlio Gesù Cristo che ci ha imposto
di ascoltare e seguire (cf Lc 9,35; Mc 9,7; Mt
17,5) in quanto nostra “Via, Verità e Vita” (Gv 14,6). In un altro di questi suoi
foglietti d’appunti del 1806, il Lanteri così scriveva : «Esame in cui Gesù Cristo [è] lo specchio e
l'esemplare, le mie azioni la copia.
Notarne i difetti col confronto (a) lavarli
con
l'acqua del dolore.
(a)
n.b. il confronto sarà sulle azioni
verso Dio (b), verso
il prossimo (c), verso se
stesso (d):
(b) Se sono fatte con simile umiltà,
rispetto,
tenore. (c) Se l'avrò trattato con simile dolcezza,
beneficenza spirituale e corporale, moderazione.
(d) Se avrò ogni giorno similmente praticato
atti di umiltà e di mortificazione interni ed esterni. (e) Confronto eziandio sui pensieri, giudizi,
affezioni nil cupe nil time[803], operazioni»[804].
Tutta
la
vita spirituale viene centrata in Gesù Cristo e orientata su di Lui che
è “lo specchio e l’esemplare”. Occorre quindi per esaminarsi
bene guardarsi in Gesù Cristo e guardare Gesù Cristo. Un’altra conferma
ancora in un altro foglio di risoluzioni spirituali del 1808: «Febbraio 1808. Ogni giorno Statutum
[est] vivere come G. [Gesù] con G. e per G.»[805]. Viene spontaneo a questo
punto
anticipare uno dei messaggi più profondi e significativi che il Lanteri
lascerà ai suoi figli Oblati di Maria Vergine, contenuto nel
Direttorio e scritto espressamente per loro. Qui ci manifesta
concretamente non solo cosa significhi “appropriarsi lo spirito e
il Cuore di Gesù in tutto. Magister dixit, Magister fecit”, “statutum
est vivere come Gesù, con Gesù e per Gesù”, ma anche come egli sia
progredito e maturato in questa spiritualità dell’“appropriazione”:
«Quanto al modo [di fare le azioni],
si appigliano a quell'unico che piace a Dio e ci propose l'Eterno
Padre, che è d'imitare con particolare attenzione Gesù Cristo in
ciascuna azione, nel modo più perfetto. E per questo sono sommamente
solleciti la mattina e nel giorno di vestirsi dello spirito di Gesù
Cristo, e proporre di fare tutto nel modo stesso e con le stesse
intenzioni del Divino Maestro, sovente esaminandosi su questo punto.
Per meglio poi eseguire così ogni azione in particolare, procurano
ancora di incominciarla non con impeto, ma con fede
cioè con riflessione tranquilla a Gesù, presente come Dio, nostro
modello come uomo;
proseguirla non languidamente, ma con affetto,
inserendovi cioè a volte degli slanci tranquilli e soavi di cuore verso
Gesù; finirla non bruscamente, ma con riflessione,
cioè con un rapido sguardo se l'azione è stata fatta o bene o male,
quindi per ringraziarne il Signore o farvi un atto di contrizione»[806]. In questo scritto abbiamo appunto una
sintesi
stupenda del cammino spirituale fatto dal Lanteri, cammino che egli
stesso propone ai suoi figli spirituali. Spiritualità eminentemente
trinitaria e per questo cristologica che sbocca in quel paolino: “Non
sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Gal 2,20),
racchiusa nell’invito ad
“appropriarsi lo spirito e il Cuore di Gesù in tutto. Magister dixit,
Magister fecit”. In questo suo cammino di
“appropriazione” dello spirito di Gesù Cristo, un elemento
peculiare che, nel Lanteri, ha contribuito alla formazione dello
spirito, dell’animo di Gesù Cristo, è la modalità della sua orazione
contemplativa di stampo prettamente ignaziano. La contemplazione
ignaziana, infatti, è un esercizio spirituale che mira proprio, nella
grazia dello Spirito Santo, ad attuare una forte assimilazione dei
sentimenti di Gesù Cristo:
«Contemplando i “misteri” della vita di
Gesù, l’esercitante desidera, anzi, “vuole” giungere alla conoscenza
intima, amorosa ed esperienziale, della persona di Gesù, dei suoi gesti
e delle sue parole, per poterlo amare di più (más) e per poterlo
meglio seguire. È questo il fine che egli si propone nelle sue
contemplazioni della vita di Gesù. Ma egli si rende conto che questa
«conoscenza intima» di Gesù può essere solo dono di Gesù stesso che,
per mezzo del suo Spirito, si degna di ammetterlo tra i suoi «amici».
Di qui la preghiera a Gesù che gli “dia” quello che egli “vuole”. “Il
terzo preludio - scrive sant’Ignazio - consiste nel domandare quello
che voglio: qui [nella contemplazione dell’Incarnazione] sarà domandare
di conoscere intimamente il Signore che per me si è fatto uomo, perché
lo ami e lo segua” [EE 104]»[807]. Il Lanteri ci ha lasciato un saggio
prezioso
della sua orazione contemplativa in un suo scritto già usato per la
preghiera personale dei membri dell’Aa dell’Amicizia
Sacerdotale[808],
intitolato “Trattenimenti d’un anima al presepio”[809],
dove si può osservare come il Venerabile avesse assimilato e
personalizzato le varie indicazioni ignaziane circa le modalità del
contemplare. Questa contemplazione, a motivo della sua bellezza e della
particolare intensità affettiva, lascia trasparire mirabilmente
l’intimo del Lanteri. Al termine del suo “trattenimento”
il Lanteri pone un compendio che, una volta tolto l’oggetto
particolare di questa contemplazione che è la Natività, può essere
preso come schema ausiliario di qualunque altra contemplazione
evangelica:
«Compendio.
I. Osservare le circostanze in cui
nacque
Gesù.
II. Osservare la stalla e tutto ciò che
vi
è preparato per Gesù.
III. Rimirare con affetto le persone che
vi
si trovano.
IV. Ascoltare attentamente quel che si
dice
da tutti.
V. Ringraziare tutti quei personaggi che
abbiamo ritrovato.
VI. Chiedere grazie al Bambino Gesù.
VII. OfferirGli buone risoluzioni»[810]. Leggendo
questo testo si nota come il Venerabile prenda come soggetto da
contemplare la SS. Trinità, sull’esempio di quanto s. Ignazio invita a
fare nella contemplazione dell’Incarnazione[811].
L’Incarnazione e la Natività sono le prime contemplazioni della serie
proposta durante la Seconda Settimana degli E.S.,
e sono anche le uniche che vengono presentate da s. Ignazio indicando
all’esercitante delle modalità di orazione, mentre per le altre si
limita ad indicare l’episodio evangelicco da contemplare. Il Santo
propone all’esercitante la contemplazione delle Tre Divine Persone
nella contemplazione dell’Incarna-zione[812],
ma in quella successiva della Natività[813]
non lo fa, mentre il Lanteri sì. Egli evidentemente aveva capito come
la contemplazione dell’Incarnazione e quella della Natività
rappresentassero delle diverse modalità di contemplazione, a cui
poter far riferimento anche quando si contemplassero altri soggetti,
inserendo così la contemplazione della SS. Trinità anche nella
Natività. Ma vediamo qualche parte del testo della contemplazione
stessa per cogliere lo stile intimo, affettuoso e profondo con cui il
Lanteri contemplava e insegnava a farlo:
«Rimirare attentamente e con affetto
tutte
le persone che vi sono nella stalla. Gesù: le tenere
membra che
prepara per la flagellazione, incoronazione di spine, l'amabilità del
Suo volto e dei Suoi sguardi, le Sue lacrime, la bellezza della Sua
anima e le qualità del Suo cuore, la dolcezza, le virtù e i Suoi
disegni verso di noi, la divinità della Sua persona, le Sue perfezioni
infinite. Maria
Vergine
Sua Madre e S. Giuseppe: i segni di ammirazione e di rispetto che
compariscono nei loro volti, i sentimenti di umiltà, di adorazione, di
amore, di riconoscenza che nutriscono in cuore. Gli angeli che
vengono a eserciti, i Serafini ad amarLo, i Cherubini ad ammirarLo,
tutti gli angeli pel loro Re non si saziano di deliziarsi in quel
volto; gli uni attoniti si coprono la faccia, gli altri per rispetto si
coprono i piedi, tutti ardono di desideri di annunciarLo per tutto il
mondo, e presentarGli dei cuori. Le divine persone che sono presenti, e
particolarmente abitano in Gesù e si compiacciono di un'anima sì bella,
di un cuore sì grande e generoso, come quello di Gesù e dell'incarico
che Gesù si assume di essere nostro liberatore. […]»[814]. E tutti questi personaggi
parlano al cuore innamorato ed estasiato del Lanteri, in particolare
parlano le Tre Divine Persone. Parla innanzi tutto il Padre:
«Parlano le divine persone.
Parla l'eterno Padre al suo divino
Figliuolo e si compiace in Lui come della sua perfetta immagine, lo ama
infinitamente e come se stesso, e Gli dice: Figlio mio tu sei, oggi
io ti ho generato [Sal 2,7]. Parla l'eterno Padre a Maria, si
compiace in essa fra tutte le Sue creature, l'ama come Sua Figlia.
Parla a Giuseppe, Lo costituisce Suo vicario, Gli consegna in custodia
il Figlio e la Madre. Parla ai Suoi angeli e si compiace in vederli
adorare Gesù per Dio, venerare Maria per Sua Madre e loro Regina, e in
vederli solleciti cooperatori di Gesù per la grande opera della
redenzione del genere umano. Parla l'eterno Padre a noi, e ci dice che
Egli è il Suo Figliuolo primogenito uguale a se stesso, che ce lo dona,
e ce lo sacrifica per riscattarci dalla morte, dal demonio,
dall'inferno, che Lo ascoltiamo, che Lo imitiamo»[815]. Parla la Terza Persona della
SS. Trinità:
«Parla lo Spirito Santo e si compiace
con
Gesù della grande opera del Suo amore; si compiace con Maria Sua sposa;
si compiace con Giuseppe degno sposo di Maria e custode di Gesù; si
compiace cogli angeli che concorrono con Lui e con Gesù per salvare il
genere umano. Parla a ciascuno di noi, e vorrebbe impossessarsi del
cuore di ciascuno per presentarlo a Gesù»[816]. E, infine, non può tacere la
Parola:
«Parla Gesù e parla all'eterno Padre, Lo
adora, si offerisce vittima pel genere umano e si sottomette ad ogni
suo divino volere, e gli dice: Sul libro di me è scritto di fare la
tua volontà [Sal 40,9; Eb 10,7]. Parla allo Spirito Santo e
Gli manifesta l'amore infinito con cui Gli corrisponde, e si prepara a
consumarsi per accendere il fuoco del suo divino amore in tutti i
cuori. Parla a Maria e la riconosce per Madre, Le manifesta il Suo
cuore affezionato ed ubbidiente. Parla a S. Giuseppe, Lo ama e si
sottomette alla Sua custodia. Parla finalmente a noi, ossia parla per
Lui la figura di bambino che prese, parlano le Sue lacrime, i Suoi
sguardi che partono dal cuore, parla la stalla, la mangiatoia, parlano
le fasce, la paglia, tutto ci chiede amore e corrispondenza»[817].
Torniamo ora alle ultime tre massime del
foglio del 1804.
“Somma custodia dei sensi - dolcezza anche
nell'aspetto - vince teipsum”:
La “somma custodia dei sensi” è implicita necessariamente nell’“appropriarsi
dello spirito di Gesù in tutto”. Quel “tutto” infatti non
lascia spazio a vagabondaggi vari dei sensi, ma impone un continuo
raccoglimento sulla e nella persona di Gesù Cristo, ricercata, trovata,
contemplata e abbracciata in tutte le circostanze dell’esistenza
attraverso la vita di fede, speranza e carità. La “dolcezza anche
nell’aspetto” è frutto di questa tensione della vita in Cristo che
si desidera far trasparire in ogni dimensione di se stessi, interna ed
esterna, affinché non sia più la persona a vivere, ma Gesù Cristo in lei
(cf Gal 2,20). E tutto questo non potrà essere possibile
senza una dura lotta contro quelle parti di sé che recalcitrano a
sottomettersi alla signoria di Gesù Cristo, per cui ecco l’ultima
massima:
“Vince teipsum”, vinci te stesso. In tutta la sua vita il
Lanteri cercò di vincere se stesso e non desisté mai da questo impegno.
Particolarmente degna di nota è la sua lotta contro la propria
fiacchezza, gracilità corporea e i vari malanni che l’assillarono
sempre, ma soprattutto in questo tempo che ora stiamo considerando.
2.1.2. Documento “B”:
“Fascicoletto di appunti spirituali in
fogli sciolti”[818] Si tratta, come al solito, di foglietti
d’appunti risalenti presumibilmente al periodo intorno al 1800.
Ne analizziamo il testo: «Proponimenti: 1. Torre [= togliere] ogni
affetto ai beni terreni, quindi: a) dar
tutti i
miei libri alla Spezieria; b) dar via
tutti i miei straccj inutili; c) non far
niuna spesa senza licenza; d)
non rifiutare mai la limosina potendo»[819]. Ritorna qui l’amore del Lanteri per la
povertà, quella povertà che non poté abbracciare in pienezza nella sua
gioventù perché la vita della Certosa era più rigida di quanto il suo
fisico gli consentisse. Quell’amore che lo aveva spinto a disfarsi di
tante cose, come le
“posate d’argento” di cui parlammo a suo tempo[820]
e i libri regalati alla spezieria, e che lo aveva sollecitato ad
iscriversi al
Terz’Ordine Francescano probabilmente sin da quando era
chierico. Troviamo una traccia dei suoi voti di terziario francescano
in un altro dei suoi usuali foglietti, dove scrive: «[…] I tre voti
di terziario massime di povertà»[821],
quel “massime” è quanto mai significativo dell’importanza
che il Lanteri dava a questa virtù della povertà evangelica. Continuiamo l’esposizione del nostro
documento, con la seconda serie di proponimenti del Lanteri: «2. Farò del
bene al prossimo il più che potrò, perciò operando virtutes Dei,
non le mie[822] : a) non mai
risparmiarmi per giovargli corporalmente per quanto potrò; b)
trattandosi
dell’anima non risparmiar né a fatica né a patimenti per giovargli;
c) tratterò con tutti dolcemente, e sarà questo il soggetto del mio
esame particolare; d)
riguarderò
nel prossimo l’immagine di Dio, e Dio in lui presente operante,
risiedente; e) farò
qualche
volta la meditazione dei due stendardi per trovare i motivi e il modo
di giovargli; f)
non potendo fare del bene a Dio, procurerò di farglielo alla sua
immagine da lui redenta a sì caro prezzo»[823]. “Farò del bene al prossimo…”: ritorna, con il primo proposito di questa
seconda serie di proponimenti, l’impegno nella povertà come
condivisione, allargando il campo non solo all’elemosina della prima
serie di proponimenti (“non rifiutare mai la limosina potendo”),
ma ad ogni ambito possibile di solidarietà verso il prossimo, in
qualunque modo bisognoso. Unico limite posto in questo campo dal
Lanteri è “per quanto potrò”, demandando implicitamente alla
propria prudenza la decisione pratica dell’aiuto materiale da darsi al
prossimo. Nel secondo proposito il Lanteri non pone più alcun limite: “non
risparmiar né a fatica né a patimenti per giovargli” nella
disponibilità concreta di
“dare la vita” (Gv 15,13) per le necessità spirituali del
prossimo, a imitazione del Buon Pastore che “offre la sua vita per
le sue pecore” (Gv 10,11). “Tratterò con tutti dolcemente, e sarà questo
il soggetto del mio esame particolare”: vediamo bene come il Lanteri, maturo prete,
non cambia il suo stile, sempre quello, alla scuola degli E.S. di
S. Ignazio, tenendosi sotto una vigilanza continua, nella tensione
verso la santità, ovvero la conformazione - trasformazione in Cristo
operata dallo Spirito Santo (cf 2Cor 3,18) non senza la nostra
collaborazione (cf Gal 2,20). In questa tensione verso la
santità l’esame particolare ha una grande importanza e ben riconosciuta
dal Lanteri. L’esame particolare è strettamente legato all’esame
generale, dove la persona scopre i suoi limiti e le sue mancanze.
Intorno al 1800[824]
così il Lanteri leggeva se stesso nelle sue parti negative: «I
difetti sono lasciarmi portare dall’inerzia per cui mi lascio portar
via dalla subjecta materia ovvero perdere tempo per mancanza d’ordine; rispetti
umani
per cui m’impresto di più per certuni, che a cert’altri; l’attacco ai
beni terreni, per cui divengo duro alle miserie del prossimo; la
malinconia e
l’impazienza che mi porta alla rusticità, allontana la gente, impedisce
tanto bene, cagiona scandalo; la negligenza
grande
nella pratica delle virtù cristiane e in tutti gli altri esercizi di
pietà per mancanza di riflessione e di orarj»[825]. Come si può vedere, il Lanteri è alle
prese
sempre con gli stessi difetti che avevamo riscontrato nei suoi esami di
chierico e di giovane prete, e ad essi contrappone la solita strategia
fatta di rinnovo degli impegni, soprattutto dell’esame particolare,
della meditazione ben fatta, degli esami, aiutandosi con qualche voto
come abbiamo visto analizzando gli altri documenti e come vedremo
ancora: «Ogni
giorno: 1. Meditazione […] 2. Esame particolare sulla dolcezza: ne
leggerò sul Rodriguez o altrove la natura, specie, atti, gradi,
incitamenti, ostacoli, mezzi, esempli; farò qualche volta soggetto di
considerazioni il confronto de’ miei sensi con quelli di Gesù Cristo;
ne farò il proponimento e mi raccomanderò a Dio subito svegliato; mi
esaminerò sovente e ne scriverò i difetti anche per istrada, prima
d’andar a letto ne farò l’esame particolare, ne confronterò i giorni e
le settimane»
[826]. Il Lanteri in questo modo ha praticamente
ripreso alla lettera, negli ultimi tre punti, quanto dicono gli
EE riguardo l’esame particolare[827]. Degno di rilievo è senz’altro il secondo
punto del brano: “Farò qualche volta soggetto di considerazioni il
confronto de’ miei sensi con quelli di Gesù Cristo”. Il confronto
viene fatto in vista del conseguimento della virtù della”dolcezza”,
per cui vediamo bene come la sua non fosse una ricerca della virtù per
la virtù, ma uno sforzo continuo di conformarsi a Gesù “mite e
umile di cuore” (Mt 11,29). È il suo amore a Gesù il motore
di tutto il suo impegno nella vita spirituale e in ogni cosa. Anche qui
traspare l’ignazianità del Nostro che certamente mutua questo confronto
con i sensi di Gesù Cristo dagli Esercizi di s. Ignazio[828]. “Riguarderò nel prossimo l’immagine di Dio, e
Dio in lui presente operante, risiedente”: anche questa espressione manifesta la
profonda assimilazione degli Esercizi
ignaziani. Infatti questo proposito di contemplare Dio “presente,
operante e risiedente” nel prossimo è un evidente riflesso della
“contemplatio ad amorem” ignaziana[829]. “Farò qualche volta la meditazione dei due
stendardi…”: ancora una
applicazione concreta degli E.S. da cui è tratta la “meditazione
dei due stendardi”[830].
In questa meditazione il Lanteri si accendeva d’amore verso il prossimo
e trovava “i motivi e il modo con cui giovargli”[831].
Il “motivo” è dato dalla chiamata del Signore Gesù e la
conseguente missione.[832]
Il Signore Gesù chiama e manda i suoi apostoli e discepoli per
“aiutare” gli uomini a intraprendere il cammino della propria
santificazione attraverso le tappe fondamentali del distacco dai beni
terreni e dagli onori mondani, unito al desiderio delle umiliazioni
come intima partecipazione all’umiliazione di Gesù Cristo[833].
“Il modo con cui giovargli” è la santità personale; non è
possibile condurre gli altri alla santità senza un impegno personale in
essa e la santità richiede povertà di spirito e desiderio di seguire
concretamente il Signore Gesù umiliato e crocifisso[834]. “Non potendo fare del bene a Dio…”. In una istruzione “Della carità verso
il prossimo”, risalente a questo periodo o a quello successivo,
così si esprimeva il Lanteri: «Avvertite però che Dio nel comandarci di amare
il nostro prossimo anche vizioso e pessimo, non è già i suoi vizi e
difetti che ci comanda di amare assieme, no: l'oggetto d'amore che ci
propone è sempre puro e nobile; oggetto che si merita l'attenzione e
l'amore di Dio stesso, tanto più del nostro; distingue dunque Dio nel
peccatore, il vizio dall'uomo; quanto abomina quello, altrettanto ama
questi, e così dobbiamo fare anche noi; né difficilmente lo faremo per
poco che rinunciamo ai sensi; consultiamo la fede, viviamo di fede, e
allora l'amore oltre all'essere nobile perché occupato d'oggetto
nobile, diviene anche forte, intraprendente come nei santi, cioè reale
e sincero, che è la seconda qualità annunziatavi della carità»[835]. Qui vediamo come il Lanteri è ben lontano
da
ogni sentimentalismo e da ogni visione della carità verso il prossimo
staccata dall’amore verso Dio. Dio è il fondamento di tutto, Dio non si
vede, il prossimo sì; amando disinteressatamente il prossimo che si
vede amiamo Dio che non si vede, ma che è presente in esso. Per cui la
motivazione prima dell’amore del prossimo è l’amor verso Dio, in esso
presente e poiché Dio non lo si coglie se non con la fede, la fede
diventa il fondamento dell’amore del prossimo. Senza questa fede
l’amore umano non ha la forza di sopportare il peso della ben misera
visione dell’altro. Ma ora continuiamo ad esaminare il nostro
documento “B” che prosegue così: «3. Darò a Dio tutto il tempo, e tutte le mie
azioni, e nel miglior modo, per provargli che io l’amo, perciò: - in ogni ora cercherò qual sia la maggior
gloria di Dio, perché questa è la sua volontà, non la mia inclinazione,
procurerò di essere pronto a rispondergli ecce adsum [ecco sono
pronto], né avrò requie altrove. Per mantenere questo sentimento
gioverà ripeter la meditazione del fine dell’uomo, del Regno di Cristo,
dei due Stendardi, dei tre gradi d’umiltà, tre classi d’uomini»[836]. Tutta la sua vita il Lanteri la fonda
nell’amore verso Dio a cui consacra se stesso e il suo tempo; da qui la
cura perché tutto sia fatto al meglio nella ricerca amorosa di cosa
deve fare ora, qui e adesso, per dare a Dio la maggiore gloria
possibile, senza fughe dalla situazione in cui la Provvidenza lo ha
situato. Per mantenere alto questo amore, ecco ancora apparire gli E.S.
con le loro più classiche meditazioni. a) La “meditazione del fine dell’uomo”: in realtà non esiste negli E.S. di
s. Ignazio una meditazione intitolata così, ma è evidente che egli si
riferisce alla considerazione del “Principio e Fondamento
degli Esercizi”[837]
che Ignazio pone come premessa allo svolgimento degli esercizi stessi,
in cui mette l’esercitante di fronte alla verità fondamentale che tutto
viene da Dio e tutto deve tornare a Lui: pertanto l’uomo, creato da Dio
per Dio stesso, per
lodarlo, riverirlo e servirlo, deve liberarsi da
tutto ciò che lo ostacola nel suo orientarsi verso questo fine,
scegliendo ciò che più lo aiuta in questo per dare a Dio la maggior
gloria possibile.
Il Lanteri era tutto penetrato da questa considerazione del “Principio
e Fondamento”, che egli aveva meditato e meditato, approfondendo
anche dal punto di vista filosofico il mistero dell’essere sussistente
di Dio e le conseguenze delle sue prerogative divine in ordine alla
relazione che dobbiamo attuare con Lui[838]. b) La “meditazione del Regno di Cristo”[839]: è posta come introduzione alla Seconda
Settimana degli Esercizi Ignaziani e ne è una delle sue
meditazioni chiave; ha lo scopo di suscitare nell’esercitante un grande
desiderio di seguire Gesù suo Signore conformandosi a Lui nell’umiltà e
nella povertà, spendendo la vita per l’edificazione del Regno. Posta
com’è previamente alla lunga serie delle contemplazioni della vita di
Nostro Signore, essa diventa il paradigma entro cui queste altre
contemplazioni si realizzeranno, nell’ambito proprio di quella chiamata
scaturita in questa meditazione. Ogni contemplazione della vita di
Gesù, rinnovando la chiamata, ne rinnova anche la risposta nell’offerta
totale di sé al Signore Gesù[840],
con cui essa si conclude. Così ogni altra contemplazione della vita di
Gesù diventa un’eco particolare di questa meditazione, che sarebbe
meglio chiamarla
come la chiama Ignazio“meditazione della chiamata del Re”, e
non
“meditazione del Regno” come faceva il Lanteri e comunemente anche
molti altri. Proponendosi di ripetere sovente questa
meditazione, il Lanteri desiderava tenere vivo nel suo intimo quel
senso di offerta di sé al Signore Gesù, che sgorgava dal suo cuore
innamorato del Verbo incarnato. c) La meditazione “dei
due stendardi”[841]: viene posta da Ignazio al quarto giorno
della Seconda Settimana con la finalità di purificare
l’intelligenza dell’esercitante mediante la visione chiara della verità
evangelica, secondo la proposta di Gesù al mondo in contrapposizione
con quella del demonio. Ignazio sintetizza le due proposte, quella del
Signore e quella del demonio in tre gradini contrapposti: «[…] di modo che tre siano i gradini: il primo,
povertà contro ricchezza; il secondo, obbrobrio o disprezzo contro
l'onore mondano; il terzo, umiltà contro la superbia; e da questi tre
gradini inducano a tutte le altre virtù»[842]. Il triplice colloquio proposto in
questa meditazione assume un’importanza vitale, manifestata dal fatto
che sia la
“considerazione dei tre gradi d’umiltà”, sia la “meditazione
delle tre classi di uomini” invitano l’esercitante a fare questo
colloquio che diventa quindi come un sottofondo spirituale su cui si
situa l’elezione[843].
Triplice colloquio in quanto Ignazio fa chiedere all’esercitante
due grazie alla Vergine Maria perché ce le ottenga dal Signore Gesù,
suo Figlio, e a Questi perché ce le ottenga dal Padre eterno e al Padre
stesso perché nella sua infinita misericordia, conceda quanto viene
richiesto[844].
Le grazie richieste sono quelle di essere: «
[…] ricevuto sotto la sua bandiera, e prima
in somma povertà spirituale e, se sua Divina Maestà fosse servita e mi
volesse eleggere e ricevere, non meno nella povertà attuale; secondo,
nel sopportare obbrobri e ingiurie, per più imitarlo in essi, purché
possa sopportarli senza peccato di persona alcuna né dispiacere di sua
divina maestà; e con questo dire un'Ave Maria…»[845]. Tale metodologia del “colloquio” fu
assorbita dal Lanteri che sviluppò per questo un’orazione molto
affettiva e confidente. d) La meditazione “dei
tre gradi d’umiltà”[846]: come
il “Principio e Fondamento”, anche questa dei
“Tre gradi d’umiltà” non è indicata da Ignazio come una meditazione
ma come una considerazione[847].
Si tratta di una considerazione che ha lo scopo di affezionare
l’esercitante a Gesù umiliato e crocifisso per amore nostro, ed in
questo affezionarsi realizzare una profonda purificazione della propria
affettività, creando così il clima psicologico-spirituale più
idoneo in cui attuare l’elezione[848]: «3.a
nota. La terza, prima di
entrare nelle elezioni, per
affezionarsi alla vera dottrina di Cristo nostro Signore giova molto
considerare e fare attenzione[2] sui seguenti tre modi di umiltà
considerandoli a intervalli per tutto il giorno, e similmente facendo i
colloqui, secondo quanto avanti si dirà»[849]. L’esercitante non è chiamato a dedicare un
tempo preciso a quest’esercizio, ma a considerarli “a intervalli per
tutto il giorno”: il pensiero di questi gradi d’umiltà – che si
possono chiamare benissimo anche gradi dell’amore – deve praticamente
avvolgere l’esercitante in questo tempo per orientarlo a desiderare e scegliere
“quello che più ci porta al fine per cui siamo stati creati”[850]. In questa scala dell’amore
umile e forte, il primo gradino è un amore capace di morire ma senza
perdere l’Amato[851]. Il secondo un amore capace di
morire, ma senza dispiacere all’Amato[852]. Il terzo è un amore che
desidera ricambiare l’Amato con la stessa moneta d’amore con cui è
stato amato, e poiché il Signore ci ha amato follemente[853], ne consegue che il terzo
grado dell’amore umile è quello della follia di chi preferisce: «[…]più povertà con Cristo povero che ricchezza,
più obbrobri con Cristo pieno di essi che onori […] più essere stimato
stolto e pazzo per Cristo, il quale per primo fu ritenuto tale, che
savio e prudente in questo mondo»[854]. A questo più alto livello
d’amore si situava l’orizzonte del Lanteri, tutto teso a conformarsi
all’Agnello umiliato e immolato attraverso la serietà della sua vita
spirituale, con cui cercava di provare al Signore che l’amava veramente
e non per scherzo.
e) La meditazione “tre
classi d’uomini”[855]:
questa meditazione è posta da Ignazio al quarto giorno “un’ora
prima di cenare”[856],
dopo aver svolto la “meditazione dei due stendardi”, ed è un
esercizio proposto al fine di purificare la volontà dell’esercitante,
determinandola a distaccarsi da ogni attaccamento disordinato che
potrebbe condizionare l’elezione. In essa vengono proposti: «[…] tre binari [categorie] di uomini, e ciascuno
di loro ha guadagnato diecimila ducati, non puramente e debitamente per
amore di Dio, e vogliono tutti salvarsi e trovare in pace Dio nostro
Signore, togliendosi il peso e l'impedimento che hanno per questo,
nell'affezione della cosa acquisita»[857]. La prima categoria di persone è
quella che vorrebbe liberarsi dall’attaccamento, ma “non pone i mezzi fino all'ora della morte”[858]. La seconda vorrebbe liberarsi
dall’attaccamento, “ma vuole lasciarlo
in modo da ritenere la cosa acquisita”[859]. La terza, invece, vuole liberarsi
dall’attaccamento disordinato e non chiede altro che fare quello che
vuole Dio, sia che Questi gli permetta di rimanere con la somma
acquisita, sia che non glielo permetta. È la realizzazione di quella
libertà[860]
di cui parla il “Principio e fondamento”, assolutamente
necessaria di fronte a ciò che ci impedisce il fine[861]. Riprendiamo ora la presentazione del
documento “B” che prosegue così: «
– L’azione voluta da Dio procurerò di farla
perfettamente e per questo: 1. Non distinguerò l’azione dalla volontà
di Dio, la quale da Dio a me deriva, onde la stimerò, l’amerò,
l’eseguirò come l’istessa volontà di Dio; 2. Mi servirà la seguente
massima: Deus spectator, Adjutor, Remunerator – Nil sum, nil
pussum, nil mereor – Fides, Spes, Charitas[862]; 3. Mi gioverà ripetere la meditazione delle
tre classi d’uomini. –
assuefarmi a trovare Dio presente in ogni cosa»[863]. Mentre nella parte precedente del testo,
che
abbiamo già analizzato, l’enfasi del Lanteri era sulla ricerca della
volontà di Dio come prova del suo amore per Lui, ora l’enfasi ricade
sull’azione concreta che conclude la ricerca e segna la perfezione
dell’amore, perché
“non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli,
ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt
7,21). E non solo fare semplicemente l’azione voluta da Dio, ma farla “nel
miglior modo”[864]
possibile, come ha indicato a
se stesso il Venerabile nello stralcio precedente di questo documento,
cioè
“farla perfettamente” come indica nel proseguo che stiamo
analizzando. Per “farla perfettamente” occorre
innanzi tutto tuffarsi nella volontà di Dio conosciuta, come in Dio
stesso: “Non distinguerò l’azione dalla volontà di Dio, la quale da
Dio a me deriva, onde la stimerò, l’amerò, l’eseguirò come l’istessa
volontà di Dio”. Per realizzare tutto questo, in pienezza, il
Lanteri comprende che deve sempre più radicarsi e fondarsi sulle virtù
teologali, nella più completa diffidenza verso se stesso e nella sempre
più piena, totale e assoluta confidenza in Dio, colto presente in ogni
istante della sua vita come “Spectator, Adjutor, Remunerator”. La ripetizione del proposito
di
“ripetere la meditazione delle tre classi d’uomini”, già
elencato nella precedente serie di propositi, ci mostra sia quanto il
Lanteri stimasse questa meditazione, sia quanto consapevole fosse di
non essere ancora
pienamente libero dagli
attaccamenti o della facile possibilità di lasciarli nascere in sé.
Questa meditazione era avvertita come particolarmente importante per la
sua vita spirituale, volendo, per mezzo suo, aiutarsi a raggiungere una
più piena libertà, per poter amare Dio nel
modo più perfetto possibile. Il proposito di “assuefarmi a trovare Dio presente in ogni
cosa”
non può dunque mancare in una serie di propositi che il Lanteri fa per
provare a Dio che lui lo ama come afferma il documento che stiamo
esaminando. Assuefarsi “a trovare Dio presente in ogni cosa” è
appunto il frutto di tutto il cammino spirituale proposto da Ignazio
nei suoi Esercizi che si concludono proprio con la “Contemplatio
ad amorem”[865]
la quale insegna espressamente all’esercitante “a trovare Dio
presente in ogni cosa” per vivere così sempre alla sua presenza ed
essere perfetto nell’amore[866]. Riguardo lo spirito di adorazione della
presenza di Dio nel Lanteri, è interessante quanto scrisse in un
altro dei soliti fogli d’appunti durante i suoi E.S. del 1800: «Far
molte genuflessioni fra il giorno per rispettare la D. M. [Divina
Maestà]
presente, e adorarla. S. Francesco Borgia ne facea 100 al giorno, S.
Bartolomeo[867]
ne faceva 100 il giorno, e altrettanto la notte»[868]. Il Lanteri era proprio
consapevole di essere immerso nella presenza di Dio! Questo elemento
della sua spiritualità potrebbe apparire tipico di una religiosità
d’altri
tempi, in quanto oggi si è più
portati a
vedere la presenza di Dio nel fratello che ci è di fronte, ma è proprio
questa consapevolezza della presenza di Dio dovunque che aiuta e
facilita a scoprirne la presenza nel prossimo. Proporsi genuflessioni
frequenti non significava, per il nostro Venerabile, proporsi dei gesti
semplicemente esteriori, in quanto espressione della sua adorazione
interiore o della sua prostrazione interiore. Non è un caso che ai
nostri tempi, così particolarmente infettati da incredulità, la
genuflessione e lo stare in ginocchio non è più tanto di moda nelle
nostre chiese. La fede ha bisogno di esprimersi nel gesto e quale gesto
esprime meglio il nostro stare davanti a Dio del piegare le ginocchia,
o tutto il corpo, così come nella prostrazione? Il piegare le ginocchia
era appunto per il Lanteri non un semplice proposito, ma un’esigenza
dell’animo sempre più immerso
nell’adorazione di Dio, vivo e presente attorno a lui e in lui.
2.2. 1811-1814: I tre anni
alla Grangia Quando il
Lanteri fu esiliato alla Grangia aveva cinquantadue anni e, come
abbiamo visto, la sua salute era fortemente malmessa. Ma la Divina
Provvidenza si servì appunto di questo tempo per farlo ristabilire un
po’, come ci racconta il Ferrero:
«Andò pertanto in esilio da Torino, e fu per lui una grazia, giacché
riebbe colà la salute totalmente deperita, ricuperò la vista logorata e
non perdé un momento senza darlo allo studio od alla devozione»[869]. Il triennio passato dal Lanteri alla
Grangia
è un tempo di grande importanza nella formazione della sua personalità
spirituale. Esso è come un tuffo improvviso in quella vocazione che
aveva sentito da giovane e che lo aveva portato a bussare alla porta
della Certosa di Pesio, un’immersione nella vita contemplativa
dopo anni di attività apostolica febbrile. Ricorda il Craveri: «…La
vivacità della sua fede gli brillava in volto nel passare le lunghe ore
all’adorazione del SS. Sacramento, dove spesso recitava il divino
officio, e meditava lungamente; anzi parvemi che col tenere la porta
aperta della stanza, in cui dimorava a pochi passi dalla cappella, non
cessasse di trattenersi alla presenza del gran Padrone»[870]. Inoltre, il miglioramento della vista gli
permise un’intensificazione degli studi, in particolare della mistica: «Gli
autori principali di cui egli certamente approfondì le opere mistiche
[nell’esilio della Grangia] sono, tra gli altri, santa Teresa d’Avila,
a cui professò sempre una speciale devozione, sant’Ignazio di Loyola,
san Francesco di Sales (tutti e due suoi protettori), sant’Agostino,
san Bernardo, santa Gertrude, san Giovanni della Croce, santa Maddalena
de’ Pazzi, santa Caterina da Siena, santa Caterina da Genova. E ancora:
i maestri di teologia mistica più in voga al suo tempo, il domenicano
spagnolo Venerabile Luigi da Granada (1505-1588), l’agostiniano
portoghese Tommasi da Gesù (1530-1581) il gesuita francese Louis de
Lallemant (1588-1635), il gesuita italiano Giovanni Battista Scaramelli
(1687-1752) […]. [E ancora] sant’Anselmo da Aosta, san Roberto
Bellarmino, san Tommaso da Villanova, Francesco Suarez, Paolo Segneri,
Dionigi Areopagita, Leonardo Lessio, Guillaume-Joseph Berthier, Luca
Vaubert, Renato Billuart, Jacques Nouet, Francesco Neumayer e altri. Da
non dimenticare i due massimi teologi e dottori mistici san Tommaso e
san Bonaventura, che saranno oggetto di una revisione e di uno studio
tutto particolare. […]»[871]. Purtroppo di questo periodo della Grangia,
ci
sono pervenuti solo alcune lettere del Venerabile e un piccolo
quaderno, “Libretto”[872],
contenente sia appunti spirituali personali che riassunti di opere da
lui lette.
Il grande impegno dedicato allo studio, in questo tempo
d’esilio, lo possiamo facilmente dedurre da diverse sintesi personali
riferite a quanto leggeva e studiava. Consapevole del primato
dell’amore sulla scienza, redasse questa preghiera che metteva in
risalto questa sua appassionata ricerca d’amore, prima che di scienza: «Non
dobbiamo perciò riposarci nella sapienza e nella cognizione, ma
nell’amore. Perché ci hai fatti per te, o Signore, per amare te, e il
nostro cuore è inquieto finché non riposa in te[873].
Perciò inutilmente ti affatichi, o anima mia, nell’acquistare la
scienza se ometti o dimentichi di esercitarti nell’amore. Vieni, o
Santo Spirito, infondi nel mio cuore il tuo amore perché in esso abbia
pace. Amen»[874]. Stesso concetto ribadito in quest’altra
preghiera-riflessione: «Mi
rallegrerò sempre se, malgrado non abbia capacità sufficiente per
penetrare questo mistero, avrò tuttavia volontà capace di molto amarlo:
con l’amore compenserò le lacune della scienza. O adorabile Trinità,
non voglio conoscerti se non per amarti; stacca il mio cuore da ogni
affetto di creatura, infiammalo del solo tuo amore perché solo di te
viva e respiri. O frutto eccellentissimo di tutte le mie fatiche, o se
di questo solo potrò venire in possesso un giorno»[875]. Il Lanteri amava leggere i libri annotando
a
parte quello che gli sembrava importante. Alle volte faceva dei veri e
propri sunti di capitoli ed anche di interi libri: «Alla
Grangia era l’ambiente stesso e il rigido orario che si era imposto che
lo spingevano a un maggior concentramento e a una applicazione più
assidua alla lettura e allo studio. La mole dei libri letti e
sunteggiati e trascritti nei tre anni della Grangia è enorme. A
scorrere le pagine coperte di scrittura fittissima, sempre regolare e
uguale, si prova un senso quasi di smarrimento»[876]. Questa eccezionale mole di lavoro ha fatto
pensare al Calliari che il Lanteri avesse in mente qualcosa di
grande, una specie di «opera teologico-ascetica di largo respiro da
pubblicare a tempo opportuno»[877]: «Il
Lanteri non ci dice quali sono le sue intenzioni nel raccogliere tanto
materiale […]. Quello che manca, e che ci si aspetterebbe a ragione di
trovare tra i fogli del Lanteri, è uno schema di capitoli o temi da
trattare, con l’ordine della trattazione. […] Esaminando la mole
piuttosto rilevante degli scritti del Lanteri di questo periodo, si
intravede la sua intenzione di preparare un’esposizione della
religione, con andatura più didattica che polemica, per far vedere la
bellezza, la verità, l’utilità, l’opportunità della fede cristiana per
l’uomo del suo tempo»[878]. Il Calliari si spinge anche
oltre,
proponendo l’ipotesi che il Lanteri avesse in mente un Corpus
Theologicum completo strutturato come approfondimento teologico
degli
E.S. ignaziani[879].
2.2.1. Annotazioni spirituali
riportate sul
“Libretto”
«Il quadernetto[880],
o “libretto”, […] non è stato compilato tutto nello stesso tempo, e
neppure tutto alla Grangia, come si può constatare dalla differente
calligrafia e inchiostro. Alcune pagine risalgono certamente ai primi
anni di sacerdozio, ma molte altre pagine – senz’altro la maggior parte
– risalgono al periodo dell’esilio»[881]. Nel “Libretto” troviamo l’orario
della giornata del Lanteri alla Grangia:
«Risoluzioni. L’uomo di Dio:
Fedeltà in tutte le pratiche di Religione sia comandate sia volontarie.
Subito levata ore 5. Meditaz.e, Sta Messa, alle
ore libere le ore piccole [del Breviario], visita in Chiesa al SS.mo
Sacramento, studio, fra il giorno aver fisso qualche fonte di
giaculatorie, come il Pater, Credo, etc. La sera
Mattutino,
lezione spirituale, esame di coscienza, i punti della meditazione. Ogni
settimana la confessione sagramentale, una mattina libera per me, ogni
mese un triduo, o almeno un giorno di ritiro. Ogni anno i S. Esercizj»[882]. Come si può bene vedere, nel suo orario
sono
scomparse le Confessioni, mentre la levata è ugualmente alle cinque
come a Torino, seguita immediatamente dalla meditazione e dalla santa
Messa. Certamente la sospensione dalla Confessione deve essere stato
per il Lanteri un brutto colpo, dedito com’era a questo ministero:
«Alla Grangia
il Lanteri
fu costretto a interrompere, tra l’altro, anche l’attività di
confessore che quando era a Torino assorbiva gran parte della sua
giornata. La settimana era divisa con metodicità ed esatta uniformità.
Ogni giorno era destinato alle confessioni da ascoltare in una
determinata chiesa del centro o in qualche monastero femminile della
città. Per due decenni egli si era sobbarcato questo compito con grande
costanza e con grande gioia raccogliendo frutti immensi di bene.
Talvolta riceveva i penitenti anche in casa»[883]. Come abbiamo visto, tutto questo era già
noto
alla polizia ed ora, di punto in bianco, il divieto di confessare! Ma,
grazie a Dio questo divieto non durò che pochi mesi, perché:
«L’Arcivescovo,
che era
convinto, come tutti, dell’ingiustizia del provvedimento, gli ridiede
la facoltà a voce per i mesi del 1811, e poi regolarmente per iscritto
negli altri anni che il Lanteri passò ancora alla Grangia, come risulta
dai fogliettini che ancora conserviamo»[884]. Pur essendo presto rientrato in possesso
della facoltà di confessare, l’isolamento del luogo di esilio non gli
permise di poter incontrare molte persone, ma solo quei pochi che di
tanto in tanto andavano a fargli visita o che si fermavano con lui per
fare gli E.S.
sotto la sua direzione. Queste persone non dovevano proprio essere così
numerose, come dice il Gastaldi[885],
se il Lanteri poté scrivere così al Cav. Leopoldo Ricasoli, il
10 dicembre 1812:
«Mi procuri
dunque,
Car.mo Sig. Priore[886],
questo favore [di avere di frequente sue notizie] affinché in
questa mia
cara solitudine[887]
ove sono diventato inutile al mio prossimo, possa almeno essere a lei
di qualche giovamento»[888].
Il “Libretto”, dopo l’esposizione
dell’orario continua così:
«In tutte
queste azioni
poi la maggior applicazione possibile sia interna, che esterna.
E generalmente in tutte le azioni la miglior intenzione
possibile, moltiplicare più che si può i metodi buoni, farle con la
maggior perfezione ed esaminarsi di questo la sera e sovente durante il
giorno»[889]. In questo tempo alla Grangia, il Lanteri
approfondì l’importanza dell’applicazione e dell’intenzione,
come elementi inseparabili di qualsiasi opera fatta per Dio:
«La maggior
gloria di
Dio si procura con fare tutte le azioni, e quelle solo che hic et
nunc[890],
più piacciono a Dio, e farle tutte colla maggior perfezione, ossia,
applicazione interna e esterna, e procurar questo nel prossimo il più
che si può… insomma disfarsi tutto per Dio e per il prossimo. Per
questo i mezzi sono tutta l’applicazione possibile, e la più grande
purità d’intenzione con la più perfetta conformità al volere di Dio»[891]. Il
Calliari
così commenta queste riflessioni:
«Si ha
l’impressione che
il Lanteri alla Grangia, isolato dal mondo, non distratto da altre cure
e obbligato ancor più che a Torino a concentrare tutta la sua
attenzione sui due unici valori – effettivamente due massimi valori –
che gli erano rimasti: Dio e io, non voglia mai uscire da questo
binomio essenziale. La conformità alla volontà di Dio e la pratica
dell’indifferenza ignaziana si adattavano troppo al suo stato di
condannato a domicilio coatto»[892]. Il Lanteri
alla Grangia impostò la sua vita basandola su un modello di vita
religiosa quasi da novello certosino. Nel suo “Libretto”
troviamo spesso schemi di esami generali o particolari molto profondi;
sono esami che non si accontentano del conteggio della cadute, ma che
ricercano le cause e cercano di investigare intorno agli affetti. Di
seguito riportiamo uno di questi in cui dapprima si interroga sui
pensieri:
«Esame. 1°. Sui pensieri.
Subito svegliato a che penso? Fra il
giorno quali sono ordinariamente i miei pensieri e le mie parole?
Sciocchezze da bambini, sciocchezze…
si
chiamano sciocchezze gli affari degli uomini. Quindi
prosegue l’esame analizzandosi sugli affetti:
«Esaminare cosa desidero e cosa temo;
di
che mi rallegro e di che mi rattristro. Nulla desidero, nulla temo, se
non ciò che è eterno.
Dir sovente al proprio cuor: … Cosa
cerchi? Chi è come Dio? Sono io [cf Gv 18, 5-6]»[894]. Continua
esaminandosi sulle azioni:
«1. Cercar il perché d’ogni azione.
2. Esaminare il grado nel male se da
debolezza, malizia o abitudine; nel bene se da principiante o da
perfetto»[895]. E conclude
con delle
“Addizioni”:
«Addizioni.
Esaminare se questi pensieri o
affetti
siano volontari o involontari; se gli oggetti siano vaghi o fissi
provenienti da temperamento o occasione.
I pensieri e gli affetti fissi devo
combatterli, sacrificarli, sradicarli con la considerazione per
l’errore, l’orazione per l’aiuto, la mortificazionione per
l’abito. L’albero buono fa frutti buoni, l’albero cattivo fa frutti
cattivi
[Mt 7,17]»[896]. Nello
stesso
documento vi sono anche schemi di esami sui consigli evangelici.
Vediamo prima di tutto quello sulla castità:
«La perfezione della Castità esige
mondezza di mente, e di corpo, di sentimenti, e di affetti, e non solo
allontanarne il consenso (che appartiene alla sostanza) ma anche
l’occasione del senso (ni[si] ratio officii aliter suadens)[897].
Non basta essere semicasto. Custodia dei sensi e Modestia, Gravità»[898]. Quindi lo
schema sull’obbedienza:
«Obbedendo 1° All’interno con
riverenza
e amore nel beato nome di Dio, con abnegazione della propria volontà e
giudizio personale circa la cosa comandata. 2° Nella piena letizia,
fortezza, prontezza con la debita umiltà, senza scuse, senza
mormorazione»[899]. Per
concludere con la povertà:
«Allontanar ogni desiderio,
desiderando
solo il cibo, vestito, abitazione, suppellettile conveniente ai poveri,
e saper mancar qualche volta del necessario stesso: prestar gratis gli
uffizi propri del nostro stato anche senza speranza di limosina o
riconoscenza, ciò che esige l’edificazione del prossimo, e la libertà
apostolica»[900]. Sin da diacono, come abbiamo visto a suo
tempo nell’analisi del suo Direttorio Spirituale[901],
il Lanteri aveva sempre coltivato lo spirito dei consigli evangelici
della povertà, castità e obbedienza, oltreché uno stile di vita da
religioso. Per questo, quando pochi anni dopo la sua relegazione, nel
1816, sarà interpellato da alcuni sacerdoti di Carignano per tracciar
loro una regola di vita religiosa, egli non si troverà a disagio ma,
pienamente competente, traccerà loro quella regola su cui baseranno la
loro vita il primo gruppo di religiosi della nuova famiglia degli Oblati di Maria Vergine.
2.2.2. I saggi e i sunti di
commento al
Simbolo Apostolico Gli scritti sul Simbolo che il
Lanteri elaborò in questo periodo d’esilio sono diversi. Tra questi
riveste particolare importanza quello denominato “Nonnulla de
Symbolo”[902],
sia perché è il più esteso dei compendi sia perché, come fa notare il
Calliari: «Le
molte aggiunte posteriori ci fanno vedere che le pagine del “libretto”
(entro il quale è contenuto l’opuscolo) erano spesso rilette e meditate
e che il trattatello godeva delle particolari simpatie dell’autore.
Diciamo dell’“autore”, cioè del Lanteri. Tutto infatti ci fa pensare
che si tratti di un’operetta originale, non mutuata da altri, frutto di
riflessione personale, ricca di pensieri filosofici, di distinzioni, di
approfondimenti di concetto, di effusioni mistiche»[903]. In essi il Lanteri approfondisce il
mistero
di Dio in sé, Uno e Trino, e dei suoi attributi. Attraverso le sue
considerazioni si eleva nella contemplazione adorante di Dio,
gustandone la bontà, bellezza e santità. È nostra personale convinzione che questo
rappresenta uno degli aspetti peculiari della spiritualità del Lanteri,
il quale si radica nel “Principio e Fondamento” ignaziano[904],
nella riflessione intellettuale profonda sul fine dell’uomo. Qui egli
persegue l’incontro tra filosofia e teologia, dove la filosofia, da
vera ancella della teologia, fornisce alla teologia la base
per proiettarsi nella contemplazione mistica di Dio da un lato e della
chiamata dell’uomo alla comunione con Lui, dall’altro. Infatti, fondato
nella sua mentalità scientifico-matematica, il Lanteri penetrava nel
mistero di Dio attraverso la speculazione filosofica, che sfociava poi
in fervore mistico nel gustare Dio e le sue perfezioni, per assimilarle
e viverle in ossequio al comando evangelico di essere perfetti come è
Lui (cf Mt 5,48). Questo gusto della speculazione
teologica su Dio in sé, che potrebbe sembrare una tensione verso un
astrattismo spirituale, un misticismo aereo e poco
concreto, invece conduceva il Lanteri ad assumere tutte le dimensioni
della realtà per viverla nella sua pienezza di verità che è Dio, Uno e
Trino, sorgente e fine di tutto. Egli dunque amava questa speculazione
teologica, come dimostrano anche quei “Catechismi” del 1786 di
cui abbiamo diffusamente trattato[905]. In essi così veniva spiegata la necessità
di formarsi un’idea giusta di Dio e di sforzarsi di penetrare il suo
mistero per conoscerlo sempre meglio: «Poiché
noi dobbiamo adorare Dio, conviene per una parte formarsene un’idea
verace, per non adorare un fantasma ed una finzione di nostra
immaginazione in luogo di Dio; conviene per l’altra parte che
quest’idea verace ci rappresenti in Dio tutto ciò che vi è di più
capace per ispirarci rispetto, e sottomissione alla sua grandezza; e,
poiché dobbiamo amarlo, conviene cercare di concepire in Lui tutto ciò
che può servire a far nascere ed accrescere il nostro amore, il quale
non può portarsi verso ciò che non si conosce […]. … vi ha per
ordinario una corrispondenza tra la cognizione e l’amore, la quale fa
che si conosce poco ciò che poco si ama, e che si ama molto ciò che si
conosce molto, quando è amabile. Così la cognizione di Dio, essendo un
mezzo per arrivare all’amore conviene procurare d’averla per acquistare
l’amore»[906]. È proprio questa la linea interpretativa
con
cui bisogna accostarsi agli studi del Lanteri, alla Grangia, sul Simbolo,
studi ordinati ad amare Dio, studi che altro non erano che legna per
far divampare sempre più nel suo cuore ardente l’amore per Dio e di Dio. Nei Catechismi del 1786, subito
dopo
l’enunciazione di un attributo divino (incorporeità, immutabilità,
eternità, infinitezza, necessarietà, indipendenza, ecc.) e la
spiegazione di cosa s’intende per esso, c’è l’indicazione concreta,
pratica, di cosa voglia dire per la persona che Dio sia tale. È proprio
in questo passaggio, da ciò che è Dio e ciò che dovremmo per questo
essere noi, che si radica la spiritualità del nostro Venerabile, il
quale nel suo “Nonnulla de Simbolo” non farà altro che ricalcare
quanto aveva approfondito e meditato in quei Catechismi, di
cui, molto più che probabilmente, ne era anche autore. Immerso nella contemplazione amorosa di
Dio,
il Lanteri si fondava dunque sempre più nella libertà[907]
ignaziana, nella consapevolezza che tutto viene da Dio e tutto ritorna
a Lui e tutto sta nel cavo delle sue mani sotto il suo sguardo d’amore
(cf Is 49,16). Ritenendo che questi scritti
filosofico-teologici su Dio esprimano una delle caratteristiche
peculiari della spiritualità del Lanteri, daremo loro ampio spazio in
questa trattazione.
2.2.3. “Ars semper gaudendi” Una delle opere di cui il Lanteri fece un
sunto è “L’ars semper gaudendi”, di Alfonso Antonio de Sarasa[908],
in cui l’autore insegna a vedere tutto in bene, anche le esplosioni del
male, le tentazioni e la morte e, quindi, a saper vedere tutto alla
luce del provvidenziale amore di Dio che c’insegue, pronti sempre a
riposare in Dio dovunque e comunque, nella pace e nella serenità. Ora, mentre il Lanteri sintetizza la prima
parte di quest’opera in poche pagine, si dilunga alquanto nel
riassumere la seconda, relativa alla morte. Egli intitolò il suo
compendio: “De arte bene moriendi ex Sarasa”[909].
È evidente che questo pensiero della morte lo toccava da vicino
(abbiamo precedentemente parlato della sua salute malmessa) e già nel
1810, poco meno di un anno prima della relegazione alla Grangia, il
Lanteri scriveva così in una sua lettera: «La
mia salute è sempre cagionevole, e credo tantosto che il Signore voglia
che io incominci la mia preparazione prossima al grande passaggio
all’eternità. Quello che è certo, ho bisogno grandemente delle sue
orazioni e di quelle degli Amici, ai quali prego particolarmente di
raccomandarmi»[910]. E anche se, come abbiamo visto, l’esilio
gli
apportò un certo benessere corporale, la sua salute fu sempre
cagionevole e malferma come egli stesso palesava sempre al suo amico
Cav. Leopoldo Ricasoli nel 1812: «[…]
tanto più che i miei giorni non saranno più lunghi, attesi i miei
incomodi, i quali ben lungi di diminuire, sempre più si ostinano per
accelerarmi l’uscita da questo misero mondo, e l’unione bramata col mio
dolce Gesù»[911]. Questo suo desiderio di andarsene dal
“suo dolce Gesù” doveva essere ben conosciuto dai suoi amici
intimi e non doveva proprio far loro piacere, così come infatti scrive
il suo caro amico, Conte Francesco Pertusati[912]
nel 1813: «Speravo
migliori notizie della di lei preziosa sanità. Ella anela al paradiso:
e noi avressimo bisogno che lei avesse a campare degli anni molti, e
così accumulerebbe sempre maggiori meriti per la Patria Beata giovando
com’ella fa al bene delle anime»[913]. In questo clima il Lanteri studiò il
trattato
del Sasara; riportiamo di seguito alcune stralci del suo
compendio: «Se
sei contento del tuo stato umano, devi essere anche mortale e voler
morire. Se vuoi essere uomo, devi voler essere mortale. Sei nato a
questa condizione, non ti stupire perciò se una volta o l’altra capita
quello che deve capitare, e che tu stesso vuoi che capiti dal momento
che vuoi essere uomo»[914]. Se la morte entra nell’ordine
provvidenziale
divino, non bisogna essere rassegnati di morire, ma contenti di morire:
«Quando
verrà il momento della morte, fa in modo di morir contento. […]. Quando
sarà arrivato il termine della vita, devi sforzarti con tutta l’anima
che tu la chiuda bene, di modo che ogni peccato che tu abbia commesso
nella tua vita passata vivendo male, lo possa eliminare morendo bene.
Ora morire bene non significa altro che morire volentieri»[915]. La contentezza del morire non nasce
spontanea
nel cuore umano, ma è frutto della fede nella vita eterna e della
speranza di conseguirla: «Salute
a voi, compagni di navigazione, commilitoni delle mie battaglie, salute
a voi! Non mi allontano da voi, vi precedo soltanto. Sono arrivato al
porto, tutto lì: congratulatevi con me per la fortuna che mi è
capitata. O Dio, Grande Vita e arbitro della morte, richiedi tu altro
da me? Eccomi pronto a vivere e a morire. Ecco, nelle tue mani
raccomando il mio spirito che ti restituisco. Tu me lo ridomandi, io te
lo do: e, inclinato il capo, in pace, a un tempo, mi corico e mi
addormento perché tu, o Signore, tu solo mi fai stare al sicuro [Sal
4,9-10]»[916]. Ad acuire il desiderio di andarsene con il
suo Gesù, contribuì senz’altro anche la lettura di S. Caterina da Genova[917]
la cui vita e opere erano dal Lanteri amate e stimate e raccomandate[918]: «Quando
quel fuoco divorante un poco s’attenuava, il cuore [di S. Caterina da
Genova] le rimaneva tutto liquefatto, e con quell’impressione Dio la
lasciava per alcuni giorni riposare in quella divina e mirabile
soavità, ma poi le ritornava un altro assalto, così forte, che
l’umanità più non si poteva nutrire come prima, e le era come un
martirio, a tal punto che, quando vedeva cadaveri ovvero udiva uffici,
messe funebri o i rintocchi delle campane a morto, sembrava
rallegrarsene, credendo che quei defunti andassero a vedere quella
verità che sentiva nel suo cuore: per la quale sarebbe stato meglio
morire che vivere in tanta alienazione e privazione di cose dalle quali
non poteva ricevere alcun nutrimento e supporto. Si era così ridotta in
un tale stato da non trovare quasi sollievo, salvo quando dormiva,
sembrandole allora di uscire fuori di prigione, per il fatto di non
rimanere tanto occupata in quella continua attenzione a Dio. Per circa
due anni ebbe questo desiderio della morte, e sempre con la mente la
cercava dicendo: “O morte crudele, perché mi lasci con tanto
desiderio di te?”. Questo suo desiderio, non avendo una sua
spiegazione razionale, le perdurò fino a quando non cominciò a
comunicarsi quotidianamente»[919]. Tra i fogli di appunti del Lanteri
troviamo
anche alcuni sonetti invocanti la morte, intitolati “Sonetti di s.
Caterina da Genova”[920].
Questi sonetti non appaiono nella biografia più autorevole di S.
Caterina da Genova[921].
È possibile che il Lanteri li abbia trascritti da qualche altra
biografia del tempo, oppure che furono redatti dal Lanteri stesso, il
che ne mostrerebbe, con più forza, il suo spirito mistico. In ogni
caso, avendoli trascritti, possiamo logicamente presumere che il
contenuto di essi lo toccava nell’intimo e che, probabilmente, non solo
se li era copiati, ma anche amava cantarli, notizia questa che
aprirebbe la mente ad una figura del Venerabile ancora troppo poco
conosciuta: «Gesù dolce che respiri – Fiamma bella in ogni core Se la voce mi vien meno – Parlerò con i sospiri Se il mio cuor non sa ridire – Quell’amor che m’arde
tanto A caratteri di pianto – Farò noto il mio morire Seguirò per tutti i lidi – Quel Gesù che m’innamora E saprà l’arena ancora – che tu sol vita m’uccidi Vieni pur Morte gradita – Ma si celi il tuo venire Perché il gusto del morire – non mi torni a dar la
vita!»[922]. La parte conclusiva del sonetto è
veramente
formidabile; si chiede alla morte di venire di nascosto perché la
troppa gioia di saperla vicina non ridesti la voglia di vivere! Qui
penso, attribuibili a lui o meno, che si manifesti una peculiarità
lanteriana, ossia una propensione alla speculazione intellettuale
profonda, sfociante in un’antinomia o paradosso che inabissa l’anima
nella contempla-zione del mistero[923].
Ma veniamo ad un secondo sonetto: «Bona
nuova morirò – cesserò d’offender Dio Sarà
Egli tutto mio – Tutto suo io sarò, – Bona nuova morirò Vò
posar nel seno d’Iddio – Apre amore ogni desio Del
suo amor io viverò – Bona nuova morirò Nell’immenso
amor d’Iddio – Pascerò l’affetto mio Del
suo amore io viverò – Bona nuova morirò»[924]. A questa “Bona nuova morirò”, fa
eco
un altro breve, ma intensissimo sonetto: «Già
m’annoja o Gesù mio – Questa di quaggiù E
mi struggo pel desio – Delle glorie di lassù Onde
al Ciel rivolto il viso – vo gridando, e sospirando: Paradiso,
Paradiso! »[925].
2.2.4. “Cibus solidus
perfectorum” Tra i sunti ve n’è anche uno intitolato
“Cibus solidus perfectorum. De proposito, et voto seraphico S.
Teresiæ, ex libro P. Hermanni Sti Noberti”[926]
del padre carmelitano scalzo olandese, Hermann di San Norberto
(1629-1686), in cui si tratta con profondità del “voto serafico” o“voto
del più perfetto”, che i più fanno risalire a s. Teresa d’Avila,
ma anche ad autori precedenti. L’interesse del Lanteri verso
quest’opera, che non era affatto comune al suo tempo, fino a farne una
analisi-sintesi, può far supporre appunto che egli stesso avesse fatto
questo voto. Molte sono infatti le sottolineature a matita che si
trovano nel compendio lanteriano, le quali ne denotano una sua lunga e
approfondita meditazione. Il testo si dilunga nell’esporre le
modalità
della conoscenza della volontà di Dio e parla di due modalità
fondamentali, una generale che è data dalla Bibbia, dalla Tradizione
della Chiesa e dai consigli dei Santi, ed una regola particolare,
che è l’obbedienza, regola questa che rende più semplici e facili le
cose. La volontà espressa dai legittimi superiori è manifestazione
concreta della volontà di Dio. L’enunciato del voto è il seguente: «Prometto
a Dio di fare sempre tutto quello che capirò essere più perfetto,
secondo le prescrizioni e il comando del mio superiore o direttore»[927]. L’attenzione del voto verte tutta
sull’interiorità, in quanto non si fa voto del più perfetto in sé, ma
del più perfetto conosciuto, cioè di ciò che si comprenderà essere più
perfetto. Certamente un voto simile, che di per sé è possibile in
qualunque stato di vita, comporta il massimo della tensione spirituale
e la realizzazione concreta del
“magis” di ignaziana memoria, nel quale il Lanteri aveva fondato
tutta la sua ascesi verso Dio. Il fatto che il nostro Lanteri potesse
aver
fatto il voto serafico non dovrebbe stupirci, dopo quanto
abbiamo già detto riguardo ai voti fatti al tempo della preparazione al
sacerdozio, di essere diligente in tutto e di non commettere peccati
veniali deliberati[928].
Il suo confessore, il p. Antonio Ferrero, credeva anche che avesse
fatto voto di non perdere mai tempo[929].
2.2.5 Gli scritti mariani C’e’ un dato importante di cui tenere
conto
riguardo gli scritti mariani del Lanteri. Pur essendo devotissimo di
Maria e grande diffusore della sua devozione, gli scritti a Lei
dedicati al tempo della sua relegazione della Grangia sono pressoché
gli unici scritti del Lanteri in merito e sono in tutto nove. Alcuni
sono originali del Venerabile, e comunque non si tratta mai di
trattazioni complete, quanto di spunti o riflessioni e compendi di
opere di altri autori[930].
Questo fatto fa dire al Calliari: «La
devozione mariana del Lanteri è più vissuta che scritta, e tutta la sua
vita e la sua opera, in modo particolare la sua fondazione [degli
Oblati di Maria Vergine], si possono considerare un trattato di
teologia ascetica mariana»[931]. Quello che risalta maggiormente in questi
scritti e compendi mariani è che sono pressoché studi che partono dalle
formule di preghiera usate abitualmente dai fedeli e approvate dalla
Chiesa. È, dunque, una riflessione teologica che parte dalla vita
orante della Chiesa, al fine di rendere questa vita più partecipata,
ricca di devozione e amore e quindi anche più capace di sostenere il
cristiano nella sua lotta quotidiana per il Regno. Questo può
ricollegarsi al secondo dei tre modi di orare che s. Ignazio insegna
nella Quarta Settimana dei suoi E.S.: «Il secondo modo di orare è che la persona, in
ginocchio o seduta, secondo la maggiore disposizione in cui si trova e
maggiore devozione che l'accompagna, tenendo gli occhi chiusi o fissi
in un luogo, senza andare con essi vagando, dica Pater, e stia
nella considerazione di questa parola tanto tempo, quanto trova
significati, paragoni, gusti e consolazione in considerazioni
pertinenti a tale parola; e allo stesso modo faccia in ogni parola del Pater
noster o di qualsiasi altra orazione, che in questo modo voglia
orare»[932]. Con il materiale da lui redatto presumiamo
che il Lanteri volesse alimentare lo spirito di preghiera dei fedeli e
renderlo solido alimento per la loro crescita spirituale. La finalità
di questi suoi scritti era senz’altro che i suoi lettori amassero,
invocassero e imitassero Maria. Numerose sono, in questi
documenti, le affettuose elevazioni del cuore a Maria,
caratteristica, questa, comune negli scritti del Lanteri che sempre
liricizza il suo pensiero tramutandolo in affettuosa invocazione di
grazia o proclamazione di lode. La mariologia del Lanteri è quella
classica che si rifà a S. Bernardo, S. Anselmo, S. Alfonso, e si fonda
sulla mediazione universale di Maria presso il Figlio, posta anche alla
base dell’atto di schiavitudine da lui fatto da diacono[933]
che mette particolarmente in risalto la gloria e la potenza di Maria.
E ora vi presentiamo una elevazione
mariana
particolare, che conferma quanto abbiamo già detto riguardo l’amore al
paradosso tipico dell’animo mistico del Lanteri: «O
Signora, se per tuo mezzo il tuo Figlio è diventato nostro fratello,
non sei tu forse diventata nostra Madre? E se vi ho offesi tutti e due,
tutti e due siete clementi e pieni di pietà. Dunque fuggirò l’ira del
Dio giusto ricorrendo alla pia Madre, l’ira dell’offesa Madre
ricorrendo al benigno Figlio. E dirò: O Dio che ti sei fatto Figlio di
Donna a causa della nostra miseria, o Donna che ti sei fatta Madre di
Dio per la sua misericordia, o avete compassione di me peccatore, o
mostratemi altri più misericordiosi a cui rivolgermi»[934]. Non può poi mancare la speculazione
filosofico-teologica: «Quanto
più una cosa è vicina al suo primo principio, tanto più partecipa
dell’effetto di quel principio, come si vede negli Angeli. Ora, Cristo
è il principio della grazia, autoritativamente secondo la divinità,
strumentalmente secondo l’umanità. Maria Santissima, vicinissima a Dio
perché egli da lei ha assunto la carne, ottenne la pienezza della
grazia a preferenza di chiunque altro»[935]. Secondo il Calliari si può trovare
anche un aspetto speciale nella mariologia del Lanteri, nel suo
guardare verso Maria come colei che ha sconfitto tutte le eresie[936].
Certamente questo aspetto doveva essere molto sentito dal Lanteri, che
in tutta la sua vita apostolica fu sempre in prima linea nella difesa
della verità e la confutazione dell’errore: «Regina
degli Apostoli: essi, presi singolarmente, hanno predicato il Vangelo
in tutte le parti del mondo, tu da sola col tuo potente patrocinio hai
distrutto tutte le eresie in tutte le parti del mondo»[937]. Questo aspetto della devozione mariana del
Lanteri lo riprenderemo più avanti, parlando della fondazione degli
O.M.V.[938]
Concludiamo questo paragrafo sugli scritti teologico-devozionali
del Lanteri alla Grangia con una preghiera alla Vergine che riassume un
po’ tutto il pensiero e la devozione mariana del nostro Venerabile: «Vergine
Santa, Madre di Dio, e Madre mia, io vi domando due cose che mi sono
ugualmente necessarie: datemi vostro Figlio, è il mio tesoro, senza di
Lui sono povero; date me a vostro Figlio, è la mia saggezza, la mia
luce, senza di Lui sono nelle tenebre. Tutto
a Gesù per Maria. Tutto a Maria per Gesù. Come la vita
naturale di Gesù nel seno di sua Madre dipendeva totalmente da Lei,
così nella vita della grazia, di cui non c’è nulla di più fragile –
perché anche un fantasma, un pensiero può rovinarla – ricorriamo a
Maria nostra Madre, lei non mancherà mai di sovvenire ai nostri
bisogni, se noi non usciamo fuori dal suo seno»[939]. 2.2.6. La vita di
preghiera, la mistica apofatica Qui alla Grangia nel silenzio della sua
“cara solitudine”, potendo spaziare nello studio e
nell’adorazione amorosa del Santissimo Sacramento, l’orazione del
Lanteri fece un salto di qualità nella semplicità e nello spirito di
unione e intimità con Dio, ciò che giustamente il Calliari osserva: «[Negli
scritti spirituali del Lanteri] si assiste ad un progresso continuo, a
un avanzamento e perfezionamento ininterrotto, e conseguentemente a una
semplificazione e riduzione a unità di pratiche e di norme ascetiche
sempre più rilevante. La semplificazione avviene prima di tutto
nell’orazione, dove scompaiono i ragionamenti e vi si introducono gli
affetti: e questi ultimi si semplificano alla loro volta fino a
diventare un prolungato amoroso sguardo verso Dio»[940]. D’altra parte, se il Lanteri era
diventato,
in questo tempo, così esperto nella vita dello spirito da saper ben
riconoscere nei suoi figli spirituali il grado di orazione a cui erano
giunti (come vedremo affermerà il Craveri[941])
si deve postulare necessariamente che egli stesso fosse bene inoltrato
nelle vie dello spirito. L’approfondimento degli autori mistici gli
rivelò nuovi orizzonti nella sua vita di preghiera, finora alquanto
legata alla meditazione riflessiva e sebbene fortemente affettiva,
aprendolo alla teologia e alla mistica apofatica di Dionigi Areopagita[942]: «C’è
un modo di contemplare Dio seguendo la via della negazione o
dell’esclusione secondo S. Dionigi. Questa via sembra che dica meno, in
pratica dice più che non quella dell’affermazione. Infatti quando dice
che Dio non è qualche cosa di possibile, o soprasensibile, di
immaginabile, o di sopraimmaginabile, di intellegibile o di
sopraintellegibile, allora l’aspetto della verità si adatta alle
oscurità della nostra mente, ma si eleva più in alto e penetra più
profonda proprio perché supera se stessa ed ogni altra cosa creata […].
Ora perché l’aspetto della verità possa essere raggiunto, è necessario
che la verità stessa sia invocata […], studiata […], ammirata […],
annunciata […], avvicinata […], posseduta […], fatta propria […],
adorata […], abbracciata […]»[943]. Non mancano poi le sue riflessioni sulla
letizia spirituale che è uno dei segni più alti della pregnanza della
vita mistica di una persona: «La
vita affettiva è la madre della letizia spirituale che supera ogni
senso. Dio infatti ama il donatore ilare. Dio, per dir così, mette il
suo punto d’onore nell’avere servitori che gli obbediscono con maggiore
alacrità, che anche esteriormente, nel volto, nel comportamento,
esprimano la letizia e si congratula con essi perché hanno scelto la
parte migliore. Può venire a mancare il gaudio sensibile dell’uomo
inferiore, ma non cessa il gaudio soprannaturale dell’uomo superiore.
Perciò la tristezza e la letizia possono occupare la stessa parte, come
la luce e le tenebre occupano la stessa parte dell’orbe terraqueo, ma
non nello stesso emisfero. Per questo S. Paolo dice voi siete tristi,
ma sempre gaudenti [2Cor 6,10]. Il rimedio di questa tristezza è la
preghiera […]. Dio è ogni bene, il sommo bene diffusivo di se stesso;
non diffonde i suoi beni se non con amore e gaudio infinito, perché
l’amore è la sua essenza. Riferiamo perciò tutto a lui con amore e
gioia nel suo servizio»[944]. L’origine di questo sentimento d’intima
letizia lo possiamo vedere racchiuso in una preghiera del Berthier[945]
che il Lanteri aveva trascritto in un insieme di fogli sui quali
scriveva i suoi appunti sullo studio delle perfezioni di Dio. Essa ci
dimostra come il nostro Venerabile amasse passare dallo studio
teologico all’elevazione mistica. Dopo averla trascritta egli aggiunse
alcune frasi, le quali dimostrano come questa preghiera fu da lui letta
ripetutamente e personalizzata con proprie elevazioni. Riportiamo la
trascrizione apponendo in neretto le parti aggiunte dal Lanteri: «O
verità! o immensità! o pienezza! Infelice l’anima che si rifugia in se
stessa, perché non può né possedere voi, né essere da voi posseduta. O
uomo cos’hai in te degno di essere da te guardato? La natura dell’anima
è così elevata, così pura, così capace, che nello stesso momento
ch’ella rimira altre cose che non il suo diletto sovrano, ella comincia
a entrare in una molteplicità che la inganna e l’oscura [ma viene]
purificata e perfezionata dalla [contemplazione della] vostra
solitudine e unità. O
pienezza, non riempite voi tutto? Essenza - intelligenza – amore. O
immensità non siete voi che racchiudete tutto, per cui potete
soddisfare il nostro cuore inquieto? O
unità, non siete voi il centro di tutto? O
verità non siete voi la regola infallibile e il cammino sicuro che
conduce al tutto? e fuori di voi non c’è che vanità e menzogna.
Se dunque io vedo il cielo e la terra, se io muoio o se io vivo, se
cammino o mi riposo, se io parlo o taccio, se l’obbedienza mi mette in
mille luoghi, se sono ricco o sono sprovvisto di tutto, se io sono nel
dolore o nella gioia, se tutto il mondo crollerà, stando in voi, o mio
Dio, non potrò essere in tutte le cose senza restare in voi? Chi potrà
separare questo uno quando è uno con voi? Ma
cosa fa e cosa vuole quando è una verità che questo uno è
uno; voi solo, o occhio chiaroveggente, giudicate nella
verità di una luce impercettibile a qualunque occhio creato; le opere
umane svaniscono davanti a voi, i cui giudizi sono stabili per via
delle vostre eminenti virtù, o abisso senza fondo! O abisso senza
fondo!»»[946]. Certamente questa preghiera del Berthier
esprime l’indole spirituale del Lanteri, la sua profondità teologica e
il suo afflato mistico che cercò di trasmettere ai suoi Oblati,
soprattutto attraverso il Direttorio per gli OMV, nella cui
introduzione verrà ripreso dal nostro Venerabile tutto il contenuto di
questa elevazione, come vedremo a suo tempo[947]. Abbiamo iniziato questo paragrafo, del
tempo
dell’esilio, ricordando le “lunghe ore” che il Lanteri passava
adorando il SS.mo Sacramento, e la sua gioia per il permesso avuto dal
Santo Padre di poter custodire Gesù Eucarestia nella sua abitazione di
Bardassano[948].
Verosimilmente, in questo periodo,
scrisse la seguente riflessione sul SS.mo Sacramento[949]: «Gesù
Cristo è a noi come un ponte per unirci alla divinità, è come un
carbone acceso della divinità per accendere i nostri cuori. E
nell’Eucarestia ci è dato come un favo di miele [Sal 19,11].
Non si addormenterà, non prenderà sonno, il custode d'Israele [Sal
121,4]. […]. Nell’Eucarestia si dà l’umanità di
Cristo per deposito la divinità per caparra, perché rimane finché
non sono consumate le specie, lo Spirito Santo per ostaggio»[950]. E ancora, scritto nella stessa pagina
d’appunti, riportiamo un’elevazione al SS.mo Sacramento: «Straordinaria virtù dell’amore! L’amore fa
inclinare Dio verso la terra, eleva la mente verso la patria, congiunge
strettamente insieme Dio e l’anima verso la gloria. L’amore rende Dio
uomo e l’uomo Dio. L’amore fa morire l’immortale e rende immortale il
mortale. L’amore costituisce un dono eccelso, rende il proprio nemico,
amico, il servo figlio, l’abominevole glorioso. L’amore rende ignei i
cuori freddi, chiaro ciò che è oscuro, fluido ciò che è duro, pone in
Cielo ciò che appartiene alla terra e fa penetrare in Dio le profondità
della mente, trasfigura il fango in Dio. O Amore, ti ho perseguitato e
sono stato collocato in te, ti ho ricoperto di sputi e tu mi hai
coperto di baci, ti ho colpito di spada e tu mi hai liberato dalla
morte. O Amore, ti ho riempito di dolore e tu mi riempi di
gioia e di consolazione, ho ucciso il mio Dio e tu mi hai donato una
vita beata. O Amore che non sono degno di nominare e che oso masticare,
o Gesù dolce amor mio, riposi in te la mia mente»[951]. Tra i manoscritti lanteriani dell’esilio
che
riflettono la sua devozione eucaristica, ce n’è uno particolarmente
interessante per la conoscenza della sua devozione. Si tratta di un
compendio di un testo del Vaubert[952],
La dévotion à N. S. dans l’Eucharistie, in cui il Lanteri
riepiloga le affermazioni dell’autore intorno alla presenza reale del
Signore Gesù nel Sacramento dell’Eucarestia, i frutti di questo
Sacramento, in particolare l’unione dell’anima con il Signore e la
comunicazione che si attua in esso della vita divina, il suo essere
caparra di vita eterna, la dimensione sacrificale ed ecclesiale
dell’Eucaristia. Quello che più interessa al nostro studio però, non è
tanto ciò che egli trascrisse in quanto assimilazione del pensiero
dell’autore, ma le preghiere e gli slanci spirituali che egli aggiunge,
quasi a sottolineare, enfatizzare e gustare il pensiero dell’autore,
masticato e assimilato nello spirito, così trasformato in preghiera
personale: «Ma
Signore come va? Voi fate le vostre delizie lo stare sempre con noi, ed
io m’annojo di stare un’ora con voi! Voi m’aspettate continuamente
nella chiesa, ed io consumo il tempo in inutilità. Voi siete ributtato[953]
da niente, né dal tempo né dal luogo, ed a me tutto serve da scusa, il
tempo, il luogo, un po’ d’incommodo m’allontana da voi. Perdono: vi
visiterò più sovente. Per freddo che sia il mio cuore, l’approssimerò a
questa vostra fornace d’amore, e spero che lo riscalderete, lo
ammorbidirete, e gli insegnerete ad amare»[954].
Il Lanteri continua la sua effusione
mistica
con un pensiero molto bello, manifestando il suo desiderio di cercare
assolutamente e solamente Dio e richiamando anche l’iter purificativo
della
“notte oscura dei sensi” di S. Giovanni della Croce[955]: «O
Signore cosa v’importa che mi ricordi di voi, e non vi dimentichi? Ne
sarete più onorato e più felice? Certamente procurerò di non più
dimenticarvi dopo tante prove d’amore. Fatemi voi la grazia, e la
memoria di voi scancelli tutte le altre immagini terrene»[956]. Nel proseguo dell’effusione della sua
anima,
in risposta ai concetti avocati e assimilati dal Vaubert,
notiamo che il Lanteri parla di “noia”. È chiaro che sente in sé questa
tentazione di
annoiarsi lì dove diceva di sentirsi “inutile”, proprio lì
alla tenuta di Bardassano «diventato inutile al suo
prossimo»[957].
È quella solita accidia che aveva sempre combattuto che lo
disturba anche qui alla Grangia: «Io
vi dono così poco, e neppur con allegria; mi lamento delle difficoltà
nel vostro servizio, e mi annojo; sovente vi dono ciò solamente che il
timore m’impedisce di negarvi. Chissà se non vi fosse l’inferno e
paradiso, cos’avrei fatto? È egli amarvi il dimandar se vi è obbligo di
far tal cosa? Ah, non sarà più così, ma Gesù aiutatemi.
[…]. O Gesù come potrò abbastanza ringraziarvi d’un sì grande
beneficio? Ti devo già tutto me stesso per avermi fatto, ti sono
debitore due volte per avermi rifatto: cosa posso offrirti in cambio di
te stesso? Gesù mi consacro tutto a voi, Voi assistetemi affinché
io vi onori, vi ami in maniera tutta divina»[958]. Nella contemplazione di Gesù Eucaristia
trova
lo slancio per rinnovarsi del desiderio di purificazione e liberazione
interiore: «Signore,
fatemi grazia che non mai più m’attacchi alle acque torbide ed infette
come sono i beni di questa terra […]. O mio Dio, non vi è alcun amico
così generoso come voi. Ma quanto più ammiro il vostro amore, tanto più
mi condanno io stesso perché non solo non corrispondo a tanto amore, ma
vedendovi tanto disonorato e oltraggiato, invece di far di tutto per
ripararvi, ancor io vi disonoro con la mia tiepidezza»[959]. Annota poi nei suoi fogli la propria
ammirazione devota del sacrificio eucaristico nei suoi risvolti
ecclesiali. Il sacrificio eucaristico è infatti visibile e sensibile in
quanto offerta sacrificale del Corpo e il Sangue di Gesù Cristo
presenti nelle specie del pane e del vino. A questo sacrificio visibile
e sensibile viene associato il sacrificio di tutto il Corpo Mistico di
Gesù Cristo e della sua Chiesa militante, purgante e trionfante, quale
vittima interiore e invisibile:
«Ma questi due corpi[960]
non sono che come due parti della stessa vittima, perché non essendo
che un solo e stesso Capo, egli è solamente il Figlio di Dio che viene
immolato all’Eterno Padre nel Sagrificio dell’altare»[961]. Nutrito a questi ricchi pascoli della più
alta teologia, il nostro Venerabile assimilava e gustava nell’orazione
i contenuti della fede nell’Eucarestia, innalzando la sua anima alla
più alta contemplazione del mistero di Dio che ci salva in Gesù Cristo: «Che
bella grazia d’essere associato al Corpo mistico di Gesù Cristo! Il
Salvatore come Capo s’era incaricato non solo de’ peccati, ma di tutti
gli interessi, obbligazioni, doveri dei suoi figli e delle sue vere
membra mistiche, i quali tutti adempì abbondantemente. E le membra vive
mediante quest’unione col Capo, acquistano un diritto di società
abbondantemente e di commercio col Capo riguardo all’impiego de’ sensi
e delle potenze dell’anima di Gesù Cristo ed ai suoi atti eroici di
virtù, alle sue preghiere, ai suoi meriti ed impetrazione. […] Prega
per noi come nostro sacerdote, con noi come nostro Capo (S.
Agostino, Commento al Salmo 85,1)»[962]. Le riflessioni sul Corpo mistico di Cristo
fanno parte anche di un altro testo del Lanteri denominato “Speculum
animæ – De Imitatione Christi”[963].
Questo documento sembra essere la bozza di preparazione di un testo
organico che pare poi il Lanteri non abbia mai redatto. Si tratta di un
insieme di appunti, talora scritti in francese, altre volte in latino o
italiano, in cui egli si ripete, ampliando o precisando i concetti. Si
presume che il testo risalga al tempo della relegazione che stiamo
esaminando. Esso tratta dell’anima come specchio di Dio, che si
riflette nel Cristo e trova nell’unione a Lui «di sostanza, potenza e
«di sostanza, potenza e operazione»[964]
la pienezza della propria vocazione e verità: «Lo spirito di Gesù Cristo anima due corpi, il
suo corpo fisico e il suo corpo mistico: così egli ha due vite, l’una
nel suo corpo [fisico], l’altra nel corpo della Chiesa e in tutti i
fedeli che ne sono membri. Egli concluse con la morte la vita fisica
del suo corpo, ma la iniziò nel suo corpo mistico dove vuole continuare
le sue sofferenze e i suoi meriti. In maniera che la vita di un
cristiano non è che un’espressione e una continuazione della vita di
Gesù (Vedi anche Saint-Jure[965], Retraite su l’amour de Jésus-Crist,
Méditation fondamentale)»[966]. L’unione
al
Verbo incarnato è ancora oggetto della sua contemplazione: «Quale gloria ha un cristiano da poter dire che è un altro
Cristo e che le sue azioni sono quelle del Verbo Incarnato, che è la
Sapienza eterna che parla dalla sua bocca, sull’esempio di Gesù che
disse: «Filippo, chi vede me vede il Padre mio».
Perché come la figura del sigillo regale viene impressa nella
cera, così viene impressa nell’umanità la figura di Dio. Come tutta la
gloria del Verbo Incarnato è di essere l’immagine del Padre, così tutta
la gloria del cristiano è di essere l’immagine del Verbo in cui
consiste tutta la santità di questa vita e la felicità dell’altra»[967]. L’unione
con Gesù ha come finalità la continuazione della sua missione nel mondo: «Gesù ci ha scelti per portare avanti la sua
missione, per diffondere le sue massime in difesa della virtù in
contrasto con i perniciosi costumi del mondo. Gesù Cristo è insieme il
nostro cammino, il nostro termine, la nostra luce, il nostro viatico,
la nostra guida (Nouet[968], in 4o, vol. 3, p. 52). La rassomiglianza è la
causa dell’amore, necessita imitarlo se voi volete che egli vi ami.
Egli ama così teneramente i suoi amici
che
vuole essere una cosa sola con loro.
1. Per questo egli ha istituito il
sacramento dell’amore in forma di vivanda che s’incorpora in colui che
la prende al fine di unirsi corporalmente a noi, e non essere che uno
[con noi] in qualche maniera in unità di sostanza.
2. Ci ha donato lo Spirito Santo al fine
di
non essere che uno con noi in unità di spirito e di virtù.
3. Ma per rendere perfetta questa
unione,
egli vuole che giunga fino alle opere per la conformità delle nostre
azioni con le sue, e della nostra vita con quella che egli condusse
sulla terra. Perché l’unità perfetta consiste nel non
essere
che uno in unità di sostanza, di potenza, di operazione. Questa è la
richiesta che egli fece alla vigilia della sua Passione: “Affinché
siano consumati nell’unità”, come egli è uno con suo Padre [cf Gv
17,11ss]»[969]. Il nostro Venerabile approfondisce
concretamente questa tensione all’unità con Gesù Cristo per essere uno
con il Padre, sviluppando quel metodo personale di unione a Gesù che
trasmetterà poi ai suoi figli Oblati in un nuova formulazione
verbale, che esporrà nel
Direttorio di Congregazione, come abbiamo già anticipato[970],
e che trova in questo testo la genesi del suo sviluppo: «Unite il vostro cuore e la vostra azione alla
sua per trarne forza e vigore, e per farla nel suo spirito,
assicurandovi così di essere nelle sue vedute, nei suoi intenti e nella
sua perfezione. Pregate che egli metta la sua mano sulla vostra, che
egli lavori con voi. Fate che egli sia, per una vostra dolce
applicazione a Gesù operante e conversante, effettivamente il vostro
Emanuele per la presenza e per l’influsso del suo spirito nel vostro. Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo
sul tuo braccio [Ct 8,6].
Immaginatevi che egli vi inviti ad incidere il suo sigillo ben dentro
il vostro cuore, pregatelo che lo incida lui stesso, che si imprima
questo sigillo ai vostri occhi per santificare i vostri sguardi, alla
vostra bocca per consacrare tutte le vostre parole, alla vostra mente
per santificare tutti i vostri pensieri, alla vostra volontà per
regolare tutte le vostre affezioni, al vostro corpo e alla vostra anima
per imprimervi il contrassegno inconfondibile della sua umiltà, della
sua purezza e della sua innocenza»[971]. Una parte di questo
documento è
dedicato dal Lanteri alla contemplazione amorosa di Gesù Crocifisso,
parafrasando un testo di s. Bernardo: «Il nostro Paradiso è Gesù Crocifisso
dal quale nascono cinque sorgenti: 1. una sorgente di misericordia per
cancellare i nostri peccati; 2. di saggezza per istruire contro
la
prudenza della carne e appagare la nostra sete di giustizia; 3. di devozione per irrigare le
radici
delle virtù e renderci fertili; 4. di carità
per animare il nostro zelo, infiammare il nostro cuore del fuoco
dell’amore; 5.
della vita che ci è riservata nell’eternità. “Per queste
quattro
sorgenti, in quattro posti Gesù fu ferito mentre ancora vivente sulla
Croce; per la quinta, essendo già spirato, fu trapassato nel fianco”
(S. Bernardo)»[972]. Da qui il Lanteri si
inabissa nella contemplazione di Gesù Crocifisso, aiutato dalle
elevazioni mistiche trasmessegli da quei suoi intimi e cari amici Santi
che più avevano fatto di questa contemplazione il loro grande gaudio: «“Colui
che vuole conservare una devozione inestinguibile guardi sempre con gli
occhi del cuore Cristo sulla Croce mentre sta per morire” (S.
Bonaventura). “Presso
di te vi è la sorgente della vita, a te ho sollevato l’anima mia, quasi
ho portato il vaso alla sorgente: pertanto saziami, perché a Te ho
sollevato l’anima mia” (S. Agostino)
[973]. “Annegati
nel sangue di Cristo Crocifisso, annegati nel sangue, saziati nel
sangue, inebriati nel sangue, affligiti nel sangue, rinnovati nel
sangue, confortati nel sangue dell’immacolato, ferito e ucciso agnello”
(S. Caterina da Siena)»[974]. Il Lanteri passa poi a fondare tutta la
vita
morale su Gesù Cristo: «Il modo di
imitare Cristo nelle virtù cardinali. Dov’è la
vera
prudenza se non nella dottrina di Cristo? Dov’è la vera giustizia se
non nella misericordia di Cristo? Dov’è la vera temperanza se non nella
vita di Cristo? Dov’è la vera fortezza se non nella Passione di Cristo?
Pertanto, i
soli prudenti sono coloro imbevuti della dottrina di Cristo;
I soli giusti sono
coloro
che hanno conseguito la grazia per la misericordia di Cristo; i soli
temperanti coloro che si sforzano di imitare la vita di Cristo; i soli
forti coloro che mantengono saldamente nelle avversità gli insegnamenti
della pazienza di Cristo. Inutilmente, pertanto, si affatica colui che
nell’accrescimento delle virtù pensa che esse debbono aspettarsi da
altri che non sia il Signore delle virtù, la cui dottrina è seminario
di prudenza, la cui misericordia è opera di giustizia, la cui vita è
specchio di temperanza, la cui morte è un insigne esempio di fortezza.
Sei sicuro se ti fai precedere dalla verità, senza di essa invano ti
affatichi. Andiamo a Lui Stesso, andiamo per mezzo dello Stesso, di che
cosa dobbiamo aver timore?»[975]. Da qui il Lanteri fa conseguire che
dobbiamo
ascoltare l’invito del Maestro: «Imparate da me che sono mite e umile
di cuore» (Mt 11,29) e, prendendo spunto da questo brano evangelico, e
da una frase agostiniana – «Se Dio non fosse stato umile, non lo potremmo né
mangiare né bere»[976]
–, prosegue e conclude il suo scritto, che rimase incompleto, con una riflessione sull’umiltà: «Il Verbo si è fatto carne, la Divinità nel
fango. L’umiltà è figlia della grandezza di Dio e della conoscenza
delle sue perfezioni infinite. Niente può annientare il nostro orgoglio
[se non la frase]: chi è come Dio?
Gli effetti della grazia tendono tutti
all’umiliazione dell’uomo[977] e alla gloria di Dio. La prima cosa che deve
operare la grazia è insegnare all’anima che il primo uso del suo
intelletto, della sua volontà, delle sue potenze, è di annientarsi
davanti alla suprema maestà del Creatore, come le vittime che gli si
offrono vengono distrutte per mostrare che la creatura davanti a Dio
deve ritenersi come un niente che non può esistere né agire senza la
sua assistenza particolare (n.b. tanto più questo nell’ordine
soprannaturale).
Mandi il tuo Spirito sono creati, e rinnovi
la faccia della terra (Sal
104,30). Da qui ne viene che l’umiltà [da parte
dell’uomo] non è meno necessaria per le buone opere di quanto esse
necessitano della grazia da parte di Dio»[978].
2.2.7. La devozione allo
Spirito
Santo Nelle riflessioni scritte nell’esilio
della
Grangia, troviamo pagine di alta contemplazione amorosa della Terza
Persona della Santissima Trinità. Lo Spirito Santo viene innanzi tutto visto
in
relazione alla SS.ma Trinità nel suo essere “vincolo d’amore” del Padre
e del Figlio, i Quali, amandosi, non possono essere uniti che
dall’Amore stesso. Amore che a sua volta si comunica al cristiano per
introdurlo nella Comunione Trinitaria e santificarlo con la
partecipazione di Se Stesso: «O
santissimo e dolcissimo vincolo che leghi in una sola volontà e natura
il Padre e il Figlio; o Santissimo vincolo, stringi anche me a Te, al
Padre, al Figlio, per non essere mai staccato da te, né
dall’intelligenza, né nell’affetto, e diventi santo per la
partecipazione della tua purità»»[979]. E partecipando Se Stesso lo Spirito Santo,
Spirito dell’Amore, ci rende capaci di amare: «O
Carità Increata, Tu sei principio di ogni carità creata; primo amore,
sei anche maestro dell’amore; Tu solo insegni la scienza dell’amore
dalla quale siamo mondati e perfezionati e santificati. Non altro
voglio sapere né desiderare, che amare Te; qualunque cosa penserò e
farò, fa che derivi dall’amore, sia fatta con amore, sia trasformata in
amore, perché solo amando Te con costanza in terra, un giorno raggiunga
Te stesso come mia gloria»[980]. In secondo luogo lo Spirito Santo viene
colto
nella sua relazione con il Verbo Incarnato; Gesù Cristo, infatti, da
Lui fu concepito (cf Lc 1,35), da Lui fu condotto (cf Mt 4,1 e
parall.), di Lui parlò (cf Gv 15,26-27; 16,5ss, ecc.) e Lo mandò (cf Gv
20,22) e Lo poté mandare perché di Lui il Verbo è Principio, Principio
dell’Amore! «Adoro
Te [devotamente, o Gesù], Sapienza e Verbo, che produci l’amore
infinito, infondi in me questa Sapienza che produce l’amore. Di’ solo
una parola e il mio cuore sarà infiammato»[981]. In terzo luogo lo Spirito Santo viene
contemplato nel suo relazionarsi con la Chiesa: «Così
Tu ti doni alla Chiesa e alle anime dei giusti e li arricchisci col
dono di Te che sei sommo bene. Anima mia, impara ad apprezzare le
ricchezze di questo Dono dei Donatori e Dono di Se Stesso»
[982]. Ma soprattutto quando il Lanteri contempla
le
relazioni dello Spirito Santo con le singole anime dei cristiani, si
eleva e si profonde in un cantico di lode, di ammirazione e d’amore,
riassumendo i testi più significativi della liturgia e della pietà: «Consolatore
degli afflitti, dissipa le nostre tenebre e le nostre tristezze.
Spirito di verità, liberaci dall’errore e dall’ignoranza. Dono che
superi ogni altro dono, ricolmaci della tua virtù. Fonte dell’acqua
viva, estingui la fiamma del vizio, purifica l’anima, eleva i cuori
all’amore, all’adorazione di Te solo col Padre e col Figlio. Miele
soavissimo, riempi la mia bocca della tua soavità. Tu sei dono che
dimori nell’anima come in un tempio e la rendi gradita a te, al Padre e
al Figlio, ed erede del regno col dono della grazia infusa; Tu sei
fuoco che consuma tutti i peccati e tutti i vizi e con l’infusione
della carità rendi infiammati i nostri cuori; Tu sei la fontana
dell’acqua viva che emana in noi la fontana della verità; Tu sei il
vento propizio che fa avanzare la nostra nave, senza Te non arriveremo
mai a nessun bene che giovi all’anima; Tu sei, in una parola, il primo
dono, l’autore di tutti i doni, da cui tutto il bene proviene, senza
cui nessun bene è ricevuto»[983]. Per opera dello Spirito Santo l’anima è
inabitata dalla SS.ma Trinità e si realizza l’unione divina d’amore per
l’esercizio della divina presenza e della nostra presenza: «O
magnifico chiostro dell’anima immortale! Che essa rimanga in Dio, né
sia separata per la volontà, ma sempre rimanga unita alla volontà, alla
sapienza, alla bontà, all’amore, alla misericordia, alle delizie, alle
intenzioni del suo Dio!»[984]. Il pensiero dell’inabitazione di Dio
ridimensiona ogni cosa terrena e proietta l’animo già nel possesso
della gloria futura: «O
pensieri sublimi che l’anima concepisce all’intuito divino delle
Persone Divine! Quale gioia pascersi della stessa visione che hanno i
beati! O anima! Quanto è brutta la terra quando guardo il cielo.
Trinità Santa, quando avrò il bene di possedere la tua comprensione e
la tua speranza feconda, per la quale hanno la vita e l’essenza il
Verbo e lo Spirito Santo? Allontana il mio occhio dalla visione della
vanità, eleva la mia mente perché pensi sempre a Te, che sempre pensi a
Te e a me. O Padre che stai sopra i cieli, che sei degno di un tale
amore del Figlio e dello Spirito Santo, come non ti amerò? O Figlio,
tanto amato dal Padre, come sarò indifferente verso di Te? O Spirito
Santo, che sei lo stesso amore di Dio, dammi questo amore, non
permettere che io trascuri Te che sei l’Amore sussistente. O
amabilissima Trinità, fa che nel tuo Amore tutti noi sempre viviamo, ci
muoviamo e siamo. O vita dolce, o mozione sacra e benedetta, essere
desiderabile!»[985]. I testi precedenti manifestano più che
eloquentemente la vitalità spirituale del Lanteri in questo periodo,
evidenziando come egli fosse veramente un mistico che si ergeva in
contemplazione amorosa e adorante attraverso la contempla-zione del
mistero di Dio, conosciuto per mezzo della riflessione teologica.
2.2.8. S.
Bonaventura e S. Bernardo: la sete d’amore Nel suo clima di studio e preghiera, da
vero certosino,
il Lanteri alla Grangia si arricchì della conoscenza approfondita di s.
Bonaventura che lo introdusse in una più profonda comprensione di Dio.
Il suo non fu solo uno studio teorico, ma anche pratico. Qui infatti la
sua vita di preghiera maturò e si apri alle alte vette della mistica.
Non abbiamo segnali di doni straordinari di orazione infusa o altro, ma
chi, come il Craveri, lo vide e lo praticò in quel tempo
percepì in lui una nuova elevatezza e profondità spirituale: «Nodriva
li suoi amori col trattenersi alla presenza del SS.mo Sacramento, e
negli anni che passò alla Grangia s’internava per modo nel meditare le
cose di Dio sugli opuscoli del Serafico dottore con tanto gusto, e
penetrazione, che diceva di non aver mai conosciuto Iddio così, come
dopo aver letto que’ santi libri: onde io non dubito, che sia giunta la
di lui anima alle più alte contemplazioni; ed ho conosciuto, che con
tutta facilità sapeva discernere i gradi e la natura di tale orazione»[986]. Durante la sua relegazione alla Grangia il
Lanteri fu condotto a focalizzare i suoi studi intorno al primo e
principale dei comandamenti: “Tu amerai
il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le
forze” (Dt 6,5); una decina
sono, infatti, i compendi che egli scrisse in questo periodo intorno a
questo tema: “Expositio Cantici Canticorum”[987],
“Du Precepte de l’amour de Dieu (ex Pey)”
[988],
“Traité de l’amour de Dieu (ex Teotimo di S. F. di Sales)
[989],
“De primo præcepto amoris Dei”[990],
“Amatorium (ex S. Bonaventura)”[991],
De amore Dei”[992],
“Meditatio de amore Dei”[993], Certamente queste opere di sintesi
esprimono
tutta la ricchezza spirituale che il Lanteri, in questo tempo di
forzato esilio e ancor prima di esso, attingeva dagli autori spirituali
del calibro di s. Agostino, s. Bernardo, s. Bonaventura e altri[994]. Dell’amore in generale così scrive il
Lanteri: «La
vita dell’anima è amore, senza l’amore non si può vivere, anzi la vita
senza amore è una morte atrocissima […]. L’amore è una certa
unione e connaturalità del’amante con l’amato […]. L’amore di Dio è una
potenza che muove, quasi spingendo tutte le cose verso l’alto perché
arrivino a desiderare naturalmente lui stesso. L’amore di Dio si dice
amabile e desiderabile per l’infinità della sua bontà, della sua
pienezza, della sua bellezza. La vita di Dio è l’amore perché egli ama
se stesso e attira a sé l’uomo col suo amore. La vita dell’anima è
l’amor di Dio»[995].
È interessante come, parlando dell’amore
di
Dio, di quanto Dio ci ama e di quanto egli dovrebbe riamarlo, il
Lanteri individua ancora nell’accidia il suo maggior ostacolo all’amore
di Dio: «Lo
so, mio Dio, che tu hai amato, ami e amerai molti milioni di uomini più
di me, ed a ragione, meritatamente, santamente; ma so anche che ami me
più, di molti altri milioni di uomini, più di coloro che mai usciranno
dall’abisso del nulla e di coloro che precipitarono nell’inferno senza
avere avuto il tempo per la penitenza, più della terza parte degli
angeli […]. È vero che Dio ama me affettivamente come tutti gli altri,
effettivamente più di molti altri. È vero: Caino è stato perduto
dall’invidia, io dall’accidia: maledetta accidia!»[996].
Dio va amato in tutti i modi: «Quando?
In ogni tempo. Dove? In
ogni luogo. Come? In
tutti i modi […]. Quando?
L’amore non vuole indugi: comincia subito, ancor oggi. Dove? Fa
un
deserto dentro di te, un eremo solitario. Come?
Quanto
più ininterrottamente, quanto più perfettamente. Quanto?
Quanto più spesso, tanto meglio»[997]. In un tono sempre più lirico e mistico, il
Lanteri continua il suo inno all’amor di Dio: «Questo amore coniuga il dolce verbo amare per tutti i
modi
unendo ovunque l’affetto all’effetto. Il cuore
è
in perpetuo moto e qualunque cosa avvenga, o qualunque circostanza
si presenti, dice sempre: Amo! La lingua
naturalmente comanda a ognuno: Ama! La
memoria
nel pensiero del passato esclama gemendo: magari avessi sempre amato! L’intelletto,
convinto di questa amabile verità, dice trionfante e con gioia: dammi
di poterti amare senza fine! Questa è
la
grammatica dell’amore, ma il migliore di tutti è il modo infinito: il
modo infinito è la misura di amare senza misura»[998]. Il Lanteri parafrasa anche s. Agostino e
il
suo“Ama e fa ciò che vuoi”[999]: «Ama,
cioè esercitati in atti frequenti e intensi di amor di Dio ed
estinguerai in te tutti gli amori perversi. Fa ciò che vuoi, cioè
l’amore sarà in te più forte del timore per non volere nulla che
dispiace all’Amato, neppure il peccato veniale. Ama e fa ciò che vuoi,
e qualunque cosa faccia con ilarità e con sollecitudine, lo farai
ottimamente. Ama e fa ciò che vuoi; cioè prega quando vuoi, ma ama, e
pregherai bene; lavora quando vuoi, ma ama, e lavorerai senza
annoiarti, divertiti quando vuoi, ma ama, e non esagererai né nel tempo
né nella misura»[1000].
Riveste poi una particolare importanza,
per
la comprensione dell’orientamen-to mistico acquisito dal Lanteri alla
Grangia, il commento che egli fa al Cantico dei Cantici[1001].
Si tratta di un commento, appena abbozzato, dei primi due capitoli
degli otto del Cantico e dei primi quattro versetti del terzo
capitolo. Egli, più che di un commento vero e proprio al Cantico,
esprime quanto ha assimilato dalla lettura dei Sermoni sul Cantico
dei Cantici di s. Bernardo. Il Lanteri redige una sintesi del
commento di s. Bernardo, trascrivendo anche le intuizioni derivanti
dall’assimilazione personale. Potremmo quindi definire l’operato
lanteriano come un “Commento al Cantico dei Cantici alla luce di S.
Bernardo”. Con questo scritto possiamo cogliere come il Lanteri
fosse sensibile alle elevazioni e alle allegorie mistiche. Attraverso questi scritti il nostro
Venerabile rileva la propria spiritualità nel riassumere o
nell’ampliare l’idea o l’intuizione recepita da un determinato autore,
manifestando la propria indole spirituale che gusta le idee altrui e le
assimila, le sintetizza, personalizzandole, con luci specifiche. E
anche qualora queste colorazioni personali mancassero, laddove il
Lanteri riporta fedelmente le idee o l’intuizione dell’autore che aveva
studiato, quanto a noi arriva diventa sempre profondo segno della
sua sensibilità spirituale. Fin dall’inizio del suo Commento
al Cantico, il Lanteri, si slancia verso le altezze
della più alta mistica: «Il
fine e il senso del Cantico dei Cantici è il connubio estatico di Dio e
dell’anima per l’amore infiammante di Dio e per l’eccesso della
contemplazione dell’anima sublimanda e sublimata»[1002].
Procede poi commentando versetto per
versetto, ma non si tratta di commenti di carattere esegetico,
filologico, storico o letterario. Sulla scia di s. Bernardo, allarga lo
stretto valore esegetico dei termini a quello più ampio di un senso
spirituale-teologico. Le parole, infatti, anche se non possono reggere
ad una stretta critica esegetica, hanno la capacità di elevare l’anima
nel desiderio dell’Amato, e sono frutto dell’intima devozione causata
dalla Parola di Dio nel profondo del cuore del Lanteri. Protagonista
assoluto di questi commenti è proprio e sempre Lui: l’Amato, il
Desiderato. Tutto dunque viene letto e interpretato in funzione del
desiderio che assilla l’anima, che come cerva assetata anela alla fonte
(cf
Sal 42,1). Si tratta dunque di una lettura che parte
dall’esperienza di un cuore assetato e, similmente a chi nel deserto
vede miraggi d’oasi sparsi dovunque, soffrendo terribilmente l’arsura
fisica, così l’anima assetata di Dio legge ciò che non c’è nel testo,
ma c’è nel suo cuore. Tuttavia, a differenza del vagabondo del deserto
che ogni volta deve ricredersi deluso di non aver trovato l’oasi che
cercava, il mistico la trova realmente in quella parola, in
quell’aggettivo che ai più non dice nulla, e che invece per lui è oasi
meravigliosa, anzi è oceano infinito in cui la sua anima si tuffa,
nuotando sulle onde dell’Amore infinito. Chiaramente una simile lettura
non accrescerà le conoscenze biblico-scritturistiche, ma accrescerà
l’amore per Colui che si ama e si cerca con ardore. Faciliterà,
inoltre, la conoscenza delle possibilità di edificazione spirituale
racchiuse in quella o quell’altra frase biblica. Ciò premesso, torniamo
al nostro testo di cui riportiamo di seguito un altro stralcio, il
commento al primo versetto: “Mi baci con i baci della sua bocca”: «Il
bacio indica la congiunzione, l’unione e il contatto di Dio e
dell’anima. Il bacio di Dio è stato molteplice: 1°. l’Incarnazione […],
2°. la santificazione […], 3°. la riconciliazione […], 4°. l’istruzione
[…], 5°. la familiarità […], l’incremento dell’amore, dell’amicizia,
della grazia […], 7°. la beatitudine eterna…»[1003].
Tutta la vita di grazia viene così letta
attraverso l’icona dell’amore che è unità e intimità tra amato e
amante. Veniamo ora al commento del v. 14 del capitolo secondo: “Colomba
mia che ti celi nelle fessure della rupe, nei nascondigli dei dirupi,
mostrami il tuo viso”: «Le
fessure della rupe indicano le ferite delle mani, dei piedi e del
costato di Cristo; le perfezioni divine; gli aiuti degli angeli; la
Sacra Scrittura; qualunque creatura per cui possiamo arrivare a Dio. Là
potrai a tuo arbitrio nasconderti, riposare in Dio, restare lontano dai
pericoli, dalle insidie, dal frastuono, e potrai darti liberamente alla
contemplazione»[1004].
In questa luce certamente il Lanteri
vedeva
la “sua cara solitudine” della Grangia, come una “fenditura
della roccia”. Penso che il suddetto commento ci aiuti molto a
comprendere la ricchezza di questo senso spirituale che trasporta il
senso letterario a nuove altezze, senza distruggerne la primaria
significazione. Esso permette all’anima di gustare, nel simbolo
acquisito dalla Scrittura, la bellezza della propria ricerca dell’Amato
e, addirittura, l’Amato stesso, perché non lo cercheremmo se non
l’avessimo già trovato[1005]. Più significativo ancora il commento
lanteriano del v. 16 del Cantico: “Il mio diletto è per me e io per
lui. Egli pascola il gregge tra i gigli”: «Il
mio diletto è per me, ossia: è per me l’unico sposo, è l’unico amato, è
il mio tutto, Creatore, Maestro, Signore, Pastore, Padre, Sposo; è via,
verità e vita; è redenzione e santificazione, giustizia e sapienza,
solo gaudio e beatitudine. Mi basta lui solo, perché in lui ho tutto; a
Lui basto io solo perché da me non richiede altro che me. Lui a me, io
a Lui: siamo tutti e due soddisfatti l’uno dell’altro»[1006]. Certamente questo “a Lui basto io solo”
ci porta proprio su, come su doveva essere andato molto, il Lanteri
alla Grangia, per scrivere simili frasi: “Lui a me e io a Lui”!
Pensiero caro al Lanteri, ampliato e incluso nel suo amore a Maria in
quella preghiera da lui forgiata, in cui chiede a Maria di donargli il
suo Figlio e di dare lui a suo Figlio[1007]. Nelle “guardie della ronda” del v.
3,
che la sposa incontra nella ricerca del suo Amato, il Lanteri vede
simboleggiati “gli angeli custodi, i confessori, i direttori”[1008]
che aiutano e ammaestrano l’anima educandola all’orazione e a vivere il
raccoglimento con lo sposo nelle necessarie attività terrene. Poi
commenta così il v. 4: “L’ho afferrato e non lo lascio!”: «L’ho
afferrato con frequente pensiero, con continuo amore, con imitazione
dei suoi esempi. L’ho afferro stretto, mi tengo intimamente unito a lui
e con lui divento una cosa sola»[1009]. Quanto abbiamo esposto pensiamo sia
sufficiente a rilevare la tensione mistica del Lanteri e la sua
unificazione spirituale nella sete di Dio, Amato e Desiderato in tutto
e dappertutto. Questo aspetto del Lanteri fu a suo tempo reso noto da
un ex Oblato di Maria Vergine, Casimiro Fulconis, che lasciò la
Congregazione lanteriana per farsi certosino con il nome di Gabriele
Maria. Egli scrisse un libricino di pietà intitolato
“L’Âme Sainte”, che fu edito in svariate edizioni in italiano e in
francese, in cui parlò del suo ex Fondatore elogiandone lo spirito di
devozione: «Il
grande Servo di Dio, Bruno Lanteri, fondatore della Congregazione degli
Oblati di Maria, indirizzava durante il giorno e durante la notte
frequenti giaculatorie al Santissimo Sacramento: Tra queste una faceva
vedere tutto il suo amore per Gesù e insieme anche la sete che aveva di
lui: Bone Jesu sitio te![1010]
Talvolta ripeteva più brevemente con gli occhi fissi sul tabernacolo: Sitio!
Sitio![1011]
E talvolta si rivolgeva alla santa Vergine e le faceva questa
preghiera, la preghiera di un bambino affamato a sua Madre: “O Vergine
Maria, saziate la fame che mi divora dandomi la carne del vostro Gesù:
Virgo Maria, satia me!
[1012]
…»[1013].
2.3. Le
lettere di direzione spirituale Con l’esilio della Grangia, il Lanteri
dovette interrompere la sua attività di confessore e direttore
spirituale, attività che le autorità francesi stesse osservavano con
apprensione, per l’influsso che egli avrebbe potuto avere sulle persone
di tutte le condizioni, a lui accorse per consiglio e aiuto spirituale.
Questo fatto fece sì che, durante questi tre anni di relegazione
forzata, il Lanteri si desse alla corrispondenza epistolare, seguendo
via lettera i suoi figli spirituali. Purtroppo, di tutta questa vasta
corrispondenza, di cui abbiamo notizia dalla tradizione orale della
famiglia religiosa degli Oblati di Maria Vergine, ci è pervenuto ben
poco, ma quel poco è più che sufficiente a mostrarci quali fossero le
linee fondamentali su cui conduceva le anime lungo i sentieri di Dio.
Di riflesso, potremo anche conoscere meglio la sua spiritualità, in
quanto, da buon maestro, non faceva altro che trasmettere ciò che egli
stesso viveva. Di questo tempo, in pratica, ci sono
pervenute solamente le lettere di direzione del Lanteri a due suoi
penitenti, il
Cav. Leopoldo Ricasoli e Suor Leopolda Mortigliengo[1014].
Del primo ci sono giunte tre lettere, mentre della Mortigliengo ben
diciannove. In esse si nota sempre un certo tono affettuoso, un
rapporto di vero affetto verso la persona diretta, tanto che una certa
reciproca intimità traspare qua e là nelle sue lettere e spesso
nell’inizio di esse, con la manifestazione della sua gioia per aver
avuto notizie del proprio figlio o figlia spirituale: «[…]
La preziosissima sua non poteva certamente recarmi maggiore
consolazione: già da lungo tempo più particolarmente mi occupavo di lei
innanzi al Signore, e bramavo ardentemente sue nuove»[1015]. «[…]
La ringrazio bene di cuore della preziosissima sua lettera, in cui mi
favorisce delle sue nuove, che tante volte ho desiderate»[1016]. «Car.ma
Figlia in Gesù Cristo, sappia che le sue lettere mi fanno sempre
piacere, e non ne sia tanto avara, come ha fatto finora, se non potrò
rispondere subito, eserciterò così la sua pazienza, e le procurerò
almeno qualche merito, frattanto lei non privi me di questa
soddisfazione»[1017]. Questo
desiderio, così accoratamente manifestato dal Lanteri, di avere spesso
loro notizie, non è semplicemente il desiderio di un padre affettuoso
che gioisce
nell’aver notizie del figlio o della figlia, o il desiderio
che i suoi figli spirituali capiscano che lui li ama. Certamente questi
elementi entravano pure nelle sue motivazioni, ma non ne erano la parte
fondamentale, che era bene altra. Il Lanteri, infatti, desiderava che
gli scrivessero spesso perché sapeva quanto giovava al bene delle loro
anime il contatto periodico con lui, indipendentemente dal piacere che
poteva venirgliene. Sapeva, infatti, lasciar aspettare la risposta,
quando non era urgente oggettivamente, mentre non c’era neanche ombra
di affetto disordinato che gli comportasse disattenzione ai propri
doveri verso gli altri. Con il rendiconto al proprio direttore
spirituale del cammino fatto, la persona trova maggiori forze per
riprenderlo e impegnarsi in quei propositi, sempre minacciati
dall’erosione della vita di ogni giorno, di essere trascurati o
dimenticati: «[…]
Lei sa che tutto questo non è poi difficile [la pratica del
programma spirituale che la persona diretta aveva con lui concordato] e
un mezzo che potrebbe contribuire anche a rendere stabile questa
pratica, sarebbe che Ella favorisse, di quando in quando, di darmene
ragguaglio alquanto dettagliato, sia della pratica, come dell’esito di
simili esercizi; così avrei la consolazione di contribuire anch’io, per
quanto posso, al suo avanzamento spirituale»[1018]. Da un’altra lettera, sappiamo poi cosa
intenda il Lanteri con il suo “di quando in quando”: «[…]e
per maggiormente impegnarsi in simili spirituali esercizi, io la
supplico di darmene ogni mese qualche ragguaglio, persuasa che non può
procurarmi maggior soddisfazione»[1019]. Il Lanteri conosceva bene, dalla sua
esperienza personale di diretto, l’importanza di questo
rendiconto da fare al proprio direttore spirituale. Egli desiderava
soprattutto sapere se il suo diretto frequentasse i Sacramenti e se
fosse fedele alla meditazione e alla lettura spirituale, e, nel caso
non avesse avuto notizie direttamente dall’interessato, si premurava
anche di chiederle ad altri: «[…]
sono ansiosissimo delle nuove della persona per cui vivamente mi
interesso, e che Ella ben conosce; la supplico del favore di
significarmi se persevera nei buoni sentimenti, se frequenta i S.
Sacramenti, se non lascia mai la meditazione e lettura spirituale,
siccome siamo stati d’accordo quando ebbi il piacere di abboccarmi con
la medesima, che se ciò non fosse, la prego di incoraggiarla
efficacemente a non lasciarsi perdere d’animo, ed incominciare subito,
mentre lo scoraggiamento è peggiore di ogni cosa. Mi faccia dunque il
favore di darmene qualche riscontro»[1020]. Assidua frequenza ai Sacramenti,
meditazione
e lettura spirituale sono alcune delle colonne portanti su cui si
poggia la direzione spirituale del Lanteri e su cui poggiò se stesso,
come abbiamo già potuto ampiamente vedere nello scorrere della sua vita
spirituale. Le altre colonne saranno: il ricominciare
sempre da capo, la confidenza in Dio, l’esercizio della presenza di
Dio, la lotta contro se stessi, sulla scia di S. Ignazio, di S.
Francesco di Sales, dello Scupoli e altri solidi maestri dei sentieri
di Dio. Non ci fu persona diretta da p. Lanteri che non fosse
prima di tutto appoggiato su tali colonne: «[…]
non tralasci di nutrire la sua pietà con i soliti suoi quotidiani
esercizi di orazione, di lettura, e di frequenza dei santi Sacramenti»[1021]. Certamente, di questa terna, i santi
Sacramenti erano la pietra angolare, mentre la lettura spirituale e la
meditazione ben preparata erano il modo di prepararsi degnamente a
riceverli e a perseverare in essi con progresso interiore. Il Lanteri
educava con particolare cura i suoi figli spirituali alla confessione
ben preparata e ben fatta. Tra le sue avvertenza pratiche ne ricordiamo
alcune tratte da un insieme di sue massime ricevute e raccolte da una
sua penitente, Sr Crocifissa Bracchetto del monastero
del S. Crocifisso delle Canonichesse Regolari di S. Agostino in Torino,
che consegnò al Loggero dopo la morte del suo direttore spirituale. Gli
appunti della Bracchetto abbracciano il cuore della vita apostolica del
Lanteri, dal 1800 al 1820:
«Non fate conto alcuno dei dubbi che
sopravvengono dopo le vostre confessioni, quel che è fatto è fatto, non
più ritorni sopra voi stessa […]. Non vi mettete in pena se il dolore sia
filiale,
o servile; l'essenziale si è che vi dispiaccia d'aver offeso Dio o
nell'una, o nell'altra maniera […]. Andate con semplicità, e fate atti
d'abbandono
in Dio di tutti i timori ed ansietà. Questa è la regola che vi
prescrivo per il passato e l'avvenire […]»[1022]. Direttive che manifestano un vero maestro
di
vita spirituale serena, sciolta e lieta che conduce le anime alla pace,
tranquillità e libertà dello spirito:
«Quando fate materia di confessione i
peccati più gravi della vita passata assieme ai veniali dopo l'ultima
confessione, non siete tenuta ad avere il dolore e proponimento, che
del passato più grave; quando vi confessaste solo dei veniali presenti,
basta avere un dolore e proponimento in genere (vuol dire in generale);
né mai si commette il sacrilegio senza pienamente conoscerlo avanti, e
pienamente volerlo […].
Nel vostro esame non perdeteci gran
tempo,
né state tanto a riflettere se siano volontari o no i mancamenti sul
riflesso che (massima particolare, ut supra) [cioè per le stesse
motivazioni della precedente massima]. Non è neppure necessario il proponimento di
evitare tutti i veniali, ma basta il proponimento di evitarne almeno
alcuno, o almeno di non commetterli con tanta frequenza, e questo vale
anche quando non aveste che peccati veniali presenti per materia di
confessione […]. Riterrete sempre la regola di disprezzare tutti
i dubbi, e continuare sempre la comunione; e continuerete sempre,
sebbene non vi confessiate così frequentemente come fanno le altre,
sprezzando ogni timore che si scandalizzino […]. Avete fatto benissimo
ad abbandonare tutto il passato alla misericordia di Dio senza
dilucidarlo, e fate sempre così, non potete fare cosa più grata a Dio,
né più utile a voi, né temete di fare così anche per procurarvi
tranquillità: questa è buona tranquillità e piace a Dio»[1023]. Direttive pratiche che denotano il grande
conoscitore dello spirito umano e il fine psicologo, come emerge da
queste note inviate dal Nostro ad una religiosa all’incirca nell’epoca
che stiamo esaminando:
«Non si lasci poi mai entrare in cuore
una
certa gelosia che il confessore si trattenga più con altre che con lei,
ma con spirito franco vada, quando ne tiene bisogno, senza pretendere
d'essere ricercata, dica quanto le occorre senza aspettare d'essere
interrogata, né badi alle altre; se molto si fermano ne avranno
necessità, ma quanto a lei, si attenga alla S. Regola che ingiunge la
schiettezza e brevità. Tale è pure il sentimento di S. Caterina da
Siena che vedeva le cose in verità. Ella scrivendo ad una sua nipote
monaca le dice così: Al confessore dì il tuo bisogno e fuggi»[1024]. Tenga stabile questa massima che è di somma
importanza; sia con lui civile, di poche parole, non gli dia mai il
minimo dispiacere, parli solo di sé, né mai gli faccia alcun rapporto,
perché anche in confessionale, talvolta santamente si mormora»[1025].
Il tutto deve mirare a condurre l’anima a
vivere di fede rimanendo salda e ferma ad ogni vento del sentimento:
«La seconda [avvertenza] sia di tenere
un
ordine stabile di confessarsi due volte, o almeno una volta la
settimana, né mai omettere questa pratica se non per obbedienza o
carità, ma non variare, o per parerle che ne cava poco frutto, o perché
il confessore non le va troppo a genio; no, si tenga stabile, tanto con
i confessori ordinari che straordinari. Per evitare poi queste
incostanze, le gioverà l'avvezzarsi a camminare con fede, confidando
l'anima sua non al governo degli uomini, ma di Dio, e portarsi ai piedi
dei suoi Ministri come si porterebbe ai piedi dello stesso Gesù Cristo,
mirandoli come interpreti dei suoi voleri, così non si attaccherà di
soverchio ad essi, con stare poi molto tempo turbata quando si hanno da
cangiare, ma penserà che il Signore non vuole più indicare i suoi
voleri per mezzo di quella persona, e con uguale confidenza procederà
con ognuno, né darà luogo a certe avversioni nocive»[1026]. Educava così le anime a confessarsi bene e
con frutto, con qualunque confessore potesse capitare
loro:
«Non badi alle loro qualità naturali, ma
se
con buone maniere la consolano, pensi che Dio è quello che con tale
mezzo la vuole consolare, se le sembra che la ributtino, non se ne
offenda, né si turbi, ma porti con pace la sua pena, pensando che il
Signore vuole lasciarla un poco patire; a Lui con fiducia ricorra, e
sia certa che, non dando sfogo a questi dispiaceri con lamenti, il
Signore la renderà consolata. Seguiti poi a procedere col confessore
con la stessa confidenza e sommessione, né ciò le sarà troppo
difficile, se come dissi cammina in fede ed apporta alla confessione un
sincero dolore delle sue colpe, questo toglierà dalla sua mente tanti
riflessi inutili che diminuiscono la confidenza col confessore.
Consideri la Maddalena ai piedi di Gesù Cristo in circostanze che
secondo gli umani riflessi l'avrebbero dovuta trattenere, ma la sua
mente penetrata dalla grandezza del suo male, non dà luogo ad altri
pensieri, che a cercarne il rimedio; così lei eviterà molti intoppi che
il Demonio e l'amor proprio si sforzeranno di metterle per diminuire
almeno, il merito ed il profitto delle sue confessioni, se procurerà
che sempre siano accompagnate da un vivissimo dolore»[1027]. In tutta la sua direzione, il Lanteri
invitava le persone da lui dirette ad accostarsi ai Sacramenti,
considerati canali della grazia, con fiducia e frequentemente, così
come scriveva alla
Mortigliengo per l’Eucaristia: «[…] Circa la santa Comunione, io vi permetto di
lasciarla
qualche volta, una sola volta la settimana, se il Teologo Guala[1028] ve lo permette»[1029]. Il Lanteri in questa lettera, permettendo
alla persona che doveva avergli chiesto di astenersi “più”
volte alla settimana dalla santa Comunione di potersene astenere “una
sola volta alla settimana”, ci fa capire fino a che punto il Nostro
si spingesse nel promuovere la Comunione in modo frequente, in un tempo
storico così fortemente caratterizzato da una pratica rarefatta della
s. Eucaristia, a causa della mentalità giansenistica dilagante: «[…]Il Lanteri caldeggiò
sempre la
Comunione frequente tanto fra le anime religiose quanto fra le
secolari, seguendo in ciò le direttive e lo spirito della
scuola
italiana, come la chiama Angelo
Portaluppi
nella sua
Storia
della
spiritualità, che seguiva i
suggerimenti di S.
Gaetano da Thiene, di S. Filippo Neri, di S. Maria Maddalena de Pazzi:
accostarsi alla Comunione anche allorché le disposizioni interiori
lasciano a desiderare[1030], poiché “la sua bontà vince la negligenza nostra e ci dona
consolazione anche quando le nostre imperfette disposizioni ci rendono
inadatti a ricevere la pienezza delle grazie recateci da questo celeste
alimento” (parole di Mons. Giuseppe Benaglio [morto nel 1836],
contemporaneo del Lanteri e come lui antigiansenista e promotore della
devozione del S. Cuore nella diocesi di Bergamo)»
[1031]. Infatti la
Comunione frequente era una delle colonne portanti dell’edificio
spirituale che cercava di costruire nelle anime. A questo proposito
scrisse, non sappiamo esattamente quando, un testo sulla prassi della
Comunione quotidiana nella Chiesa Primitiva (si badi bene “Comunione
quotidiana” e non “frequente”). Si tratta di un piccolo capolavoro
antologico di brani dei Padri e Scrittori Ecclesiastici della Chiesa
Primitiva, in cui si palesa questa prassi, avvalorata poi dai canoni
del Concilio di Trento. Lo studio viene presentato sotto forma di una
lettera di un direttore spirituale che risponde alla questione,
sollevatagli da un suo diretto, circa la frequenza alla s. Comunione.
Essa inizia così: «Punto non mi sorprende
d'aver
inteso dalla lettera vostra, che a non pochi è cagione di scandalo il
vedervi pressoché ogni giorno comunicare. Costoro quando portano
giudizio sulle vostre comunioni, tengono dietro a certi pregiudizi, che
nascono in essi dall'antica disciplina sopra la penitenza, ma qui non
si tratta di uomini rei di colpa mortale, che dovevano di necessità
fare penitenza prima di comunicare, si parla bensì di un Cristiano, che
ha monda la coscienza, che mena regolata vita, e che presta a un
direttore sperimentato e nemico del rilassamento, pronta e sincera
ubbidienza, d'un Cristiano debole, ma che diffida della sua fralezza,
ed ha ricorso al celeste alimento per trarne forza e vigore, di un
Cristiano imperfetto, ma che se ne addolora, e s'adopera per poterne
andare libero e sciolto. Dico che un buon direttore, ai conforti del
quale si piega senza contrasto, può e deve farlo comunicare quasi tutti
i giorni. E queste sono le mie ragioni»[1032]. Il testo
poi
continua con citazioni dal Nuovo Testamento (At 2,11 e 1Cor 11,20) che
vengono interpretate come avvallanti questa pratica, mostrando pure,
molto sapientemente, che i cristiani di quei tempi non erano affatto
cristiani “perfetti”, ma manchevoli e peccatori, eppure si cibavano del
Pane del Cielo quotidianamente: « […]
non posso tuttavia rimanermi di farvi
avvertito
che gli Apostoli, i quali appellavano Santi i fedeli dei loro tempi, di
molti falli nel tempo stesso li riprendevano, di gelosia, di
parzialità, di discordie. Si vedevano dei ministri evangelici, come un
Demas, abbandonare l'opera del suo ministero [cf 2Tm 4,10], sedotti e
tratti dall'amore del secolo. Basta leggere S. Cipriano, e tosto uomo
riconosce che i primi fedeli caduti in grande rilassamento e in non
lievi disordini, avevano bisogno che le persecuzioni risvegliassero la
loro fede (S. Cypr. De lapsis)»
[1033]. Passa quindi a proporre diversi testi, di
vari autori, che si impongono per la loro autorità, attestanti
inequivocabilmente la prassi consolidata della Comunione quotidiana
nella Chiesa dei primordi: I Canoni degli Apostoli[1034],
s. Giustino, Tertulliano, s. Cipriano, s. Agostino, s. Giovanni
Crisostomo, s. Ilario, s. Ambrogio, s. Girolamo, concludendo questa
carrellata con il confronto con la nefasta prassi dei suoi tempi: «Quanto è maggiore la
meraviglia che
prendiamo della disciplina di quei secoli dalla nostra tanto difforme,
tanto più appare chiaramente che l'antica Chiesa prescriveva ai suoi
figli di fare dell'Eucarestia molto più frequente uso, che noi non
facciamo, e che per rendere facile ai giusti la comunione, correva
molti pericoli e molti disordini comportava»
[1035]. Continuando
poi nella esposizione di come la dottrina del Concilio di Trento fosse
in perfetta sintonia con questa prassi della Chiesa Primitiva: «(Sess.
22, cap. 6):
“Il Sacro Concilio bramerebbe che i fedeli, i quali assistono alla
Messa, ogni volta comunicassero non solo con lo spirito, e con
l'affetto, ma eziandio col ricevimento dell'Eucarestia, onde essi
potessero da quel santo sacrificio raccogliere più copiosi frutti”.
Ecco la Chiesa che in ogni tempo è la medesima, che
mai non invecchia, né si muta giammai. Quello spirito stesso, che ai
tempi di S. Giustino, e degli altri Padri la governava, la regge ora
pure anche, ed a se stessa conforme essa invita tutti i suoi figliuoli
ad una Comunione frequente, e bramerebbe che mai non assistessero ad
alcuna Messa senza comunicare»
[1036]. Riportiamo, infine, a conclusione di
questa
tematica, alcuni altri insegnamenti del Lanteri a Sr Crocifissa
Brachetto, in cui emerge lo stile dolce e incoraggiante della sua
direzione spirituale:
«Mi rincresce che lasciate le
Comunioni, perché così ride il nemico, e voi ci perdete: e perché non
attenervi alla regola di non mai lasciarla, eccetto che siate sicura
d'aver commesso con piena deliberazione peccato mortale certo? Siate
sicura che i vostri sfoghi e rabbie non sono tali (24 maggio 1812)»
[1037]. «Non lasciate la Santa Comunione come tante
volte vi ho raccomandato, e certamente non senza serio riflesso; e
quanto ai vostri mancamenti, se fossero certamente gravi (il che spero
non sarà mai), confessatevi, in dubbio decidete di no, fondata
sull'obbedienza, e colla contrizione cancellate quanto può aver fatto
dispiacere a Dio, continuando a comunicarvi. Quanto alle distrazioni
ecc. o sono volontarie, e correggetevi, chiedendone perdono a Dio e
comunicatevi, o non sono volontarie, e allora non impediscono in alcun
modo il frutto della comunione (6 febbraio 1813)»[1038]. Impostato così il cammino su questa santa
terna, occorreva poi che la persona rimanesse fedele ai suoi propositi,
fedeltà che veniva aiutata, come detto, dal rendiconto periodico al
direttore spirituale. L’esperienza della vita diceva bene al Lanteri
come questa teoria poi si scontrasse, nella sua realizzazione pratica,
con tante difficoltà e impedimenti, dimenticanze ed omissioni, elementi
tutti che spingono al decadere dai propositi e ad allentare la tensione
spirituale. Conscio di questo, il Lanteri, da una
parte
invitava i suoi figli ad una santa ostinazione nel non omettere
mai, costi quel che costi, i propri esercizi di pietà, e dall’altra,
ben conoscendo la natura umana, invitava a ricominciare sempre da capo,
a re-iniziare ogni giorno: «[…] la santa ostinazione, in 2° luogo, di non omettere
mai
neanche un piccolo pezzo dell’orazione ordinaria e degli altri esercizi
spirituali, scoraggerà il nemico ad aumentarvi le difficoltà per
farvene trascurare qualcuno. 3° l’impegno preso di ricominciare sempre,
vi chiuderà la porta allo scoraggiamento, e questo solo vi procurerà la
remissione della tiepidezza e delle mancanze passate»[1039]. Insieme alla terna fondamentale, fatta di
Sacramenti, orazione e lettura spirituale, il Lanteri promosse nella
Mortigliengo, e possiamo supporre anche negli agli altri suoi figli
spirituali, due devozioni altresì importanti per la comprensione della
sua indole spirituale: quella del Crocifisso e di Gesù Bambino.
Gesù Crocifisso deve essere
sempre fissato:
«Fissiamo così i nostri sguardi di fede e d’amore sul Crocifisso, e
noi
troveremo che egli non si contenta solo di avere la possibilità di
soffrire, ma ha voluto realmente soffire le pene del corpo e dello
spirito, perché non è la sola possibilità di soffrire, ma le sofferenze
stesse che ci fanno meritare; così accettiamo dalla sua mano tutte le
occasioni di soffrire e di praticare la virtù, poiché tutto è disposto
per la nostra salvezza»[1040]. Parimenti al Crocifisso, il Bambino Gesù
merita tutta la nostra devozione amorosa. Riportiamo di seguito, quasi
integralmente, due brevi lettere del Lanteri alla Mortigliengo
in cui, nella prima, le suggerisce qualcosa in occasione della Novena
del Natale 1811 e, nella seconda, protesta bonariamente perché non gli
ha fatto il resoconto. Queste due lettere sono particolarmente
importanti per capire l’animo squisito del Lanteri, la sua bonarietà
amicale, la sua affettuosità e il suo stile fraterno con cui guidava le
anime e le spingeva sugli ardui sentieri della santità:
«Mia Carissima Sorella e Figlia, oh, poiché vedo che questa volta voi con il
vostro silenzio mi tenete il broncio, vi farò fare una penitenza. In
questa novena della Natività di nostro Signore, tutti i giorni: 1.
studierete per qualche istante l’umiltà del Bambino Gesù, e gliela
chiederete con fiducia, farete di più diversi atti interiori e, anche
esteriori di umiltà e soprattutto di cordiale dolcezza verso Margherita[1041],
e se vi manca l’occasione, voi la
cercherete; 2. studierete lo stesso l’amore infinito che il Cuore del
piccolo Bambino ha verso di voi; 3. lo ringrazierete delle contrarietà
che egli vi procura, e anche di avere l’occasione di offrigli qualche
cosa che vi costa; 4. recitate 9 Ave con il Verbo Caro;
5. di questo me ne dovrete rendere conto. Ecco come si punisce chi
tiene il broncio. Vi benedico»[1042]. Ricevuta
la
risposta della Mortigliengo, il Lanteri protesta perché non le ha reso
conto della Novena: «Io non dubito
che voi
siate tutta occupata nelle vostre cure verso il Bambino Gesù (anche se
di questo voi non mi riferite nulla) per imparare quelle virtù che egli
desidera pratichiate a suo esempio, e per attingere dal suo Cuore a tal
scopo grazie abbondanti, lui stesso mi suggerisce di domandarvene conto
per giudicare se il vostro studio e le vostre preghiere a riguardo sono
state serie come dovrebbero. Non manchi di pregare molto per me anche
nei momenti di intima comunicazione con questo Cuore così amabile
e così amante, davanti al quale io non vi dimentico mai. Vi
benedico»[1043]. Insieme alla devozione al Crocifisso e al
Bambino Gesù, il Lanteri non può non proporre anche l’amore alla
Vergine Maria, amore e devozione che si concretizzano nella sua
imitazione, si esplicano soprattutto nella pratica delle tre virtù
teologali. Così scrive, sempre alla
Mortigliengo, in occasione della Novena dell’Assunta 1811, in una
pregnante lettera che riportiamo per intero.
«Mia carissima Figlia e Sorella in Gesù Cristo, io penso che in questa novena
[dell’assunzione
al cielo] della SS.ma Vergine dovreste cercare più che mai di
allontanare da voi stessa ogni scoraggiamento nel servizio di Dio, e
ogni idea piccola che possa suggerirvi il nostro io, o gli oggetti di
questo miserabile esilio, e che, inoltre, vi impegnaste a esercitarvi
nei vostri migliori atti delle virtù teologali, come anche delle virtù
dell’umiltà e della dolcezza così care ai Cuori di Gesù e di Maria»[1044]. La devozione alla Vergine è un invito ad
occuparsi sin d’ora delle cose celesti e di quelle virtù che sole
possono procurarci di andare in paradiso:
«[…] perché alla vista di questo mistero
si
trova un così grande modello di queste virtù, un invito pressante alla
pratica delle stesse, una Protettrice così potente e così sollecita ad
aiutarci, e una ricompensa al di sopra delle nostre attese, perché sarà
la stessa che è stata data alla Vergine Santa;
andiamo dunque sempre, presso
il letto
della sua morte[1045] per domandarle i legati delle sue virtù, e
soprattutto la fervore del suo amore divino, e la sua benedizione, con
l’assicurazione di assisterci all’ultimo nostro momento di vita;
uniamoci agli Angeli per accompagnarla al Cielo, cercando di
dimenticarci di tutto il creato, e di occuparci del Cielo e delle cose
celesti, e soprattutto delle virtù che sole possono procurarcele; non
dimenticate mai, vi prego, della preghiera per me, e per la Chiesa;
datemi anche notizie della vostra salute, della vostra santità e della
vostra malattia, vi benedico»[1046]. Una devozione mariana, quindi, per nulla
sentimentale, ma eminentemente pratica e concreta. Essere devoti di
Maria significa impegnarsi concretamente nelle virtù teologali e morali
e non semplice pia dilettazione. Tra le altre devozioni che il Lanteri
viveva
e comunicava ai suoi figli spirituali c’era quella di S. Giuseppe.
Questo Santo era tra i suoi particolari protettori da sempre, ed era
poi anche il patrono particolare di tutte le Associazioni di cui aveva
ereditato la guida dal suo maestro e padre spirituale, p. Diessbach.
Non è che, però, il Lanteri
parlasse molto di questa sua devozione, come attesta il Calliari: «Il
Lanteri ha sempre avuto una costante e profonda devozione a S.
Giuseppe, ma ne ha scritto molto poco. Ancora nell’Atto di
schiavitudine del 1781 egli invoca tra quella di altri Santi, la
protezione di S. Giuseppe. Tale devozione a S. Patriarca, come derivava
dal fondatore, doveva poi estendersi e manifestarsi in molti modi nella
Congregazione degli Oblati di M. V. che nel 1870 elesse S. Giuseppe
come Patrono Principale e affidò a lui il problema delle vocazioni. Si
può dire che la sopravvivenza della Congregazione nel periodo critico
che seguì la chiusura delle Case in Piemonte, dopo il 1858 si deve
principalmente alla protezione di S. Giuseppe. La devozione a S.
Giuseppe, che non era ancora molto popolare e diffusa nel secolo XVIII,
derivò al Lanteri, pensiamo noi, da tre matrici diverse:
dall’insegnamento di S. Teresa d’Avila, verso cui il Lanteri dimostrò
sempre grande devozione; dalla dottrina spirituale e ascetica dell’Aa;
dall’esempio personale del P. De Diessbach che, convertito, volle
aggiungere al suo nome Nicolao anche quello di Giuseppe. Tuttavia gli
accenni che il Lanteri fa a S. Giuseppe sono rarissimi sia nel
carteggio sia nelle altre sue opere: egli visse la devozione a
S. Giuseppe senza trattarla come scrittore o teologo»[1047]. Di questa devozione al Santo Falegname di
Nazareth abbiamo già visto qualcosa nell’affettuosa contemplazione che
il Nostro fa del presepe[1048]
e un altro accenno lo cogliamo in una sua lettera alla Mortigliengo, in
cui la invita alla preghiera di intercessione di questo grande Santo
per la guarigione di una persona sua amica: «Io vi invio di fretta i libri di Suor Prudence per
preparargli[1049] qualche buon rimedio per accellerare la sua guarigione;
ditegli che io lo raccomando questa mattina a S. Giuseppe (e anche voi)
e spero che la sua protezione farà sì che i rimedi siano efficaci. Io
attendo con ansia che stia meglio»[1050]. La devozione a Maria Vergine e a San
Giuseppe
si estende poi a quella verso tutti i Santi. Così scriveva il Lanteri,
sempre alla Mortigliengo, qualche mese prima di finire in esilio,
durante la Novena della Solennità di Tutti i Santi del 1810: «Io spero che voi non mi dimenticherete nelle vostre
preghiere e che vi occuperete un po’ più del Paradiso in questa Novena
di Ognissanti, facendo ogni giorno dei colloqui con i Santi e gli
Angeli del Cielo e qualche atto molto fervoroso di desiderio e di
speranza di andare lì ben presto, soffrendo e aspettando di restare
ancora in questo misera via fino a quando piacerà al Signore, e non
dimenticando di domandare anche per me questa felice beatitudine»[1051]. Una devozione che conduca a fare
“ogni
giorno dei colloqui con i Santi e gli Angeli del Cielo”,
implica nel Lanteri una devozione affettuosa, tenera e ricca di fede.
Conversare con i Santi significa rapportarsi a loro come ad Amici
carissimi e quindi averli come punti luminosi di riferimento che
rischiarano la nostra vita, con la luce che promana dai loro esempi
concreti. Conversare con gli Angeli comporta una particolare semplicità
e confidenza di fede che suppone un vivere abitato dalla grazia, un
orientamento continuo della persona verso la dimensione della vita
eterna, un sospiro dell’anima verso i pascoli eterni, un elevarsi
continuo dalle miserie e travagli di questa vita alla patria vera
nostra del cielo (cf Eb 11,14-16). «Secondo
gli scritti personali del Lanteri non destinati alla pubblicità,
appunti di Esercizi, propositi personali, si ritrova un elenco di Santi
e di Sante a cui egli professava una particolare devozione: san Pio V
papa, san Bruno, fondatore dei Certosini (suoi Santi onomastici),
sant’Ignazio di Loyola e san Francesco Saverio (eredità del Diessbach),
san Giuseppe e santa Teresa d’Avila (protettori della Amicizia
Cristiana), san Giovanni Evangelista e i santi Angeli Custodi
(protettori dell’Aa), san Pietro e san Paolo apostoli (patroni della
Chiesa), san Luigi Gonzaga, san Filippo Neri, san Francesco di Sales,
santa Maria Maddalena de’ Pazzi, san Bonaventura, san Tommaso d’Aquino,
il beato Angelo da Chivasso[1052].
Dopo il 1816, anno della beatificazione di Alfonso de’ Liguori,
cominciò a venerare, e a far venerare dagli Oblati il nuovo Beato di
cui ottenne da Roma la facoltà di celebrare la festa (cf Gastaldi
406-408). Talvolta queste devozioni erano presentate da lui a forma di
trattato o di manuale pratico per uso proprio o dei suoi discepoli,
come sono i due manualetti[1053]
composti da lui, uno per il mese di ottobre in onore dei santi Angeli
Custodi, l’altro per il mese di novembre sul culto dei Santi (in esso
non accenna mai alla devozione alle anime sante del purgatorio). Ancora
nel primo decennio dell’Ottocento aveva fatto trascrivere dal suo
amanuense don Leonardo Candallero una “Raccolta di orazioni e pie
pratiche alle quali sono annesse le sante indulgenze” (AOMV, II,
16-18), messa a disposizione dei membri dell’Amicizia Sacerdotale e di
altri giovani seminaristi che erano in contatto con lui»
[1054]. Oltre alle devozioni, un altro tema
ricorrente presente nelle lettere di direzione del Lanteri, era la
gioia spirituale, quella gioia che fiorisce e matura nella fede.
Lanteri guidava le anime lungo i sentieri gioiosi, anche se irti, del
Vangelo e la sua guida è soave, dolce, gioiosa, solleva l’animo e
l’incoraggia sempre, trasmette ottimismo, serenità, pace, e allarga il
cuore, spingendolo a slanciarsi con ardore lungo le vie di Dio. Riportiamo, a mo’ di sintesi di questa
conduzione gioiosa, semplice e sapienziale delle anime da parte del
nostro Venerabile, due delle sue lettere alla Mortigliengo. La
prima, scritta qualche mese dopo l’inizio del suo esilio alla Grangia,
nel novembre del 1811, dove i consigli che egli dà a questa suora ci
dicono molto sullo spirito con cui egli stesso viveva quella “croce”
della relegazione. La seconda è invece dell’agosto del 1813, a
relegazione inoltrata e volta verso il termine. La Mortigliengo viveva una particolare
prova
nello spirito, aridità e distrazioni, ed era sempre inquieta perché
alla ricerca di una più perfetta orazione. Pertanto il Lanteri cercava
di farle capire che la sua preghiera non doveva piacere a lei, ma a Dio[1055].
La suora faticava a trovare pace nel suo spirito inquieto e travagliato
ed allora il Lanteri propone alla Mortigliengo motivazioni “troppo
ordinarie”, terra terra; non le parla di adesione volontaria alla
passione di Cristo o altro di elevato, ma di convenienza psicologica
della persona ad accogliere le difficoltà e le prove della vita,
invitandola a sperimentare la sua incapacità di pregare senza
distrazioni, come croce dataci dal Padre Celeste. Lanteri, da
buon psicologo, sa che questo pensiero alleggerisce il peso e la
sofferenza della vita:
«Ricordatevi del Purgatorio, cercate solamente di prendere tutto
dalla
mano di Dio per meritare vantaggi, questo stesso servirà per diminuire
la vostra croce, differentemente la croce diventa tanto più pesante e
faticosa, è nel nostro interesse di fare di necessità virtù; io vi
suggerisco questi motivi troppo ordinari, perché la nostra umanità ha
bisogno di tutto per incoraggiarsi; del resto io so che voi amate anche
avere motivi più nobili e generosi nel servizio di Dio, e questo è
troppo giusto perché egli è troppo Grande e merita tutto»[1056]. Questa umanità del Lanteri era
propriamente la causa della sua capacità di attrazione delle anime: “La
nostra umanità ha bisogno di tutto per incoraggiarsi”. Partiva
dall’uomo presente, la donna presente e con la sua parola, sapendo
cogliere le più intime sfumature di sentimenti, li elevava dolcemente
alla santità più eroica. Sì, c’erano anche “motivi più nobili”
di genere più elevato, ma questi avranno il loro posto a suo tempo, una
volta spianata loro la strada attraverso l’orazione puntuale, preparata
e fatta bene. È questo uno dei punti forti e inderogabili della
direzione lanteriana delle anime: ordine e metodo[1057].
Si tratta di “piccoli mezzi”, piccoli, ma capaci di attirare la
“benedizione di Dio” perché, adempiendoli, ci liberano dalla
responsabilità personale delle distrazioni nell’orazione, che quindi
vanno vissute in pace, come croce che Dio ci chiede di portare per la
nostra purificazione e salvezza:
«Cercate di andare all’orazione ad ore stabilite, preparate la
materia
della vostra meditazione, praticate le regole prescritte per farla
bene; questi sono dei piccoli mezzi che vi attirano la benedizione di
Dio, almeno non soffrirete più di distrazioni e di aridità volontarie
in causa [cioè causate dall’incuria], tanto più se voi fate bene
attenzione a reprimere tutti i vostri castelli in aria durante la
giornata [cioè se avete mortificato la fantasia durante il giorno],
perché queste [fantasticherie] non serviranno che a tormentarvi, voi
potete pure darvi da fare come fate, ma sarete felice solo in Cielo,
tanto vale dunque prendere le croci che il Signore ci dona, perché
queste sono sempre proporzionate a noi e sono sempre accompagnate da
grandi grazie»[1058]. Il Lanteri non conosce che questa via
“dolce”, di cui scrive nel continuo della lettera, e la propone
alla sua figlia spirituale di cui afferma conoscere molto bene l’animo: «… non è che io voglia oppormi nel caso che voi troviate
un
altro modo più dolce di questo qui, al contrario io sarò il primo ad
aiutarvi, ma io sono persuaso che voi non lo troverete mai, perché io
sono dell’avviso che il vostro spirito fa da traversa di questa croce a
causa anche della vostra inesperienza e delle vostre abitudini»[1059]. Quindi propone il rimedio finale a quel
travaglio dell’anima, che è medicina per tutti i travagli spirituali: «… Abbiate pazienza con voi stessa, soffrite i vostri
sbagli
con umiltà e confidenza in Dio[1060] non dimenticatevi lo spirito di abnegazione interiore e di
dolcezza verso il prossimo tanto raccomandato dal vostro S. Padre[1061], e il bene eterno che e preparato per voi in cambio di
tutto questo»[1062]. Il Lanteri guidava la Mortigliengo verso
la
meta di una santità che è tutta pace e tranquilla immersione in Dio.
Per questo egli, in pratica, le chiedeva solo di vivere di fede,
gustando la presenza di Dio in se stessa, come le indica appunto nella
seconda epistola che prendiamo in considerazione in questo studio. In
questa lettera risponde alla Mortigliengo che gli aveva chiesto
se facesse bene o meno a fare delle passeggiate per seguire qualche
famigliare che richiedeva la sua compagnia[1063],
passeggiate cui ella cercava volentieri di sottrarsi, perché le
impedivano la normale vita di orazione: «Io trovo che voi fate benissimo di risparmiarvi qualche
passeggiata lungo Ruibat[1064]; quando è necessario andare, l’abnegazione della vostra
volontà è sufficiente per supplire alle pratiche che lasciate di fare
in quel giorno a causa di questo; il dolce esercizio della presenza di
Dio compenserà quegli stessi oggetti da nulla che vi passano per
l’immaginazione e che vi tormentano così tanto, è senza dubbio il
migliore rimedio per voi da farsi utilmente e con più facilità»
nel Direttorio
per gli
O.M.V. &n
un foglio di
risoluzioni del
1827
strutturanti la spiritualità del P. Pio Bruno
Lanteri
Prefazione
dell’Autore
L’AUTORE
Ed. Lanteri-Esperienza, Roma-Fossano 2002.
Così sia»[213].6.
La
vita spirituale del chierico Lanteri
Sappiano tutti coloro nelle mani delle quali capiterà questa mia
Scrittura, che io sottoscritto B. [Bruno] mi vendo per schiavo perpetuo
della Beata Vergine Maria Nostra Signora con donazione pura, libera,
perfetta della mia persona, e di tutti i miei beni acciò ne disponga
ella a suo beneplacito come vera, ed assoluta Signora mia. E siccome mi
riconosco indegno di una tal grazia prego il mio S. Angelo Custode, S.
Giuseppe, S. Teresa, S. Giovanni, S. Ignazio, S. Francesco Saverio, S.
Pio, S. Bruno acciò mi ottengano da Maria Santissima che si degni
ricevermi tra i suoi schiavi. A conferma di ciò mi sottoscrissi. Pio
Bruno Lanteri»[272].
numero in carte con lapis. Significarne al direttore
gli atti.
ex fructu.
Dall’ordinazione sacerdotale alla morte del Diessbach
Il Lanteri durante l’occupazione francese del Piemonte
Massime: Quid hæc ad vitam æternam?
Quod
vult Deus et quomodo vult.
O.A.M.D.G.
[798] Appropriarsi lo spirito e il Cuore di Gesù in
tutto. Magister dixit,
Magister fecit.
Somma custodia dei sensi. Dolcezza anche nell'aspetto. Vince
teipsum»[799].
Dov’è il tuo tesoro lì sarà il tuo cuore (Mt 6,21). Dove
il cuore è, lì ama, dove ama lì pensa, dov’è l’amore lì ci sono anche
gli occhi. Pertanto solo uno è necessario»[893].
e gli scritti
sull’Eucaristia e sull’imitazione di Gesù Cristo