Tempo Ordinario “C”

OMELIE DEL TEMPO ORDINARIO "C"

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Seconda Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                      Omelia

“LE NOZZE DELL’AGNELLO”

Carissimi fratelli e sorelle, 

come il colore verde dei paramenti liturgici ci indica, siamo entrati nel Tempo Ordinario che ha come caratteristica propria l’ordinarietà, cioè non ci prepariamo a celebrare nessuna grande festa, ma semplicemente camminiamo, domenica dopo domenica dietro a Gesù. Centro del Tempo Ordinario è infatti la domenica come giorno del Signore, giorno della realizzazione di tutte le promesse di Dio, giorno dell’incontro e dell’anticipo della grande festa di lassù quando Lui ci farà sedere alla mensa del Padre suo e passerà a servirci (cfr. Lc 12,37).

Maria è la protagonista nascosta di questo tempo liturgico perché in esso noi inseguiamo Gesù lungo il suo pellegrinare verso Gerusalemme come Lo inseguì Lei (cfr. Mc 3,31), e inseguendoLo, vogliamo fermarci per raccogliere ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni episodio del suo viaggio verso il Calvario, raccogliere tutto e custodirlo e meditarlo nel nostro cuore come faceva così bene Lei (cfr. Lc 2,19.51). Facciamoci quindi prestare da Maria gli occhi e il Cuore per guardare Gesù con quell’amore con cui Lo guardava Lei e cogliere e gustare tutto quanto Lui vorrà comunicarci camminando con noi verso Gerusalemme.

In questo Anno “C” saremo guidati normalmente nel Tempo Ordinario dal Vangelo di Luca, ma lo iniziamo eccezionalmente con il Vangelo di Giovanni con il racconto del primo miracolo di Gesù alle Nozze di Cana.

Approfitto di questa intrusione giovannea per dirvi due parole su questo Vangelo che viene proclamato nelle nostre assemblee liturgiche specialmente nel Tempo Pasquale.

In Giovanni i prodigi operati da Gesù, a differenza di quelli raccontati dagli altri Evangelisti, non vengono chiamati miracoli, bensì segni. I segni di Giovanni sono sette contro le svariate decine di miracoli raccontati dagli altri Evangelisti e scandiscono la prima parte del suo Vangelo che viene per questo chiamata Libro dei Segni: l’acqua tramutata in vino a Cana (2,1ss); la guarigione del figlio di un funzionario regale (4,46ss); la guarigione del paralitico alla piscina di Betzaetà (5,1ss); la moltiplicazione dei pani (6,1ss); Gesù che cammina sulle acque (6,16ss); la guarigione del cieco nato (9,1ss); la resurrezione di Lazzaro (11,1ss).

Mentre in MarcoMatteo e Luca tutti i miracoli di Gesù sono preceduti dalla fede del miracolato, fede della quale Gesù si compiace e premia col miracolo, non avviene così in Giovanni dove tutti i segni di Gesù non sono preceduti dalla fede, ma generano la fede

Negli altri Evangelisti Gesù è il Figlio di Dio che viene enfatizzato come il Messia, il Figlio dell’uomo, il Profeta, il Predicatore del Regno di Dio, il Taumaturgo pieno di compassione per le folle e i peccatori e i suoi miracoli sono opere di bontà e di pietà e opere potenti che accreditano la Sua missione. In Giovanni, invece, i miracoli di Gesù, pur rimanendo opere potenti che manifestano la Sua divina potenza, diventano segni che rivelano la Sua Persona Divina e la Sua missione. Si tratta di due visioni complementari che insieme illuminano il mistero della persona di Gesù Cristo e della nostra risposta a Lui che si rivela a noi.

Ciò premesso, cerchiamo ora di entrare nel messaggio della Parola di Dio propostaci oggi dalla Liturgia. Possiamo trovare un nesso, un filo rosso che attraversa le letture di oggi nelle “nozze”di nozze infatti ci parlano prima lettura e Vangelo e, vedremo, anche che la seconda lettura rimane nel tema.

Carissimi fratelli e sorelle, io non so come sia possibile aver ascoltato oggi Isaia e non essersi profondamente commossi, non sentirsi toccati in profondità da quest’amore di Dio così grande, così immenso per noi: “Come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo Creatore, come gioisce lo sposo per la sposa così il tuo Dio gioirà per te”. Questa è una pagina tra le più alte non solo del VT, ma di tutta la Sacra Scrittura. Dio ci ha sposati creandoci perché ci ha creati per sé non per altri, ogni persona umana è quindi chiamata con il dono della vita a cercare il suo “Sposo” e il suo cuore non può avere pace finché non riposa in Lui. La mistica della sponsalità non è una mistica da suore di clausura o monaci del deserto, ma è la mistica a cui tutti sono chiamati a vivere nel proprio stato di vita.

Ma cos’è la mistica? Qualcuno forse sentendo parlare di mistica pensa ai fenomeni straordinari che ebbero come protagonisti diversi santi: estasi, rapimenti, levitazioni, visioni e cose del genere. No, no, siamo in grande errore se identifichiamo la mistica con questi fenomeni straordinari, perché mistica e altamente mistica deve essere la vita di ogni cristiano che unito al Figlio di Dio nel Battesimo cresce in quest’unione con Gesù con la preghiera personale e i sacramenti. Ecco, allora vita mistica significa la vita della grazia, vivere la grazia di Dio, vivere l’intimità con Dio Padre nell’unione a Gesù realizzata dallo Spirito che ci è stato donato con larghezza e potenza. Vivere – in altre parole – lo sposalizio con Dio Trinità d’Amore.

Vedete, ciascuna persona umana è stata desiderata, voluta e creata da Dio Trinità per entrare in intima relazione d’amore con Sé, questa è la vocazione di tutti, proprio tutti nessuno escluso e la persona umana soffre frustrazione, frustrazione profonda finché non si abbandona a viverla in pienezza. Esistono vari studi delle scienze umane sulle conseguenze delle mancanze di amore durante la crescita e lo sviluppo della persona umana, di come la persona entra in profonde frustrazioni se non capisce di essere amata da qualcuno e se non ama lei stessa qualcuno, ma nessuno ha fatto uno studio sulle frustrazioni ben più profonde che feriscono la persona umana quando non ama Dio, ogni microscopica fibra del nostro essere è stata creata per amare Dio e ha quindi in sé l’esigenza di amare Dio, di orientarsi a Dio, di abbracciare Dio, di vivere per Dio e in Dio e quando questo non succede ecco il vuoto, l’insoddisfazione, gli esaurimenti, le depressioni.

Vedete, nessuna realtà terrena, neanche la realtà del matrimonio – che è la più bella realizzazione umana dell’amore – è capace di saziare il cuore umano, perché l’uomo – in definitiva – non è fatto per la donna, ma per Dio, e la donna non è stata fatta per l’uomo, ma per Dio. Se l’uomo e la donna sono complementari lo sono solo in riferimento a Dio, l’uomo e la donna, unendosi nell’amore matrimoniale, dovrebbero aiutarsi a trovare meglio il loro vero Sposo che è Dio e insieme ad amare, a donarsi a Dio loro Sposo. Se il matrimonio è un sacramento lo è in ordine a quell’amore ben più alto, profondo e trascendente a cui rimanda come piccolo segno l’amore sponsale di un uomo e una donna! L’unione matrimoniale è segno sacramentale della chiamata alla sponsalità con Dio che ogni persona umana riceve con la vita ed è per questo che la sponsalità umana non avrà un seguito lassù dove “non prendono moglie né marito” (Lc 20,35). La sponsalità terrena è in ordine alla realizzazione della sposalità con Dio Trinità e ne è segno sacramentale.

Il Signore Iddio, Sposo tradito dalla sua creatura nel peccato originale, la ricerca appassionatamente e ricostruisce con lei una nuova storia d’amore lungo tutto il VT. È per questo che la nazione d’Israele viene chiama “la vergine d’Israele” (Ger 18,13; 31,4.21; Am 5,2; cfr. Is 37,22; Lam 1,15; 2,13), Vergine che Dio risposa nell’Alleanza del Sinai e dalla quale viene continuamente tradito. Una Sposa infedele che tradisce il suo Sposo Divino con ogni passante della via – così definirà Israele quel mirabile capitolo 16 di Ezechiele – Sposa infedele che rimarrà confusa e piena di vergogna per i suoi tradimenti solo quando capirà di essere amata di un amore incredibilmente grande che tutto le perdonava e la reintegrava nell’intimità con il suo Sposo Divino.

Nel Vangelo delle Nozze di Cana noi abbiamo l’icona della celebrazione delle nuove e definitive nozze di Dio con l’umanità. Nella lettura più profonda di questo Vangelo (Giovanni ama i doppi sensi, i significati nascosti) vediamo come in realtà Giovanni ci vuol mostrare nascosta in quel miracolo di Cana la celebrazione di queste nuove nozze di Dio 

Un piccolo segnale lo troviamo nelle parole che il maestro di tavola rivolge allo sposo del banchetto dicendo “Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un pò brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono”, è evidente che Giovanni in queste parole vuole indicare non lo sposo del banchetto, ma lo Sposo Gesù: Tu invece hai conservato il vino buono… Quel “TU” sta indicando il vero Sposo nascosto e manifesto in questo primo miracolo: Gesù, infatti lo sposo del banchetto non sapeva niente di quel vino! 

La sposa poi non appare e non appare perché la vera Sposa di Cana è Lei, la Vergine Maria che in sé rappresenta tutta l’umanità chiamata allo sposalizio con Dio. Maria è la vera “Vergine di Sion”, la vera “Vergine d’Israele” con cui Dio celebra finalmente le sue attese nozze con l’umanità! Da Lei non sarà tradito come dall’altra vergine!

La Sposa di Dio non può non essere vergine, per questo Maria è vergine, per questo la Chiesa e ogni fedele in Essa sono chiamati alla verginità, perché solo i vergini seguono l’Agnello (cfr. Ap 14,4). Vedete bene che qui parliamo di una verginità spirituale, non quindi legata a realtà fisiche, parliamo della verginità come limpidezza della persona che si rende disponibile ad accogliere il mistero dell’amore di Dio in se stessa. Lo Spirito Santo come attuò l’immacolata concezione di Maria e quindi la sua verginità, così continuamente verginizza la Chiesa e i cristiani in Essa attraverso i sacramenti.

La verginità di Maria è frutto della sua immacolata concezione ed è un dono dello Spirito, ma è un dono dello Spirito a cui Lei ha sempre corrisposto in maniera assolutamente piena e perfetta, per questo la Chiesa trova in Maria il modello pieno e perfetto di ciò che deve diventare: “tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5,27). 

Maria non è Vergine solo per sé, ma per tutti noi, infatti la verginità di Maria viene partecipata dallo Spirito Santo alla Chiesa, attraverso i sacramenti, per cui la comunità ecclesiale nella sua molteplicità di ministeri e di carismi (seconda lettura) può presentarsi così ogni domenica davanti al suo Sposo Divino quale “vergine casta” (2Cor 11,2), “senza macchia né ruga o alcunché di simile…, santa e immacolata” (Ef 5,27) per la celebrazione delle “Nozze dell’Agnello” (Ap 19,7) in attesa della domenica senza tramonto dove queste Nozze saranno celebrate non più nella precarietà di un già, ma non ancora, bensì nella definitività e nel per sempre dell’eternità.

Ma prima di quel compimento perfetto di lassù, la Vergine di Cana continua a dirci e a gridarci attraverso la Chiesa che estende la sua presenza e la sua missione nel tempo, di fare tutto quello che Lui ci dice e noi non cessiamo perciò di portare a Gesù la nostra povera acqua sporca perché Lui la trasformi nel vino nuovo del suo amore.

Amen.                    j.m.j.

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Terza Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                  Omelia

L’“oggi” della salvezza

Carissimi fratelli e sorelle, 

come abbiamo detto domenica scorsa, in questo Tempo Ordinario che si distende sull’onda dell’ordinarietà, inseguiremo l’Agnello (cf Ap 14,4) aiutati dal Vangelo di Luca.

Durante questo tempo liturgico la Chiesa invita i suoi figli a fare un cammino di conoscenza di Gesù e del suo messaggio di salvezza, un cammino di crescita, di maturazione e di verifica. Questo cammino ecclesiale viene determinato da quel messaggio particolare che la Chiesa vuole farci cogliere e che viene manifestato dal legame che unisce il brano evangelico con la prima lettura del Vecchio Testamento. Cogliendo il nesso tra il brano proposto del VT con quello del Vangelo, entriamo nel cuore nel messaggio che la Chiesa ci invita ad approfondire e vivere in ogni settimana. La seconda lettura invece, essendo la lettura continuativa di una lettera apostolica del NT, non viene scelta in relazione al Vangelo (così come avviene per la prima lettura), ma poiché vi è una unità fondamentale di tutta la Sacra Scrittura, sarà sempre possibile un aggancio tematico anche tra la seconda lettura e il brano del Vangelo.

Nella prima lettura di oggi abbiamo ascoltato uno dei brani più commoventi della Scrittura tutta che vi invito a meditare e contemplare in questa settimana. Siamo nel contesto del dopo-esilio nel VI secolo a. C., in seguito all’editto del 538 a. C. di Ciro re di Persia che aveva sconfitto i babilonesi, viene permesso agli esuli ebrei di ritornare a Gerusalemme, ricostruire la città e il suo tempio. Si tratta di un popolo di miseri che erano stati sradicati dalla loro terra e fatti schiavi, ora ritornano poveri e derelitti nella loro città.

Esdra sommo sacerdote e Neemia governatore radunarono il popolo presso la Porta delle Acque e da una tribuna di legno i sacerdoti e i leviti lessero il Libro della Legge, dall’alba fino a mezzogiorno. Il popolo stette lì ad ascoltare quella Parola. La Parola veniva letta e spiegata e il popolo piangeva ascoltandola. Perché piangeva? Perché profondamente toccato da quell’ascolto che lo ricostituiva nella propria identità di popolo di Dio. Ascoltando quella Parola riscopriva la propria storia e capiva il perché di essa, il perché di tanta sofferenza, tanta umiliazione, tanta sventura: la distruzione di Gerusalemme, il dramma della schiavitù a Babilonia, quel ritorno nella povertà e nella speranza… Ognuno riscopriva la propria identità nella riscoperta di Dio che lo chiamava e convocava nell’assemblea del suo popolo. Sono poveri, miseri e piangono perché in quell’assemblea e in quell’ascolto della Parola si riscoprono amati da Dio che li salva nell’“oggi” della loro storia mostrandosi loro come il Dio fedele, che perdona e solleva.

Carissimi fratelli e sorelle, se ancora non ho pianto ascoltando o leggendo la Parola, se ancora non ho mai pianto ascoltando una spiegazione della Parola così come piangeva quel popolo, significa che ancora debbo incontrarmi con Essa, significa che per me ascoltare la Parola è ascoltare una storia, una storia di qualcuno, ma non è ancora ascoltare la mia storia!

L’incontro con la Parola mi farà piangere, commuoverà il mio cuore facendolo sciogliere nelle lacrime, quando capirò che la storia di Adamo che si nasconde e fugge perché ha peccato, non è solo la storia di Adamo, ma è la mia storia…, che la storia di Abramo che viene chiamato da Dio a lasciare tutto fidandosi della sua promessa, non è solo la storia di Abramo, ma è anche la mia storia…, che la storia di Mosè chiamato a libertà attraverso il cammino nel deserto, è anche la mia storia…, che la storia di Davide che vince Golia, ma che è squallidamente vinto dalle sue passioni, non è solo la storia di Davide, ma è anche la mia storia…, che la storia del suo pentimento è la storia anche del mio pentimento…, quando io capisco che sono io quel lebbroso che Gesù guarisce…, che sono io quel cieco che chiede di vedere…, che sono io quel figlio che ha sperperato tutto…, che sono io quel figlio geloso che non sopporta il fratello…, che sono io quell’adultera che Lui non condannò…, che sono io quella peccatrice che Gli bagnò i piedi di lacrime…, che sono io quel Lazzaro che deve uscire dalla sua tomba…, che sono io quel Nicodemo che non ha più paura di farsi vedere cristiano…, che sono io quel Pietro che prima Lo rinnega e dopo Gli dice che L’ama…,  che sono ancora io quella donna che Lo cerca morto mentre Lui era risorto…, che sono io quel Paolo che deve cadere dal suo cavallo… 

Quando io capisco questo, la Parola mi si svela nella sua verità di lettera personale d’amore di Dio a quella sua creatura e a quel suo figlio che Lui ama e che sono io. Ed è appunto in questo personale incontro, commovente, perché incontro d’amore, con Dio Padre che ciascuno di noi viene costituito nella propria identità profonda di cristiano, cioè di figlio del Padre, fratello di Gesù Cristo, membro vivo del nuovo popolo di Dio che è la Chiesa e che è un popolo di persone salvate.

Nella rivelazione dell’amore misericordioso del Padre in Gesù, mi viene rivelato così anche il mio vero volto, la mia vera identità nella mia appartenenza a Lui nel suo Corpo che è la Chiesa (seconda lettura). La scoperta della propria identità si realizza nella scoperta della propria appartenenza a Gesù e questa appartenenza a Gesù si realizza nel suo Corpo che è la Chiesa che è un popolo di salvati. La nostra identità è quindi radicata nella Parola.

«Anche oggi (e sempre) la Chiesa ritrova la sua identità nella parola di Dio. Senza la parola di Dio la Chiesa è «nulla». La Chiesa è sempre in religioso ascolto della parola di Dio: da questa viene adunata e ne dipende totalmente; da essa deve lasciarsi continuamente «giudicare» e contestare. 

D’altra parte la parola di Dio risuona in tutta la sua verità solo in lei; e la sua ragione d’essere è nell’annunciare questa parola e nel testimoniarla come fedele discepola di Cristo» – Messalino LDC

Siamo un popolo di salvati, cioè di persone raggiunte, afferrate e prese dall’amore misericordioso del Padre che Gesù Cristo ha fatto conoscere loro con la sua morte, risurrezione ed effusione del suo Santo Spirito. 

Ma quando, dove e come avviene questo incontro salvifico con Gesù? 

Dal pulpito della sinagoga di Nazareth, Gesù inaugura il tempo in cui esso è reso possibile: “Oggi si sono adempiute le parole di questa Scrittura!” dirà, infatti, a tutti coloro che Lo fissavano… “Gli occhi di tutti erano fissi su di Lui”. Dove è dato alle persone di oggi di entrare in quest’“oggi” di Gesù? Dove oggi possiamo fissare il nostro sguardo su Gesù e lasciarci raggiungere, toccare, invadere dalla sua salvezza? 

Gesù risorto e vivo è presente nella sua Chiesa e questa sua presenza salvifica la realizza di diversi modi:

«Per realizzare un'opera così grande, Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche. È presente nel sacrificio della messa, sia nella persona del ministro, essendo egli stesso che, “offertosi una volta sulla croce, offre ancora se stesso tramite il ministero dei sacerdoti”, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente con la sua virtù nei sacramenti, al punto che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. È presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura. È presente infine quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso:  “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro” (Mt 18,20) » – C. V. II – SC 7

Ecco, carissimi fratelli e sorelle, come il Padre convocò il resto del suo popolo, resto di poveri e oppressi, lì alla Porta delle Acque per incoraggiarlo e fargli sentire il suo amore, così ogni domenica lo stesso Padre buono ci convoca e raduna in assemblea nella Chiesa, e ci manda il suo Spirito di Consolazione e d’Amore che rende presente in mezzo a noi il suo Figlio e Signore Nostro Gesù. 

La missione della Chiesa è proprio quella di essere per tutte le persone di tutti i tempi il luogo dove poter realizzare questa esperienza di incontro salvifico con Gesù, il luogo dove possiamo anche noi fissare i nostri occhi su Lui, il luogo dove le nostre orecchie possono sentire dalla sua bocca l’affermazione della realizzazione della promessa del Padre nell’oggi della storia del mondo, il luogo dove Lui ci tocca e ci salva nel sacramento del perdono, il luogo dove Lui ci abbraccia e ci bacia nel sacramento dell’Amore.

La Chiesa è dunque il luogo dove abbiamo l’esperienza di piangere di gioia, di commozione, di amore perché è il luogo dell’esperienza dell’incontro con Gesù che ci consola e solleva dal peso, alle volte oppressivo, della nostra quotidianità e ci attira e ci proietta verso il Padre inebriandoci nel suo Amore.

E tutto questo ogni domenica, e anche ogni giorno se vogliamo. Ecco, carissimi fratelli e sorelle, chiediamo alla Vergine MariaMadre di Gesù e Madre nostra e Madre della Chiesa, che ci aiuti a crescere nel senso della nostra appartenenza al suo Figlio Gesù nella Chiesa, nel senso di appartenenza a Gesù perché apparteniamo alla Chiesa, appartenenza a Gesù perché membri vivi del suo Corpo che è la Chiesa. 

Appartenenza vissuta e testimoniata nella gioia dell’incontro nel Suo giorno, nel giorno del Signore, per camminare come popolo santo di Dio, domenica dopo domenica fino alla domenica senza tramonto quando l’incontro non sarà più sotto il velo dei segni, ma nella luce, nella gloria e nella gioiosa festa di un “faccia a faccia” (1Cor 13,12) eterno.          

Amen.                                                                j.m.j.

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Quarta Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                   Omelia

Essere antipatici al mondo e simpatici a Dio

 

Carissimi fratelli e sorelle,

oggi, nella lettura continuativa che stiamo facendo della Prima ai Corinzi, abbiamo letto il brano stupendo, gemma preziosa del NT, l’inno della carità di S. Paolo: “Se anche parlassi le lingue degli angeli… o avessi una fede da trasportare le montagne… o dessi tutti i miei averi ai poveri… o dessi pure il mio corpo a bruciare, ma non avessi la carità, a nulla mi varrebbe… la carità… la carità che è paziente; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità… la carità non avrà mai fine… tre sono le cose più importanti: fede, speranza e carità, ma più grande di tutte è la carità, infatti la fede e la speranza cesseranno, la carità invece non avrà mai fine! Più che spiegare questo brano, ci conviene leggerlo e rileggerlo, lasciare che queste parole ispirate di Paolo, parlino e tocchino il nostro cuore, cosa che invito ciascuno di voi a fare personalmente in questa settimana che s’affaccia davanti a noi.

Il Vangelo odierno – continuazione diretta di quello di domenica scorsa – ci ha mostrato come Gesù presentandosi ad annunciare la Parola nella sinagoga della sua Nazareth viene rifiutato dai suoi compaesani che, addirittura, si arrabbiarono così tanto contro di Lui da cercare di buttarLo giù da un precipizio.

La Chiesa poi ha accostato per noi a questo episodio, la chiamata del Signore a Geremia quando gli disse: “Prima di formarti nel grembo materno, Io già ti conoscevo e volevo che tu diventassi profeta delle nazioni, tu sii forte, non aver paura, ti faranno guerra, ma non prevarranno perché Io sarò con te”. Geremia profeta perseguitato è precursore del Profeta per eccellenza che è Gesù, anche Lui perseguitato e rifiutato.

Geremia fu molto antipatico ai Giudei! Quanto fu loro antipatico! Non faceva altro che rimproverarli e presagire sventure, al punto che lo presero un giorno e lo chiusero per molti giorni in una cisterna (cf Ger 37,16). 

Molto antipatico fu anche Gesù ai Nazaretani. Quanto fu loro antipatico! Tanto da volerlo buttare giù dal burrone, perché non volle fare loro dei miracoli! 

E così pure la Chiesa si rende molto antipatica, antipatica al mondo che non sopporta quando Lei gli parla di Dio. 

Ma vediamo perché sono sorte queste antipatie.

 Geremia era antipatico ai Giudei di corte perché erano convinti che l’Egitto fosse più forte degli Assiri-Babilonesi che erano alle porte di Gerusalemme e perciò pensavano fosse bene per loro allearsi con l’Egitto, mentre Geremia insisteva che era meglio arrendersi ai Babilonesi. Un giorno andarono pure da Geremia e gli dissero di pregare il Signore perché facesse sapere cosa si dovesse fare e qualunque cosa avrebbe risposto loro si impegnavano a farla, ma quando Geremia disse loro che il Signore diceva loro di arrendersi ai Babilonesi, essi fecero come avevano già stabilito di fare, tentarono la fuga in Egitto e fu la rovina per Gerusalemme e il suo popolo! (cf Ger 42)

Quando si ha il cuore attaccato ai propri giudizi e non si è disposti a cambiarli, si cerca Dio solo perché benedica la scelta già fatta, non si va da Dio per chiederGli cosa fare, dove andare, come essere, perché tutto questo si è già deciso per conto proprio. Le persone così cercano solo approvazioni, applausi e non accettano che qualcuno dica loro che stanno sbagliando, che dovrebbero agire in un altro modo, chi fa questo a loro si rende immediatamente antipatico!

 Perché Gesù si rese antipatico ai Nazaretani? I Nazaretani pretendevano da Gesù, in quanto suoi compaesani, che facesse da loro i miracoli che aveva fatto altrove.

I Nazaretani Lo avevano visto crescere, conoscevano tutti i suoi parenti, era uno di loro. Si stupirono che un poveraccio come loro, umile ebreo della Galilea, avesse portato tanta attenzione su di sé, tutti parlavano di Lui come un grande profeta e guaritore…, ora Lo avevano anche ascoltato ed erano stupiti, meravigliati di tanta sapienza e si chiedevano se veramente fosse proprio Lui quello che ragazzino lavorava con Giuseppe nella sua bottega, il Figlio di Maria… ed attendevano adesso di vedere i miracoli e giudicare così come stavano le cose…

Ma non c’è nulla che infastidisce tanto Gesù quanto accostarsi a Lui con l’atteggiamento di chi pretende, di chi vanta diritti su di Lui o, tanto più, di chi si erge a suo giudice e non si lascia invece giudicare da Lui: tanta superbia blocca il cuore di Dio. Vedete, se quei Nazaretani fossero stati più umili e, di fronte alla sapienza con cui Gesù aveva loro parlato stupendoli, avessero cominciato a ringraziare Dio che tanta luce e tanta forza aveva messo nelle labbra di Questo loro compaesano, forse le cose sarebbero andate diversamente e Gesù avrebbe premiato la loro umiltà con i miracoli…

Di fronte alla loro superbia, Gesù si rese loro ancor più antipatico tirando fuori le storie di Naam il Siro e della povera vedova di Zerepta. Cosa dice Gesù da farli sdegnare e infuriare così tanto? Tira fuori le storie di due pagani che Iddio benedisse con dei miracoli, uno con la guarigione dalla lebbra, l’altra con la provvidenza nella carestia moltiplicando il suo olio e la sua farina. Gesù ricordò loro come il buon Dio in questi casi beneficò queste due persone pagane, ma non beneficò altre persone ebree che nello stesso periodo erano anch’esse bisognose. I Nazaretani conoscevano bene quelle storie bibliche, perché s’infuriarono così? Sapevano che erano storie vere, non inventate da Gesù, eppure se la presero così tanto, perché? Perché non volevano ammettere di non avere diritti, loro pretendevano i miracoli punto e basta! Nessun ragionamento li avrebbe mai convinti perché troppo ripieni di sé.

 Perché la Chiesa si rende così antipatica al mondo? Perché ricorda al mondo che c’è Dio e non si può vivere, ragionare, operare come se non ci fosse! Questo è proprio insopportabile al mondo! Il mondo non può sopportare che Dio ci sia, perché s’è Dio c’è, non si può più fare quello che pare e piace, mentre se Dio non c’è si può fare tutto quello che si vuole, ma Dio c’è e la Chiesa non può tacerlo e allora è inevitabile che la Chiesa si renda antipatica! Una Chiesa simpatica al mondo non può essere la Chiesa di Dio, perché ciò che il mondo ama, Dio lo odia e ciò che il mondo odia, Dio lo ama (cf 1Cor 1,17ss).

Al mondo viene tanto simpatica una Chiesa-Distribuitrice Automatica di Sacramenti, tutta impegnata solo per le feste dei Battesimi, delle Prime Comunioni, delle Cresima o delle Nozze dei nostri figli, anche se questi poi non sanno più neanche farsi un segno di croce al mattino o alla sera. Al mondo viene tanto simpatica una Chiesa-Agenzia di Pompe Funebri che è sempre pronta ad incensare i nostri morti, anche se la loro vita era distante anni luce dal Vangelo, o una Chiesa-Baby Sitter che è tanto comoda per non far crescere i nostri figli sulla strada, o una Chiesa-Assistente Sociale che distribuisce in giro un po’ di elemosine… ma quando la Chiesa vuole anche ricordare al mondo che c’è Dio, il Padre del Signore nostro Gesù Cristo, e che quindi abbiamo dei doveri, e che per questo nessuno può fare ciò che gli pare, allora questa Chiesa è un’antipatica Chiesa, una Chiesa molto antipatica, troglodita, ignorante, contro il progresso e la libertà.  

Carissimi fratelli e sorelle, interroghiamoci sulla nostra vita quotidiana, facciamoci, come risposta alla Parola di oggi, due domande.

La prima è questa: Quali sono i diritti che io credo di avere nei confronti di Dio? Ma chiediamoci anche quali diritti possiamo avere verso chi ci ha dato tutto gratis? 

La seconda è questa: Quando mai io mi sono reso antipatico a qualcuno perché sono cristiano?… Quando mai qualcuno se l’è presa con me perché non potevo condividere le sue scelte?… Quando sono stato costretto a lasciare una compagnia, un gruppo perché non potevo condividere i loro discorsi?… E, nel caso che questo non mi fosse mai successo, non sarebbe forse opportuno che io mi chiedessi se poi è così vero che credo molto in Dio e in Gesù Cristo?

Emerge quindi con forza dalla Parola di oggi l’invito al coraggio, ad una testimonianza coerente e limpida dei nostri valori, di ciò che noi crediamo, speriamo e amiamo: avere il coraggio di Geremia, il coraggio di Gesù nel mettersi contro tutti. Per essere coerenti cristiani bisogna essere coraggiosi, forti e non lasciarsi condizionare dalla mentalità del mondo. Chi testimonia scelte di vita cristiane viene preso letteralmente per scemo… sciocco… bigotto… arretrato…! E viene anche letteralmente aggredito con la prepotenza di un’ideologia egoista che da una parte osanna la libertà più assoluta, d’altra parte non vorrebbe dare al cristiano e alla Chiesa la libertà di affermare la propria visione del mondo e dell’uomo.

Ricordiamoci allora le parole di Dio a Geremia: “Ti faranno guerra, ma non prevarranno, perché Io sono con te… Non aver paura di loro, perché se tu li temerai ti vinceranno!” Ecco, carissimi fratelli e sorelle, Davide era fanciullo e Golia un grande guerriero, eppure Davide gli staccò la testa (cf 1Sam 17,1ss)! Fidiamoci di Dio come si fidò Geremia, come si fidò Davide e portiamo nel mondo la testimonianza di una fede forte, coerente, concreta senza paura di nessuno, senza lasciarci condizionare da una mentalità dilagante dove Dio è scomparso e si vuol vivere senza far riferimento a Lui. Non abbiamo paura dell’ira degli uomini, lasciamoci pure cacciar fuori dai loro ambienti, non vergogniamoci di essere cristiani e di avere dei valori, degli imperativi morali e di essere quindi diversi da chi morale non ne ha, perché non ha Dio. 

Affrontiamo questo mondo non con spavalderia e arroganza che sono atteggiamenti propri suoi e non nostri, noi siamo e dobbiamo essere come “agnelli in mezzo ai lupi” (Lc 10,3), ma agnelli che non hanno paura del lupo perché il loro pastore è Gesù e Lui è il “più forte” (Lc 11,22). Questa è la nostra vera forza che ci fa vincere il mondo: la nostra fede (cf 1Gv 5,4)! Se affrontiamo questo mondo con paura siamo già vinti, se lo affrontiamo con la semplicità e la forza della nostra fede, Gesù è con noi, e non possiamo non vincere! Dobbiamo però ricordarci che Lui vinse morendo in croce e che perciò se vogliamo vincere con Lui, con Lui dobbiamo lasciarci crocifiggere per amore suo (cf Rm 6,6ss; 2Cor 13,4; 2Tm 2,11; Col 2,12) e in realtà solo così si ama di quell’amore che “tutto sopporta” (seconda lettura).

Essere cristiani oggi significa innanzi tutto rifiutare questa visione dell’uomo che lo rinchiude solo nell’ambito materiale-sensibile senza spazi e orizzonti più ampi e accogliere invece nella fede la visione “divina” dell’uomo che risplende nell’umanità del Verbo incarnato. Accogliere Gesù significa quindi accogliere un’immagine alta di sé, di ciò che siamo e di ciò che siamo chiamati ad essere in Lui (cf Ef 1,4-5). Significa credere alla possibilità reale, concreta di essere diversi (cf Rm 6,4; 1Cor 5,7; 2Cor 5,17), capaci di novità di vita, capaci di amare di un amore non umano che supera la comprensione del mondo, che il mondo non può capire perché non proviene da esso, ma da Dio (cf 1Gv 3,1b) e che Paolo ci ha descritto nella seconda lettura di oggi.

La Vergine Maria, nostra Madre e Maestra, che silenziosamente e continuamente ci invita a “fare quello che Lui ci dice” (cf Gv 2,5) ci aiuti ad essere nel mondo con la coerenza e la semplicità della nostra vita cristiana, un piccolo segno che il Vangelo non è teoria, non è utopia, non è bella leggenda, ma è Parola di vita, Parola cioè che ha la forza di incarnarsi concretamente nella vita di chiunque la fa sua nella fede.

Amen.          j.m.j.

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Quinta Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                      Omelia

«Signore, allontanati da me che sono un peccatore»

 

Carissimi fratelli e sorelle,

il Vangelo odierno ci invita, con la sua ricchezza di movimento, di vivacità e insieme di profondità di contenuti, a procedere più verso una contemplazione amorosa del mistero che a fare grandi e lunghi discorsi. Premetto due parole su un modo di pregare chiamato “contemplazione”, non si tratta della contemplazione di santa Teresa d’Avila, che è tutta una preghiera di passività dove lo Spirito del Signore prende e rapisce la persona e la introduce nella contemplazione di Gesù, no, parliamo della contemplazione di sant’Ignazio di Loyola che cerca di aiutare la persona a trovare una via facile per un inserimento personale, intimo e vitale di quel particolare mistero della vita di Gesù sul quale la persona si ferma in affettuosa preghiera.

Per poter contemplare così il Vangelo occorrono, insieme allo Spirito Santo che è l’anima di ogni nostro pregare, altre due cose importantissime: una fede semplice da bambino e un amore grande, appassionato per Gesù. Ecco, se abbiamo queste due cose, una fede semplice da bimbo e un amore appassionato per Gesù, possiamo accostarci con fiducia alla contemplazione di questo brano di Luca. D’altra parte, se queste due virtù sentiamo di averle molto ridotte, magari forse al lucignolo che sembra spegnersi, chiediamo a sempre a Lui, allo Spirito dell’Amore che alimenti questa fiamma perché si ravvivi e riprenda vivacità e vita.

Chiediamo dunque allo Spirito di Gesù di introdurci nel mistero:

«In quel tempo, mentre, levato in piedi, stava presso il lago di Genesaret e la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio, vide due barche ormeggiate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedutosi, si mise ad ammaestrare le folle dalla barca».

Bella questa scena, cerchiamo di gustarla nello Spirito, Gesù è attorniato, schiacciato dalla folla che desiderava ascoltare la Parola. Attenti… Luca mette in evidenza che non sono lì per vedere o chiedere miracoli e prodigi, sono lì per ascoltarLo… Pensiamo la gioia di Gesù, Lui è la Parola, Parola del Padre, il Padre l’ha mandato a noi perché parli a noi di Lui… pensiamo alla gioia di Gesù nel vedersi cercato, ascoltato la gente è tanta allora serve un pulpito per parlare a tutti… ci sono due barche… Gesù sale su una e non vi sale a caso… ha scelto quella barca su cui parlare al mondo che desidera ascoltarLo: è la barca di Pietro!

Pietro è un poveruomo che credeva di stare lì per caso e invece era lì perché dalla sua barca doveva parlare il Maestro. Carissimi fratelli e sorelle, anche oggi Gesù parla al mondo dalla stessa barca, ci sono anche oggi altre barche ormeggiate, ma Gesù parla da quella barca… che mistero! Guardiamo Pietro oggi… il nostro Santo Padre!… Che mistero, ma ci vuole fede, fede grande, fede bella, fede semplice da bambino per credere senza tante storie che da lì parla Gesù! Non possono non affacciarsi alla nostra mente altre barche da cui non parla Gesù… altre folle attirate non dalla Parola, ma dalle chiacchiere vuote del mondo che rendono vuota e senza senso né valore la vita… quante folle! Signore, abbi pietà di queste folle e suscita nel mondo profeti… suscita Signore, annunciatori della tua Parola che salva dalla tentazione di sprecare la vita riempiendola di ciò che non vale, di effimero, di vuoto e di non-senso!

«Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e calate le reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell'altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche al punto che quasi affondavano». 

Non si può aver ascoltato Gesù e rimanere lì fermi a riassettare le reti… quelle reti vuote segno di una vita ricca di fatica, di prove, ma priva di senso, di significato, di valore… quanti, quanti uomini, quante donne lavorano, faticano, soffrono senza un perché, senza un significato al proprio vivere, al proprio gioire e soffrire… e allora ci si appiattisce a riassettare le reti, cioè a contemplare il fallimento di una vita senza senso… soprattutto dopo una certa età si vive questo riassettare le reti vuote della propria vita e la persona si chiede: che senso ha avuto la mia vita? che ci sono venuto a fare quaggiù? cosa ho combinato di buono? Magari sono molte le cose buone che abbiamo fatto, ma spesso quando ci fermiamo a dare uno sguardo alla vita che è passata, rapita dall’inesorabilità del tempo che fugge via, emergono solo le cose brutte, gli sbagli, i fallimenti, le rovinose cadute e un certo avvilimento e sconforto attanaglia il cuore e piega la nostra anima fatta da Dio per volare verso di Lui, la piega ad adagiarsi a terra ripiegata su se stessa, invece di levarsi in volo

Ma ecco che il Salvatore del mondo si avvicina a Pietro che rimugina il suo fallimento di una notte di fatica inutile e gli dice: «Pietro, prendi il largo e non star lì a guardare quelle reti vuote, riprendile in mano e prendi il largo e rigettale nel mare, ma questa volta gettale sulla mia parola e si riempiranno di tanti pesci quanto mai tu ne hai visti!»… Pietro è un pescatore di professione, non sta li per svagarsi e perdere un po’ di tempo, quello è il suo mestiere e lo conosce bene… ha pescato tutta la notte invano… ora è stanco e Questo qui gli dice di prendere il largo e ricalare le reti?… Quando mai si va a pescare di giorno?… Entriamo nel cuore di Pietro di fronte a quest’invito di Gesù… entriamo nella sua stanchezza, nella sua delusione di una notte senza pesca… Pietro non sa come reagire, quell’Uomo ha parlato così bene dalla sua barca… tutti e lui pure pendevano dalle sue labbra… ma non è un pescatore… che ne capisce di lago, Lui?…poi si decide, ma ci tiene a precisare che, se ci sarà un’altra pesca in bianco, la colpa non è sua: “Noi abbiamo pescato tutta la notte invano… ora tu ci chiedi di riprovare… ecco… riproviamo, ma sia ben chiaro Maestro che riproviamo sulla tua parola, non sulla mia, secondo me non prendiamo niente!”

Ma non fu come probabilmente pensava Pietro, le reti si riempirono talmente di pesci che dovettero chiedere aiuto a quelli dell’altra barca! Carissimi fratelli e sorelle, se vogliamo che anche la barchetta della nostra vita di riempia di pesci, cioè di senso, di significato, di valore, bisogna che diamo fiducia a Gesù come gliene diede Pietro… Pietro, molto probabilmente non ne ebbe tanta di fiducia in Gesù, quando lasciò quel porticciolo sicuro per prendere il largo, nel suo cuore più che certezza c’era perplessità, eppure il Signore premiò quella sua disponibilità, anche imperfetta e piccola con una pesca miracolosa. Se noi dessimo più fiducia a Gesù di quante pesche miracolose saremmo poi testimoni? Ma bisogna prendere il largo per vederle… spesso invece preferiamo rimanere lì bloccati dai nostri piccoli interessi, piccole paure e chiusure che ci impediscono di prendere il largo e viviamo così con una vita ormeggiata nel piccolo porto del perbenismo… del non faccio del male a nessuno… io mi faccio i fatti miei… invece di levare l’ancora e prendere il largo perché possiamo finalmente gioire di vivere l’avventura della vita, un’avventura d’amore… amore che si consegna e dona, che si mette a servizio nella gioia… 

Siamo fatti per prendere il largo, tutti siamo fatti per prendere il largo… Dio ci ha pensati così, come persone che solcano l’Oceano dell’Amore! Che tristezza quando, fatti per quest’Oceano infinito da spaziare e navigare, ci riduciamo ad arenarci nella palude delle nostre paure. Se qualche volta ci fermassimo a pensare e a riflettere su cosa pensava Dio quando ci ha inventati nella sua fantasia e creati nel tempo, quanto piangeremmo pensando a quanti talenti, quanta grazia, quanta gloria, quanta santità, quanta capacità e forza di amore il buon Dio ha seminato in noi…! Tanta grazia sua che rimane lì sepolta e soffocata dalle nostre chiusure e paure… vinciamole e diamo fiducia a Gesù, prendiamo sul serio la Parola di Gesù, diamo la possibilità a Gesù di farci vedere cosa Lui può fare nella nostra vita se solo gliene diamo il permesso… lasciamo salire Gesù sulla nostra barca e lasciamoci guidare da Lui per gettare le reti lì dove troveremo pesce e non sciupare così il tempo della nostra esistenza in nottate di pesca andate a vuoto e giornate a rimirare le nostre reti vuote, mentre Lui in un attimo può riempire le reti della nostra vita di così tanta ricchezza, quanta non ne abbiamo saputo raccogliere in tutta una vita: diamo dunque fiducia a Gesù!

«Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore». Grande stupore infatti aveva preso lui e tutti quelli che erano insieme con lui per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone» 

Come Isaia (prima lettura) che capisce di essere “un uomo dalle labbra impure……”, Isaia che, trovandosi davanti a Dio, si sente profondamente peccatore, sente il bisogno di essere purificato dentro… come Paolo (seconda lettura) che, consapevole della propria indegnità, si sente come “un aborto… l’infimo tra gli apostoli, neanche degno di essere chiamato tale”, così anche Pietro di fronte alla manifestazione di Dio nella sua vita comprendere la sua povertà e piccolezza, la sua miseria e il suo peccato. Pietro è con Gesù sulla barca e di fronte a quella pesca capisce di esser di fronte a Dio e vuole fuggire, scappare, non può perché è sulla barca lontano da terra, si sente piccolo, povero, peccatore… ripensa anche alla sua mancanza di fiducia, alle sue perplessità e si sente tremendamente male davanti a Gesù…

Carissimi fratelli e sorelle, cerchiamo di capire perché Pietro reagisce così, perché Pietro si sente così schiacciato dalla sua povertà e miseria? Cerchiamo di entrare nel cuore di Pietro… Pietro si sente beneficato da Dio, capisce che Dio lo ha benedetto con quella pesca e nel momento stesso in cui capisce che Dio lo benediceva capiva che non se lo meritava, che lui non ne era degno di quella benedizione, capisce la sua povertà di piccola creatura senza meriti e con tanti peccati… La vera umiltà – carissimi fratelli e sorelle – non è frutto di riflessioni profonde né di propositi fermi della nostra volontà che decide di umiliarsi, no! L’umiltà, quella vera, è frutto di una scoperta che rivoluziona la nostra esistenza, è frutto della scoperta della benedizione di Dio, quando la persona scopre di essere benedetta, scelta, voluta, amata da Dio suo Padre buono (cfr. Ef 1,3ss), realmente e non per scherzo, quando scopre e capisce questo perché finalmente qualcosa le ha mostrato quest’amore concreto di Dio per lei, quando la persona percepisce quest’amore, quando si sente toccata da quest’Amore immenso di Dio per Lei rivelatole da Gesù, allora la persona si confonde, si vergogna, si umilia profondamente (cfr. Ez 16,63) perché si scopre amata senza che se lo meriti da un Dio così immensamente grande e così buono!

Solo quando scopriremo quest’immenso amore con cui Dio ci ama, diventeremo umili, piccoli e capiremo fino in fondo la cattiveria, la malizia, la perversità e bruttura delle nostre azioni che fino a ieri magari commettevamo senza farci caso, senza darci importanza. Quelle tante piccole e grandi mancanze che tutti spesso commettiamo con tanta facilità solo perché non abbiamo scoperto quest’Amore, ma quando si scopre quest’Amore così grande di Dio, allora si capiscono tante cose, si diventa piccoli sul serio, la coscienza diventa più delicata, più sensibile perché non si ci accontenterà più di non infrangere una legge, una norma, no, né ci si accontenterà solo di evitare le cose gravi, di evitare il peccato mortale non facendo caso ai piccoli peccati, ma si cercherà di evitare anche i più piccoli difetti e mancanze, perché di fronte a quest’Amore con cui siamo amati, ogni piccola nostra mancanza acquista una gravità immensa perché fortemente carica di ingratitudine. La persona scopre così il peccato come non-amore, come ingratitudine profonda contro quella mano benefica di Dio che continuamente l’accarezza e la benedice e diventa così “ferita d’amore… malata d’amore” (Ct 2,5), non sarà più bloccata dall’egoismo e dalle sue paure di perdere qualcosa, ma sarà mossa da quell’amore che fa’ prendere il largo, mossa dall’amore che vince ogni paura perché chi ama non ha più paura e se ne ha non è perfetto nell’amore (cfr. 1Gv 4,18). 

“Noi amiamo perché Egli ci ha amati per primo!” (1Gv 4,19) – carissimi fratelli e sorelle – è proprio così! Se noi non amiamo ancora di quell’amore che ci fa alzare, smuovere e prendere il largo è semplicemente perché ancora non abbiamo scoperto, capito, esperimentato che Lui “ci ha amati e ci ama per primo!”

E così forse servirà di più fermarci a guardare a lungo Gesù Crocifisso, Gesù inchiodato al legno per me, Gesù dal cuore squarciato dalla lancia per me, che stare lì a fare lunghi e scrupolosi esami di coscienza interrogandoci su cosa abbiamo fatto o non fatto di male o di poco giusto!

Concludiamo allora rivolgendoci a Maria, Lei che più di tutti ha capito e sperimentato in sé l’Amore di Dio che in Lei si è fatto Carne… Lei che per questo ha più di tutti sentito la propria piccolezza e bassezza (cf Lc 1,48), ci aiuti a scoprire l’amore di Dio nella nostra esistenza, ci aiuti a scoprire l’immensità di quest’Amore che in Gesù Crocifisso per amore nostro ci viene totalmente rivelato e annunciato dalla Chiesa e ci aiuti a rispondere amore con amore.

Amen.            j.m.j.

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Sesta domenica del Tempo Ordinario – Anno c                      Omelia

«Beati voi poveri, ma guai a voi, ricchi»

Carissimi fratelli e sorelle,

il brano evangelico odierno è rappresentativo di una delle caratteristiche più tipiche di Luca e cioè quella di mettere in forte risalto il valore della povertà. Luca è innamorato della povertà e dei poveri e lo manifesta mettendo sempre in evidenza la vita povera di Gesù e l’amore di Gesù per i poveri, i miseri, i diseredati, gli emarginati della società.

Fin dall’inizio del suo Vangelo, risuona la predilezione di Dio per i poveri, l’Eterno Padre vuole infatti che il suo diletto Figlio venga al mondo da una povera fanciulla di Nazareth, fidanzata e sposa di un povero operaio; che abbia come sua prima casa una stalla e come culla una mangiatoia; non partecipa la sua nascita ai grandi della terra, ai potenti, ai nobili, a quelli la cui parola conta quaggiù, ma manda i suoi angeli ad annunciarla a dei poveri pastori; vorrà poi che Egli conduca una vita povera e che impari a lavorare nella bottega di Giuseppe; vorrà che viva di elemosina durante il suo pellegrinare annunciando il suo Regno (cf Lc 6,1. 8,3; Mt 17,27) e che muoia povero e nudo sulla croce.

Questa predilezione di Dio per i poveri evidenziata da Luca, risuona anche dalle labbra della Vergine Maria che guardando quello che Lui aveva fatto in Lei, Lo magnificherà come Colui che “rovescia i potenti dai troni, innalza gli umili, ricolma di beni gli affamati e rimanda a mani vuote i ricchi” (Lc 1,52s).

E la stessa predilezione risuonerà nella labbra di Gesù alla sinagoga di Nazareth. Infatti, a differenza degli altri evangelisti, Luca ci indica anche il passo biblico che Gesù lì proclamò e affermò essere attuato in Lui: 

«Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore» – Lc 4,18s

Gesù, in Luca, poi indica senza mezzi termini quali siano gli ospiti prediletti dei suoi discepoli:

«…quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti» – Lc 14,13s

Luca poi mette anche in evidenza in vari brani del suo Vangelo il valore dell’elemosina, ne ricordiamo in particolare due quello di Zaccheo, ladro e imbroglione che, pentitosi, al banchetto fatto in onore di Gesù, si alzerà in piedi e davanti a tutti dirà: “Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto”
 
(Lc 19,8) e quello dell’invito di Gesù a tutti i suoi discepoli:

«Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma. Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore»- Lc 12,33.

Nel quadro che poi Luca ci dà della Chiesa primitiva, ce la mostra come Chiesa di persone che condividevano ogni cosa:

« Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno» – At 2,44

«La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune» – At 4,32

Inoltre, come abbiamo appena ascoltato nella proclamazione delle beatitudini, Luca, nel riportarle, è molto più radicale di come le riporta Matteo che proclama beati “poveri in spirito”, indirizzando la beatitudine promessa quindi non semplicemente a coloro che sono privi di beni materiali, ma a coloro che hanno il cuore distaccato dalle cose e attaccato solo a Dio.

Luca, invece, riportando la frase “Beati voi poveri”, mette in risalto il radicale ed eccellente valore evangelico della povertà come privazione di beni materiali.

Luca mette, inoltre, con molta forza in guardia contro il pericolo delle ricchezze, come ben attesta anche il brano proclamato oggi con il suo: “guai a voi ricchi” che troverà poi nella parabola di Lazzaro e il ricco epulone, il suo culmine, dove il povero Lazzaro che stava alla porta del ricco a mangiare i suoi avanzi, va in paradiso, mentre il ricco va all’inferno (Lc 16,19ss).

Non possiamo perciò non riflettere su questa tematica della povertà e del suo rapporto con il nostro essere cristiani, soprattutto oggi immersi come siamo in un clima di consumismo e di ricerca di realizzazioni personali sempre più elevate economicamente.

Si presenta in questo campo un duplice rischio, il primo è quello di proporre una povertà di spirito come virtù del distacco del cuore dalle cose che non impone, però, nessun distacco effettivo da esse; il secondo è quello di ritenere la povertà oggettiva, la privazione di ricchezza e di beni materiali come essenziale alla vita del Vangelo. Allora bisogna capire bene in che senso Gesù benedice i poveri e la povertà e in che senso maledice i ricchi e le ricchezze.

Iniziamo dalla ricchezza. 

La ricchezza di per sé non è né buona né cattiva, si può essere dei buoni ricchi e si può essere dei ricchi cattivi, il fatto è che di per sé essa è una grande tentazione, perché facilmente la persona vi attacca il cuore e facilmente così cade nella tentazione di credersi superiore agli altri per quello che ha, dimenticandosi che il proprio valore non è determinato da quello che la persona ha, ma da quello che essa è. Ogni tipo di ricchezza, anche quella spirituale quale può essere l’intelligenza, la volontà o la stessa santità, porta in sé la tentazione di far gonfiare la persona (cf 1Cor 8,2), cioè la persona ricca, ricca di soldi o di intelligenza o di volontà o della stessa grazia di Dio è fortemente tentata di sentirsi qualcuno, di sentirsi superiore agli altri, di guardare gli altri dall’alto verso il basso, di confidare in se stessa e in quello che possiede. L’uomo che cede a questa tentazione è proprio quell’“uomo maledetto che confida nell'uomo, che pone nella carne il suo sostegno e dal Signore allontana il suo cuore” di cui oggi ci ha parlato Geremia nella prima lettura. 

Per non cadere in questa tentazione la persona umana deve incessantemente lottare con la propria superbia in un abbassamento interiore continuo, in cui si umilia riconoscendo che tutto ciò che ha non è suo, ma di Dio e che ciò che ha e ciò che può, lo ha e lo può senza meritarselo, ma solo per grazia di Dio. Questo atteggiamento viene espresso da quella virtù chiamata “povertà di spirito” che viene beatificata da Gesù in Matteo (cf Mt 5,3). Sotto questo punto di vista allora si può essere ricchi e cristiani, e tali erano anche certamente alcuni amici di Gesù come, ad esempio, Lazzaro di Betania e le sue sorelle, Marta e Maria che godettero di una particolare intimità con Gesù che “voleva loro molto bene” (Gv 11,5) e ricca doveva essere anche la famiglia amica di Gesù che Gli mise a disposizione la propria casa per l’Ultima Cena, avendo essa un piano rialzato e una grande sala addobbata (cfr. Mc 14,15; Lc 22,12). Ma, allora, il possesso delle ricchezze deve essere visto in ordine al disegno provvidenziale di Dio, come servizio al bene comune dell’umanità, per cui il cristiano ricco si dovrebbe relazionare con le sue ricchezze considerandole come uno strumento per la realizzazione nella sua vita della volontà di Dio e, illuminato dallo Spirito Santo, dovrebbe vedere come esse possano essere messe a fruttificare per il bene di chi non ha nulla, creando cioè posti di lavoro e benessere per chi non ne ha.

Il Vangelo non può semplicemente toccare il cuore del cristiano senza passare attraverso il suo portafoglio, sarebbe un cristianesimo molto illusorio, soprattutto di fronte all’immensa miseria in cui vive la maggioranza dell’umanità, per cui al di là del dovere della “povertà spirituale” si impone anche a coloro che sono ricchi di beni, il dovere della condivisione con chi non ne ha.

Dobbiamo poi considerare come oggi, di fronte alla dilagante miseria di una moltitudine di popoli, noi occidentali in genere, non possiamo non considerarci dei ricchi che hanno troppo, di fronte ai tanti che non hanno nulla e muoiono di fame, mentre potrebbero benissimo essere sfamati nutrendosi dei nostri avanzi che, come novelli epuloni, gettiamo nella spazzatura senza il minimo scrupolo!

Detto questo sulla ricchezza passiamo alla povertà. La povertà viene benedetta da Gesù come occasione per la persona di capire meglio se stessa, la vita e i veri valori. La mancanza dei beni terreni e la necessità di averli per vivere spingono la persona a levare gli occhi al Cielo sia per chiedere aiuto lassù, sia per ricordarsi che non è fatta per quaggiù, ma per il Cielo. Quando la persona ha tutto dal punto di vista materiale, inevitabilmente è portata a guardare alla terra come la sua propria patria riducendo i suoi propri orizzonti che sono più vasti, perché ha per patria il Cielo e non la terra. La persona povera di beni è messa nella condizione di capire meglio la vita, quali ne siano i veri valori e di avere così quella sapienza che ridimensionando tutto alla luce di Dio, non si lascia illudere dai falsi paradisi di chi promette pace, serenità, felicità e gioia duratura quaggiù, perché sa bene che “il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!” (1Gv 2,17). Sotto questo punto di vista potremo anche trovare un aggancio con quanto ci ha detto Paolo nella seconda lettura a riguardo del fatto che la nostra speranza di cristiani sarebbe ben misera se fosse tutta riposta in cose di quaggiù!

Il Figlio di Dio, venendo in questo mondo, ha scelto e abbracciato per sé la povertà: “da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9). Ma ricchi di che cosa? Della vera ricchezza dell’uomo e della donna che non è riposta nei beni materiali, né nella buona salute, né in una vita lunga e senza incomodi, ma nell’essere figli di Dio, amati, benedetti e attesi dal Padre che ci ha scelti, desiderati, voluti per stare con Lui nell’eternità (cfr. Ef 1,3ss).

Per questo il Figlio di Dio ha scelto la povertà come sua compagna di vita, per farci capire concretamente che non è nella ricchezza materiale il vero tesoro della persona, ma che esso è in Dio.

Concludiamo guardando Maria, la Vergine che nella sua “povertà” si sentì guardata con amore da Dio e di questo sguardo gioì ed esultò in tutta la sua esistenza (cfr. Lc 1,48). Lei insegni a liberarci dai condizionamenti di un mondo che in tutti i modi tenta di sollecitarci a riporre la nostra felicità e beatitudine in beni effimeri che non saziano, ma creano dipendenze e falsi bisogni. Lei ci aiuti ad acquistare quello spirito di sapienza e di moderazione, quello spirito di cristiana mortificazione animato dalla carità, che ci possa permettere di saperci privare delle nostre cose “per sollevare, nella misura delle nostre forze, la miseria di questi tempi attingendo non solo dal superfluo, ma anche dal necessario” (CV2 – GS 88).

Amen.                                                                     j.m.j.

                                                                                                                                                                   Torna all'indice

 

Settima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                      Omelia

ESSERE BUONI

Carissimi fratelli e sorelle,

il tema della Liturgia della Parola di questa domenica è chiaro, semplice, bello, ma uno dei più difficili da attuare nella vita: l’amore e il perdono per tutti, anche per i nemici. Nella prima lettura abbiamo visto la storia di Davide che pur potendo uccidere Saul che, a causa della sua gelosia lo voleva vedere morto, non lo fa, non si vendica, si mostra buono con lui pur essendo Saul tanto cattivo nei suoi confronti. Nel Vangelo invece abbiamo gli insegnamenti di Gesù sulla misericordia che dobbiamo avere con tutti, chiamati a porgere l’altra guancia a chi ci percuote su una. 

Disarmare la vendetta con il perdono, ecco il messaggio di oggi. Pensiamo ora un attimo questo mondo nella sua realtà ampia internazionale e nella sua realtà piccola del mondo della nostra quotidianità, pensiamo un attimo come sarebbe diverso, se tutti ascoltassimo questo insegnamento: un mondo senza vendette, senza odi è un mondo che è già un paradiso. Ma queste parole di Gesù sono dure all’orecchio della persona umana, sono molto dure e, anche oggi, ripetute con tanto accoramento dal suo Vicario in terra non vengono ascoltate dai più e il mondo non è quel paradiso che potrebbe essere, ma è teatro di scontri e di morte.

Domenica scorsa abbiamo parlato della caratteristica particolare dell’evangelista Luca dell’enfatizzazione della predilezione dell’Eterno Padre verso i poveri, i miseri, i diseredati del mondo, da quello odierno emerge, invece, un’altra caratteristica lucana, quella di aver più di ogni altro evangelista messo in risalto la bontà d’animo di Gesù e l’invito che Egli fa ai suoi discepoli ad essere buoni“misericordiosi come è misericordioso il Padre nostro del cielo”. Non a caso Dante definì Luca: Lo scriba della mansuetudine di Gesù. Sì, è vero anche gli altri evangelisti ci parlano di bontà, di perdono, di misericordia, ma Luca riesce a parlarcene in un modo tutto speciale… la delicatezza di Luca, la dolcezza di Luca, la sua squisitezza d’animo traboccano nel suo Vangelo in molte occasioni.

Prendiamo, ad esempio, il brano evangelico di oggi. Questo brano viene riportato anche da Matteo con più o meno lo stesse parole che usa Luca. Ma in Luca esse prendono una sfumatura, una colorazione, una tinta di dolcezza tutta particolare, tutta sua.

Ad esempio Matteo riporta le parole di Gesù che invitano a perdonare, a porgere l’altra guancia motivandole con l’esempio del Padre del Cielo che è buono con tutti: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro” (Mt 5,48), mentre Luca riporta: “… e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell'Altissimo; perché Egli è benevolo verso gl'ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro”. Certo Matteo vuole dirci la stessa cosa, ma ci riesce meglio Luca.

E ancora, ad esempio, Matteo riporta l’invito di Gesù ad essere buoni con gli altri perché il Padre lo sia con noi dicendo: “con la misura con la quale misurate sarete misurati” (Mt 7,2). Luca, invece, aggiunge al concetto l’immagine della misura versata in grembo che abbiamo appena ascoltato: “ … una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio”. 

“Pigiata, scossa e traboccante”, la misura era un contenitore dove si misuravano le granaglie. L’immagine è plastica: “…una misura pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo”, ci mostra un Dio così contento che i suoi figli abbiano imparato ad essere buoni come Lui che li ripaga riversando in loro la sovrabbondanza del suo amore che è sempre troppo e nessuna misura può contenere.

Essere buoni, benevoli, tolleranti, misericordiosi con tutti, ecco uno degli insegnamenti principali del Gesù di Luca. Quanto bisogno abbiamo più che mai noi uomini e donne di oggi di realizzare questo messaggio evangelico: essere buoni, avere un cuore buono con tutti. Sempre più si diffonde in mezzo al mondo un certo stile, un certo modo di relazionarsi con gli altri all’insegna della prepotenza, della maleducazione, della mancanza di rispetto dell’altro, in tutti i campi della società. Sono rimasto molto edificato dai richiami al dialogo rispettoso dell’altro che diverse volte ha fatto il nostro Presidente della Repubblica agli uomini politici che spesso non sanno più parlare senza offendersi reciprocamente. 

Il rispetto dell’altro… basta andare in uno stadio… ricordo quando mi portò il mio papà la prima volta, avevo cinque anni, fu uno shock per me, povero bambino che non sapeva cosa fossero le parolacce… vedere tutti quegli uomini grandi con quei volti così furiosi che gridavano insulti all’arbitro… la scena mi è rimasta impressa sempre… e parlo di più di 40 anni fa! Oggi le cose non sono affatto migliorate…

“La persona educata è già mezza cristiana”. La buona educazione infatti esige il rispetto della persona dell’altro. La buona educazione è guidata da quel principio morale che si chiama “regola d’ora negativa”, principio ricordato dall’Antico Testamento (Tb 4,15; Sir 31,15) e anche da Confucio, la sua enunciazione è più o meno questa: “Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te”. Se il mondo vivesse questa regola sarebbe un mondo un pochino più bello, un mondo più educato, più buono, più rispettoso, non sarebbe ancora un mondo cristiano, ma sarebbe un mondo già più bello.

Molti si fermano a questo primo passo, sono persone educate, rispettose, ma rimangono persone del Vecchio Testamento, non hanno ancora conosciuto la novità del Vangelo di Gesù che abbiamo appena ascoltato…, a proposito Gesù oggi ha iniziato il suo discorso con una frase molto forte che non vorrei che ci sfuggisse: “A voi che ascoltate, io dico…”, ascoltare Gesù significa mettersi completamente in discussione, non si può ascoltare Dio e far finta di niente… e vivere come se non l’avessimo ascoltato… non possiamo oggi tornare alle nostre case, alla nostra vita di sempre e vivere come se non avessimo ascoltato quello che invece abbiamo ascoltato…

“A voi che ascoltate io dico:…… ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”. Ecco il Nuovo Testamento, ecco il Vangelo, ecco quella diversità che Gesù oggi ci impone: “Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto”. 

“Cosa fate di straordinario?” (Mt 5,47). Il Verbo di Dio non è venuto dalle altezze insondabili del Cielo alla nostra bassezza e si è fatto mettere in croce perché noi fossimo semplicemente delle persone educate, per quello basta il VT o essere un pochino più riflessivi oppure basta leggersi Confucio per arrivare ad essere delle persone educate. È straordinariamente grande invece quello che ci chiede Gesù: “ ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”. A questo Confucio non poteva arrivarci…

“Fare agli altri…”, cioè amarli così come vorrei essere amato io! Che principio morale! Ecco allora che la mia esperienza personale diventa maestra d’amore, m’insegna ad amare, la mia vita stessa dunque mi aiuta a capire come fare per amare: quella delicatezza, quella discrezione, quella comprensione, quella bontà, quella misericordia di cui vorrei sempre essere oggetto io, ecco, bisogna che io la usi con gli altri per farli felici. Amare come vorremmo essere amati noi… Se ognuno amasse gli altri così, il mondo sarebbe presto un paradiso terrestre!

Quanto amore ci vuole per amare così? Tonnellate d’amore! e chi ce le dà? Come possiamo amare così? Gesù ci ha amato e ci ama così! Ma noi non siamo Gesù, direbbe qualcuno. Sì, è vero, noi non siamo Gesù, e questo ci rattrista profondamente perché, in fondo in fondo, tutti vorremmo essere buoni come Gesù, tutti. A chi di noi non piacerebbe essere buono come Gesù? A chi non piacerebbe? Ma non lo siamo, non siamo buoni come Gesù né come Maria… E talvolta siamo proprio tanto cattivi, talmente cattivi che abbiamo paura di conoscerci per non vedere la nostra cattiveria, la nostra malizia.

Carissimi fratelli e sorelle, Paolo oggi ci ha parlato di due eredità che abbiamo ricevuto tutti, una da Adamo e una da Gesù. Sono due eredità presenti in tutti noi, sono nostre entrambe, tutte nostre. 

Da Adamo abbiamo ereditato l’“uomo vecchio”  (Ef 4,22; Rm 6,6; Col 3,9), la “donna vecchia”, questa è un’eredità pesante, questa eredità ci permette tutt’al più, con un po’ di sforzo e di buona volontà ad essere delle persone educate e rispettose degli altri. Ma è così difficile! Abbiamo ricevuto un “cuore di pietra” (Ez 11,19; 36,26) incapace di aprirsi all’amore, un cuore invidioso, meschino, chiuso nelle sue paure, un cuore arrogante e superbo che si apre solo per ricevere e mai per dare e se dà qualcosa, prima calcola il tornaconto che ne avrebbe. Questa eredità l’abbiamo tutti, si tratta di quel cuore di cui parla Gesù quando dice: “…dal cuore dell’uomo, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultéri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo”  (Mt 7,21-23).

Quanti preferiscono non guardare questa eredità, preferiscono lasciare sommersa la propria cattiveria e malizia come se non ci fosse, perché fa troppo male rendersi conto di questa realtà e quando poi emerge qualcosa di veramente brutto, ecco che ci si stupisce di noi, ci si meraviglia: “Ma io ho fatto questo? Come ho potuto farlo?” e poi ci sono le tragedie angoscianti dell’incapacità di accettare di aver sbagliato, di aver peccato, di essere stati cattivi e maliziosi. Piuttosto che stupirci sarebbe meglio incominciare a prendere coscienza in profondità di questa eredità e fare in modo di tenerla sotto controllo, come disse Dio a Caino“Il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dòminalo” (Gen 4,7). 

Ognuno di noi deve fare i conti con queste passioni tenebrose del nostro cuore. Per prima cosa è necessario prendere coscienza di avere un fondo di cuore sporco. Le radici dei sette vizi capitali sono tutte presenti in ciascuno di noi: ira, lussuria, gola, avarizia, superbia, accidia, invidia, sono presenti in radice in tutti, uomini e donne. Per combattere queste forze che ci bloccano nell’amore e ci impediscono di amare come dovremmo e vorremmo, si deve per prima cosa accettare di averle, accettare di avere un cuore sporco, non limpido. Questo non significa che dobbiamo approvarlo, no certamente, non possiamo approvare certi moti così tenebrosi e maliziosi del nostro cuore, ma dobbiamo accettarli nel senso che sappiamo di avere questi moti tenebrosi, ne prendiamo consapevolezza, riconosciamo di avere questa malizia, per cui non siamo stupiti di tanti movimenti interiori cattivi, non ci dobbiamo spaventare di fronte al nostro cuore cattivo, ma dobbiamo avere il coraggio di prenderne consapevolezza e quindi presentarlo a Gesù perché operi il divino trapianto (cfr. Ez 11,19-20; 36,26-27). Gesù non illuminerà le nostre tenebre se noi non gliele presentiamo, non purificherà le nostra malizie se noi non gliele mostriamo, non guarirà le nostre fetide ferite se noi non gliele scopriamo perché Lui le possa medicare. È quindi necessario innanzi tutto che ce ne rendiamo consapevoli per poterle presentare a Gesù ed essere guariti, sanati, illuminati, purificati, fatti nuovi dalla potenza dell’Amore di Gesù che ci trapianta il suo Sacratissimo Cuore.

Noi, infatti, non abbiamo ricevuto solo l’eredità di Adamo, ma abbiamo ricevuto anche un’altra eredità ben più preziosa della prima, abbiamo ricevuto l’eredità di Gesù (cfr. Rm 817), “il Primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29), abbiamo ricevuto come nostra eredità e quindi come nostra proprietà personale, il suo Cuore, la sua capacità di amare come Lui ha amato noi. 

Gesù sarebbe stato veramente cattivo se ci avesse comandato di essere buoni come è buono il Padre e come è buono Lui, se non ce ne avesse anche dato la capacità di esserlo! Ma Lui ce lo comanda appunto perché ci dona la capacità di attuarlo. Noi possiamo amare così, Lui lo sa, per questo è esigente con noi, perché vuole far uscir fuori da noi il massimo. Gesù ci chiama al massimo non al minimo, noi possiamo fare di più, possiamo dare di più, possiamo amare di più, perché Lui ci strappa via dal petto quel cuore di pietra e ci mette al suo posto un Cuore di carne, il Suo (cfr. Ez 11,19-20; 36,26-27)! Ma questo trapianto divino non è immediato e magico, ma è lento e doloroso perché il vecchio cuore di pietra lotta per non essere strappato via. È un trapianto che avviene nel dialogo delle due libertà: la nostra e la Sua, se noi Lo lasciamo fare e gli permettiamo di entrare in profondità nella nostra anima, Lui piano piano, per mezzo del suo Santo Spirito, riversa in noi tutto l’Amore del Padre (cfr. Rm 5,5), tutto quell’Amore con cui Lui è amato dal Padre e con cui Egli stesso ama il Padre e nel Quale sono Uno nella Trinità, la pienezza di quell’Amore viene riversato nel nostro povero e piccolo cuore che diventa così ogni giorno più capace di amare, di dare amore e quindi di amare come ci ha amato Gesù, perché è lo stesso identico Amore di Gesù che opera in noi.

Concludiamo guardando Maria, guardiamola nella sua perplessità di fronte alla missione straordinaria di essere Vergine e, nello stesso tempo, Madre, “come è possibile?”(Lc 1,34) si chiese, è la stessa domanda che emerge nel nostro cuore di fronte al comando di amare come Gesù, come è possibile amare così? Uniamo la nostra voce a quella della Santa Vergine e con Lei crediamo alla potenza di Dio al Quale “nulla è impossibile” (Lc 1,37) nella nostra vita se come Maria diamo a Lui il permesso di agire. Allora vedremo anche noi come Lei le “grandi cose” (Lc 1,49) che Lui è capace di fare in chi si abbandona in Lui e si lascia lavorare da Lui con semplicità di fede e d’amore.  

Amen.     j.m.j.

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Undicesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno “C”              Omelia

“Simone ho una cosa da dirti…”

Carissimi fratelli e sorelle,

dopo le Solennità dell’Ascensione, di Pentecoste, della SS.ma Trinità e del Corpus Domini, ecco oggi una normale domenica del Tempo per Anno o Tempo Ordinario, con il suo colore verde che ricompare nelle nostre assemblee liturgiche. Riprendiamo così il cammino dietro a Gesù, ascoltando con amoroso interesse quanto di Lui ci narra l’evangelista Luca.

Tutti conosciamo a memoria l’episodio lucano che abbiamo appena ascoltato, di questa donna – “una peccatrice di quella città” – che entra non invitata in quella casa e bagna di lacrime i piedi di Gesù riempiendoli di baci e ungendoli di profumo. È una pagina che si presta ad una gustosa contemplazione, proviamo ad entrarci dentro con un po’ di fede e tanto amore e vediamo cosa vorrà comunicarci il Signore.

Vorrei però che fermassimo la nostra attenzione orante non tanto su quella donna così determinata nel suo gesto d’amore per Gesù che tanto si compiacque di lei da perdonarle tutto, quanto su Simone, il fariseo che invitò a casa sua Gesù. Infatti egli ha tante cose da dire al nostro cuore, cerchiamo di coglierne alcune.

Simone era un fariseo, faceva cioè parte del gruppo religioso più pio degli ebrei che sapeva di possedere l’ortodossia della fede ebraica (cf At 23,8). I farisei erano fortemente tentati di ipocrisia (dire e non fare) e di spirito di superiorità, ma non dobbiamo pensare che fossero tutti degli ipocriti, anzi all’inizio del cristianesimo diversi di essi si convertirono e tra essi spicca in particolare san Paolo.

Chissà per quale motivo Simone aveva invitato Gesù, forse per esaminarLo, giudicarLo, sta di fatto che Lo invita, ma non ha per Lui quelle comuni attenzioni che ogni buon ebreo ha usualmente per l’ospite: non L’ha unto di profumo, non Gli fatto lavare i piedi dai suoi servi, non L’ha baciato, come Gesù stesso gli rileverà nel contesto dell’episodio. 

Vedendo entrare quella donna, per lui “donnaccia più che donna, e vedendola trattare così familiarmente Gesù, si convinse che quell’uomo non poteva proprio essere il Messia. Povero Simone come poteva sapere che Dio fosse così diverso dall’idea comune? La Legge, donne come quella le biasimava! Come poteva immaginare che Dio venisse incontro alle miserie umane fino a sporcarsi del nostro putrido fango?

E allora il buon Gesù, che amava teneramente questo povero Simone, gli offre la possibilità di un’apertura al Regno del Padre, gli regala la possibilità di incominciare a capire qualcosa di Dio e, quindi, di se stesso: “Simone, ho una cosa da dirti…” “Maestro dì pure”.

Carissimi fratelli e sorelle, che momento solenne per un’anima, quello in cui il Signore ha da lei il permesso di parlarle al cuore! Come potremmo crescere maggiormente nell’amore se dessimo più spesso a Gesù il permesso di parlarci al cuore! “Maestro dì pure”. Proviamo anche noi a fare come fece Simone, proviamo ad entrare in una chiesa o in un altro luogo raccolto e silenzioso, e proviamo a chiedere a Gesù, che sta lì desto e vivo nel cuore del nostro cuore, e diciamoGli: “Parlami pure Gesù, ecco ti ascolto”. Quante cose Egli ci direbbe e i nostri occhi si riempirebbero presto di lacrime di contrizione e di amore!

Vedete, la Parola di Gesù “è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v'è creatura che possa nascondersi davanti a Lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a Lui noi dobbiamo rendere conto” (Eb 4,12-13).

“Maestro, dì pure” e il Maestro, il buon Maestro, non si lascia attendere: Gli è stata socchiusa la porta dell’anima e Lui ora cerca di illuminarla e di fare in essa verità.

La Chiesa ha voluto mettere come parallelo di questo episodio, un altro del VT che tratta di Davide e del suo peccato (aveva fatto uccidere il buon Uria perché non si scoprisse che era diventato l’amante di sua moglie). Davide, ascoltando dal profeta Natan il racconto di un uomo ricco che ruba e uccide un capretto ad un poveraccio che aveva solo quello, si arrabbia a morte contro quel ladro di capretti, perché ritiene che abbia fatto una cosa altamente ingiusta!

Davide come Simone che buoni giudici che sono! Giudici giusti, severi e implacabili. Bisogna che quell’inflessibilità ammantata di giustizia che copre la propria coscienza e soffoca così i suoi rimproveri scaraventandosi sugli altri, sia smontata dalla verità, c’è bisogno di un po’ di luce che faccia verità, ed ecco il buon Dio manda Natan all’infuriato Davide che viene subito smontato da quella frase così bella, forte, concisa e ricca di verità: “Tu sei quell’uomo!”. Cioè: “Tu sei quell’uomo per il quale ti stai infuriando! Tu sei quell’uomo che stai ora odiando! Tu sei quell’uomo, non prendetela con nessuno: tu sei quell’uomo, sei proprio tu! Perché tu che ti fai giudice di tutti, hai fatto fuori Uria per toglierGli la moglie: tu sei adultero ed assassino! Altro che quell’altro che s’è mangiato il capretto del povero vicino! Tu sei quell’uomo!”

Ed ecco che a Simone, Dio manda non un profeta qualunque, ma suo Figlio, il suo Figlio Unigenito, Gesù Cristo nostro Signore che gli dice: “Simone, ho una cosa da dirti!”. “Maestro dì pure”, Gli risponde Simone e la luce incomincia ad entrare nella sua anima e da giudice inflessibile diventa imputato condannato: “Tu non m’hai dato l’acqua per i piedi… tu non mi hai dato un bacio… tu non mi ha unto di profumo… come fai ad essere così severo con lei quando tu sei stato così maleducato con me?”.

Alle volte penso, trasponendo quest’episodio ai nostri giorni: ma se in una nostra assemblea domenicale entrasse veramente una donna come questa e andasse a leggere all’ambone, non dico tanto la Parola di Dio, ma anche solo le intenzioni dei fedeli, quali sarebbero le reazioni dei nostri bravi parrocchiani della domenica? Come la guarderebbero? Cosa direbbero?

Ma torniamo al nostro Gesù a casa di Simone, ad un livello di lettura più profondo, possiamo leggere nei tre rimproveri di Gesù l’invito rivolto a tutti e a ciascuno di noi a ravvivare la nostra relazione d’amore con Lui. Nascosto nel primo rimprovero possiamo, infatti, scoprire l’invito ad una fede più viva: “Tu non mi hai dato l’acqua per i piedi” , cioè: “Tu non hai riconosciuto la mia dignità di Dio, Io sono veramente Dio e sono vivo e presente in te, riconosci questa mia presenza nella tua vita? o vivi senza che essa abbia un influsso reale sulla tua esistenza?”. 

“Tu non mi hai dato un bacio…”, cioè:  “tu non hai avuto fiducia in me, tanto da comprometterti con un bacio, e così non hai permesso che Io ti baciassi”. Possiamo leggere qui la mancanza dell’affidamento a Gesù, cioè la nostra sotterranea incredulità alle sue promesse, la nostra ritrosia a lasciarsi amare da Lui, a lasciarsi abbracciare da Lui, a permettere alla sua grazia di agire in noi, a lasciare a Gesù il ruolo di protagonista della nostra storia, a dare a Gesù il timone della nostra vita.

“Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato”, cioè: “tu non ti sei speso per me, mi hai dato il minimo, ma ti sei guardato bene di darmi il di più”. Il profumo versato, costosissimo, è simbolo della vita totalmente donata, offerta, ceduta, consegnata al Signore con gioia ed entusiasmo.

E così anche noi, che ci siamo accostati con un senso di contrarietà e antipatia verso questo povero Simone, scopriamo, come Davide, che quell’uomo siamo noi, perché siamo noi che aderiamo in verità così poco a Gesù e alle esigenze del suo Vangelo, siamo noi che ci affidiamo così poco a Gesù e alle sue promesse, e siamo noi che amiamo così troppo poco questo nostro Gesù che troppo e di più ci ha amati! 

Ma, se veramente dessimo a Gesù il permesso di parlarci al cuore, di quante meraviglie di grazia diverremmo testimoni! La sua divina luce farebbe verità e ci conosceremmo nella verità e piano piano, con la forza della preghiera e l’incessante ricorso ai Sacramenti, Lui farebbe pulizia dell’uomo vecchio che è in noi e piano piano comincerebbe a crescere e maturare l’uomo nuovo, la donna nuova (cf Ef 4,24).

L’abbiamo sentito Paolo oggi, no? “Non sono più io che vivo, ma è Gesù che vive in me e questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me”

Fratelli e sorelle, tutto inizia da lì, da quando, cioè, diamo a Gesù il permesso di parlarci e di entrare con potenza nella nostra vita. Non facciamo l’errore di aspettare che ci faccia cadere da cavallo e ci obblighi così ad ascoltarLo, come fece con Paolo (cf At 9,1ss), non tentiamo il Signore con la nostra tiepidezza, ma andiamo incontro a Lui con cuore innamorato e cerchiamo nel silenzio del cuore la sua presenza e la sua voce.

La Vergine Maria, nostra Madre e Maestra, ci aiuti a non aver paura del silenzio e di quanto in esso possa dirci Gesù, e ci dia di saperLo ascoltare con intima gioia e rinnovato amore.

j.m.j.

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Dodicesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                                    Omelia

“CHI SONO IO PER TE?”

 

Carissimi fratelli e sorelle,

Luca oggi ci ha mostrato Gesù in un atteggiamento che tanto egli aveva a cuore di comunicarci nel suo Vangelo, ci ha mostrato Gesù mentre era in preghiera. Luca ci mostra spesso Gesù in preghiera, soprattutto prima degli eventi più importanti, Luca ci mostra sempre Gesù in preghiera quando deve fare qualcosa di importante: al battesimo di Giovanni (3,21), prima di chiamare i Dodici (6,12), alla Trasfigurazione (9,29), prima della passione (22,41ss), sulla croce (23,34.46). Quando Gesù pregava doveva aver un fascino particolare, colpiti dalla sua preghiera i discepoli Gli chiesero di insegnar loro a pregare (11,1) e Lui insegnò loro il “Padre nostro”.

Da come Luca espone il racconto sembra che in questa circostanza Gesù pregasse insieme ai suoi apostoli: “Un giorno, mentre Gesù si trovava in un luogo appartato a pregare e i discepoli erano con lui, pose loro questa domanda…”. La domanda che Gesù pone loro quindi la pone in un contesto di preghiera, gli apostoli stanno pregando con Gesù e si sentono chiedere: “Chi sono Io per la gente?”, le loro risposte suonano più o meno tutte così: “Un grande uomo… un grande profeta…”. Come possiamo vedere le risposte di ieri sono praticamente identiche a quelle di oggi. Il personaggio “Gesù” è rispettato e stimato da tutti, anche dai musulmani, dai buddisti, dagli induisti, chiunque si imbatte in Lui non può non rimanere soggiogato dalla bellezza della sua personalità e del suo Vangelo.

Ma Gesù in quel clima di preghiera sposta la domanda generica a un tu per tu personale: “E chi sono io per voi?… chi sono io per te?”. Gesù ha aspettato del tempo prima di fare questa domanda ai suoi apostoli, è stato con loro del tempo, ha permesso loro di ascoltarLo pubblicamente e soprattutto in privato quando spiegava loro i misteri del suo Regno (cf Mc 4,34), hanno visto tanti suoi miracoli, gli zoppi camminare, i ciechi vedere, i sordi udire, i morti risorgere (cf Lc 7,22)… e ora chiede loro: “Chi sono io per voi?… chi sono io per te?”. Pietro dà la risposta per tutti: “Il Cristo di Dio”, cioè “l’Unto del Signore”, il “Messia”, cioè Colui che Dio aveva mandato con una missione di salvezza per Israele.

La risposta di Pietro e degli altri è vera, Gesù è veramente l’“Unto di Dio”, ma questa verità calata nella loro mente ristretta assume poi le connotazioni proprie dei loro pregiudizi, dei loro desideri e speranze personali fino a falsarla del tutto. Erano infatti convinti che Lui fosse Colui che Dio aveva mandato a mettere a posto tutti, tutti i cattivi al muro e, soprattutto, i Romani a casa loro e Israele a risplendere di gloria e potere. Questi erano più o meno le loro idee sul “Messia”, idee totalmente sbagliate, ma vedete quanta pazienza ha Gesù con loro, come piano piano cerca di raddrizzarle e di educarli a quella verità così scomoda e faticosa da capire per loro e cioè che questo benedetto Messia non avrebbe regnato mica su un trono umano con loro a destra e a sinistra seduti con Lui a governare il mondo, il suo trono non era simile a quello di Cesare o di Erode, il suo trono sarebbe stato un trono specialissimo che mai potevano immaginare: Una croce! E così che inizia l’ultima parte del viaggio di Gesù verso Gerusalemme, prima di girarsi “decisamente verso Gerusalemme” (Lc 9,51), Gesù comincia a dire loro che «il Figlio dell'uomo deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, esser messo a morte e risorgere il terzo giorno». Nei Vangeli si contano tre annunci della prossima passione che Gesù fa ai suoi apostoli dopo avere fatto questa inchiesta su cosa pensa la gente di Lui e cosa pensano gli apostoli, in realtà è molto più probabile che questi discorsi sulla sua prossima umiliante sofferenza e morte di croce fossero molti di più, riportandone tre gli evangelisti vogliono esprimere il fatto che Gesù ne parlò abbastanza, non così una volta per caso e neanche due, ma tre, un tre che qui assume il valore di molte volte. Quanta pazienza dovette avere Gesù con i suoi apostoli che non volevano capire quello che non piaceva loro! La storia si ripete sempre: ciò che non piace al cuore trova mille ostacoli per non essere recepito dalla mente. 

Gesù spiegava loro come stavano le cose, le sue cose, le cose di Dio nella preghiera, in un clima di preghiera per insegnarci che se vogliamo conoscere i misteri di Dio, le cose di Dio dobbiamo prima di tutto metterci in un clima di preghiera senza la quale nessuna verità può essere capita né dal nostro cuore né dalla nostra mente.

Se pregassimo di più e evitassimo di parlare senza aver prima pregato, diremmo meno sciocchezze e capiremmo molte più cose, il Signore regala la sapienza solo ai suoi amici e gli amici di Dio sono le persone che pregano. Che cosa assurda parlare di Dio, parlare della Chiesa, parlare del Vangelo senza aver mai pregato sul serio, senza essersi mai fermati a lungo a interrogarsi in preghiera davanti ai misteri della nostra vita e davanti alla domanda inquietante che Gesù puntualmente fa a ciascuno di noi: “Chi sono io per te?” 

La risposta a questa domanda è decisiva per la nostra esistenza, in base a come risponderò ne varrà della mia realizzazione piena o del mio fallimento totale, della mia gioia piena o della mia frustrazione totale. Chi è Gesù per me? 

Zaccaria ci ha parlato di “uno spirito di grazia e consolazione” che il Signore avrebbe riversato sul suo popolo, questa grande consolazione di Dio viene tuttora riversata nel cuore di tutti coloro che sanno rispondere a questa domanda con sincerità e verità d’amore: “Gesù è Colui che abbiamo trafitto per i nostri peccati”, quale più grande consolazione può inondarci, sommergerci, invaderci che questa di sapere che “Gesù ha dato se stesso per noi” (Tt 2,14; Ef 5,2) che “Gesù mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Quale consolazione il Padre riversa su di noi quando guardiamo Colui che abbiamo trafitto”

Come si fa a capire questo mistero senza pregare? Lui muore per me…, Lui viene trafitto per me…, e io vengo consolato? e io gioisco? come è possibile questo? come è possibile che nel momento in cui io mi assumo la responsabilità della sua morte, venga consolato? come è possibile che nel momento in cui io riconosco di essere colpevole della sua morte, venga consolato? come è possibile tutto questo?

È possibile perché Lui muore d’amore, d’amore per me, dissanguato d’amore per me, non poteva amarmi di più, mi ha amato fino all’ultima goccia di sangue che spremette – per così dire – dal suo cuore morto che si fece spaccare perché capissimo bene che non aveva più amore da spendere per me (cf Gv 19,34).

Quale grande consolazione è dunque questa sua morte d’amore, ma come è difficile godere questa consolazione…, com’è difficile riconoscere che Lui è lì appeso al legno “per i miei peccati, per strapparmi da questo mondo perverso” (Gal 1,4) perché ci piace così tanto questo mondo, ci ha conquistato così bene il nostro piccolo cuore che è tutto preso dalle cose di questo mondo e come possiamo essere dunque consolati da Dio, come possiamo “piacere a Dio?” (Rm 8,8) se “amiamo il mondo” (cf 1Gv 2,15-17). Carissimi fratelli e sorelle, sappiamo bene quanto è difficile riconoscere che siamo dei poveri peccatori bisognosi di essere salvati e redenti, sappiamo bene quanto spesso ci riempiamo la mente di ragionamenti fasulli per non ammettere l’evidenza, e cioè che siamo poveri peccatori bisognosi di salvezza, bisognosi di Gesù, perché troppo superbi, troppo arroganti, troppo pieni di noi stessi e cioè pieni di vuoto, anzi quanto più spesso oggi siamo pieni di sottovuoto spinto!

E noi, noi che abbiamo la gioia di guardare Colui che abbiamo trafitto, di guardarLo con amore stupito e commosso per tanta immensità d’amore, non possiamo non chiederGli: “Signore Gesù tu mi hai amato così tanto… e io… e io…in che modo posso ricambiare questo amore?” Quando il cristiano, la cristiana si pone questa domanda nasce l’uomo nuovo, nasce la donna nuova, quel germe di vita nuova che era stato ricevuto nel santo Battesimo rimane lì, nel fondo dell’anima, addormentato senza produrre frutti, senza svilupparsi, senza crescere perché gli manca l’acqua del nostro amore personale, ma quando nasce nel nostro cuore questa domanda, “…ma io come posso amarTi, Tu che mi hai amato così tanto?”, allora quel piccolo germe incomincia a crescere e inizia così la vita nuova del credente che comincia a cambiare mentalità rifiutando la mentalità del mondo per assumere la nuova mentalità del cristiano che è tale solo quando ha capito che la sua vocazione d’amore è portare la sua croce come Gesù, con Gesù e per amore di Gesù.

Carissimi fratelli e sorelle quanta fatica fa quel piccolo germe per poter crescere! Quanta fatica! Eppure quel piccolo germe, piccolo piccolo che abbiamo ricevuto nel santo Battesimo è Gesù…, è Gesù! “Ci siamo rivestiti di Cristo…” (seconda lettura), il termine “rivestire” non rende bene il pensiero di Paolo perché non si tratta di un rivestimento esterno, di un abito esteriore: quanti cristiani di cristiano hanno solo qualche abito! qualche esteriorità e nulla di più! Ma com’è che “non riconosciamo che Gesù Cristo abita in noi?” (2Cor 13,5) e Gesù che in noi deve crescere, e per farLo crescere dobbiamo accettare di diminuire (cf Gv 3,30) fino a “perdere la nostra vita” (Vangelo) per poter esperimentare con somma gioia e pace che non siamo più noi a vivere ma Gesù (cf Gal 2,20).

La Vergine Maria che rivestì di umanità il Verbo di Dio che in lei si fece carne, ci aiuti e ci insegni a lasciarci rivestire intimamente di Lui, nei sacramenti della Chiesa, per vivere la pienezza della gioia dei figli di Dio.    Amen.                                                             j.mj.

 

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Tredicesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C             Omelia

«Lascia che i morti seppelliscano i loro morti»

Carissimi fratelli e sorelle,

il contesto del Vangelo odierno coglie il Signore Gesù in uno dei momenti chiave del Vangelo di Luca, si tratta dell’inizio del grande viaggio di Gesù verso Gerusalemme, dopo l’inizio entusiasmante della sua predicazione svoltasi nella Galilea, ora lascia la Galilea per dirigersi verso Gerusalemme: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, egli si diresse decisamente verso Gerusalemme…», letteralmente avremmo dovuto tradurre “Gesù indurì il suo viso camminando verso Gerusalemme…” oppure “Gesù si diresse a muso duro verso Gerusalemme…”.

Si tratta di un momento fondamentale dell’Opera Lucana (Vangelo e Atti degli Apostoli), infatti Luca orchestra il tutto sullo schema del “viaggio”: il Vangelo è il viaggio di Gesù da Nazareth a Gerusalemme, gli Atti sono il viaggio della Chiesa da Gerusalemme ai confini del tempo e del mondo. Non si tratta di due viaggi diversi, ma dell’unico viaggio del Figlio di Dio che ancora oggi viaggia nella sua Chiesa e attraverso la sua Chiesa per raggiungere ogni persona.

Compiuta con grande entusiasmo di folla la sua predicazione nella Galilea, ora Gesù si dirige “a muso duro” verso Gerusalemme dove sa, sa bene cosa l’aspetta… l’aspetta una Croce! Poteva mai sorridere iniziando il suo viaggio verso quella Croce? Poteva mai cantare allegramente andando verso di essa? E così si volge decisamente verso Gerusalemme, “a viso duro” con il cuore traboccante d’amore per ciascuno di noi, in quello sguardo duro c’è tutta la concretezza dell’amore di Gesù per noi, un amore concreto, tangibile, fattivo, fermo, deciso, fedele perché appunto frutto di una decisione precisa, soppesata, voluta e offerta. L’amore necessita di questa dimensione per essere autentico e vero e non falso, effimero, evanescente.

Per l’amore che ci portava, Gesù si diresse a “viso duro” incontro alla morte desiderando ardentemente (cf Lc 22,15) di regalarci la vita. Chiunque vuole imparare l’amore vero deve imparare da Gesù quel “viso duro” senza il quale l’amore svanisce alla prima piccola prova. Chi come Lui vuole amare deve essere deciso, sapere quello che vuole e quello che l’aspetta, l’aspetta la morte, infatti non si può amare senza morire per chi si ama, chi vuole a tutti i costi vivere e insieme vuole anche amare non imparerà mai ad amare! 

«…mandò avanti dei messaggeri. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per fare i preparativi per lui…», avanti a Lui Gesù manda i suoi messaggeri per disporre i cuori all’incontro, questa è una peculiarietà dello stile di Dio che potrebbe fare tutto Lui e solo Lui e invece gode nel suscitare attorno a Sé collaborazione, partecipazione. Così aveva fatto anche prima, quando volle che Giovanni il Battista gli preparasse la strada (cf Lc 1,17; Mc 1,1), Lui desidera che le persone prima di incontrarsi con Lui s’incontrino con qualcuno che già si è incontrato con Lui, Gesù vuole essere annunciato da qualcuno prima di presentarsi al cuore della persona. Questo è anche il compito proprio della Chiesa e quindi anche compito di ciascuno di noi in quanto battezzati: preparare i cuori ad incontrarsi con Gesù, annunciando loro la visita di Gesù.

Non sempre quest’opera è fruttuosa, allora come oggi, non sempre si vuole accogliere il Signore e così quel villaggio di Samaritani non Lo volle accogliere. Qui c’è un grande mistero che impone a noi di fermarci in preghiera per approfondirlo e cercare di capirlo un pochino. È il mistero della delicatezza di Dio che manda qualcuno a bussare alla porta per non dare l’occasione di chiudere la propria porta in faccia a Dio! È il mistero della delicatezza di Dio che bussa dolcemente alla porta e potrebbe invece sfondarla! È il mistero della dignità di questo uomo così piccolo, fragile, misero, eppure così grande che può dire “NO” a Dio. Vedete carissimi fratelli e sorelle, l’esistenza dell’inferno è conseguenza di questa dignità incredibile che l’uomo ha, se l’uomo non potesse dire “NO” non esisterebbe l’inferno, l’inferno esiste a causa della nostra immensa dignità di persone che possono dire “NO” a Dio!

«…Ma essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme…», anche qui, a mio giudizio si nasconde un messaggio particolare di Luca. Infatti possiamo leggervi due motivazioni in quel “perché diretto a Gerusalemme”. La prima è quella storica: Samaritani non accettavano infatti il monopolio del culto divino esercitato dal tempio di Gerusalemme e andavano ad adorare Dio altrove nei propri luoghi sacri di culto disdegnando di recarsi a Gerusalemme. Ma c’è anche un'altra motivazione, più profonda, che non è quella storica che mosse gli abitanti di quel villaggio di Samaria a chiudere la porta in faccia a Gesù e si riferisce ai tanti, che attraverso i secoli, non avrebbero voluto accogliere Gesù Maestro e Salvatore. Questa motivazione è il rifiuto di accogliere la croce, si rifiuta Gesù perché Lui è diretto a Gerusalemme, perché Lui ti porta su un Calvario, perché Lui ti invita a portare la tua croce dietro di Lui, cioè a rinnegare te stesso (cf Lc 9,23). Così Luca vuole farci capire qual è il più grande ostacolo all’accoglienza di Gesù e qual è il più grande ostacolo alla perseveranza nello stare con Gesù: entrare nel mistero della croce, della sofferenza che ci salva, non è cosa spontanea né facile, occorre fede in Gesù e alle volte occorre anche del tempo per capire, non si capisce subito infatti questo mistero, la prima reazione è sempre quella del rifiuto, ma vedete come Gesù rimprovera severamente Giacomo e Giovanni che volevano fulminare quei samaritani? Gesù non li fulmina, è buono con loro, aspetta, aspetta che il tempo faccia capire ai tanti samaritanii della storia dell’umanità, la necessità di andare a Gerusalemme per morirvi (cf Lc 24,7), la necessità di prendere la croce e saperla portare con amore, con slancio dietro a Lui. 

La croce che il Padre ti chiede di portare dietro il suo Figlio, normalmente non si prende mai subito, all’inizio, dopo il rifiuto e la rabbia, aiutati dalla fede, la si porta con rassegnazione, con pace, poi, pian piano, portandola la si capisce di più e, aiutati dalla speranza, la si porta con dolcezza, quindi si passa, aiutati dalla carità, pian piano a portarla con amore ardente, sono passaggi, direi, obbligati dalla nostra piccolezza e miseria umana.

E lì, lungo questa strada verso Gerusalemme, ecco tre incontri di Gesù con tre persone delle quali non si dice né il nome, né come seppero rispondere alle esigenze che pose loro Gesù per essere seguito. L’intento di Luca nel proporci questi tre anonimi incontri sembra essere chiaro, vuole porre ciascun lettore del suo Vangelo davanti alle esigenze della sequela per provocarne una risposta d’amore. Non dobbiamo leggere in questi tre incontri soltanto il modello di una chiamata ad una vita di speciale consacrazione, ma occorre leggervi, con le dovute proporzioni, ogni sequela di Gesù Cristo.

Vediamo ora questi incontri, ecco il primo «Mentre andavano per la strada, un tale gli disse: “Ti seguirò dovunque tu vada”. Gesù gli rispose: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo”». 

Anche Pietro come questo Tizio un giorno dirà a Gesù: Con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte” (Lc 22,33; cf Gv 13,36) e sappiamo come Lo rinnegò subito dopo (cf Lc 22,54ss). Si tratta non di abbracciare una dottrina da predicare, ma innanzitutto di far propria l’esperienza di un emarginato, di un perseguitato, di un crocifisso. Seguire Gesù significa rinunciare ad ogni sicurezza. Quando Gesù poserà il capo sarà per morire, Giovanni l’Evangelista userà la stessa parola greca in occasione della sua morte quando “Gesù, posato il capo, spirò” (Gv 19,30). Si tratta della radicalità della povertà, non tanto intesa come assenza di beni materiali, quanto come libertà totale della persona assolutamente non condizionata da nulla, decisa a seguire il Signore Gesù veramente dovunque, libertà della persona che non cerca qualcosa dalla sequela, non segue Gesù per qualcosa che non sia Lui stesso. Seguire Gesù per Gesù, perché dopo che Lo si è conosciuto tutto il resto non conta o conta come “spazzatura” (Fil 3,8; cf Mt 13,44-46). 

«A un altro disse: “Seguimi”. E costui rispose: “Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre”. Gesù replicò: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu và e annunzia il regno di Dio” Un altro disse: “Ti seguirò, Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa”. Ma Gesù gli rispose: “Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio”».

“Seguimi!” Si tratta di un verbo all’imperativo che ci manifesta il desiderio di Gesù di avere predicatori del Regno decisi ed eroici. Gesù chiama a seguirLo. D’altra parte dove trovare la forza di “lasciare che i morti seppelliscano i morti” per annunciare il regno di Dio, se la persona chiamata non percepisse questa chiamata come un “ordine” di Gesù stesso? Non si può seguire Gesù nelle sequela più totale e radicale avventurandosi in essa solo per un pio desiderio del proprio cuore, lasciando tutto per il Regno solo perché ci piace farlo, no, occorre la percezione dell’imperativo della chiamata, come Paolo che un giorno dirà: “Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo!” (1Cor 9,16).

Queste altre due chiamate sono particolarmente fastidiose ai nostri orecchi. Infatti al contrario di come si comportò Elia con Eliseo (prima lettura), Gesù non permette a questi Tali ai quali ordina di seguirLo, non solo di andare a salutare i propri famigliari, ma non permette neanche di andare a seppellire il padre. Questo Gesù ci dà particolarmente fastidio con la sua carica di antiumanità, non è umano ciò che chiede. Gli esegeti si affaticano per spiegare che qui non si parla di morte fisica, ma che si parla di persone che sono lontane dalla vera vita (cf Lc 9,24-25), ma queste spiegazioni ammorbidenti ci convincono poco. Qualcuno ha cercato una via di mezzo nel fatto che “seppellire il proprio padre” implicava una serie lunga di usanze rituali compreso un certo periodo di lutto famigliare, e allora si interpreta il brano alla luce di un Gesù che impone di lasciar perdere il lutto per il padre, ma anche questa spiegazione ci convince poco.

Poiché questa frase di Gesù è fastidiosa, essa non lo è casualmente, ma volutamente, qui il Signore Gesù vuole darci fastidio perché entriamo dentro questo fastidio e scopriamo il messaggio di rivelazione che vi è nascosto. Cosa si nasconde dietro questo imperativo disumano di Gesù a questo tale? Si nasconde il desiderio di Gesù che noi ci affidiamo totalmente e assolutamente a Lui, desiderio che noi lo mettiamo realmente e non relativamente al primo posto e se Lui è al primo posto, potrà chiederci tutto, ma proprio tutto, anche di non seppellire i nostri cari, anche qualche altra cosa che apparentemente sembrerebbe disumana perché implica dei sacrifici eroici, Lui può chiederci anche questo e può chiedercelo, può ordinarcelo perché Lui ci ha amato oltre ogni umana misura e avendoci amato così può pretendere da noi un amore più grande delle nostre stesse possibilità, del nostro stesso cuore. Certe esigenze chiare, forti, crocifiggenti, imperative per ogni buon cristiano, il mondo non le potrà mai capire perché non ha conosciuto quell’immensità d’amore con cui Lui ci ha amato! Tanti “non è giusto!” che si alzano di fronte a certi pesi, sono dovuti proprio a questa non conoscenza dell’amore di Gesù. D’altra parte, poi, se Lui ci ordina di portare dei pesi umanamente eccessivi, se Lui ci ordina di assumerci delle croci pesanti e dolorose che il mondo sfugge con facilità, lo può fare non solo perché Lui ci ha amato in un modo umanamente eccessivo, ma anche perché Lui ci ha donato di essere non semplicemente dei poveri e deboli uomini, ma dei figli di Dio come Lui, con la relativa capacità di amare alla divina e non semplicemente alla umana. Si tratta, cioè, di quella “vita secondo lo spirito” di cui oggi ci ha parlato Paolo (seconda lettura) che coloro che vivono secondo la carne non possono capire né tanto meno vivere (cf 1Cor 2,14).

La Vergine Maria che divenne la Madre del Verbo appunto perché credette che le fosse possibile ciò che umanamente non lo era (cf Lc 1,37), ci aiuti ad accogliere con pace e serenità tutte le esigenze difficili, pesanti, crocifiggenti del nostro essere cristiani e saperle affrontare senza paura di essere presi per stolti (cf 1Cor 1,18) o di essere emarginati da un mondo (cf 2Tm 3,12) che non può capirci perché non ha conosciuto Dio né il suo amore per noi (cf 1Gv 3,1). 

Amen.                                 

j.m.j.

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Quattordicesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                   Omelia

«È vicino a voi il regno di Dio!»

Carissimi fratelli e sorelle,

nel mezzo del suo viaggio verso Gerusalemme, dopo aver spiegato ai suoi discepoli le esigenze della sequela, il Signore Gesù invita a pregare il Padre perché “cavi fuori” operai per la sua messe, e, nello stesso tempo scaraventa letteralmente nel mondo 72 suoi discepoli per annunciare a tutti che è vicino il regno di Dio.

Luca mette in evidenza come Gesù, getti, scagli nel mondo i suoi discepoli, infatti il verbo greco usato da Luca per indicare la frase di Gesù che diceva di pregare il Padre perché mandi operai per la sua messe, in realtà andrebbe tradotto non con il verbo mandare o inviare, bensì con un verbo che indichi l’azione di estrarre fuori, cavar fuori con forza, cioè un afferrare con forza ed estrarre qualcosa da un posto dove è radicato per metterla in un altro posto

Gesù quindi strappa dal loro mondo i suoi 72 discepoli per inviarli nel mondo ad annunziare il regno di Dio e a diffondere la sua pace. 72 è evidentemente un numero simbolico che richiama i 72 popoli discendenti dai figli di Noè (cf Gen 10) che ripopolarono la terra dopo il diluvio [70 per la Bibbia ebraica, 72 per quella greca nella versione dei LXX usata dai primi cristiani e da Luca stesso]

Si tratta di una specie di grande prova generale di quello che Gesù farà definitivamente dopo la sua risurrezione ascendendo al cielo e inviando i suoi discepoli ad essere suoi testimoni fino “agli estremi confini della terra” (At 1,8)  annunziando il suo Vangelo e ammaestrando tutte le creature (cf Mt 28,19).

Questi discepoli non saranno responsabili dell’accoglienza o meno del Vangelo che sono chiamati a diffondere, c’è chi accoglierà il loro messaggio di salvezza e di pace, c’è chi non lo accoglierà, a loro viene comandato l’annunzio, hanno ricevuto questo mandato e per questo anche la forza per poterlo fare in qualunque circostanza anche avversa, nessuno li potrà fermare, è questo il senso di aver ricevuto potere contro i morsi dei serpenti e degli scorpioni. Non si tratta tanto di una immunità dai veleni di cui sono portatori questi animali, ma di una forza d’amore e di un coraggio tale che permetterà loro di “camminare sopra ogni potenza del nemico” travolgendo ogni ostacolo che il nemico di Dio porrà come intralcio lungo quelle strade che loro percorreranno per annunciare il Vangelo all’umanità.

Non si tratta quindi di un potere contro forze velenifere animalesche, ma di una capacità d’amore tale che assimilandoli al loro Maestro e Signore, li porrà nel mondo come “agnelli mansueti in mezzo a lupi”, spogliati e disarmati da ogni sicurezza e forza materiale, forti solo della forza della missione ricevuta, e avendo oramai solo uno scopo: “annunciare il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15). Questo è lo scopo della vita del cristiano – attenzione!… non solo del prete, del frate o della suora, ma di ogni battezzato –: annunciare il Vangelo, annunciare cioè a tutti che il Padre ci ha regalato la sua pace donandoci il suo Figlio, nel quale siamo consolati di tutte le nostre afflizioni. Quella grande consolazione annunziata dal profeta nella prima lettura si realizza pienamente accogliendo nella propria esistenza Gesù Cristo: “Egli è infatti la nostra pace!” (Ef 2,14).

Questo è anche il senso di quel “non salutare nessuno lungo la via” che abbiamo ascoltato e che ci dà molto fastidio. Il Signore dicendo ai 72 di “non salutare nessuno”, non vuole imporre loro di essere dei maleducati, ma semplicemente di non perdere tempo in cose inutili, quali ad esempio i lunghissimi e usuali modi di salutarsi tipici degli orientali e quindi anche degli ebrei al tempo di Gesù. Non perdere tempo perché hanno ricevuto una missione importante!

Occorre perciò che prendiamo coscienza delle implicazioni del nostro essere cristiani, della forza di quell’imperativo, di quel comando perentorio con cui il Figlio di Dio ha ordinato a ciascuno di noi di seguirLo: “Seguimi” (Vangelo e omelia di domenica scorsa) con cui ci ha strappato dal nostro piccolo mondo, ci ha strappato dalle nostre umane sicurezze e ci ha inviato nel mondo a testimoniare il suo Vangelo.

Il cristiano non potrà passare inosservato, tutti lo riconosceranno subito, tutti capiranno subito che è cristiano e se non lo capiranno e non lo riconosceranno, significherà che quel cristiano non è un buon cristiano! Ogni cristiano ha infatti, come Paolo (seconda lettura), le stigmate di Gesù, cioè i segni della Passione di Gesù. Non si tratta di quel fenomeno straordinario che il Signore ha donato a qualche santo o a qualche santa, qua e là nella storia della Chiesa, e che fa stupire le persone nel vedere impresse nelle mani, impressi nei piedi e nel costato i segni visibili e sanguinanti della Passione di Gesù, questo è un fenomeno straordinario che manifesta una realtà che è, però, ordinaria. Tutti i fenomeni straordinari mistici manifestano una realtà mistica ordinaria, una realtà implicata ordinariamente dal nostro vivere in grazia di Dio, dal nostro essere veramente e non per finta, figli di Dio (cf 1Gv 3,1), dal nostro essere realmente uniti strettamente e intimamente a Gesù che vive in ciascuno di noi come in un prolungamento della sua umanità (cf Gal 2,20). 

E così quando Teresa di Gesù, la Grande, aveva quella continua percezione nel suo spirito di avere accanto a sé Gesù che le stava accanto in tutto ciò che faceva durante la giornata, come quasi Lo vedesse con gli occhi, era un dono particolare fatto a lei che esprimeva la realtà vissuta da tutti i cristiani, di avere sempre Gesù non solo accanto a loro, ma in loro (cf Col 1,27), pur senza esperimentare nulla di sensitivo o di sensazionale.

E così quelle piaghe misteriose che hanno ferito i corpi di s. Francesco d’Assisi, di s. Caterina da Siena, di s. Rita e di altri santi e sante fino a s. Pio da Pietralcina dei nostri giorni, esprimono visibilmente quella realtà presente nella persona di ogni cristiano che è tale perché ha crocifisso il suo corpo con Gesù (cf Rm 6,3-11), infatti non si è veramente cristiani se non ci si è lasciati inchiodare alla croce di Gesù per amore di Gesù. Ogni cristiano è tale perché segnato, marchiato a fuoco dalla croce di Gesù. 

Il marchio con cui venivano tatuati gli schiavi e gli animali serviva per riconoscere subito a chi apparteneva uno schiavo o una cosa, le persone libere non venivano marchiate, non avevano padrone e facevano quello che pareva loro, quanti cristiani oggi vorrebbero essere cristiani, ma senza il marchio di appartenenza, senza le stigmate della croce, senza farsi riconoscere dal mondo che amano più di Gesù. Quanti vogliono essere cristiani, ma fare tutto quello che par loro in nome di una libertà che in realtà è schiavitù e asservimento al mondo?

Il cristiano non può nascondersi e fare quello che gli pare nell’anonimato, essenzialmente per due motivi: primo perché porta i suoi segni di appartenenza a Gesù, porta le stigmate di Gesù, appartiene a Gesù, Gesù l’ha pagato a un prezzo così alto (cf 1Cor 6,20)! Dovunque egli andrà tutti lo riconosceranno perché sarà “un agnello in mezzo a lupi”, perché “schiva come immondizia” (Sap 2,26) quanto i poveri mondani abbracciano con ardore. Il cristiano non può fare a meno di accusare il mondo di peccato, la sua accusa è muta, ma efficace, la sua accusa è la testimonianza di una vita santa che risplende di per sé come luce in mezzo agli uomini (cf Mt 5,14; Fil 2,15-16). Il cristiano “tiene alta la parola di vita” (Fil 2,16) con l’altezza della propria vita. Gesù infatti lo ha letteralmente divelto, strappato, cavato fuori con forza dal suo mondo, dalle sue abitudini, dalla sua mentalità, dai suoi sogni usando come vanga la croce, facendogli conoscere il suo amore troppo grande (cf Ef 2,4-5).

Il secondo motivo per cui il cristiano non può nascondersi, è perché ha ricevuto l’ordine, il comando di annunciare il Vangelo e non può quindi tacere senza rinunziare ad essere se stesso, il cristiano non può tenere chiuse le sue labbra, deve annunziare il Vangelo (cf Sal 40 [39],10), “guai a lui se non annuncia il Vangelo!” (1Cor 9,16), il cristiano è cristiano per annunziare il Vangelo, e il Vangelo non è una dottrina, non è un’idea astratta, il Vangelo che annunzia la Chiesa è una persona, è Gesù Cristo. È seguendo Gesù che ogni cristiano diventa annunziatore del Vangelo, indicatore di Gesù nella propria persona!

Quando i 72 ritornarono dalla loro prima missione nel mondo erano “pieni di gioia” e si riunirono attorno a Gesù a raccontare quanto avevano esperimentato: avevano visto agire la potenza di Dio attraverso la loro pochezza. Avevano esperimentato come Gesù non li avesse ingannati, avevano visto la potenza del suo nome che faceva fuggire i demoni e aveva loro aperto la strada di molti cuori. È la gioia del missionario condita di tanta fatica, tante amarezze, perché non tutti aprono la porta, molti la serrano e alcuni la sbattono pure in faccia, ma c’è sempre qualcuno che accoglie, che risponde, che ringrazia e questo riempie il cuore del missionario di gioia perché ha fatto conoscere Gesù, ogni cristiano è chiamato a sperimentare questa gioia, perché ogni cristiano è un missionario! 

“Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli”. La gioia più grande del cristiano non è quella di vedere i demoni fuggire o l’attuarsi di miracoli portentosi, la sua gioia è quella di sapere che il Padre ha scritto il suo nome nei cieli, infatti lo ha scritto nel palmo delle sue mani (cf Is 49,16), lo ha inciso nel profondo del suo cuore che ci ama dall’eternità (cf Ger 31,3; Ef 1,4-5). Si percepisce in questa frase di Gesù ai discepoli euforici per i segni prodigiosi che avevano visto, un leggero rimprovero.

Ma perché Gesù li rimprovera? Perché li vedeva entusiasti di quei segni che avevano visto e Lui invece vorrebbe che si credesse in Lui senza bisogno di altro segno oltre a quello della sua risurrezione (cf Lc 11,29-30). Lui ama e benedice la fede che non ha bisogno di vedere per credere (cf Gv 20,29), quella fede che non pretende segni (cf Lc 11,29) e che chiede solo di credere e nulla più (cf Mc 5,36; Gv 11,40), questa è la fede semplice e bella che Gesù desidera tanto accendere nei nostri cuori e la cui assenza amareggia così tanto il suo cuore (cf Lc 18,8).

Maria SSma la Vergine che fu beata perché credette “all’adempimento delle parole del Signore” (Lc 1,45), ci aiuti a coltivare in noi questa fede, una fede che matura solo nell’esperienza di un’amorosa sequela del suo Figlio e in una pronta e serena testimonianza al mondo di appartenere a Lui. 

Amen.

j.m.j

 

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Quindicesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                   Omelia

«Va, e anche tu fa lo stesso!»

 

Carissimi fratelli e sorelle,

oggi la Liturgia della Parola ci ha regalato una delle pagine più belle di Luca, una sua perla preziosa: La parabola del buon Samaritano.

Un dottore della Legge interroga Gesù su cosa si debba fare per entrare nella vita eterna, si tratta di una domanda trabocchetto, infatti gli ebrei avevano codificato le prescrizioni della Legge in centinaia e centinaia di precetti negativi e positivi, per cui sarebbe stato abbastanza facile che Gesù desse una risposta contestabile per poi accusarLo. I Vangeli ci mostrano altre occasioni in cui tentano di far dire a Gesù qualcosa di sconveniente, di erroneo per poterlo accusare, ricordiamo la questione della tassa da pagare ai Romani, in cui Gesù se ne uscì con quel “rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Mc 12,17), o quando gli portarono quella povera donna adultera e Lui li zittì tutti con quel “chi è senza peccato scagli la prima pietra” (Gv 8,7). Ma poteva il Figlio di Dio che possiede in pienezza la propria divinità (seconda lettura) essere messo alle strette da dei poveri uomini, seppur dottori della Legge?

In questa occasione Gesù non risponde direttamente alla questione postagli da questo dottore della Legge, gliela rimbalza dolcemente: “Cosa vi trovi tu scritto nella Legge?”. Abbiamo visto dalla risposta datagli, come questo dottore avesse studiato e meditato bene la Legge e ne avesse colto l’essenziale, al punto che viene elogiato da Gesù. A questo riguardo vorrei farvi osservare due cose.

La prima è come ogni persona abbia sempre una grande ricchezza interiore depositata in fondo all’anima, basta poco per farla emergere: una domanda esistenziale, un momento di preghiera e viene fuori! Bisogna dare però spazio a queste domande, dobbiamo dare spazio al silenzio della preghiera per permettere alla parte più bella di noi di emergere. 

La seconda. È come ogni volta che ci si incontra con Gesù, se l’incontro è autentico, si è spinti a scavare dentro di sé, a guardarsi dentro, a rientrare in se stessi, a cercare in sé quelle risposte che si cercavano fuori. Succede un po’ come successe a Zaccheo che era uscito di casa ed era salito sul sicomoro per vedere Gesù, ma Gesù quando passò di là, lo farà scendere giù e ritornare a casa sua (cf Lc 19,5-6).

Tornando al nostro Vangelo odierno, il dottore della Legge che voleva esaminare Gesù si ritrova esaminato da Questi. Gesù lo elogia perché aveva centrato la cosa più importante: l’amore a Dio, totale e assoluto e in esso, l’amore al prossimo. A questo punto si trova spiazzato e per “giustificarsi”, cioè per giustificare quella domanda che aveva fatto senza retta intenzione, ma solo per metterLo in fallo, pone a Gesù una nuova domanda: “Chi è il mio prossimo che devo amare?” e Gesù s’inventa a nostro immenso vantaggio la parabola del buon samaritano.

Gesù, con la sua parabola sposta la problematica che quel dottore gli poneva. Infatti alla domanda “chi è questo mio prossimo che devo amare?”, cioè quali sono le categorie di persone che sono degne di essere amate da me, Gesù risponde spostando la problematica dal “chi devo amare” al “chi è che ama veramente”.

Questa parabola possiamo leggerla sotto due livelli di significato. Il primo livello è quello semplice, chiaro, forte che risplende ad una semplice lettura del testo.

Diciamo subito che a questo livello di prima comprensione, la parabola del buon samaritano è molto provocatoria e accusatrice di quel mondo socio-culturale a cui apparteneva colui che lo interrogava, il mondo dei farisei, dei dottori della Legge e dei sacerdoti, di coloro cioè che si sentivano detentori dell’eredità spirituale di Israele.

Perché provocatoria? Perché in quella strada dove quel poveruomo fu assalito dai briganti passa prima un sacerdote e poi un levita, cioè persone che avevano un ministero di servizio al culto di Dio (i leviti erano praticamente gli aiutanti dei sacerdoti), entrambi “passano oltre” lasciando quel poveruomo nella sua disgrazia, mentre chi si ferma e aiuta il poveraccio è proprio un samaritano, cioè una persona che appartiene ad una confessione religiosa in contrasto con l’ebraismo ufficiale, considerato per questo eretico e quindi peccatore da cui stare ben lontano. 

Gesù non dice nulla sulla motivazione per cui il sacerdote e il levita non si fermarono, ma sembra lasciare supporre al lettore che non si fermarono per via del culto che dovevano andare ad officiare, se si fossero fermati ne avrebbe risentito il culto divino di cui erano incaricati. Si tenga poi presente che essendo quel malcapitato descritto come “mezzo morto”, poteva apparire morto sul serio, e il contatto con un cadavere metteva la persona in condizione di non poter espletare il culto divino e questo obbligava a sottoporsi ai riti di purificazione previsti dalla Legge (cf Lv 5,1-5). Sembrerebbe quindi dover supporre che la motivazione del sacerdote e del levita di passare oltre fosse una motivazione di ordine cultuale, di un culto però completamente staccato dall’amore, un culto esteriore che non tocca il cuore e che si attira per questo la contestazione di Gesù che è venuto ad insegnarci il vero culto al Padre e a insegnarci come Questi desidera “misericordia e non sacrificio” (Mt 9,13), cioè come Dio desidera che sappiamo amare, che sappiamo essere misericordiosi e compassionevoli e non tanto che facciamo belle liturgie e orazioni (il sacrificio era l’essenza della liturgia ebraica). Gesù ci insegna così che amare significa “farsi prossimo” di ogni persona che s’incontra.

«E la parabola ti insegna precisamente questo: come si diviene prossimo di ogni persona. 

 Nei confronti di un altro noi possiamo avere uno dei seguenti tre atteggiamenti. 

 – Atteggiamento dei “briganti”: “lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto”. È  l’atteggiamento di chi spoglia l’altro di ciò che è suo, della sua dignità, dei suoi fondamentali diritti; di chi lo percuote in ciò che l’uomo ha di più grande e più santo: i beni fondamentali della persona umana. 

 – Atteggiamento del sacerdote e levita: “lo vide, passò oltre dall’altra parte”. È  l’atteggiamento di chi è indifferente di fronte al male altrui: non lo riguarda. Egli passa oltre e dall’altra parte: alla larga, non si sa mai! È  l’indifferenza con cui il povero è ascoltato, con cui è spesso trattato negli uffici pubblici; è l’indifferenza con cui il povero è abbandonato al suo quotidiano dramma. 

 – Atteggiamento del Samaritano: è di colui che sente compassione dei bisogni altrui; se ne interessa, mettendoci del suo: del suo tempo, del suo denaro. 

 La domanda di Gesù: chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo …?”, cioè; chi è diventato prossimo di colui che aveva bisogno? Ormai ha ricevuto una risposta chiara». 

Mons. Carlo Caffarra – 12 luglio 1998 – Omelia XV Domenica del T. O. 

Quello che più colpisce in questa parabola è la cura personale e sovrabbondante con cui il samaritano si prodiga per l’uomo ferito, pagando lui l’alloggio in un albergo e assicurando che sarebbe ripassato e avrebbe pagato anche il resto se ce ne fosse stato di bisogno. È un amore veramente squisito e gratuito che non può non toccare il cuore di chiunque.

Fin qui il primo livello di comprensione sotto il quale ne soggiace un altro. La Chiesa ha sempre letto questa parabola anche ad un altro livello, più profondo. In quell’uomo diretto da Gerusalemme a Gerico vi ha visto l’umanità decaduta in seguito al peccato, non si tratta di una discesa fisica, ma spirituale, da Gerusalemme, la città santa, a Gerico, la città del peccato. Quest’uomo viene quindi assalito e ferito, ferito profondamente nella sua stessa dignità di uomo e abbandonato alla sua solitudine impotente. 

Per salvare quest’uomo “mezzo morto” è venuto nel mondo il Figlio di Dio facendosi suo prossimo, fermandosi accanto, prendendolo su di sé con infinito e gratuito amore, sporcandosi le sue vesti del suo sangue e del suo fetore, lo conduce a quella locanda che è in realtà la Chiesa, dove quest’uomo viene curato e ritrova la sua forza e la sua dignità. Il prezzo che paga, i “due denari”, è in realtà la sua Passione e morte di croce, e il suo ritorno alla locanda è indicativo del suo ritorno alla fine del mondo, quando Gesù verrà a chiudere il libro della storia umana per consegnarlo definitivamente al Padre.

Dunque, è Lui, Gesù, il Buon Samaritano che ci insegna ad amare salvandoci con la sua morte di croce, ma chi può capire a questo livello questa parabola? Solo chi può entrarci dentro con l’esperienza di una vita salvata dalla morte del non senso, del vuoto, del peccato, d’altra parte non ha detto Lui stesso che non è venuto per i giusti, i sani, i buoni, ma solo per i peccatori (cf Lc 5,31-32)? 

Ma bisogna per forza avere l’esperienza del peccato, del peccato che ti spoglia e ti atterra, per capire l’amore di Gesù per noi? No, non è necessario, Maria SSma ne è l’esempio eclatante, in quanto in Lei non ci fu peccato, eppure Lei capì pienamente l’amore del suo Gesù per Lei, amore che si era riversato su di Lei salvandola previamente. Non è quindi necessario peccare per capire l’amore di Gesù, basta infatti riflettere sulla propria fragilità e debolezza esistenziale per capire che abbiamo bisogno di essere salvati!

Ma per chi non ha grossi peccati da rimproverarsi c’è sempre in agguato la tentazione pressante di credersi giusti e quindi non più bisognosi di Gesù, in questo senso dobbiamo anche leggere quelle parole forti di Gesù :“I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno dei cieli” (Mt 21,31), parole dirette non solo ai “sommi sacerdoti e agli anziani del popolo” del tempo, ma anche a noi, uomini e donne di oggi che stentiamo a comprendere quest’amore perché presumiamo di non averne bisogno perché già santi, già buoni, già giusti, solo perché non abbiamo rubato, ammazzato o tradito il proprio coniuge… e quindi in credito, non in debito nei confronti di Dio e quindi di Gesù Cristo!

Maria Ssma, la Vergine Immacolata che seppe gioire dell’amore di Dio per Lei nella piena consapevolezza della propria “piccolezza” (Lc 1,48) e che vide il suo Figlio Divino svenato d’amore per farsi nostro prossimo e sollevarci dalla nostra situazione di morte, ci aiuti a renderci consapevoli ogni giorno di più dell’immensità dell’amore del suo Figlio per noi e a crescere nello spirito di gratitudine verso la Chiesa, mistica locanda divina dove veniamo curati e nutriti spiritualmente dai suoi sacramenti. Amen.                                j.m.j

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Sedicesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                     Omelia

Ospitare Dio!

Carissimi fratelli e sorelle, 

la Parola di Dio di questa domenica richiama un tema particolarmente caro alla Scrittura:l’accoglienza. Nella prima lettura Abramo accoglie Dio misteriosamente rappresentato da tre viandanti, nel Vangelo Marta e Maria accolgono Gesù, nella seconda lettura Paolo accoglie nella sua persona il mistero di Gesù Crocifisso, partecipando intimamente alla sua passione d’amore per l’umanità, nel salmo ci viene indicato chi sarà accolto un giorno nella tenda del Signore.

Quante cose da dire oggi! Ciascuna di queste letture meriterebbe un’omelia a parte…, cerchiamo insieme di penetrare il mistero racchiuso in questa Parola che la Chiesa oggi ha posto a nostro nutrimento spirituale.

La pagina della Genesi che ci racconta l’apparizione del Signore ad Abramo alle Querce di Mamre è una delle più suggestive di tutta la Bibbia. È da notare come i personaggi che Abramo ospita sono tre, ma questi si rivolge loro usando espressioni al singolare, come se fosse uno solo, e non il plurale… Da sempre la Chiesa vi ha letto, in questo rivolgersi di Abramo al singolare ai Tre Misteriosi Personaggi, un lontano segno di quel mistero impensabile alla mente umana che Gesù, il Figlio di Dio, ci ha rivelato e cioè il Mistero della SSma Trinità, dell’essere di Dio sussistente in Tre Persone, Padre, Figlio e Spirito Santo che non sono tre dèi, ma l’Unico Onnipotente, Infinito e Trascendente Dio Creatore del cielo e della terra e di ciascuno di noi.

È una pagina molto dolce che andrebbe letta per intero; la Liturgia, per ragioni di armonia con tutta la Parola proposta, ce ne ha offerto solo un pezzettino; gli artisti di tutte le epoche l’hanno raffigurata, e, in particolare, non possiamo non ricordare l’icona della Trinità del Rüblev.

Abramo e Sara sono ormai vecchi e sono accampati alle Querce di Mamre quando giungono a loro questi Tre Viandanti misteriosi; Abramo li accoglie con la squisitezza dell’ospitalità tipica dei popoli orientali per i quali ogni ospite è sacro; prima di andarsene via, i Tre annunciano ad Abramo la prossima nascita di suo figlio Isacco. La Liturgia ha omesso di parlarci di come, udendo ciò, Sara, essendo molto anziana, non può fare a meno di ridere scetticamente ascoltando tutto da dietro la tenda; il racconto della visita poi proseguirà con quel bellissimo e confidenziale dialogo tra Abramo e il Signore, nel quale l’Amico di Dio cercherà di dissuaderLo dal distruggere Sodoma e Gomorra.

Chi di noi non avrebbe riso scetticamente come Sara? Anche Abramo si era messo a ridere quando, ancor prima di questa visita, il Signore gli aveva annunciato che avrebbe avuto un figlio da Sara, – così racconta il libro della Genesi, un capitolo prima dell’apparizione alle Querce di Mamre – (cf Gen 17,17). 

È la tentazione più comune: affermare di credere in Dio, ma poi essere profondamente scettici su quanto Lui possa fare nella nostra vita. Quando accogliamo con amore Dio e sappiamo dare a Lui il posto che si merita in quanto Dio, Lui non mancherà di regalare anche a noi i nostri Isacchi. È bello notare come il nome Isacco voglia dire proprio Sorriso di Dio. Dio risponde con il suo sorriso, ai nostri sorrisi scettici!: 

“Io, infatti, conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – dice il Signore – progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza” – Ger 29,11.

Bisogna che apriamo di più gli occhi della nostra fede per saper riconoscere i tanti Isacchi disseminati nella nostra esistenza, lungo il percorso della nostra vita, con cui il buon Dio, Padre nostro amoroso, ci mostra il suo eterno sorriso nei nostri confronti, persone…, situazioni…, circostanze in cui Dio ci ha sorriso con amore e noi magari – distratti – non ce ne siamo accorti…

S. Paolo nella seconda lettura ci parla del mistero di un’altra accoglienza: quella di Gesù Crocifisso; accoglienza che ogni cristiano è chiamato a vivere nella propria persona partecipando con la propria vita alla Passione di Gesù per la salvezza dell’umanità. Intimamente unito a Gesù come in un solo corpo, il cristiano partecipa misteriosamente, ma realmente, con la sua vita e con la sua morte, alla Passione e Morte di Gesù. Ma quanto amore occorre per poter imitare Paolo? Vivere l’unione a Gesù Crocifisso partecipando con gioia alla sua Passione d’amore per l’umanità è possibile solo per mezzo di un amore grande, molto grande per Gesù. Solo un amore grande può realizzare quell’offerta d’amore in cui la persona si unisce a Gesù Crocifisso per la redenzione del mondo e questo amore non può germogliare e crescere finché la persona non abbia fatto l’esperienza sconvolgente di capire nella fede che veramente “Gesù l’ha amata e ha consegnato se stesso alla morte per lei” (cf Gal 2,20).

E allora la persona entra nel mistero della sofferenza e del dolore con la luce nuova che le sprigiona la conoscenza dell’amore di Gesù e impara ad assumere i travagli, i dolori, le sofferenze varie della vita e le sue umiliazioni, trasformando tutto in amore che si dona e si consegna con Colui che si è consegnato per amore suo, e la sua vita diventa così tutta una risposta d’amore al più grande amore che Gesù ha avuto per lei.

Il Vangelo poi, come la visita dei Tre Misteriosi Personaggi ad Abramo, ha dato modo agli artisti di tutti i tempi di raffigurare questo episodio così pregnante della visita di Gesù a casa di Marta e Maria di Betania.

«Profondamente sensibile al valore dell’amicizia, Gesù amava concedersi momenti di sereno riposo nella casa di due sorelle di nome Maria e Marta. Esse poi avevano anche un fratello di nome Lazzaro. Marta si preoccupa di preparare a Gesù un’accoglienza ed una tavola imbandita abbondantemente. La sorella Maria, invece, con un atteggiamento molto tipico del discepolo nei confronti del maestro, "sedutasi ai piedi di Gesù ascoltava la sua parola" e quindi non era di nessun aiuto a sua sorella. Di qui il rimprovero di Marta a Gesù perché non spingeva Maria ad aiutarla.

Gesù non tiene conto della richiesta di Marta, per due motivi. Uno, perché basta poco e non sono necessari tutti quei preparativi in cui Marta era indaffarata; secondo, perché Maria stava facendo, in realtà, la cosa più buona e più bella di cui non doveva essere privata.

Dunque il testo evangelico nel suo significato letterale ci mostra come Gesù amasse la semplicità e l’amichevole conversazione degli amici più di altre cose.

Ma il testo evangelico nasconde significati assai più profondi ed è stata una delle pagine più amate e meditate dalla Chiesa lungo i secoli. Perché? Perché in Marta e Maria essa ha visto le due attitudini fondamentali della vita cristiana, presentate nella loro gerarchia di valore.

La vita cristiana infatti è fatta di servizio attivo a Cristo, ed è fatta di ascolto, di meditazione della Parola di Cristo. Commentando questa pagina evangelica, S. Agostino scrive: "Marta, che preparava e si disponeva a nutrire il Signore, era occupata nell’attività; Maria invece scelse piuttosto di essere nutrita dal Signore". Infatti, commenta S. Gregorio Magno: "che altro rappresenta Maria, che se ne stava seduta i piedi del Signore, ascoltando la sua parola, se non la vita contemplativa? E che altro rappresenta Marta tutta presa dalle occupazioni esteriori, se non la vita attiva?" [Commento morale a Giobbe VI, 61; in Opere CN ed. Roma 1992, pag. 537]. E S. Ambrogio: “Con l’esempio di Marta e Maria ci viene messo dinanzi della prima la devozione instancabile nelle opere, e della seconda la religiosa applicazione dell’anima al Verbo di Dio” [Esp. del Vangelo sec. Luca VII, 85; in OOSA12, CN ed., Roma 1978, pag. 153].

Dunque, carissimi fratelli e sorelle, le due sorelle rappresentano l’una la carità operosa e l’altra la contemplazione amante. Ambedue sono necessarie: senza la profonda unione con Cristo, la carità diventa mera filantropia; senza il servizio agli altri, l’ascolto della Parola di Dio e la preghiera diventano vacuo egoismo spirituale. Né Marta è pregata di smettere di lavorare, né Maria di ascoltare. Esiste infatti una profonda unità: è lo stesso Cristo che tu servi ed ami in chi aiuti, e che tu contempli quando mediti e preghi.

Ma la pagina evangelica ci insegna che esiste una gerarchia di valori fra le due attitudini: "Maria ha scelto la parte migliore", dice il Signore. "La sollecitudine di Marta non è condannata, ma quella di Maria è lodata, perché se grandi sono i meriti della vita attiva, maggiori sono quelli della vita contemplativa" [S. Gregorio Magno, ibid.]» – Mons Carlo Caffarra.

Vorrei poi mettere in risalto altri due aspetti particolari. Il primo è come Marta se la prende con Gesù: vedere sua sorella che se ne sta lì a far niente ai piedi del Maestro, mentre lei è così indaffarata per Lui, la fa inquietare verso la sorella, ma non va dalla sorella a sfogarsi e a dirgliene quattro, va da Gesù… Quanto abbiamo da imparare da questo suo andare da Gesù a sfogarsi con Lui e non con la sorella. Gesù la calmerà con la sua dolcezza, le spiegherà e le fornirà gli occhi giusti per vedere meglio la sorella. Il rimprovero stesso di Gesù a Marta, con quel suo ripetere due volte il suo nome, “Marta, Marta…” è significativo di una grande confidenza e amicizia che c’era tra Gesù e Marta. Impariamo dunque da Marta, quando si creano situazioni di tensione nelle nostre comunità famigliari, parrocchiali o religiose, impariamo da Marta ad andare da Gesù a brontolare con Lui, Lui saprà come prenderci con la dolcezza della sua amicizia per farci vedere con occhi nuovi e cuore nuovo tutto ciò che ci ha creato tensione e scontento.

Infine non ci sfugga, contemplando questa scena evangelica, la gioia di Gesù nello stare a casa di questi amici che Lui amava tanto (cf Gv 11,5), come Lui gioisse di stare con loro, di godere della loro amicale ospitalità:

«Maria merita l’apprezzamento di Gesù, perché niente appaga di più Gesù del sentirsi accolto, accettato, ascoltato, capito, amato così. Maria ai piedi di Gesù non ha niente da fare, non ha niente da dire, ha soltanto da ricevere l’amore che il Signore le riversa nel cuore. Si apre per ricevere non solo tutto dal Signore, ma per ricevere il Signore stesso. Nella semplicità di un atteggiamento che, esternamente, è solo quiete e inerzia, c’è il mistero del Dio che si comunica alla sua creatura che l’accoglie».

– P. Vincenzo Tritto sj. –

Gesù cerca questa amicizia anche con noi, bussa forte alla porta del nostro cuore per chiederci ospitalità (cf Ap 3,20), è stanco e assetato (cf Gv 4,6-7) d’amore, cerca un cuore che Lo ospiti (cf Lc 2,7), che Lo accolga così com’è (cf Mc 4,36), che Lo capisca intimamente (cf Mc 15,26-27), che non fraintenda il suo linguaggio (cf Mc 8,17; Gv 19,28-29), che stia con Lui (cf Mc 3,14), che sappia seguirLo anche quando costa (cf Mt 8,22) e che così impari ad amare come Lui spendendo la propria vita per amore e nell’amore (cf Gv 13,34; Gal 2,20).

Chi più della Vergine Maria può introdurci ad una simile conoscenza di Gesù suo Figlio? Ci aiuti Lei ad accogliere l’invito che Gesù fa a ciascuno di noi di diventare suo intimo amico (cf Gv 15,14-15) condividendo con noi la sua sorte di Figlio di Dio (cf Gv 1,12). Amen.                                                  j.m.j.

 

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Diciassettesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                             Omelia

«Quando pregate dite: Padre!»

Carissimi fratelli e sorelle,

la Liturgia della Parola oggi ci ha proposto il simpatico dialogo tra Abramo, l’Amico di Dio, e Dio. Abbiamo visto con quanta confidenza Abramo insiste con Dio per fargli cambiare idea sulla distruzione di Sodoma e Gomorra, un dialogo che si ferma quando Abramo raggiunge, da 50 con cui era partito, il numero di 10 giusti la cui presenza era necessaria per salvare quelle due città dal castigo divino. Il Signore acconsente a salvare le città se in esse vi fossero dieci giusti! Quei dieci giusti non c’erano e le città furono distrutte! 

Abramo, che non ardì insistere oltre il numero 10, peccò di confidenza: non confidò fino a poter pensare che potesse bastare la presenza di un solo giusto per salvare quelle città. S. Paolo nella seconda lettura ci ricorda che è Gesù quel solo giusto che ha permesso a tutta l’umanità di pagare il proprio debito con Dio “inchiodando al legno della croce il documento scritto del nostro debito”. È bellissima quest’espressione di Paolo, Gesù “ha inchiodato alla croce il documento scritto del nostro debito”, questo vuol dire che il Corpo di Gesù, Immolato sulla croce, massacrato dalla flagellazione e dalla Via Crucis, svenato e intriso di sangue, rappresenta il “documento scritto del nostro debito” che viene tolto di mezzo per sempre, il debito è così saldato: un solo giusto ha pagato per tutti (cf Rm 5,19).

Tutta la mia confidenza in Dio è fondata lì: in quel Corpo Immolato, svenato d’amore “per me” (Gal 2,20), Corpo nudo e freddo che mani pietose staccheranno dal legno e riporranno in un sepolcro (cf Mt 27,57-60); tutta la mia confidenza in Dio è fondata su quel Corpo “tanto sfigurato da non sembrare più nemmeno un uomo” (cf Is 52,14), è questo il dono che il Padre mi ha fatto, il suo più grande dono: mi ha regalato suo Figlio (cf Gv 3,16), mi appartiene, è mio, totalmente mio e assolutamente mio per donazione d’amore del Padre e di Lui stesso che ha acconsentito con amore a questa volontà (Gv 4,34; 19,30). Mi ha consegnato il suo Figlio come “Agnello immolato (Ap 5,6), sgozzato e dissanguato, offerto come vittima d’amore per tutte le mie mancanze d’amore, “per tutti i miei peccati e non solo per i miei, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1Gv 2,1).

Questa confidenza ci permette di presentarci davanti a Dio con fiducia, senza tremare, senza velarci il volto (cf Es 3,6) e presentarci davanti a Lui “a viso scoperto” (2Cor 3,18a) perché conformati al suo volto (cf 1Pt 1,15; 2Cor 3,18b), appropriati del suo Cuore (cf Ez 11,19), dei suoi meriti (cf 1Cor 1,30), della sua figliolanza divina (cf Gv 1,12-13), del suo stesso “Spirito che abita in noi” (2Tm 1,14) e «per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”» (Rm 8,15).

Questo dovremmo sempre tenere presente quando preghiamo Dio: che possiamo presentarci a Lui con fiducia e confidenza perché “rivestiti di Cristo” (Gal 3,27) e questo sempre, anche quando fossimo i più grandi peccatori dell’universo mondo, anche quando ricadessimo sempre negli stessi umilianti peccati, anche quando la nostra vita ristagnasse nelle situazioni di peccato più squallide, possiamo sempre rivolgersi a Dio, nostro Padre, appropriandoci dei meriti del Figlio suo prediletto (cf Lc 3,22) e gustare su di noi la compiacenza del Padre che è felice di vedere noi che approfittiamo del suo dono. Carissimi fratelli e sorelle, pensate un po’ se voi stessi aveste fatto a qualcuno che amate un regalo, un regalo costoso che vi è costato molto sacrificio e l’avete regalato con tanto amore e poi, questa persona che amate mette in cantina il vostro regalo e non l’usa mai, non ci rimanete proprio male? E Dio… e Dio che ci ha regalato suo Figlio? E il Figlio che si è consegnato a noi? Come è rattristato il Cuore di Dio vedendo che noi non ci appropriamo del suo regalo e non l’usiamo? 

È nei sacramenti della Chiesa che ciascuno di noi si appropria del dono del Figlio: nel Battesimo innanzi tutto e nella sua Confermazione, nell’Eucarestia viene ravvivato e nel sacramento della confessione viene restituito, qualora lo perdessimo. Quanti ragionamenti falsi il nemico insinua nella nostra vita per tenerci lontano da quest’ultimo sacramento: Perché confessarci se poi ricadiamo lo stesso? Mi sembra di mancare di rispetto a Dio, meglio non confessarmi… non è giusto approfittare così della sua misericordia… Tutti ragionamenti falsi che, in nome dell’umiltà, ci fanno essere superbi e non approfittare del dono di Dio; è la falsa umiltà che il nemico insinua nei nostri cuori per tenerci lontano dal dono.

Se comprendessimo quanto facciamo piccolo Dio quando lo misuriamo con le nostre categorie umane! Lui è buono, benevolo, compassionevole e non si stufa delle nostre ricadute se ogni volta ritorniamo a Lui, Lui ci accoglie non una, non diverse volte, sempre… perché siamo suoi figli:

«Non misurare Dio alla tua piccolezza immaginandotelo come Lui non è, perché così facendo Gli faresti un grande torto e oltraggio. Se non osi andare a chiederGli perdono quando manchi nei tuoi buoni propositi e sei tornato ai peccati di prima, stai impicciolendo a tua misura la misericordia di Dio, come se Dio fosse un pover’uomo come te, pensi che Lui sia come noi e che si stanchi di tanta tua instabilità, fiacchezza e dimenticanze e che per questo si vendichi dei tuoi peccati, levandoti gli aiuti e lasciandoti cadere in maggior rovine e forse credi anche che, con le tue colpe, Gli impedisci di farti delle grazie. 

Ma questi ragionamenti sono sciocchi, degni della nostra ignoranza umana, ma non degni di Dio!  No, non è tale il nostro Dio!  Dai a Dio ciò che Gli conviene e, cioè, l’essere Lui buono, misericordioso, compassionevole, Padre amorevole che ci tollera e ci perdona. Se tu hai questo concetto di Lui, Egli si lascia obbligare ad usarti misericordia» – Venerabile P. Pio Bruno Lanteri.

Ecco, questo dobbiamo tenere presente quando preghiamo il Padre così come il suo Figlio Gesù ci ha insegnato e se questo concetto di Lui sarà ben stampato nel mio cuore, allora come potrò non commuovermi chiamandolo “Padre”; sappiamo di san Francesco che non riusciva a proseguire la preghiera del Padre nostro perché a “Padre” andava in estasi pensando al suo amore per noi.

Se noi veramente fossimo consapevoli di questa immensità di amore che il Padre riversa su di noi (cf Rm 5,5) come non reciteremmo questa preghiera con grande devozione, commozione e amore? Come non desidereremmo vivamente che il suo nome sia conosciuto, apprezzato e glorificato da tutti? Come non vorremmo e non desidereremmo vivamente che venga il suo regno nei cuori? E se abbiamo conosciuto veramente questo amore suo per noi come non avere confidenza in Lui in tutte le situazioni della vita, anche quelle più amare?

E se veramente “noi abbiamo riconosciuto e creduto a quest’amore di Dio per noi ” (1Gv 4,16) come non essere sicuri di essere accolti, ascoltati, esauditi da Lui che è stato ed è così tanto buono con noi? 

A questa fiducia e confidenza ci ha invitato Gesù che ben conosce l’amore del Padre per  Lui (cf Gv 10,17; 15,9) e per noi (cf Gv 16,27; Lc 12,6-7.28-32). Anche la parabola di oggi, di quel tale importunato dall’amico che lo scoccia perché ha bisogno di un po’ di pane e non ha avuto timore a svegliarlo perché sa che è un amico, non è forse un invito ad accostarci a Dio con questa confidenza di persone che sanno di essere amate e benvolute?

Ma “noi abbiamo veramente riconosciuto e creduto a quest’amore di Dio per noi ” (1Gv 4,16)? Abbiamo questa fiducia, questa confidenza, questa certezza di essere amati quando ci rivolgiamo a Lui?

L’equivoco nasce spesso dal fatto che non vediamo esaudite le nostre preghiere, vediamo che il tempo infrange le nostre speranze, vediamo deluse le nostre attese e per questo ci crediamo disattesi, emarginati, inascoltati e in definitiva non amati da Dio Amore; ma può Dio non amarci, Lui che è Amore (cf 1Gv 4,8.16)?

Dobbiamo renderci conto che se un buon papà terreno non dà una pietra al figlio suo che gli domanda del pane né gli dà una serpe se gli chiede del pesce (Vangelo di oggi), tanto più il nostro buon Babbo del Cielo, “Abbà” nostro Celeste, ci lascerà senza quello di cui abbiamo necessità. Il problema è che noi non sappiamo veramente ciò che ci necessita, e ciò che desideriamo con accanimento talora non è un vero bene per noi. 

La stessa nostra vita a cui ci teniamo di più, non sarebbe per noi un vero bene se noi la usassimo nel peccato e nel male. Lo stesso benessere economico, perderlo spesso è più proficuo per l’anima anche se costa tanta sofferenza al cuore. Pensiamo alla gioia di santa Caterina da Siena quando seppe che la propria famiglia aveva subito un crollo economico… Io stesso ho sentito con le mie orecchie un anziano signore che ringraziava Dio perché in seguito ad un fallimento economico si era convertito e aveva capito tante cose che prima, da ricco, non capiva; eppure quando fallì si pensò abbandonato da Dio!

Per questo dicendoci che la nostra preghiera sarà esaudita, Gesù ci assicura che il Padre ci regalerà lo Spirito Santo, perché essendo lo Spirito Santo il Dono dei doni, essendo lo Spirito Santo Dio stesso, avendo Lui, possedendo Lui possediamo tutto e tutti i nostri desideri più autentici sono appagati e tutte le nostre necessità più vere sono sollevate da qualcosa che ci ricolma oltre ogni umana misura.

Ma il vero nostro problema è che solleviamo le nostre preghiere a Dio senza aprirci alla dimensione del Cielo, senza aprirci all’orizzonte della vita eterna, che è il nostro vero orizzonte, e racchiudiamo tutte le nostre aspirazioni, tutti i nostri desideri, tutte le nostre speranze a robetta e cosucce di quaggiù, assolutamente dimentichi di essere fatti per il Cielo e non per la terra. Quanto ci vivremo quaggiù? “Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo” (Sal 90,10). 

Non avendo di mira il nostro vero fine, la nostra vera vita, le nostre preghiere spesso vengono disattese da Dio perché Lui, che conosce il nostro vero bene, sa che quel che chiediamo non ci sarà utile per il nostro fine che è la vita eterna con Lui. Fidiamoci dunque del Padre che ci ama:

«Io, infatti, – dice il Signore – conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza. Voi mi invocherete e ricorrerete a me e io vi esaudirò; mi cercherete e mi troverete, perché mi cercherete con tutto il cuore; mi lascerò trovare da voi – dice il Signore – cambierò in meglio la vostra sorte» – Ger 29,11-14.

Chiediamo alla Vergine Maria, che sempre ebbe questa fiducia e confidenza nel Padre e insegnò al suo Bambino Divino a pronunciare le parole umane con cui rivolgersi a Lui, che ci aiuti e ci insegni a pregare, a incontrarci con Dio Padre nella fiducia e nella confidenza dei figli suoi. Amen.                                j.m.j.

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Diciottesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                                          Omelia

L’“uomo vecchio” e l’“uomo nuovo”

Carissimi fratelli e sorelle,

il Vangelo odierno è una perla preziosa di semplicità, di profondità e di verità. Prendendo spunto da un tale che voleva che Lui intervenisse nella divisione dell’eredità con suo fratello, Gesù Maestro ci regala una delle parabole sue più semplici e incisive. 

L’argomento è quanto mai attuale: il rapporto con il denaro. È molto significativo il fatto che Gesù non abbia voluto intromettersi in questioni di eredità: “Vedetevela voi!”. L’uomo è proprio sempre lo stesso nei suoi atteggiamenti e sentimenti fondamentali, ieri come oggi, il denaro ha un allettamento formidabile sul suo cuore.

Poco tempo fa un brav’uomo mi diceva che stava pensando di fare una riunione di famiglia con tutti i suoi figli per cercare di preparare bene le cose prima di morire, in modo che i figli non dovessero litigare per spartirsi l’eredità, mi diceva: “A che sarebbero serviti i miei sacrifici di lavoratore, se poi proprio per tutto ciò che ho sudato con tanta fatica, i miei figli dovessero litigarsi tra loro?”

Certo, c’è proprio da rattristarsi pensando a cosa avviene oggi nelle nostre famiglie quando c’è da dividere un’eredità o quando arrivano gli arretrati di un “accompagnamento” di qualche nonnino o nonnina…

S. Paolo è giunto ad affermare che “l’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori” (1Tm 6,10). L’affermazione che sia “la radice di tutti i mali”, sembrerebbe eccessiva, ma non lo è tanto, se la intendiamo nel senso più ampio di un atteggiamento possessivo che impedisce l’atteggiamento primo e fondamentale insegnatoci da Gesù Maestro: quello di spogliarsi e consegnarsi per amore (cf Fil 2,7-8). Chi ama il denaro non conosce cos’è la gratuità, né, tanto meno, la consegna di sé per amore. Dietro ogni peccato possiamo spesso leggervi una carica di volontà di possesso e di dominio che trova nel denaro e nell’attaccarsi ad esso una sua particolare raffigurazione simbolica.

Di fatto poi vediamo come, quando ci attacchiamo ai soldi, ci attacchiamo contemporaneamente a tante altre cose: a noi stessi, ai nostri propri comodi, alle proprie soddisfazioni e piaceri, ai propri giudizi e a tutte le proprie cose sulle quali abbiamo ben piantato la bandiera di proprietà e guai a chi ce li tocca!

Un nostro bravo padre missionario in Brasile, parroco di una comunità vivacissima e attivissima con un numero incredibile di attività e opere, ama dire spesso: “Per dirti cristiano non basta che Gesù ti abbia toccato il cuore, bisogna che ti tocchi anche nel portafoglio!”. Non rifletteremmo mai abbastanza sul fatto che Gesù Maestro ci abbia insegnato per prima cosa la povertà come stile di vita, come atteggiamento, come valore primo. Anche coloro che non sono chiamati ad una sequela di Gesù nella radicalità dei voti evangelici, sono chiamati comunque a vivere il valore spirituale della povertà condividendo il superfluo, e non solo il superfluo, con chi è nella necessità (cf CV2 – GS 69).

Ma torniamo al Vangelo di oggi…, qual è il messaggio fondamentale che sta sotto questi insegnamenti così semplici e belli che Gesù oggi ci ha regalato? Penso che oggi Gesù ci vuole mettere in guardia da un inganno molto presente nella storia dell’umanità e forse anche nella nostra storia personale di poveri uomini ancora non pienamente realizzati come figli di Dio. Si tratta dell’inganno di vivere completamente assorbiti in una dimensione terrena, temporale e orizzontale, e di non sapere aprirsi alla dimensione del Cielo, eterna e verticale. In realtà spesso diciamo di credere, sì, ma viviamo come se questa fede nell’al di là non incidesse proprio per nulla in nessuna delle nostre scelte pratiche. 

Ci muoviamo in un’orizzonte terreno e in esso ci affanniamo nella rincorsa delle cose e delle soddisfazioni (cf Lc 12,22; Mt 6,25), senza accorgersi che il tempo ci sfugge e che tutto passa lasciandoci vuoti e senza senso (prima lettura). Oggi Gesù ci ricorda che dobbiamo morire; è quindi, oggi più che mai, un Gesù antipatico quello che parla. Sì, chi di noi non sa quali gesti si fanno – dappertutto – quando viene ricordato a qualcuno questa verità? Eppure, cos’è che c’è di più certo che moriremo? 

Anche noi, gente di Chiesa, abbiamo assorbito questa mentalità e spesso nei nostri ambienti si dimentica di annunciare con semplicità evangelica nostra sorella morte, come la chiamava il Poverello d’Assisi

Gesù ci invita ad arricchirci davanti al Padre suo, a non sprecare il nostro prezioso tempo accumulando tesori che non valgono nulla davanti a Lui e che qualcun altro si godrà a spese nostre:

«Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio» (Vangelo di oggiLc 12,20-21)

«Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore». (Mt 6,19-21)

Abbiamo bisogno di pensare di più al Cielo, al Paradiso, a Dio e alle sue cose per disintossicarci da tutto quanto vuole svuotarci di eternità per ridurci a ciò che passa e non ritorna più, mentre noi siamo stati fatti per rimanere per sempre. C’è una parte di noi profondamente radicata quaggiù che si nutre di tutto ciò che sa di terra e anche di fango (seconda lettura); questa parte vorrebbe vivere per sempre quaggiù e si attacca con le sue ventose a tutto ciò che, inesorabilmente, prima o poi svanisce e passa, lasciandoci vuoti e delusi (prima lettura). Questa parte biblicamente viene chiamata l’“uomo vecchio” (seconda lettura) ed è presente in ciascuno di noi in cui vive però anche l’“uomo nuovo” (Ef 4,24). 

Nel santo Battesimo ciascuno di noi è stato innestato nell’“uomo nuovo”  che è Gesù Cristo (cf Gal 3,27), l’innesto è avvenuto per grazia, ma la sua crescita in noi non avviene senza la nostra collaborazione: l’“uomo nuovo”  cresce in ciascuno di noi nella misura in cui ci spogliamo dell’“uomo vecchio con le sue azioni”. 

Questa crescita dell’“uomo nuovo” suppone una lotta, dura, violenta, terribile, perché l’“uomo vecchio” non muore e non cede le armi all’“uomo nuovo” senza lottare strenuamente; “il regno dei cieli infatti soffre violenza e solo i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11,12). Non esiste una pace dell’anima che non passi attra-verso questa lotta violenta, ogni parto è sempre doloroso, tanto più quello dell’“uomo nuovo” (cf Gv 16,21).

Immersi in questa lotta spesso ci ritroviamo scoraggiati e abbattuti, nonché tristi e disgustati di noi stessi perché talvolta emergono alla coscienza spinte tenebrose e maliziose che vorrebbero proiettarci ad abbracciare e far nostro ciò che è brutto e indegno di noi stessi e, anche se resistiamo a queste spinte maligne, spesso rimane in noi un certo disprezzo di noi stessi, perché percepiamo quelle tenebre e brutture come provenienti dalla nostra persona e ciò ci avvilisce, ci fa sentire brutti, sporchi, indegni. 

Ora, chi vuole avanzare nella vita spirituale, non deve lasciarsi bloccare da queste sensazioni, ma deve imparare a distinguere ciò che proviene in lui dall’“uomo vecchio” e ciò che proviene dall’“uomo nuovo” e capire bene che la propria identità personale non è situata nell’“uomo vecchio”, ma nell’“uomo nuovo”. Questo è importante, soprattutto per chi ha commesso nel suo passato peccati dei quali oggi si vergogna profondamente, ma anche per chi, pur non avendo commesso peccati particolarmente gravi, sente talvolta emergere alla propria coscienza spinte maliziose e tenebrose di lussuria, di gelosia, di accidia, di ira, di avarizia, di prepotenza, ecc. In quei momenti dobbiamo aver bene chiaro nella mente e nel cuore che la verità di noi stessi, la nostra identità personale più profonda non è affatto nell’“uomo vecchio”, e quindi non dobbiamo assolutamente pensarci brutti e maliziosi solo perché abbiamo delle pulsioni brutte e maliziose. Dobbiamo imparare a distinguere il “sentire”, dall’“acconsentire”Il sentire non è mai peccaminoso finché non avviene il consenso della persona, solo l’atto di acconsentire rende la persona peccaminosa e sporca in se stessa. Finché dunque non si acconsente, tutto quanto si possa sentire nell’intimo non ci può sporcare, ma anzi – rifiutandolo – diventa occasione di grande merito davanti a Dio e quindi di acquisto di bellezza della nostra persona.

Il nostro “uomo vecchio” e tutto quanto proviene da lui (pensieri, sentimenti, attrazioni, ecc.) non ci appartiene più, se ne è appropriato Gesù Cristo e “lo ha inchiodato alla croce con Lui” (Rm 6,6), lo “ha pagato a caro prezzo” (1Cor 6,20) e ora è suo e non ci appartiene più, la nostra verità è nell’“uomo nuovo che si rinnova a immagine del suo Creatore” (seconda lettura):

«Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con Lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato. Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con Lui, sapendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di Lui. Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù» – Rm 6,6-11

Non spaventiamoci dunque di qualunque spinta interiore maliziosa che vorrebbe nutrirci di vuoto, ma fissiamo il nostro sguardo su Gesù” (Eb 12,2), guardiamo al suo esempio, consapevoli “di non aver ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato” (Eb 12,4) e troviamo proprio in questo nostro sguardo la forza (cf Gv 12,32; Ct 1,4) per sottrarci alla suadente attrazione di tutto ciò che alletta il nostro “uomo vecchio” (cf Gal 5,19) e che il nostro “uomo nuovo” invece disprezza “come spazzatura” (Fil 3,8).

La Vergine Maria, che è la Madre dell’“uomo nuovo” che è nato dal parto doloroso della Croce del suo Figlio (cf Gv 19,26), ci insegni ad accogliere con amore intenso e fedele tutte le esigenze del Vangelo per poter camminare spediti sulla via che ci ha indicato Gesù consegnando se stesso alla morte per noi. Amen.              j.m.j.

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Diciannovesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                               Omelia

Un popolo in cammino verso il Cielo

Carissimi fratelli e sorelle,

dal brano evangelico odierno traspare tutta la carica di radicalità evangelica tipica dell’evangelista Luca che, con il suo Vangelo, vuole risvegliare nel fervore la comunità cristiana del suo tempo che era assopita, delusa e smorta per il mancato ritorno del Signore. Questa sarà una delle prove più tremende della Chiesa dei primi secoli: la delusione per il mancato ritorno di Gesù. Infatti alcune parole di Gesù erano state interpretate come promessa di un suo prossimo e vicino ritorno (cf Lc 21,32; Mt 24,34) confondendo quanto Gesù riferiva sulla distruzione imminente della città di Gerusalemme, a quanto si riferiva alla fine del mondo e al suo ritorno glorioso.

È vero che il Signore Gesù aveva promesso di ritornare “presto” (Ap 22,7.12.20), ma bisognava comprendere quel “presto” alla luce di Dio dove tutto è presente: “Davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo” (2Pt 3,8; cf Sal 90[89],4).

Il Vangelo di Luca è dunque il Vangelo della speranza e della comunità, di una comunità chiamata tutta a camminare sulle vie della speranza e dell’amore.

Come il vecchio popolo di Dio s’incamminò, inseguendo una nube che di notte diventava luminosa (cf Es 13,21) in un “viaggio sconosciuto” (prima lettura), attraverso un deserto sconosciuto verso la terra della libertà dove scorreva “latte e miele” (Es 13,5), così la Chiesa cammina attraverso i tempi verso la Terra Promessa del Cielo guidata dalla nube luminosa del Vangelo. Dall’intensità di fede e di amore con cui ogni membro di questo popolo guarda verso questa nube luminosa che è il Vangelo di Gesù, dipende la vitalità della speranza con cui la Chiesa testimonia al mondo e costruisce in esso quel Regno che Dio Padre ha donato a Lei in Gesù: “Non temete piccolo gregge al Padre è piaciuto donarvi il suo regno” (Vangelo).

Nel Vangelo odierno, Gesù ci invita ad un’attesa vigilante e ci spinge a questo con la bellissima immagine del padrone che, tornato dalla nozze, vedendosi atteso con amore dai servi, li fa sedere a mensa e li serve lui stesso. Ciò che tiene desto il cuore nell’attesa, anche quando questa si protrae nel tempo, è la speranza. Ma la speranza si eleva dalla fede, quella fede di cui ci ha parlato oggi la Lettera agli Ebrei che è “fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono”. È la fede in definitiva il principio della speranza e quindi dell’attesa vigilante e gioiosa del Signore: una fede viva motiva una speranza viva ed entrambe sono vive nell’amore che portano al Signore. Quando diminuisce la fede, decade la speranza e muore l’amore. La fede senza amore ci accomuna ai demòni e ai dannati, anch’essi infatti “credono e tremano” (Gc 2,19), l’amore che anima la nostra speranzosa fede ci accomuna ai beati del cielo, dove fede e speranza svaniscono nel possesso eterno dell’amore di Dio (cf 1Cor 13,8ss). Solo la speranza è la virtù unica e tipica del cristiano pellegrino nel tempo verso la pienezza del Regno. Noi siamo un popolo che cammina nella speranza: la vivacità e l’intensità della speranza sono la misura del nostro cammino cristiano e del nostro amore al Signore. Infatti né all’inferno né in paradiso c’è speranza, nel primo perché c’è la disperazione più assoluta, nel secondo perché non c’è ragione di sperare nulla quando si possiede e si gode pienamente e eternamente di quell’Unico Tutto che è Dio! La speranza è solo di quaggiù e ci guida verso lassù!

La speranza è certezza di fede che il Signore Gesù manterrà ogni sua promessa e poiché la sua promessa più grande è quella che verrà presto” (Ap 22,7.12.20), avere la speranza, significa vivere gioiosamente l’attesa del suo ritorno. D’altra parte, Lui darà la sua “corona di gloria” solo “a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione” (2Tm 4,8). Oggetto della nostra speranza non è semplicemente il fatto che Lui ritornerà e ritornerà “presto”, ma – come Lui stesso oggi ci ha ricordato – anche che, una volta ritornato, ci farà sedere a mensa e ci farà da cameriere. Quella di poterci servire – di poterci fare da cameriere! – è una delle fissazioni più forti di Gesù, è uno dei desideri più intensi di Lui che amava dire ai suoi apostoli che non era venuto “per essere servito, ma per servire e dare la sua vita per molti” (Mt 20,28) e nella notte dell’amore volle rendere visibile questo desiderio del suo Cuore Divino Umano e spogliatosi della sua veste lavò – come un cameriere personale – i piedi ai suoi discepoli (cf Gv 13,5ss).

È la convinzione di fede di essere amati così, di un amore assolutamente esagerato e immeritato che dovrebbe muovere il popolo cristiano tutto a camminare nella speranza attraverso il deserto di questo mondo.

Ma ora vorrei attirare la vostra attenzione sulla domanda che Pietro pone a Gesù subito dopo che Questi parlò loro della parabola del padrone di casa che, tutto contento di vedersi atteso con amore dai suoi servi, li fa sedere a mensa e li serve lui stesso, facendosi loro solerte cameriere. Pietro chiede a Gesù se questa parabola l’avesse detta per tutti o solo per gli apostoli

Mi sono chiesto quale fosse la motivazione di questa domanda: perché Pietro voleva sapere se questa parabola fosse per tutti o solo per alcuni? Quale era la sua difficoltà di comprensione? Cosa gli veniva difficile comprendere? Forse che il suo Gesù potesse mettersi a servire una mensa come cameriere di tutti? Ancora ancora che potesse servire loro, ma tutti? Forse era questa la sua difficoltà? Difficoltà che preannuncia quell’altra che ebbe la notte dell’amore, quando non voleva farsi lavare i piedi dal suo Maestro (cf Gv 13,5ss).

Gesù non risponde alla domanda di Pietro, qualcuno vede una sua risposta indiretta nella parabola che segue dell’amministratore solerte e di quello fannullone, ma di fatto Gesù non diede risposta palese a Pietro. Chiediamoci il perché. Il contesto in cui Gesù raccontò la parabola per la quale Pietro domanda a chi è diretta, se a tutti o solo agli apostoli, è un contesto nel quale Gesù sta parlando ad una folla numerosa che si accalca attorno a Lui: “migliaia di persone che si calpestavano a vicenda” (Lc 12,1). Se Gesù avesse risposto alla domanda di Pietro ne sarebbe seguito che tutti avrebbero potuto sempre mettere in dubbio che questa o quella sua parola fosse rivolta o meno al proprio cuore. Così facendo sarebbe stata introdotta una pericolosa mina capace di distruggere la forza provocatrice di conversione e di amore di ogni parola di Gesù, che è sempre rivolta a tutti, anche quando Egli parla a una sola determinata persona.

Se Gesù avesse accolto quella domanda di Pietro, chiunque, di fronte ad un invito forte del Vangelo potrebbe rispondere dicendo: “Quest’invito vale solo per gli apostoli e non per me che apostolo non sono”, ma non è così, non è affatto così. Non esiste una parola di Gesù che sia destinata a solo qualcuno e non a ciascuno secondo la propria capacità di recepirla e di viverla.

Lo stesso capitolo dodicesimo di Luca, dal quale è estratto il brano evangelico odierno, è ricchissimo di parole forti che Gesù ha diretto alla folla che si accalcava su di Lui. Guai a noi se proponessimo al popolo di Dio due Vangeli: uno per i più fervorosi che richiede più slancio, più amore, più sacrificio e uno per la massa perché cerchi di comportarsi bene e non faccia tanti peccati. Non esistono due Vangeli, ma un solo Vangelo che è proposto a tutti nella sua radicalità che può essere poi più o meno accolta dal singolo.

Per questo ogni fedele non può mai sentirsi tranquillo, a posto, perché è sempre messo in discussione da un Vangelo che non vive in pienezza, ma che è sempre chiamato a viverlo meglio. 

Che bello allora, quando ciascuno di noi si pone con una disposizione di amorosa accoglienza di fronte a tutte le parole di Gesù e ne sente la risonanza nel cuore, senza farne una selezione previa e senza riservare alcune sue frasi solo ai preti, suore e frati, ma sentendo che ogni frase di Gesù è rivolta al proprio cuore.

Detto questo facciamo risuonare nell’intimo questa frase che Gesù oggi ci ha regalato:

“Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma. Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore” (Vangelo di oggi)

Chi si lascia penetrare da questa parola non potrà non sentire il fascino di una grande libertà interiore e il desiderio del Cielo. Ogni frase di Gesù è una chiamata alla libertà interiore e una chiamata a levare i nostri occhi al cielo perché noi non siamo stati fatti per quaggiù, ma per lassù.

E Gesù vuole condurci lassù, dove è la nostra vera “patria” (Fil 3,20) e ci guida attraverso il deserto di questo mondo facendo risplendere ai nostri occhi la luce del suo Vangelo che ci permette di non smarrirci e di camminare così nella giusta direzione. Di domenica in domenica, attraverso la sua Chiesa, Gesù vuole farci viaggiare verso il cielo, guidati dalla nube luminosa del suo Vangelo, cerchiamo dunque di non lasciar cadere nel vuoto nessuna di quelle parole che la Chiesa, domenica dopo domenica, porge con materno amore alle nostre persone come nutrimento spirituale e accogliamole dunque con grande fede e amore, come lettera personale di Dio rivolta a ciascun fedele.

La Vergine Maria ci insegni a custodire e meditare nel nostro cuore ogni parola di Gesù (cf Lc 2,19) che sentiamo risuonare nelle nostre assemblee liturgiche, per testimoniarle al mondo con la gioia e la santità della nostra vita.

Amen.

j.m.j.

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Ventesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                   Omelia

“Sono venuto a portare il fuoco…”

Carissimi fratelli e sorelle,

nella prima parte del brano evangelico odierno Gesù parla di fuoco e di battesimo. Vorrei, con l’aiuto del buon Dio, mostrarvi come questi due termini siano intimamente correlati tra loro. Infatti Gesù parla dapprima del fuoco col quale vorrebbe incendiare il mondo, per l’esattezza dice: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra”, proprio come se prima della sua venuta questo fuoco non esistesse. È chiaro che Gesù non si riferisce ad un fuoco naturale, ma alle fiamme dell’amore celeste che bruciava nel suo cuore umano-divino.

L’esperienza umana di sempre conosce le vampe dell’amore umano, qualcosa di esse viene riportato anche nel Cantico dei Cantici

Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l'amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe son vampe di fuoco, una fiamma del Signore! Le grandi acque non possono spegnere l'amore né i fiumi travolgerlo. Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell'amore, non ne avrebbe che dispregio – Ct 8,6-7.

Ma qui si tratta di qualcosa di mai esperimentato, mai vissuto, mai provato, si tratta del fuoco dell’amore divino! La Fornace Eterna dell’Amore Trinitario che arde nel Cuore della SS.ma Trinità ha riversato la colata ardente dell’amore divino nel Cuore Sacratissimo di Gesù per traboccare nei cuori di chi accoglie la novità del suo Vangelo.

Il Padre buono del cielo, per riversare quest’amore divino nei nostri cuori ha voluto che esso traboccasse dal Cuore squarciato del suo Figlio, il suo Unigenito Figlio, “il più bello tra i figli degli uomini” (Sal 45,3), morto d’amore sul legno della Croce per noi, per me, per te! Quel sangue e quell’acqua menzionati da Giovanni che sgorgano quale divina fontana dal Cuore di Gesù aperto e spalancato dalla lancia (cf Gv 19,34).

Capite bene dunque, fratelli e sorelle, perché Gesù subito dopo aver accennato a quel fuoco che è venuto a portare nel mondo, parla dell’angoscia che prova nel cuore per via del battesimo che deve ricevere. Di che si tratta se non nell’immersione nell’oceano della sofferenza che Lo sommergerà nella sua passione d’amore? Battezzare infatti letteralmente significa immergere, subire un battesimo dunque indica un essere sommersi da qualcosa e già in un altro contesto, rispondendo ai due fratelli Giacomo e Giovanni che desideravano i posti d’onore al suo fianco, Gesù parlerà nuovamente di un battesimo che deve ricevere e di un calice che dovrà bere, e nel Getsemani chiederà al Padre che passi da Lui quel calice che simboleggiava la sua tremenda passione (cf Mc 14,36). Non ci sono quindi dubbi sul significato del battesimo di cui parla Gesù: è la sua tremenda, umiliante, dolorosissima passione!

Quel fuoco che è venuto a portarci divamperà nel mondo in seguito al suo battesimo. Ciò significa che la sua tremenda passione sarà il mezzo con cui il Padre buono del cielo rivelerà al mondo l’amore divino e rivelando quest’amore ferirà i nostri cuori e conquisterà le nostre anime. Sì, perché Lui che tutto può e dal Quale tutto deriva, volendo portare l’umanità alla salvezza eterna e restaurare quel circuito d’amore che il peccato aveva infranto, mostra nel suo Figlio dissanguato e crocifisso, un amore così grande, così potente, così inaudito e ineffabile che nessuno, nessuno che si fermi per qualche istante a guardarLo, così debole e sofferente, così mite e impotente, così solo e abbandonato, così nudo e umiliato, nessuno potrà avere un cuore così duro e impietrito da resistere e non lasciarselo toccare e ferire dalla sua passione.

E lì avviene l’incendio divino dell’amore ineffabile: il fuoco dell’amore che divampa zampillando dal Costato aperto di Gesù si riversa nei cuori feriti, in quei cuori cioè che si sono lasciati ferire dalla Sua passione d’amore. È un contatto di Cuore a cuore che cambia la nostra vita e la trasforma.

E quando avviene quest’incendio d’amore, anche i vincoli umani più forti e condizionanti la persona vengono vinti. Il cuore ferito dall’amore di Gesù, rende la persona libera e capace di libertà per amare nella verità. Tutto quanto si possa opporre alla verità dell’amore o volesse imporre condizionamenti e limiti a quell’amore che fuoriesce dal proprio cuore ferito dalla passione di Gesù, viene superato, fossero anche quei legami naturali che ogni persona ha con il padre, la madre, i fratelli, i parenti, gli amici. Il cuore che brucia d’amore per Gesù non si lascia condizionare da niente e da nessuno ed è capace di mettersi contro tutti e affrontare emarginazione e solitudine, ma non tradire il suo amore per Gesù e per il suo Vangelo, costi quel che costi. E anche se ci gettassero in una cisterna come Geremia (prima lettura) o avessimo tutti contro e nessuno che condivida le nostre scelte, cammineremmo decisi sulla nostra strada incuranti di tutto, perché colmi dell’amore Suo.

E, carissimi fratelli e sorelle, se in pratica non è così – e purtroppo troppo spesso non è così! –, se in pratica spesso ci succede di essere condizionati, trascinati, rimorchiati da un mondo che è allergico alla santità e ci ritroviamo in comportamenti, ragionamenti, linguaggi, scelte e modi di vivere, di fare e di vestire lontani anni luce dagli insegnamenti del nostro Signore Crocifisso, allora bisogna che ci fermiamo di più davanti a Lui.

Bisogna che troviamo spazi di tempo e di solitudine per fermarci a guardarLo lì appeso al legno per me, a guardare quel Cuore aperto e spalancato dal troppo amore che mi porta. Quanto più mi fermerò in silenzio e in preghiera davanti a questa Sorgente Zampillante d’amore, quanto più sentirò che il mio cuore di pietra diventa di carne (cf Ez 11,19), sentirò intenerirsi il cuore indurito e piano piano sentirò formarsi anche nel mio cuore quella ferita aperta in cui Lui travasa il suo amore (cf Rm 5,5).

E se farò questo spesso, imparerò anche a non staccare più lo sguardo interiore da Lui, come ci ha suggerito oggi la lettera agli Ebrei: “Tenete fisso lo sguardo su Gesù: Egli in cambio della gioia che gli era posta dinanzi si sottopose alla croce…pensate attentamente a Colui che ha sopportato contro di Sé una così grande ostilità…”.

È lì, nell’incrociarsi del nostro sguardo con il Suo che ciascuno di noi può trovare la forza di deporre “tutto ciò che ci è di peso e il peccato che ci assedia e correre la corsa che ci sta davanti” (seconda lettura). Che bella quest’immagine che la Lettera agli Ebrei ci propone: la corsa! Il cristiano è uno che corre, non passeggia, non cammina svogliatamente, non arranca a tentoni, ma corre! Corre “tenendo fisso lo sguardo su Gesù”: che bello! Che bello se ognuno di noi potesse ritrovarsi a correre in questa corsa dell’amore!

Bisogna correre, ma prima bisogna deporre “tutto ciò che ci è di peso e il peccato che ci assedia”. Cosa ci è di peso? Cosa appesantisce e impedisce questa corsa? Che bello se in questa settimana tutti noi ci chiedessimo: ma sto correndo questa corsa? E se riconosciamo che correndo non stiamo, chiediamoci: ma cosa mi appesantisce e mi impedisce di correre? Cosa mi lega? Cosa mi paralizza? Guardiamo Gesù, Gesù Crocifisso per amore mio, e troveremo la forza di staccarci da tutto ciò che ci impedisce la corsa, troveremo la forza di deporre ogni vizio, peccato, mancanza e cominceremo a correre e correndo ad un certo punto ci accorgeremo che i nostri piedi non toccano più il terreno perché Gesù ci ha preso in braccio e ci porta Lui sulle ali del suo amore.

Questa è la vita del cristiano, di ogni cristiano, di ogni cristiana, fanciullo, giovane, adulto, anziano, tutti siamo chiamati alla corsa dell’amore. Ma quanti corrono? Che importa a noi se i più corrono al primo fischio del mondo che attira, attira, attira con il luccichio delle sue chimere, il fumo evanescente del suo vuoto pieno di nulla e le sue promesse di felicità, gioia, pace e amore che sempre ingannano e mai si avverano? Che importa? 

Certamente a noi importa nel senso che questa corsa del mondo e dei suoi mondani ci fa compassione e profonda amarezza, ma noi corriamo la nostra corsa dietro a Gesù e speriamo che il nostro entusiasmo, la nostra gioia e la infinita pace di cui godiamo correndo, trascini sempre più persone a correre con noi dietro a Lui questa corsa della vita eterna distogliendoli dalla corsa della morte eterna.

La Vergine Maria, nostra Madre e Maestra, che stava lì, sotto quel legno mentre il soldato Gli apriva il costato con la lancia (cf Gv 19,34) e che per prima fu ferita da tanto amore, ci ottenga dallo Spirito Santo di avere anche noi come Lei il cuore ferito dall’amore di Gesù e di non distogliere mai più il nostro sguardo interiore da Lui per correre e volare con Lui verso il Padre.

Amen.                                                              j.m.j.

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Ventunesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                     Omelia

LA PORTA CHIUSA

Prima Lettura: Is 66, 18-21

Dal Salmo 116

Seconda Lettura: Eb 12, 5-7.11-13

Acclamazione al Vangelo: Lc 13,29

Vangelo: Lc 13, 22-30

Carissimi fratelli e sorelle,

Luca continua a proporci un Gesù alquanto antipatico ad una certa mentalità, molto diffusa oggi, che rifugge da tutto ciò che possa lontanamente richiamare a parole quali: sforzo, sacrificio, impegno. Sono altre le parole preferite da tanti: comodità, tutto facile, tutto subito e senza sforzo né fatica. Che dire poi di parole quali: porta chiusa per sempre, pianto, stridor di denti, dannazione, inferno? 

Lungo la via che lo portava a Gerusalemme a morire crocifisso per noi, un tale chiese a Gesù se fossero pochi o molti quelli che alla fine si sarebbero salvati. 

Gesù Maestro risponde all’interlocutore ricordando che molti cercheranno di passare attraverso la porta stretta che conduce alla salvezza, e non vi riusciranno, e inoltre che quella stretta porta verrà chiusa e c’è il rischio per molti di rimanere nel pianto e dolore eterno. D’altra parte, Gesù controbilancia queste sue affermazioni sulla vastità del numero dei dannati, riprendendo quegli oracoli profetici di cui la prima lettura di oggi è un esempio, nei quali si parla di un numero enorme, grandissimo di persone che da settentrione a mezzogiorno entrano nel Regno dei Cieli, provenienti anche da popoli che non conoscevano il Dio d’Israele.

Cerchiamo di approfondire un po’ questa risposta di Gesù per coglierne tutta la ricchezza di contenuto che vorrebbe nutrire oggi il nostro animo cristiano.

Innanzi tutto, con la sua risposta, Gesù vuol far capire a quel tale, e a tutti coloro che si pongono simili questioni, che conoscere il numero dei salvati e quello dei dannati è una cosa assolutamente inutile. A che scopo, infatti, sapere quanti sono quelli che si salvano e quelli che si dannano? A che scopo sapere se sono di più o di meno i salvati o i dannati? Quello che è importante, veramente importante, anzi necessario conoscere, è come fare per salvarsi e non finire dannati.

La risposta di Gesù è dunque un ammonimento, un forte ammonimento che riveste una duplice dimensione. 

La prima dimensione dell’ammonimento di Gesù è quella più generica che potremmo esprimere in questi termini: State attenti perché salvarsi non è uno scherzo, richiede uno sforzo, un impegno e, se non v’impegnate, rischiate di finire male, molto male, dove si piange e si trema per l’eternità.

La seconda dimensione dell’ammonimento di Gesù è quella più specifica, diretta a quelle persone che più credono di essere vicine a Dio e quindi salvate già a priori, solo perché appartengono alla Chiesa, frequentano le liturgie, pregano, ecc. Gesù ammonisce costoro dicendo loro più o meno questo: State attenti voi che credete di salvarvi solo perché venite a Messa, ascoltate la mia parola e qualche volta fate anche la Comunione. State attenti, perché moltissimi che non mi hanno conosciuto quaggiù, faranno festa con Me lassù, ma voi che credete di conoscerMi e di essere a posto, potete finire male, molto male, se non vivete veramente ciò che affermate di credere.

Certamente noi oggi possiamo reagire in due modi a queste parole così antipatiche di Gesù. Un primo modo è quello che viene scelto – purtroppo! – da tanti oggi più che mai. Questo modo è quello di coloro che dicono: Ma sì, Dio è buono, l’inferno non esiste… Son cose che Gesù ha detto così, tanto per spaventare un po’…, per stimolare a vivere lontano dal peccato…, ma poi tutti ci salviamo.

Un secondo modo di reagire è quello di prendere sul serio le parole di Gesù e capire che non è un’appartenenza esterna alla sua Chiesa che salva, ma un coinvolgimento interiore e fattivo in cui mettiamo in discussione la nostra vita e la compromettiamo alla luce delle parole di Gesù, nella tensione continua di farle calare nella concretezza pratica delle nostre scelte e azioni di ogni giorno, sforzandoci così di passare attraverso quella porta stretta che, unica, ci conduce alla vita.

Ma come proporre questa seconda modalità, in questo tempo così afoso in cui è già così pesante alla persona sopportare una Messa? Come proporre questo, ben sapendo di dire cose che le persone preferiscono non sentire? Non è più bello semplicemente parlare del paradiso, di un generico vogliamoci tutti tanto bene e parlare della bellezza del Vangelo, piuttosto che rendersi così antipatici parlando della possibilità che tutti e ciascuno hanno di finire dannati? Si ha già così tanto da soffrire quaggiù…, perché parlare dell’inferno…, ma poi, esiste veramente l’inferno?

Carissimi fratelli e sorelle, non fuggiamo le ammonizioni divine!. Anche la lettera agli Ebrei oggi ci ricorda che le correzioni di Dio fanno male, ma se le accettiamo poi sono molto, molto benefiche. La Chiesa, che è l’Altoparlante di Dio, perché è nostra vera Madre e ci ama e ci vuole veramente tutti salvi, ci ammonisce ricordandoci le ammoni-

zioni di Gesù.

Luca ci ha tenuto a mettere in risalto come questo discorso di Gesù è fatto mentre va a Gerusalemme, mentre va a morire in croce. Mai dobbiamo dimenticare questo gesto di Gesù, siamo qui ogni domenica per non dimenticarcelo mai! È morto per noi! È morto per me! Ha veramente sofferto un mare di dolori e di umiliazioni e tutto questo per me! Perché Gesù avrebbe tutto questo sofferto se non per salvarmi dall’inferno? Perché io non mi dannassi, Lui, Dio, è morto in croce! Ma è solo in Lui che noi ci salviamo, passando attraverso Lui, entrando nel mistero della sua morte e risurrezione, partecipandovi intimamente con l’innesto della nostra vita liberamente offerta e consegnata al Padre in Lui. Noi ci salviamo partecipando liberamente alla sua morte e risurrezione, conformando la nostra persona alla sua morte e risurrezione, morendo cioè al peccato e vivendo nella grazia dei risorti e figli di Dio. Chi, vinto dalla forza suadente del peccato, non vuole conformarsi alla sua morte e risurrezione, non chiede perdono dei propri peccati, ma anzi li ama e li coltiva, costui sta passando per “la porta larga” e cammina lungo “la spaziosa via che conduce alla perdizione” (Mt 7,13).

Chi afferma che quanto Gesù ha detto a riguardo dell’inferno, lo abbia detto solo per spaventare un po’ le coscienze e trattenerle dal male, in realtà sta supponendo che il Figlio di Dio abbia affrontato il lungo viaggio dal Cielo del Padre suo alla stalla di Betlemme, che abbia vissuto trent’anni a Nazareth come un povero lavoratore ebreo, che abbia attraversato poi in lungo e in largo la Palestina con tanta fatica (cf Gv 4,6), con tanti sacrifici e stenti (cf Lc 6,1; 9,58), che abbia subito umiliazioni e torture portando il pesante legno della croce lungo il Calvario per ivi morirvi crocifisso come l’ultimo dei mascalzoni di questo mondo, solo per spaventarci un po’ con delle favole per vecchierelle (cf 1Tm 4,7). Questo è assolutamente pazzesco! 

Svuotare la forza della verità delle parole di nostro Signore, non volendo ammettere la possibilità che ogni uomo e ogni donna ha di finire nella dannazione eterna, significa mancare gravemente di rispetto alla serietà dell’opera di salvezza di Gesù, che non è stata una passeggiata, e significa altresì mancare di rispetto alla dignità che ciascuno di noi ha ricevuto e con la quale il Figlio di Dio ci ha trattato, quali veri fratelli suoi e sorelle sue da salvare e non bambinetti da spaventare con la favola del lupo cattivo e di  cappuccetto rosso!

L’inferno non è una favola, è una realtà che fa parte della nostra fede e non crederci significa non avere fede cattolica e quindi non avere diritto alla partecipazione ai Sacramenti che sono fondati solo su quella fede che gli apostoli ci hanno trasmesso e la Chiesa custodisce, difende e trasmette integra per la nostra salvezza.

È vero, comunque, che, se da una parte noi dobbiamo affermare per fede che l’inferno c’è – altrimenti salviamoci da soli e lasciamo perdere di andare in Chiesa! -, nessuno poi può affermare quale persona umana sia finita lì o quanti siano finiti dannati. Noi facciamo bene a sperare che i dannati siano pochissimi, magari nessuno, e per questo dovremmo fare come i Santi che, con la loro vita santa, si sono messi davanti alla porta dell’inferno per impedire alle persone di entrarvi! Ma il fatto di non sapere quanti e chi siano lì, non ci faccia però dimenticare che, di certo, sappiamo che satana e i suoi numerosissimi satelliti (cf Ap 12,9; Lc 8,30) sono eternamente dannati! Non si capisce quale ragionamento possa a priori affermare che Colui che ha dannato gli angeli non possa dannare anche gli uomini (cf Lc 12,5)!

Da qui ne viene quasi immediatamente che, chi non vuol credere all’inferno, finisce inevitabilmente per non credere più nemmeno all’esistenza del demonio e gli altri angeli ribelli. Ognuno creda quello che gli pare, ma sia onesto e sincero e dica di non essere per nulla cattolico, perché crede ciò che la Chiesa non crede da sempre e non crede a ciò che la Chiesa crede da sempre. Ma tutto questo che  importanza ha per l’uomo e la donna di oggi che, come Pilato, continuano a ripetere: “Ma cos’è la Verità?” (Gv 18,38) e poi, magari, si continua impassibili a frequentare i Sacramenti come se nulla fosse? Ma nulla non è!

Carissimi fratelli e sorelle, Gesù oggi ci ha ammonito, ci ha ammonito con amore e nell’amore che ci porta e che lo ha portato a morire per ciascuno di noi. Accogliamo il salutare suo ammonimento, e il pensiero della reale possibilità di finire all’inferno ci smuova e ci sostenga nei momenti difficili, quando l’amore svanisce e sentiamo la nostra anima appesantita e trascinata verso il basso, verso ciò che non debbo fare o pensare perché indegno di me. Quando tutto mi porterebbe ad accontentare quella parte di me che ancora non si è sottomessa al Redentore e vorrebbe avere, godere, primeggiare, odiare e schiacciare e opprimere, allora, quando non sento più forza d’amore nel cuore per scegliere il bene, il vero e il buono, mi tenga lontano dal peccato almeno il timore di finire dannato! Il timore servile certamente non è la perfezione dell’amore (cf 1Gv 4,18), ma è quanto mai salutare e utile: l’esperienza, infatti, ci dice che non sempre riusciamo a fare le cose per amore, e allora, quando non sentiamo più l’amore, ci salvi almeno il timore, dal fare ciò che non dobbiamo fare!

La Santa Vergine, che insistentemente ripete nei nostri cuori di credere e fare quello che il suo Divin Figlio ci dice, (cf Gv 2,5) e che a Fatima, all’inizio del secolo scorso, mostrò la realtà dell’inferno a tre piccoli fanciulli perché pregassero e fa-cessero penitenze perché tanti non vi finissero, invitandoli a far conoscere questo al mondo, ci aiuti a vivere una vita da redenti, da salvati dall’inferno e dalla morte, capaci di aiutare chi incontriamo ad uscire fuori da tutte quelle vie spaziose e comode che portano alla perdizione (cf Mt 7,13), attraendoli verso la via della vera vita (cf Mt 7,14; Gv 14,6). Amen.                                     j.m.j.

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Ventiduesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                                              Omelia

«Quanto più sei grande, tanto più umiliati!»

Carissimi fratelli e sorelle,

il Vangelo oggi ci ha narrato di Gesù che, invitato ad un banchetto presso la casa di uno dei capi dei farisei, osservando come gli invitati si comportavano, diede ai suoi discepoli degli insegnamenti preziosi sull’umiltà. Prima di entrare nell’argomento principale di questa Liturgia della Parola che viene enfatizzato anche dalla Prima Lettura tratta dal libro del Siracide che con parole sagge e ricche d’affetto ci ha detto: “Figlio, nella tua attività sii modesto, sarai amato dall'uomo gradito a Dio. Quanto più sei grande, tanto più umìliati;  così troverai grazia davanti al Signore;  perché dagli umili egli è glorificato”, vorrei mettervi in risalto questo tipico atteggiamento di Gesù che è quello di fermarsi ad osservare la gente. 

Il Vangelo oggi evidenzia come Gesù sia osservato dagli invitati e come Lui stesso li osserva. Che differenza però tra questi due generi di sguardi, quello della gente e quello di Gesù, che differenza! Gli invitati Lo guardano per curiosità e con tanta superficialità. Quanto è superficiale lo sguardo umano: “L'uomo guarda l'apparenza, il Signore guarda il cuore!” (1Sam 16,7). Gesù “sa bene quello che c’è in ogni uomo” (Gv 2,25) il suo sguardo “penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v'è creatura che possa nascondersi davanti a Lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a Lui noi dobbiamo rendere conto” (Eb 4,12-13). Lo sguardo di Gesù è uno sguardo che non è mai solo esteriore, ma sempre interiore, perché i suoi sono gli occhi di Dio.

È bello saper cogliere questo sguardo nei racconti evangelici, come quando Gesù guardava la gente che buttava l’elemosina nel tesoro del tempio e si fermò ad osservare ammirato quella povera vedova che gettò due spicci e l’esaltò come colei che aveva dato di più perché “nella sua miseria ha dato tutto quanto aveva per vivere" (Lc 21,4). O anche quando Gesù guardava commosso le folle perché erano stanche e sfinite come pecore senza pastore” (Mt 9,36) e le ammaestrava e guariva i loro mali (cf Mc 6,34; Mt 4,23); quando guardò con compassione quel povero infermo abbandonato da tutti e Lui, senza essere chiamato da nessuno, gli si avvicinò e lo guarì (cf Gv 5,5ss); o come quando guardò commosso quella vedova che portava al cimitero il suo unico figlio e Lui le disse di non piangere e ridiede la vita al figlioletto morto (cf Lc 7,12-15).

È bello fermarsi in amorosa contemplazione dello sguardo di Gesù…, entrarvi dentro…, dentro i suoi sentimenti, dentro le sue emozioni per conglierne tutta quella ricchezza d’amore con il quale il Padre ci ha amato dall’eternità e che proprio Lui, il suo Figlio Divino ci ha rivelato con il suo sguardo d’amore, soprattutto con quello sguardo con cui ci guardò dall’alto della croce quando disse: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).

Nel Vangelo di oggi, il penetrante sguardo di Gesù coglie l’affannarsi di tanti per avere i primi posti al banchetto. Che scena!… Proviamo a immaginarla… Tutti che cercano il posto migliore…, di passare avanti agli altri…, e Gesù che guarda…, chissà cosa provava il Cuore di Gesù mentre guardava quella gente impegnata nella corsa al primo posto…

Entriamo nel Cuore di Gesù che guarda quella gente tutta presa dall’ottenere quel posto più su degli altri…, come li guarda…, cosa pensa… Chissà come Gesù guarderà la mia vita…, il mio affannarmi per ottenere il mio posto più in su… chissà come Gesù mi guarda mentre sono tutto preso, anima e corpo, a conquistare il nulla, il vuoto, l’effimero?

Guardando quei tali, nostri predecessori, Gesù ci regalò un insegnamento sull’umiltà. Il suo fu un insegnamento spirituale, ma anche molto pratico e realista: “Sceglietevi gli ultimi posti, perché, se da voi occupate uno dei primi, facilmente verrà il padrone di casa e vi farà andare all’ultimo posto per far sedere qualcuno più ragguardevole di voi”. Che vergogna poi… Che vergogna andare ad occupare l’ultimo posto non per scelta personale, ma per imposizione di chi ha autorità… Che vergogna! Che umiliazione! Gesù praticamente insegna: “Siate umili e non sarete umiliati, non farete così brutte figure davanti alla gente, ma se siete superbi facilmente sarete umiliati”. È un insegnamento molto pratico, terra terra, come quell’insegnamento che dava il Beato Luigi Maria Palazzolo alle sue Suore delle Poverelle: “State basse, state basse… che se andate troppo in alto e cadete, poi vi fate molto male…”.

Bisogna capire bene però questo insegnamento di Gesù, che ha diversi livelli di significato. Il primo livello è un livello prettamente umano, naturale, di buona educazione. Gesù ci dice praticamente: “Siate educati e mettetevi all’ultimo posto, perché altrimenti rischiate di fare una brutta figura se il padrone di casa voleva dare quel posto ad un'altra persona. Se prendete l’ultimo posto è pure facile che il padrone vi faccia l’onore pubblico di farvi passare avanti”. 

Già questa semplice lettura umano-sapienziale delle parole di Gesù, se fosse messa in pratica produrrebbe un mondo più sereno, più bello, più umano. Ma Gesù non è venuto semplicemente ad insegnarci la buona educazione. A questa potremmo arrivarci tutti usando un po’ meglio il dono dell’intelligenza che, bene o male, abbiamo tutti.

Il suo insegnamento sull’umiltà scavalca e supera la semplice modestia della persona educata. C’è infatti uno stacco nel suo discorso, un passaggio brusco ad un altro livello, non più di umana educazione, ma un livello spirituale, più profondo e più ricco di valore. Il passaggio a questo livello viene attuato da una frase che fa da ponte tra il livello naturale e quello soprannaturale: “Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato” che riassume l’insegnamento di non ricercare i primi posti e lo apre ad una dimensione più spirituale e non solo pratica. Infatti Gesù qui enuncia un principio assoluto relativo alla persona umana e le sue relazioni con gli altri e con Dio. Gesù praticamente afferma che chiunque si pone con arroganza davanti agli altri sarà umiliato da Dio, chi invece si pone con umiltà, sarà da Dio esaltato: è Dio l’agente implicito della sua affermazione! Qui Gesù porta il suo insegnamento ad un livello spirituale, non si tratta quindi di umani consigli di buon comportamento, come quello degli invitati che possono venire umiliati o esaltati dal padrone di casa, ora Gesù non parla più di circostanze prettamente umane di gloria o umiliazione, ma parla di Dio che esalta e umilia. E Dio esalta gli umili e umilia chi si esalta!

Non è questo un insegnamento nuovo agli orecchi degli apostoli nei quali certamente risuonavano quegli svariati brani della Scrittura che già esaltavano gli umili e riprovavano i superbi (cf 2Sam 22,28; Gdt 9,11; Est 1,1k; Gb 5,11-13; Sal 76,10-13; 138,6; 147,6; 149,4-7; Pr 3,34; 11,2; Sir 10,14-15; Is 29,19-20). La novità dell’insegnamento di Gesù deriva dal suo personale esempio di umiltà che “umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Fil 2,8).

Non possiamo dunque non leggere quel suo “chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”, senza ricordarci come Lui si è umiliato nella morte e fu esaltato nelle risurrezione. Quando dunque insegna agli apostoli di occupare l’ultimo posto, la sua non è solo un insegnamento sapienziale pratico, ma sotto vi soggiace l’invitò a introdurre nella propria vita, nella propria mentalità, nelle proprie scelte concrete quotidiane, la scelta dell’ultimo posto, come partecipazione nostra alla sua umiliazione, alla sua ignominiosa morte di croce. È la filosofia della croce, la mentalità della croce, la sapienza della croce che è somma stoltezza per il mondo (cf 1Cor 1,18,23) che stava cercando di insegnare Gesù ai suoi apostoli di ieri e a noi suoi fedeli di oggi. La sapienza della croce, cioè della consegna di sé per amore gratuito e immotivato e che altro poteva desiderare di insegnarci Colui che è “il Mediatore della Nuova Alleanza” (seconda lettura) stipulata sulla croce? Tutta la ricchezza dell’insegnamento della Nuova Alleanza è rinchiusa nell’amore crocifisso, nella consegna di sé per amore, consegna che Gesù ha fatto di sé al Padre, consegna nella quale siamo tutti innestati con il santo Battesimo e in esso siamo chiamati ad assumerla e farla totalmente nostra con l’adesione libera e amorosa della nostra volontà. 

Ecco quello che Gesù Maestro stava cercando di insegnare agli apostoli e a noi, proprio questo amore, per questo continuando il suo discorso, si discosta ora di netto dal livello dalla buona sapienza umana e propone ai suoi di invitare “poveri, storpi, zoppi, ciechi” quando organizzano qualche banchetto o qualche festa e di “non invitare né amici, né fratelli, né parenti, né ricchi” per essere ben certi che non possano contraccambiare! Il suo è certamente un insegnamento paradossale, tipico del linguaggio orientale che estremizza, radicalizza e assolutizza solo per enfatizzare qualcosa e non proprio per escludere e negare le altre cose. Gesù non vuole affermare che non si debbano invitare parenti, amici e vicini di casa, ma che non bisogna invitare le persone, non bisogna fare qualcosa per qualcuno solo per averne un contraccambio.

Gesù sta insegnando agli apostoli e a noi ad amare come ama Dio: senza motivo! Dio non ha motivazioni per amarci, eppure ci ama, anzi ci ha amato da folle morendo in croce per ciascuno di noi! Gesù praticamente ci invita ad amare così, come ci ama Lui e come ci ama il Padre che ci ha donato Lui per amore gratuito (cf Gv 3,16).

Ecco manifestato dunque pienamente il secondo e più profondo livello di insegnamento di Gesù sulla scelta dell’ultimo posto: esso va scelto per amore, amore disinteressato, gratuito verso gli altri. Siamo così chiamati ad amare come Gesù che perché noi avessimo il suo posto alla destra del Padre, ha preso il nostro posto sulla croce! Gesù ha scelto il nostro posto sulla croce per nessuna motivazione umana, ma solo per un incredibile, immenso, folle e divino amore e vorrebbe contagiarci con questo incredibile, immenso, folle e divino amore per l’umanità Lui donandoci il suo Spirito.

Donandoci il suo Spirito, Gesù ci comunica la capacità di amare alla divina, proprio così, così come il Padre ci ama e come il Lui stesso ci ama e ci amano così: gratis! Amare senza motivo, senza tornaconto, senza calcoli, ma amare solo per la gioia di amare e cioè di consegnarsi. Amare, infatti, è consegnarsi all’altro, consegnargli il nostro posto, consegnargli le nostre cose, consegnargli il nostro tempo, consegnargli la nostra stessa vita…, e tutto questo gratis! “Non c’è amore più grande di questo: dare la propria vita per i propri amici” (Gv 15,13). 

La Vergine Maria che magnificò il suo Signore e Padre che rivolge il suo sguardo verso gli umili e li innalza a sé, mentre rovescia i potenti dai loro troni (cf Lc 1,48.52), ci introduca nella comprensione della vera umiltà e ci insegni ad essere umili di cuore e di fatto con una vita tutta orientata alla consegna di sé per amore del Padre e dei fratelli. 

Amen. 

j.m.j.

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Ventitreesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                   Omelia

La serietà della sequela

Carissimi fratelli e sorelle,

abbiamo letto, come seconda lettura, un breve biglietto di Paolo ad un suo amico cristiano perché riaccettasse nella sua casa un suo schiavo fuggito. Paolo gli chiede questo in nome di quella fede che ormai li accomunava  tutti rendendoli fratelli in Gesù. Non sappiamo come Filemone abbia reagito all’invito del suo pastore, ma sappiamo come il cristianesimo abbia immesso nel seno della storia dell’umanità quei valori che hanno permesso di far crescere il rispetto sempre più grande verso ogni persona, attuando così la liberazione di essa da gravi e pesanti schiavitù. Un processo non terminato e ancora in atto, che vede la Chiesa in prima linea lì dove si lotta per il rispetto degli ultimi e l’eliminazione di ogni discriminazione e di ogni schiavitù che affligge l’umanità più povera, emarginata ed oppressa.

Il Vangelo che la Liturgia ci ha proposto è ancora nel contesto del “Viaggio dell’Amore” narrato dall’evangelista Luca, di quel cammino cioè “verso Gerusalemme” intrapreso da Gesù “decisamente” (Lc 9,51), con volontà ferma e risoluta, ben sapendo cosa Lo aspettasse al termine di esso, quando Gli avrebbero messo “le mani addosso” (Mc 14,46) e Lo avrebbero arrestato per crocifiggerLo, dopo averLo umiliato e flagellato.

Gesù procede speditamente verso la sua consegna d’amore con desiderio ardente (cf Lc 22,15; attorno a Lui si va formando un gruppo sempre più numeroso di persone che Lo seguono nel suo cammino. Sono persone che Lo hanno incontrato lungo questo suo viaggio, hanno ascoltato la sua parola, sono rimasti affascinati dalla sua persona, conquistati dai suoi miracoli e, in una specie di esaltazione emotiva, Lo seguono.

Ma Gesù non può essere soddisfatto da questa sequela all’insegna dell’emotività, dell’esaltazione momentanea dell’animo, e allora si ferma e gela la folla con un discorso assoluto e radicale con il quale ogni persona dovrà sempre confrontarsi prima di dichiarare di essere seguace di Gesù Cristo…, e cioè cristiano!

Luca non ci narra come reagì la folla a quel discorso, di certo molti rimasero scandalizzati da una simile radicalità e se ne andarono, altri saranno rimasti, ma con una consapevolezza più forte della serietà del fatto di seguire Gesù.

Ma cerchiamo di analizzare le parole di Gesù: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo”.

Cosa vuol dire Gesù? Forse vuol imporre l’odio verso i propri genitori e i parenti più stretti e la propria persona? Certamente Colui che aveva comandato di onorare i genitori (cf Dt 5,16) e di amare il proprio prossimo (cf Lv 19,18), non può ora comandare l’odio! No, Gesù non vuole comandare di odiare, usa solo il linguaggio paradossale orientale tipico degli ebrei, in cui si estremizza, radicalizzando o negando qualcosa, al fine di affermare con grande enfasi un’altra realtà posta in opposizione a questa. Gesù con questo linguaggio si pone davanti agli ascoltatori come Colui che va scelto, seguito e amato per primo e di più. L’evangelista Matteo riporterà queste parole di Gesù in modo meno paradossale e perciò per noi più comprensibili di Luca: “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà” (Mt 10,37-39).

Come vedete, sia Luca che Matteo esprimono con chiarezza quali siano le esigenze del discepolato cristiano. È proprio qui che noi ci differenziamo dagli Ebrei, i quali seguivano una Legge, e si sentivano più o meno a posto in base al fatto che l’avessero osservata o no. Noi siamo cristiani e possiamo dirci tali nella misura in cui amiamo Gesù per primo e di più e per questo non possiamo mai sentirci “a posto”, perché non Lo ameremo mai quanto dovremmo!

Quest’amore primario e assoluto non è proprio degli apostoli e di coloro che sono chiamati ad una vita di particolare consacrazione al Signore, quest’amore primario e assoluto per Gesù dovrebbe essere caratteristica peculiare di ogni cristiano, fanciullo, giovane, adulto, anziano. Una persona può dirsi cristiana solo se ama così Gesù o – almeno! se desidererebbe amarLo così e si sforza di farlo, camminando in mezzo alle proprie contraddizioni, nello sforzo continuo di riorientare il proprio cuore verso il Signore Gesù, ogni volta che esso sbanda, nel tentativo effimero di trovare pace e felicità piena in qualcosa o in qualcuno che non porti il nome di Gesù.

Il cristiano, in qualunque momento del suo cammino si trovi, è sempre una persona che si rende conto di amare troppo poco Colui dal quale è stato amato troppo e di più, e per questo ogni giorno chiede una nuova e più grande capacità di amare, chiede che il Signore gli allarghi il cuore (cf Sal 119,32). 

Lo scopo per cui ogni domenica siamo invitati alla mensa eucaristica è proprio quello di capacitare sempre più il nostro cuore ad un amore più grande per Dio e per i fratelli, ricevendo nella nostra persona l’ineffabile presenza della Persona Divina di Gesù Cristo, con il suo Corpo, Sangue, Anima e Divinità, nella quale veniamo assimilati e conformati, secondo le nostre disposizioni d’animo e la sua benevolenza.

Essere cristiani non è questione di un’appartenenza sociale, o di assenso ad una tavola di valori, o di condivisione di una certa filosofia della vita, ma è amare una persona, amare Gesù, amarLo più di ogni altra persona o cosa al mondo: più dei genitori, più dei propri figli, più del proprio fidanzato o della fidanzata, più dei fratelli, più della propria stessa vita… se non amo così Gesù, come faccio a dirmi cristiano? Cristiano, cioè che credo che Lui è “il Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20)?

Quest’amore primario e assoluto poi, se veramente c’è nel mio cuore, non può non manifestarsi concretamente attraverso una vita simile alla sua: “Cristo infatti patì per noi lasciandoci un esempio perché ne seguiamo le orme” (1Pt 2,21). 

Quest’amore a Gesù è stato mirabilmente testimoniato nella storia dalla vita dei martiri, di coloro cioè che, pur potendo salvare la propria vita fisica, hanno preferito consegnarla alla morte per non tradire l’amore a Gesù. Ma se nella storia del mondo non tutti i cristiani sono chiamati al martirio, tutti sono necessariamente chiamati ad avere nel proprio cuore la disposizione d’animo per cui sono pronti a morire, ma non tradire l’amore a Gesù, così infatti si esprime il Concilio Vaticano II:

“[…] se a pochi è concesso [il dono del martirio], tutti però devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce durante le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa”. – Lumen Gentium 42

Qui, come vedete, abbiamo un piccolo criterio con cui giudicarci nel nostro essere cristiani. Un criterio molto semplice, concreto e facile, che mi permette di verificare la concretezza e la veridicità del mio dirmi cristiano: Sono pronto a morire per amore di Gesù? Sono deciso a tutto, ma non a tradire l’amore di Gesù?

Qui, badate bene, che non siamo negli alti gradi di santità della mistica, ma siamo nel terra – terra del cristiano semplice, siamo esattamente al primo grado di santificazione, al primo passo del cammino di santità, al primo gradino dell’amore a Gesù, se non si sale questo gradino, ancora non si ama Gesù, e quindi non possiamo dirci veri cristiani. 

Ma chi potrà capire un discorso simile? La prima lettura oggi ci ricorda che “i ragionamenti umani sono timidi”, che abbiamo bisogno di ricevere il “santo Spirito dall’alto” per poter capire le esigenze profonde del nostro essere seguaci di Gesù.

Gesù oggi non ci ha nascosto le esigenze alte, serie, ardue della sua sequela e, attraverso anche le parabole del re che va alla guerra e dell’uomo che costruisce una torre calcolando le proprie forze prima di intraprendere l’opera, ci ha invitato alla verifica di essa e ha concluso il discorso con altre parole forti: “Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo”. Dopo aver richiesto la priorità dell’amore verso di Lui sugli affetti famigliari, Gesù esige anche la priorità sugli affetti materiali, sugli attaccamenti alle cose.

Quello che oggi ci ha parlato, è un Gesù radicale, forte, esigente, appassionato, che volontariamente scoraggia una sequela piatta, inconsapevole, tiepida, stentata: Lui infatti ci ama appassionatamente e immensamente e non desidera altro che essere ricambiato con la stessa moneta d’amore. Gesù, infatti, è venuto a portare un fuoco su questa terra e altro non desidera che esso divampi nelle anime (cf Lc 12,49).

Consapevoli perciò di essere manchevoli nell’amore, consapevoli di amare ancora troppo poco Gesù, eleviamo l’intensità del nostro amore con il desiderio, rafforziamoci nei santi desideri e deponiamoli nel Cuore di Maria, che più di tutti Lo ha amato, perché ci insegni e ci aiuti ad amarLo concretamente, portando con pace, serenità e amore la nostra croce di ogni giorno. 

Amen.   

j.m.j.

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Ventiquattresima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C             Omelia

La gioia di Dio

 

Carissimi fratelli e sorelle,

in questa domenica la Liturgia della Parola ci ha presentato l’intero capitolo quindicesimo dell’evangelista Luca. Si tratta del capitolo della rivelazione della misericordia del Padre, ossia dell’amore sviscerato di Dio per la sua fragile e piccola creatura umana.

Nel passato il popolo di Dio aveva conosciuto questa misericordia divina e la prima lettura oggi ci mostra Mosè che prega per il popolo peccatore e ottiene ancora una volta misericordia per esso. Ma se la misericordia del Padre era stata già assaggiata nella storia della salvezza, mai nessuno avrebbe potuto immaginare a quali vertiginose misure essa potesse giungere, senza questa rivelazione evangelica.

Gesù, rivolto verso “i farisei e gli scribi” che mormoravano vedendoLo attorniato da “pubblicani e peccatori” presenta loro le tre parabole della misericordia: quella della pecora perduta, della dramma perduta, del figlio perduto.

Nella parabola della pecorella sperduta viene messo in maggiore evidenza l’amore che si manifesta nell’affanno della ricerca e rimanda direttamente al mistero dell’incarnazione, in cui Dio si fa uomo per cercare di raggiungere ogni uomo, spogliandosi della propria divinità per poter inseguire quell’uomo perdutosi dietro al peccato e ricondurlo alla Casa del Padre.

In quella della dramma viene maggiormente evidenziato l’amore che esplode nella gioia del ritrovamento, la donna chiama le sue amiche perché una grande gioia non può tenersi racchiusa nel cuore, ha bisogno di manifestarsi, di comunicarsi ad altri, di esplodere all’esterno.

Nel buon papà che vede arrivare il figlio da lontano emerge l’amore paterno che avvolge il suo figlio sempre, amore che non si allontana dal figlio neanche quando viene rifiutato, amore che sa attendere e sperare, amore che accoglie e reintegra.

Penso che possiamo identificare nelle tre parabole, tre elementi emergenti comuni: il dolore, la ricerca, la gioia.

Il buon pastore è costernato sapendo di avere una sua pecora sperduta lontana dal gregge, la brava massaia è addolorata perché ha perso una dramma, il padre buono soffre perché ha perso un figlio. Tutti e tre i soggetti sono addolorati perché hanno perso qualcosa di proprio a cui tenevano tanto: una moneta preziosa, una pecora, un figlio… Essi sono immagine di Dio e del suo amore unico, personalissimo e immenso con cui ama ogni uomo, ogni donna e con cui li insegue quando essi si allontanano da Lui e con cui giosce quando li ritrova.

L’accento è messo sull’individualità del rapporto: una moneta, una pecora, un figlio… Ogni persona ha un valore unico, personalissimo e immenso perché è amata da Dio di un amore unico, personalissimo e immenso, Dio ama così ciascuno e tutti. Dio non ama genericamente e nel mucchio, ama il singolo, ama l’individuo, ama ciascuna persona di questo amore.

Se una persona fugge da questo amore e come quella pecora si smarrisce nei monti o come quel figlio finisce nel brago dei maiali, è perché non sa cogliere quest’amore, non sa capire questo amore, non sente quest’amore.

Ma questo amore non capito, non percepito, c’è, è reale, è attivo, è operoso. È quest’amore che spinge il buon pastore a correre indietro a cercare la pecorella lasciando incustodite le altre novantanove perché una ha bisogno delle sue braccia per tornare nel gregge!

È proprio in questo il messaggio più peculiare di queste parabole della misericordia, per mezzo di esse Gesù ci rivela l’immenso amore con il quale ciascuno è inseguito dal Padre Celeste, siamo infatti suoi, sue creature, suoi figli amati, e Lui non si arrende nel vederci perduti! 

Ma come è difficile comprendere quest’amore! Nessuno dei due figli del padre buono della parabola aveva capito quest’amore! Né il figlio che scappa, né quello che resta, entrambi vivono il rapporto con il padre come qualcosa di oppressivo, schiacciante, frustrante. Uno decide per la libertà piena dal padre, l’altro accetta la sottomissione esteriore al padre, ma il suo cuore viaggia verso quei piaceri che il fratello aveva abbracciato anche fisicamente. Entrambi sono in realtà figli perduti perché entrambi non hanno compreso l’amore del padre.

A differenza del pastore che non avrebbe mai permesso alla sua pecorella di perdersi e della donna che mai avrebbe volontariamente smarrito la sua dramma, il padre buono del figlio ribelle, gli permette di allontanarsi, gli permette di perdersi, di sbattere la testa al muro, di finire letteralmente nel fango accudendo i maiali, perché perdendo tutto si possa ricordare di avere un padre. La vergogna del fallimento lo vorrebbe trattenere lì, ma poi vince su di lui la fame che lo spinge a riprendere la strada della casa paterna dove il mangiare non manca…, si prepara le parole da dire…, i gesti da fare… E dire che mentre lui vive questa situazione di umiliazione e di vergogna, suo fratello pensa che se la stia spassando… e si rode di gelosia…

No, non è l’amore del padre che lo spinge al ritorno, ma la necessità, il bisogno lo spingono a decidersi di umiliarsi davanti a colui dal quale si era allontanato baldanzosamente e con arroganza. Ora, umiliato dalla vita, ritorna a capo chino. Durante il cammino quel povero figlio è un figlio umiliato, ma non è ancora umile, è pentito di quello che aveva combinato, ha capito che ha sbagliato tutto, ma non è ancora contrito. Riconosce i suoi sbagli perché gli è andata male: gli son finiti i soldi, se ne avesse ancora non avrebbe ripreso la strada del ritorno!

Se provassimo a leggere la nostra storia personale alla luce di questa parabola, capiremmo tante cose! Tanti “perché” non sarebbero più tali, in quanto finalmente compresi nella luce di quest’immenso amore che ci insegue e ci raggiunge proprio lì dove noi crediamo che ci abbia abbandonato e tradito.

Che altro può fare questo Padre buono perché noi possiamo capire i nostri sbagli e possiamo godere del suo amore, se non che lasciarci andare via, lontano a inseguire le nostre piccole o grandi illusioni, finché travolti dalla crudeltà della vita, non sapendo più a chi rivolgerci, torniamo a Lui? La storia del figliol prodigo non è forse la storia di ciascuno di noi? Una storia che non solo si ripete in noi, ma lì anche si rinnova di continuo, perché non una volta abbiamo intrapreso quella strada dell’umiliazione, e forse né due, né tre, ma molte, molte di più, perché in verità ogni volta che commettiamo un peccato grave, viviamo l’esperienza di questo figlio che sprecò tutto senza rendersene conto.

Ma quando quel figlio si scoprirà atteso, quando sentirà le sue guance bagnate dalle lacrime del padre, quando si vedrà rivestito nella sua dignità di figlio e di erede, senza aver dovuto neppure pronunciare quelle parole che s’era imparato a memoria per commuovere papà, quando vedrà quella festa organizzata per lui che proprio, proprio non se la meritava affatto, allora, e solo allora, imparerà l’umiltà, travolto dalla piena di un fiume di amore di cui si sente profondamente indegno. E con l’umiltà imparerà ad amare il padre nel riconoscimento stupito del suo amore gratuito: nulla gli era dovuto, eppure tutto gli viene regalato! Mentre prima se ne era andato pretendendo ciò che riteneva suo diritto, ora che finalmente ha capito di non aver diritto a nulla, si scopre improvvisamente ricco!

Ora non sognerà più di fuggire da quella casa, né lo farà mai più, perché ha scoperto un amore troppo grande, eppure anche prima il padre lo amava così, solo che lui non se ne accorgeva, perché riteneva di averne diritto. È la scoperta della nostra radicale povertà che ci permette di gustare l’amore del Padre, finché crediamo di possedere qualcosa o di avere qualche diritto, non siamo in grado di percepire l’amore del Padre che si rivela solo ai poveri, ai diseredati, agli umili (cf Lc 4,18-19).

Come poteva capire quest’amore l’altro figlio così pieno di pretese e di diritti e vuoto d’amore? Il papà buono esce ad invitarlo ad entrare spiegandogli che “bisognava far festa perché suo fratello era morto ed ora è vivo!” Ma il figlio maggiore protesta e rinfaccia a suo padre di non amarlo:“Tu non mi hai mai dato un vitello per far festa con i miei amici!”

A differenza del fratello minore che aveva perso la figliolanza e quindi era consapevole di averla riavuta gratuitamente e per amore, lui, il fratello maggiore, vive la sua figliolanza come un qualcosa di cui abbia diritto. Questo atteggiamento fondamentale gli impedisce di cogliere l’amore del padre nella sua vita: “Tu sei sempre con me e tutto quello che è mio è tuo”. Egli non si rendeva conto del valore di essere figlio e dell’amore gratuito che riceveva dal padre, perché riteneva tutto dovuto.

Una domanda si affaccia prepotentemente alla mente come conseguenza di queste riflessioni: “Ma è proprio necessario perdere la figliolanza per scoprire di essere amati dal Padre? È necessario smarrirsi per poter gustare l’abbraccio del buon Pastore?”. Certamente no, e Maria SSma ci dimostra che non è necessario il peccato, il fango dei maiali per scoprire di essere amati dal Padre, ma certamente l’esperienza negativa del peccato, pur restando sempre negativa e quindi mai proponibile, lascia come eredità buona nel peccatore, una più facile consapevolezza della gratuità e dell’immensità dell’amore di Dio nei propri confronti.

Con queste parabole Gesù ci ha detto con forza: “Guardate che il Padre vi ama sul serio, possibile che ancora non ve ne siate accorti?”. È Gesù stesso la concretezza dell’amore del Padre per noi che tanto ci ha amati da mandarci il suo Figlio a cercarci mentre eravamo smarriti (cf Gv 3,16; 1Pt 2,25).

Maria Vergine ci aiuti a saper riconoscere tutto l’amore del Padre per ciascuno di noi, amore che si manifesta nel suo Figlio svenato e trafitto, e anche noi come Paolo (seconda lettura) possiamo riconoscerci con grande stupore indegnamente beneficati e amati da Dio.

Amen.

.j.m.j.

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Venticinquesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                  Omelia

La vera ricchezza

Carissimi fratelli e sorelle,

la Liturgia della Parola oggi ci propone una delle parabole di Gesù meno semplici e facili da comprendere che lascia spesso il lettore perplesso ad una sua prima e superficiale lettura. Infatti Gesù presenta ad esempio dei suoi uditori un uomo disonesto che si comporta fino all’ultimo in modo tale. È un amministratore imbroglione che aveva usato e sperperato i beni che gli erano stati affidati da un ricco signore. Questi, accortosi che veniva da lui derubato, lo chiamò a rapporto. L’amministratore, vedutosi perduto, con un ulteriore imbroglio, riesce a farsi amici un po’ di gente da cui rifugiarsi una volta licenziato per disonestà.

Gesù lo pone ad esempio nostro, bisogna capire, però, in che senso Egli ce lo addita a modello, non certo per la sua disonestà!

La scaltrezza di quest’amministratore di fronte al fatto, ormai inevitabile, che perderà il lavoro per via dei suoi imbrogli, il suo darsi da fare e industriarsi per salvare la sua situazione economica, sono occasione a Gesù per manifestare la propria amarezza perché i figli della luce, cioè coloro che dicono di seguirLo, non sono così accorti, previdenti e avveduti per conservare la vera ricchezza che è la vita eterna che Lui ha donato loro e che Gli è costata così tanto!

Il rimprovero che Gesù fa ai suoi discepoli e quindi anche a noi oggi, è un rimprovero forte che nasconde una sua grande amarezza, l’amarezza di non essere capito, stimato e amato. Egli “ha dato se stesso in riscatto per tutti noi” (seconda lettura), ha consegnato se stesso alla morte per l’umanità regalando a tutti la possibilità di diventare figli di Dio, figli del Padre suo e di vivere per sempre con Lui. Ma chi apprezza quanto Lui ha fatto per noi? Gesù ci rimprovera di essere più pronti a salvarci dai mali di questo mondo che dal male eterno. Gesù ci rimprovera di essere terrorizzati dall’eventualità di perdere del denaro o una certa sicurezza materiale, ma di non essere toccati affatto dalla paura di perdere i beni spirituali che Lui ci ha donato. La perdita della grazia sua non ci sconvolge così tanto come la perdita di beni materiali o della salute del corpo, eppure, quest’ultime sono tutte cose che possono influire sulla nostra vita solo temporaneamente, pochi anni o venti o quaranta o cinquanta o ottanta, ma non molti di più: “Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo” (Sal 90,10).

Gesù ha fatto tutto da parte sua per salvarci dalla “seconda morte” (Ap 2,11; 20,6.14, 21,8) ha donato la sua vita, ma non vede una corrispondenza con quello che facciamo noi per non perdere Lui e la sua grazia quaggiù e la vita eterna lassù. Egli ci ha regalato un tesoro immenso che gli è costato tutto “il suo sangue” (At 20,28; Ap 1,5; Rm 5,9), ma di questo tesoro in realtà noi non abbiamo la consapevolezza del valore, perché pur custodendolo in vasi di creta” (2Cor 4,7) molto fragili, non ci curiamo di proteggerli, difenderli e siamo per nulla addolorati se si rompono o se viene versato fuori il contenuto. Tutto questo non può non essere causa di grande e profonda amarezza per il Cuore sensibilissimo di Gesù che ci ama, ci ha donato tutto e non si vede riamato per quel che merita. L’indifferenza al dono ricevuto è disprezzo al Donatore del dono!

Insieme alla parabola dell’amministratore infedele, Luca ci presenta anche alcuni insegnamenti del Signore Gesù sul denaro e il suo uso.

Un “test” decisivo sull’autenticità della nostra decisione cristiana è proprio l’uso del denaro. Non è disonesta la ricchezza in sé, né maledizione la ricchezza esteriore. Ma lo è la ricchezza come idolo, innamoramento e progetto, come deformazione interiore del cuore e della mente che si orientano e si fissano su di essa come unico elemento che possa rendere la vita bella e felice.

Paolo oggi, nella seconda lettura, ci ricorda che, pregare il buon Dio per avere una certa tranquillità economica che permetta “una vita serena”, è una “cosa buona e gradita” al Signore. Gesù stesso poi ci ha insegnato a chiedere al Padre che non ci manchi il sostentamento quotidiano per il nostro vivere: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Mt 6,11; Lc 11,3). Il Figlio di Dio ha voluto, facendosi uomo, avere l’esperienza del lavoro, della fatica per provvedere alle necessità della famiglia. Lui conosce dal di dentro le nostre preoccupazioni per avere una “vita calma e tranquilla”, ma ci ha insegnato prima di tutto a dare lode e onore a Dio, ad impegnarci a cercare e fare “la sua volontà” (Mt 6,10) nella consapevolezza di fede che siamo amati dal Padre (cf Gv  16,27; Lc 12,7.28), che la nostra vita è lì, nel cavo delle sue mani (cf Is 49,16), sotto il suo sguardo d’amore (cf Os 11,4; Ger 31,3).

Per questo le preoccupazioni per la vita, per la famiglia, per il lavoro, per la casa, per i figli e per tutto il resto, il cristiano è chiamato a viverle in un modo diverso, non come chi non conosce Gesù e il suo Vangelo e riduce la realtà al solo presente terreno, senza un orizzonte eterno che ci attende. Certamente il cristiano non aspetta la manna dal cielo, egli si deve dar da fare per sostentare la famiglia, ma le sue preoccupazioni non devono diventare mai affanni (cf Lc 12,22ss; Mt 6,25ss) tanto da vivere solo in funzione di esse, riducendo così il senso ultimo della vita al lavoro o alla famiglia, noi siamo figli di Dio e siamo chiamati innanzi tutto a “cercare il “Regno di Dio” (Lc 12,31; Mt 6,33) “gettando nel Padre ogni nostra preoccupazione perché Egli ha cura di noi(1Pt 5,7).

Continuando il suo discorso Gesù afferma lapidariamente: “Non potete servire a Dio e a Mammona”, “non potete – cioè – servire Dio e il denaro”. Dobbiamo deciderci su quali valori impostare la nostra vita, non può esserci vera fede e sequela di Gesù Cristo, senza cambiamenti radicali nel nostro rapporto con il denaro, un cristiano non può relazionarsi con il denaro, così come si relaziona uno che non conosce Gesù. Qui veramente possiamo dire che “casca l’asino”, quando cioè ci troviamo a prendere delle decisioni che ci toccano nel portafoglio, è lì che può succedere che si manifesti il nostro paganesimo pratico e il nostro cristianesimo teorico. Quanti litigi, discordie, divisioni, odi, rancori, ripicche, gelosie nelle nostre famiglie quando si tratta di questioni di soldi? Soldi da dividere, soldi da dare? Eppure quando moriremo non ci porteremo via nessun soldo, ma solo l’amore con cui avremo vissuto!

L’idolo del denaro ha per tanti una forza di seduzione e di attrazione più forte della vita eterna che Gesù ci ha regalato “a caro prezzo” (1Cor 6,20). S. Paolo arriva a dire che “l'attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori”. (1Tm 6,10) In linea con questa tematica, il profeta Amos, nella prima lettura, rimprovera i commercianti disonesti che si arricchivano frodando i poveri. Approfittarsi del povero, sfruttare la situazione di persone che vivono momenti di disagio è qualcosa di vergognoso e infame. Sono situazioni che si realizzano sia nel piccolo, nel nostro piccolo mondo in cui ci muoviamo, sia a livello mondiale.

«La seduzione del dio denaro. In una società, in gran parte consumista e materialista, com'è la nostra, il dio denaro tenta di abbagliare perfino i cristiani migliori. Se andiamo al fondo delle cose, non è forse il culto verso il dio denaro la causa principale della persistenza della produzione della droga? Non è il culto verso il dollaro il movente più determinante della produzione e vendita di armamenti…? Non è forse il dio denaro l'incentivo più potente di alcune delle guerre etniche in vari paesi dell'Africa? E come spiegare la corruzione, in non pochi governanti, se non perché hanno innalzato un altare a questo dio insaziabile? 

Il denaro seduce, acceca, provoca divisioni fratricide, risveglia istinti di ambizione, fa soccombere finanche i principi più sacrosanti e nobili, indurisce il cuore, disumanizza e perfino ci fa dimenticare di Dio. Come credenti, dobbiamo avere davanti ai nostri occhi questa realtà e questa tentazione, non facile da vincere. Con spirito vigilante e con l'assiduità nella preghiera, dobbiamo esercitarci nel relativizzare il denaro, nel porlo nel luogo che gli spetta nei piani di Dio, nel servircene come mezzo per vivere degnamente, per fare il bene ai bisognosi, per metterlo al servizio della fede e del Regno di Cristo. Non abbiamo paura di questa seduzione! Affrontiamola a viso aperto. Viviamo la nostra vita quotidiana cercando di valutare sempre più la ricchezza della fede, la Ricchezza di Dio. Perché non contrastiamo la seduzione del denaro con la seduzione di Dio? O forse Dio è soltanto un oggetto di fede, che non ci seduce più? Il Dio vivo e personale è il migliore antidoto contro tutti gli idoli che possono bussare alla porta del nostro cuore». 

– P. Antonio Izquierdo.

Chiediamo alla Vergine Maria, umile e povera Vergine di Nazareth che ci insegni a non stimare le persone in funzione del denaro che posseggono o di ciò che possono fare per noi, ci aiuti a non soccombere alla tentazione del fare del denaro il centro e il tutto della nostra vita, e ci insegni a saper coltivare in tutte le nostre relazioni la gratuità, il servizio umile, generoso e disinteressato, sull’esempio del suo Figlio Gesù che “da ricco che era si fece povero per arricchire noi della sua povertà” (2Cor 8,9)

Amen

j.m.j.

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Ventiseiesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                                                   Omelia

POVERTÀ E RICCHEZZA: MALEDIZIONE O BENEDIZIONE? 

 

Carissimi fratelli e sorelle,

l’evangelista Luca continua a importunare il nostro spirito con un’altra parabola scomoda di Gesù, con un’altra parola forte del Maestro che ci vuol provocare, scuotere per stimolarci a prendere sul serio il Vangelo e a considerare con serietà le verità ultime della nostra esistenza: la morte con conseguente salvezza o dannazione eterna di noi stessi.

Alcune domeniche fa avevamo già dovuto parlare abbastanza diffusamente intorno alla realtà della possibilità che ogni persona ha di dannarsi eternamente, ne parlammo nella XXI domenica a proposito di quella “porta chiusa” che impedirà l’accesso alla festa eterna a coloro che persevereranno a camminare fino in fondo lungo quella strada ampia, spaziosa e seducente che conduce alla dannazione eterna (cf Lc 13,24ss).

Oggi Gesù ribadisce ancora una volta la verità dell’esistenza dell’inferno attraverso la parabola che abbiamo appena ascoltato, cerchiamo di entrarci dentro, in profondità.

Gesù ci presenta due uomini, uno senza nome e uno con un nome, Lazzaro. Dell’uomo senza nome si dice che era ricco e se la spassava vivendo nel lusso e nella sazietà “banchettando lautamente”, di Lazzaro invece si dice che era infermo, “coperto di piaghe”  che venivano “leccate dai cani” e che si nutriva degli avanzi della tavola del ricco.

Quale uomo più sfortunato di Lazzaro? Malattia e miseria coniugate alla loro massima potenza: un relitto umano, l’ultimo degli ultimi. Eppure Lazzaro ha un nome, il ricco epulone no!

La malattia e la miseria durante il lungo cammino del popolo di Dio avevano subito una certa evoluzione nella loro comprensione del significato. Tenendo presente che il dolore e la morte entrarono nel mondo come “punizione” del peccato dei progenitori (cf Gen 3,16ss), ogni cosa che avesse un legame con il dolore e la morte precoce veniva interpreta come segno di “punizione divina”, segno di “maledizione”, mentre ogni benessere materiale, una prole numerosa e una vita longeva erano segni ritenuti evidenti della “benedizione di Dio”.

Il popolo di Dio camminando lungo il tempo maturava lentamente nella comprensione di tante cose. Il Signore infatti non si rivelò con rivelazione completa e immediata, ma attraverso una rivelazione storica. Il popolo di Dio riflettendo sulla propria storia imparava a scoprire il vero volto di Dio e il vero volto dell’uomo, questo processo dinamico ha il suo culmine e la sua perfezione completa quando, venuta la “pienezza dei tempi, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna” (Gal 4,4). Con la venuta del Figlio di Dio in mezzo a noi si completa il processo di rivelazione del volto di Dio e di conoscenza del mistero dell’uomo.

Il popolo santo di Dio arrivò pian piano alla comprensione della verità, attraverso delle tappe che furono necessarie in quanto il buon Dio volle sempre adeguarsi al livello culturale e psicologico del suo popolo e condurlo per mano, seguendo il suo passo, di tappa in tappa, servendosi di tutte le sue vicende storiche per farlo crescere, maturare e diventare quindi capace di cogliere la verità nella sua pienezza.

Il Libro di Giobbe è un esempio concreto di questo cammino di crescita: Giobbe viene presentato come una persona che non accetta il sentire comune e s’impunta contro quella mentalità che vedeva la malattia, la disgrazia, la povertà, la morte precoce dei propri cari, come segno di “punizione per i peccati fatti”. Giobbe era onesto, buono, generoso e virtuoso eppure tutti i mali di questo mondo si erano rovesciati su di lui e non capiva il perché di questo e interrogava Dio, mentre i suoi amici volevano convincerlo a tutti i costi che, se gli erano successe tutte quelle sventure, qualcosa di losco doveva per forza aver combinato!

Camminando nella storia, pian piano si cominciò a capire che la sventura, la miseria e la sofferenza non erano segni di punizione di Dio, anzi si arrivò a conoscere Dio come il Dio dei poveri, dei miseri, dei derelitti, degli orfani, delle vedove, degli ultimi e c’è tutta una predicazione profetica che accentua questa visione. 

Nella domanda che i discepoli di Gesù gli faranno vedendo un cieco nato: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?” (Gv 9,1) possiamo vedere come, nonostante la predicazione profetica, la malattia e la sventura venivano ancora lette da molti come punizione e maledizione di Dio. Questa mentalità che affonda le radici sin dalle origini, possiamo constatare che non era solo presente ai tempi di Gesù, ma è tuttora presente e diffusa ed è segno indicatore di una mancanza di un cammino spirituale. Chi di noi, infatti, non ha sentito frasi come questa: “Io non mi meritavo che mi succedesse questo…” oppure: “Il Signore mi sta punendo per i miei peccati…”.

Ora, il Signore Gesù portando a compimento e a perfezione tutta la predicazione profetica che lo ha preceduto e che gli ha preparato il terreno, afferma in diverse circostanze e, in particolare, in questa parabola del “povero Lazzaro e del ricco epulone”, che la disgrazia, la malattia, la povertà materiale non sono segno della punizione o della maledizione di Dio, anzi, Gesù giunge ad affermare che proprio coloro vivono immersi in queste situazioni sono i “prediletti” dal Padre e per questo li chiama e definisce “beati” (cf Mt 5,3ss; Lc 6,20ss).

Gesù non maledice la ricchezza, Egli mette in guardia i ricchi del pericolo insito nella ricchezza (cf Lc 18,24-25) ricordando loro che la vita sfugge e che dovranno rendere conto a Dio di come hanno usato le loro ricchezze. Oggi abbiamo anche ascoltato come S. Paolo, riprendendo l’insegnamento di Gesù, esorta Timoteo a “fuggire tutte queste cose” riferendosi espressamente al fatto che

“… coloro che vogliono arricchire, cadono nella tentazione, nel laccio e in molte bramosie insensate e funeste, che fanno affogare gli uomini in rovina e perdizione. L'attaccamento al denaro infatti è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori” – 1Tm 6,7-10.

E così, mettendo in guardia i ricchi dal “pericolo delle ricchezze”, Gesù dichiara “beati” coloro che non avendo questa tentazione, sono più liberi e facilitati ad andare a Lui per trovare in Lui quel “ristoro” che non trovano nella loro situazione di “oppressione e stanchezza” (cf Mt 11,28-30). Ristoro che inizia già quaggiù quando, vivendo il Vangelo, si trasformano dal di dentro le situazioni di oppressione e di sofferenza, in amore che si consegna e si dona fino alla morte, per fiorire nella risurrezione e nella vita eterna.

È il mistero di Gesù Crocifisso che viene ad essere partecipato a tutti i crocifissi della storia, o meglio, il Figlio di Dio ha voluto, facendosi uomo, scegliere la condizione degli ultimi e morire crocifisso ingiustamente per dare dignità e speranza a tutti i crocifissi dell’umanità e così far capire bene a tutti che la dignità della persona non è riposta in quello che si possiede o in quello che si possa fare, ma in quello che si è. Dall’alto della sua croce dove il Figlio di Dio muore svenato d’amore in un mare di dolore e di umiliazioni, nella massima spogliazione e nudità, Egli esalta e proclama, con la sua umanità crocifissa, quelle beatitudini che aveva annunciato alle folle, per cui Egli, “il Primogenito di una moltitudine di fratelli”  (Rm 8,29), morendo così, nudo, umiliato e inchiodato, manifesta al mondo con la sua morte che veramente sono “beati i poveri… i miti… gli afflitti… gli affamati e assetati di Dio…” (cf Mt 5,3ss). Il Padre poi metterà il suo sigillo a questa proclamazione operando la sua risurrezione (cf. At 2,24; 3,15.26; ecc.).

E di questa risurrezione Gesù ne parla velatamente anche in questa parabola che stiamo esaminando, quando riferendosi ai parenti del ricco epulone che continuavano a vivere nella spensieratezza e nei bagordi, afferma: “Se non hanno ascoltato Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti sarebbero persuasi”. Grande deve essere stata l’amarezza con cui Gesù avrà detto questa frase, con la quale abbracciava, nel suo sguardo divino, tutta quella schiera di persone per le quali tutte le sue sofferenze, tutte le sue umiliazioni e la sua stessa morte d’amore, sarebbero state assolutamente inutili, perché distratte dalla propria spensieratezza e sazietà materiale. E sì, è vero quello che aveva annunciato il profeta Amos nella prima lettura: “Guai agli spensierati di Sion…guai!”.

La Vergine Maria che magnificò il Padre del cielo che rovescia i potenti dai troni, innalza gli umili, ricolma di beni gli affamati e rimanda a mani vuote i ricchi” (Lc 1,52-53) ci aiuti ad assimilare nella mente e nel cuore il Vangelo del suo Figlio per poterlo poi manifestare al mondo con la santità della nostra vita.

Amen.                                                               j.m.j

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Ventisettesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                   Omelia

«Signore, aumenta la nostra fede!» 

Prima Lettura: Ab 1,2-3; 2,2-4

Dal Salmo 94

Seconda Lettura: 2Tm 1,6-8.13-14

Acclamazione al Vangelo: Fil 2,15d. 15a

Vangelo: Lc 17,5-10

Carissimi fratelli e sorelle,

tutta la Liturgia della Parola di questa domenica ci parla della fede, ne esalta la virtù e ne proclama la necessità.

Il profeta Abacuc, nella prima lettura, in un contesto storico disastroso di guerra, di afflizione, di profonda ingiustizia, lancia a Dio il suo grido di incomprensione, grida a Dio la sua protesta per il fatto che tutto va a rotoli e Lui non interviene, se ne sta nascosto sulle sue nubi mentre il malvagio continua ad operare iniquità e il giusto continua a soffrire ingiustamente: «Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: «Violenza!» e non soccorri? Perché mi fai vedere l'iniquità e resti spettatore dell'oppressione?».

Il grido di Abacuc non è un grido solitario, tutt’altro: anche Geremia e il  Salmista lanciano a Dio l’urlo dell’uomo derelitto e provato che vorrebbe costringere Dio a “svegliarsi” dal suo apparente sonno che accompagna il dolore e lo strazio di tanta umanità vittima della miseria, della guerra, della malattia, delle catastrofi, dell’ingiustizia e della prepotenza: «Perché, Signore, sembra che tu sei debole e incapace di aiutarci?» (cf Ger 13,9), «Svègliati, perché dormi, Signore?» (Sal 44,24), «Perché, Signore, stai lontano, nel tempo dell'angoscia ti nascondi? [Perché] il misero soccombe all’orgoglio dell’empio e cade nelle insidie tramate…[?]» (Sal 9-10,22-3).

Sì, «perché dormi, Signore», mentre il mondo sprofonda nel dolore? Sei forse un Dio insensibile e senza cuore? La risposta di Dio a questo grido, nel Vecchio Testamento, l’abbiamo appena ascoltata, è una risposta che afferma una certezza: «Ecco, soccombe colui che non ha l'animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede» (prima lettura). Dio afferma che l’ingiusto perirà per sempre, mentre il giusto vivrà per sempre grazie alla sua fede. Il proprio di questa fede è, quindi, continuare a credere” (cf Mc 5,36) anche quando l’ingiusto continua a vivere e a spassarsela, mentre il povero disgraziato continua a soffrire e morire. Vedere ciò e nello stesso tempo essere certi che Dio ha messo una scadenza a tutto questo: «La via degli empi finirà in rovina» (Sal 1,6). Il giusto sa attendere con pazienza i tempi di Dio per il Quale «mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte» (Sal 90, 4; cf 2Pt 3,8). A questa pazienza viene invitato Abacuc dal Signore Dio: «È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà» (prima lettura).

Propriamente gli empi nella Bibbia sono coloro che non credendo a questa promessa, vivono la propria vita all’insegna del sopruso e del tornaconto personale pensando che Dio non guarda e non si cura del mondo, «la pensano così, ma si sbagliano; la loro malizia li ha accecati. Non conoscono i segreti di Dio; non sperano salario per la santità né credono alla ricompensa delle anime pure» (Sap 2,21-22). 

La fede che, invece, sostiene il giusto, è questa certezza che c’è un «salario per la santità», che c’è una vita eterna il cui solo pensiero ridimensiona ogni realtà terrena come passeggera, fugace, e quindi come tempo della prova che ci introduce al tempo della definitività e del per sempre eterno.

Questa fede dell’uomo veterotestamentario lo rende saldo e forte perché si appoggia su Dio, credere, per l’ebreo, è appoggiarsi su Dio:

«In effetti, la parola "credere" nella radice ebraica ("amen") indica anzitutto l'appoggiarsi esclusivamente su Dio, l'affidarsi interamente a Lui, il preferirlo a ogni realtà di questo mondo. Nella lingua latina "credere" significa propriamente "cor-dare" = fare dono del proprio cuore a Dio. Una fede così fa succedere cose incredibili e genera un'esistenza nuova e contagiosa. […]

Una fede che rende capaci di accettare serenamente i ritardi di Dio, il suo silenzio, la sua apparente assenza e indifferenza nei nostri confronti. "Un giovane lebbroso è agli ultimi stadi della malattia. In pubblico uno lo provoca: Non vedi come sei disgraziato? Guarda i tuoi coetanei! Scoppiano di salute, si divertono, hanno un futuro davanti. Tu, quando andrai da Dio – e sarà presto – che cosa gli dirai? Il giovane, dopo un attimo di silenzio, risponde: Quando andrò da Dio, gli dirò: Io mi sono fidato sempre di te! (dal racconto di un missionario). Una fede che, nell'attuale situazione di angoscia, di paura, di tragedia prolungata per gran parte dell'umanità, riconosce che Dio non è lontano ma più vicino che mai. Quando tutto crolla, resta solo Lui e il suo amore. La fede è abbandono a Lui». – Mons. Ilvo Corniglia, Omelia per la XXVII Dom. del T. O. del 3/10/04.

Ma, dopo aver parlato della fede nel Vecchio Testamento, vediamo ora il Vangelo odierno cosa ci dice a proposito di essa. Abbiamo ascoltato l’invocazione degli Apostoli a Gesù: «Signore, aumenta la nostra fede!». Questa invocazione così accorata sgorga spontanea dal cuore di ogni credente di fronte alla sublimità del Vangelo annunciato da Gesù, alla sua elevatezza morale, alle sue difficoltà in ordine alla sua attuazione. Quel Dio che nel V. T. gli uomini imploravano che si svegliasse e si mostrasse forte e potente e mettesse a posto ogni cosa, ora si mostra, ma non nella sua maestà e potenza, bensì nella sua debolezza di uomo (cf Fil 2,7) che grida straziato al Padre nell’impotenza della sua umanità inchiodata ad un legno da tre chiodi, nel più completo abbandono e nella più assoluta desolazione: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34).

Aver fede, ora, significa credere nella potenza della debolezza di Dio (cf 1Cor 1,25), di Dio che rimane lì fermo e inchiodato alla croce e, pur potendo spezzare le ginocchia di ogni suo nemico (cf Fil 2,10), lascia che la lancia di un omino Gli possa squarciare il costato (cf Gv 19,34). 

Aver fede, quindi, per noi del Nuovo Testamento, significa credere a Gesù, che è Lui “il nostro Dio” (2Pt 1,1; Tt 2,13; Gv 20,28), credere che Lui è il “più forte” (Lc 11,22) nonostante non sia sceso dalla croce (cf Mc 15,29-32; Mt 27,40-44; Lc 23,35-39), morendovi sopra come uno dei tanti falliti e vinti dell’umanità.

Aver fede significa aderire a Gesù, alla sua persona, al suo messaggio, alla sua mentalità, alla sua sorte.

Aver fede, per noi, è “stare con Gesù” (cf Mc 3,14; Mt 28,20), è “seguirlo” (cf Mc 1,18; Lc 5,27; 9,59; 18,22; Gv 1,43; 21,19; ecc.), andandoGli dietro dovunque (cf Ap 14,4), senza paura (cf Gv 11,16), senza vergognarsi di essere suoi discepoli (cf Rm 1,16; seconda lettura), prendendo posizione pubblicamente a favore di Gesù, del Vangelo, della Chiesa.

Aver fede, per noi, è lasciar dormire Gesù “a poppa, sul cuscino” (Mc 4,38), mentre la barca fa acqua da tutte le parti perché infuria la tempesta, ben sicuri e certi che non si affonda (cf Mc 4,40; Mt 16,18), perché ben sappiamo ormai che Lui ci ama (cf Gv 10,11; 13,34; 14,21), per cui “questa vita nella carne, la viviamo nella fede del Figlio di Dio, che ci ha amato e ha dato se stesso per noi (Gal 2,20).

Aver fede, per noi, è seguire Gesù passo passo (cf 1Pt 2,21; Lc 9,23), fino in cima al Calvario (cf Gv 18,15; 19,25-26), partecipando alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria” (Rm  8,17).

Questa è la fede che dovrebbe sgorgare dal nostro cuore, dalla nostra voce, dalla nostra vita, questa è la fede che riempie di gioia il cuore sensibilissimo di Gesù (cf Lc 7,9; Mt 15,28), questa è la fede che è capace di sradicare gli alberi (Vangelo odierno), spostare le montagne (cf Mc 11,23), questa è la fede che, unica, riesce a “toccare” Gesù, e a costringerLo ad operare miracoli (cf Lc 8,46).

Questa è la fede che è giunta a ciascuno di noi tramite la predicazione degli Apostoli e dei loro successori (cf Rm 10,16-17), per il comando d’amore che diede loro il Signore Gesù quando, ascendendo al Cielo, ordinò di andare e ammaestrare tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che Lui aveva comandato” (Mt 28,19-20).

Questa è la fede che abbiamo ricevuto come “deposito da custodire” (seconda lettura) dalla Chiesa nostra Madre; questa è la fede che ogni domenica insieme proclamiamo e rinnoviamo in ogni nostra Eucaristia; questa è la fede che ci fa beati riempiendoci di ogni gioia e pace” (cf Rm 15,13), anche se immersi nelle prove più dure della vita; questa è la fede che ci fa ricchi (cf 2Cor 4,7) della vera ricchezza che nessuno può strapparci (cf Mt 6,20; Lc  12,33); questa è la fede che ci salva (cf 2Tm 3,15); questa è la fede che ci rende eredi del Regno di Dio (cf Rm 4,16)  e figli suoi (cf Gal 3,26).

Questa è la fede con cui il Signore Gesù vorrebbe essere accolto quando tornerà a chiudere la storia, ma che dubita, con amarezza, di poter trovare (cf Lc 18,8).

Ebbene – carissimi fratelli e sorelle – chiediamo alla Vergine Maria, proclamata da Elisabetta beata per la sua fede (cf Lc 1,20), che aiuti noi “gente di poca fede” (Lc 12,28) a crescere in una esperienza di fede che si concretizzi nella generosa e umile nostra disponibilità a metterci al servizio del Regno di Dio, testimoniando con amore e slancio il Vangelo del suo Figlio Gesù, nella continua consapevolezza di essere “servi inutili” (Vangelo), ma tanto amati. 

Amen.

j.m.j.

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Ventottesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                                   Omelia

«E GLI ALTRI NOVE DOVE SONO?» 

Carissimi fratelli e sorelle,

i testi della Liturgia della Parola di questa domenica si prestano ad una riflessione sull’importanza e il valore di alcune virtù: l’obbedienza, l’umiltà, la fedeltà, la riconoscenza.

Dell’obbedienza ci parlano tutte e tre le letture odierne. La prima è, tra tutte, la più vivace e movimentata, vivacità e movimento che però, purtroppo, non si colgono dalla proclamazione che ne fa la Liturgia in quanto il racconto tratto dal secondo libro dei Re è stato riportato solo in parte per l’utilità pastorale di non appesantire la Liturgia. Ma invito ciascuno di voi, durante questa settimana, a prendere in mano la Bibbia e leggervi per conto vostro questo episodio del V.T. che è molto simpatico e ricco di insegnamenti. Questo Naam, generale in capo dell’esercito degli Aramei si presenta al re d’Israele con una lettera del re di Aram che chiede al re d’Israele il favore di guarirlo dalla lebbra. La richiesta era scaturita dal fatto che una schiava ebrea aveva detto alla moglie di Naam che in Israele c’era un Dio così potente che poteva anche guarire dalla lebbra suo marito. 

Ognuno di noi può immaginare che colpo al cuore e che spavento venne addosso al re d’Israele quando lesse quelle lettera del re di Aram, potente e grande nazione, che gli chiedeva di fargli il favore di guarire il suo generale dalla lebbra! Quel poveraccio tremò dalla paura pensando che il tutto fosse un pretesto per attaccare e distruggere Israele e non sapeva cosa fare.

Il racconto prosegue con l’intervento del profeta Eliseo che, saputa la cosa, mandò a chiamare il generale arameo. Quando Naam arrivò a casa del profeta, Eliseo gli mandò a dire dal suo servo, senza neanche riceverlo, di lavarsi sette volte nel Giordano che sarebbe guarito. Naam s’infuriò sentendosi offeso perché non ricevuto, né toccato dal profeta, né questi aveva pronunciato su di lui qualche preghiera o formula magica: “Non c’erano fiumi più belli e grandi in Aram perché io debba andare a lavarmi al Giordano?” I suoi servi, però, lo convinsero ad andare al Giordano e lavarsi secondo l’invito di Eliseo: “Che ti costa, padrone, ormai che sei qui, a lavarti al Giordano? Prova, non ti pare?”

Naam andò, si lavò e guarì! La sua guarigione giunse attraverso due tappe: l’umiliazione e l’obbedienza. Una volta guarito dalla lebbra, Naam, capì pure che non era stata l’acqua del Giordano a guarirlo, ma il Dio d’Israele l’aveva guarito. Questa considerazione lo condusse ad una guarigione completa, totale, del corpo e dell’anima e quando Eliseo rifiutò tutti i doni che lui voleva fargli in ringraziamento della guarigione ottenuta, chiese il permesso di portarsi ad Aram un po’ della terra d’Israele per adorare su quella terra il vero e unico Dio e non adorare più gli idoli.

Così come per Naam anche noi oggi, se vogliamo guarire dalle nostre lebbre dobbiamo passare attraverso l’umiliazione e l’obbedienza, non c’è guarigione della persona senza umiliazione e obbedienza. L’umiliazione di aver capito bene, attraverso l’esperienza della vita, di essere niente, di non potere niente, di non avere diritto a niente. La persona comprende, attraverso l’esperienza della propria impotenza, insufficienza e debolezza che lei non è Dio, che è una povera creatura mortale e caduca, che ha bisogno di Qualcuno che l’aiuti e la salvi. Comprende che la propria salvezza è nelle mani di Qualcun altro che deve pregare e che non può costringere ad intervenire. Capisce che questo Qualcuno è Dio, Lui sì, è Dio, lei no! Finché la persona non ha capito bene questo, e non l’ha capito proprio bene, non può essere guarita dal Signore, e alle volte occorre proprio che si tocchi il fondo per arrivare ad afferrare questa verità, per capire la quale basterebbe solo un po’ di buon senso!

Da questa umiliazione dell’animo, che possiamo intravedere simboleggiata nel “levarsi i sandali” (Es 3,5) di Mosè al roveto ardente, nasce quell’altra virtù che è figlia dell’umiliazione: l’umiltà. L’umiltà è una virtù che non si può acquistare con l’esercizio, con lo sforzo, con l’impegno, essa è una virtù che è figlia dell’umiliazione profonda del nostro animo. L’umiliazione partorisce l’umiltà, che non è vera umiltà finché non è solamente riconoscimento del nostro essere niente, di non potere niente, di non avere diritto a niente, ma anche contentezza, serenità e pace nel considerarsi tali. Vero umile è solo chi, riconoscendo la propria piccolezza, impotenza, debolezza e nullità, è anche felice di essere tale; di essere e di esistere solo in quanto la mano amorevole di Dio lo sostiene e gli regala, per amore gratuito e immeritato, la vita attimo per attimo.

Quest’umiltà ci permette poi di essere obbedienti di quell’obbedienza umile e amorosa che un cuore altezzoso e superbo non può attuare. La persona che è veramente umile, è capace di ubbidire con semplicità perché sa di essere piccola, misera e di non essere né avere nulla da sé, ma che tutto riceve senza merito e gratis, per questo non si sente superiore a nessuno, tanto meno a Dio! Relazionandosi così con tutti, prima di tutto con Dio, l’umile ubbidisce senza difficoltà perché ha il cuore pieno di riconoscenza per tutto quanto è e tutto quanto ha.

Consapevole di questo, l’umile sa essere ubbidiente anche quando l’ubbidienza costa, costasse pure il carcere o la vita, come Paolo che soffre in carcere per ubbidienza a quella Parola che egli deve annunciare a tutti, costi quel che costi per essere fedele a Dio che per primo è fedele al suo amore per lui.

L’ubbidienza cristiana è amorosa fedeltà al Dio fedele. L’ubbidienza del cristiano scaturisce come una necessaria conseguenza della scoperta dell’amore fedele di Dio, dell’acquistata consapevolezza di essere inseguiti di continuo dall’amore fedele di Dio che non si lascia vincere da niente e da nulla per raggiungerci e bussare alla porta del nostro cuore per chiedere di essere accolto (cf Ap 3,20).

Anche i dieci lebbrosi del Vangelo sono ubbidienti, infatti ubbidiscono a Gesù che aveva detto loro di andare dai sacerdoti. Si erano poco prima “fermati a distanza” da Lui e gli avevano chiesto, gridandoGli, di guarirli. Gesù, un po’ come Eliseo, senza né toccarli né pronunciare qualche parola ad effetto, li aveva invitati semplicemente a presentarsi ai sacerdoti come la Legge prescriveva perché ne sancissero la guarigione e li riammettessero nella comunità. Ma quando Gesù li aveva invitati ad andare dai sacerdoti, non erano ancora guariti, guariranno mentre vanno da loro.

Mettiamoci un’attimo nell’animo di questi dieci che camminano verso il Tempio per chiedere di qualche sacerdote. Loro, lebbrosi dai quali tutto il mondo è tenuto a stare a distanza! Chissà cosa pensavano…, chissà cosa avevano nel cuore… mentre andavano a cercare qualche sacerdote vedendosi ancora lebbrosi…! Hanno avuto fede nelle parole di Gesù e hanno cominciato il cammino verso la liberazione. 

Non possono qui non risuonare alle nostre orecchie le parole di Maria rivolte a quei servi a Cana: “Fate tutto quello che mio figlio vi dirà” (Gv 2,5). Sì, fidiamoci di Gesù…, fidiamoci del suo Vangelo e facciamo quello che Lui ci dice, la guarigione verrà lungo il cammino, non sarà quindi immediata, ma avrà i suoi tempi. Dobbiamo però imparare a gridare a Gesù che ci guarisca, che abbia pietà di noi, perché Lui guarisce solo quelle ferite e malattie che noi gli presentiamo (cf Mc 10,51). 

I dieci ubbidendo a Gesù, camminando verso il Tempio si scoprirono guariti, uno di loro tornò indietro, gli altri nove proseguirono il cammino per presentarsi ai sacerdoti. Alcuni commentatori, volendo capire perché i nove non tornarono indietro a ringraziare Gesù come fece il decimo, opinano che probabilmente non tornarono indietro perché, essendo ebrei, ritenevano che quella guarigione in fin dei conti Dio gliela doveva concedere, e quindi, ritenendosi creditori e non debitori insoluti non sentirono il dovere di tornare indietro a ringraziare.

Questa interpretazione è possibile, sì, ed è anche molto significativa e riprende un po’ l’insegnamento precedente sull’umiltà, ma non riesco a farla mia, non penso che non tornarono perché si ritenevano in diritto di essere guariti, no. Quando si vive una situazione così umiliante, degradante, misera e dolorosa come quella del lebbroso, non credo che possano sovvenire certi atteggiamenti arroganti e pretenziosi. 

Quei nove lebbrosi che proseguirono il loro cammino verso il tempio, facevano questo in ossequio ad un comando di Gesù: “Andate a presentarvi ai sacerdoti!”. Loro quindi pensavano, probabilmente, di essere semplicemente nel giusto: stavano ubbidendo a Gesù. La gioia poi di vedersi guariti mise loro le ali per trovare qualche sacerdote che ne attestasse la guarigione e così potessero essere riammessi nella comunità, tornare alle loro famiglie, riabbracciare le loro mogli e i loro figli, e, forse, dopo sarebbero andati anche a cercare Gesù per ringraziarLo, magari portandosi dietro tutti i propri cari.

Uno di loro, un samaritano, cioè un eretico, uno che non è della comunità, vedendosi guarito si ferma e torna indietro. Il suo gesto non era richiesto, non torna indietro per ubbidire ad un ordine o a una richiesta, torna indietro per amore. L’essenza dell’amore dell’uomo per Dio è proprio il ringraziamento. Mentre Dio ama per primo e quindi senza motivo e gratis, l’amore dell’uomo è sempre secondo, dipendente dalla sua scoperta e non ha altro nome che GRATITUDINE, RINGRAZIAMENTO: “Noi amiamo perché Egli ci ha amato per primo” (1Gv 4,19).

In questi dieci lebbrosi possiamo perciò leggere due modalità di essere cristiani, una, quella dei “nove” che ascoltano Gesù, ubbidiscono a Gesù, sono guariti da Gesù, ma prima vanno dai sacerdoti, poi alle loro case e poi, infine, tornano (verosimilmente) da Gesù per ringraziarLo. Sono un po’ i rappresentanti di molti che, in fin dei conti, sono bravi, buoni, ma per i quali Gesù non è il “PRIMO”, ma viene dopo le “mie” cose, la “mia” famiglia, il “mio” lavoro… e poi viene Gesù. Per questi la vita cristiana non è ancora un rapporto intimo d’amore con Gesù, Gesù ancora per loro non è il loro Tutto, non sono ancora stati bene afferrati dall’amore di Gesù (cf Fil 3,12) e hanno il cuore diviso.

Il samaritano, invece, che vedendosi guarito, tralascia di avere il permesso legale per essere riammesso in comunità, per tornare a cercare Gesù e dirGli il suo GRAZIE, diventa il simbolo di tutti coloro che avendo scoperto l’immensità dell’amore di Gesù, non possono più vivere, per esigenza d’amore, senza cercare Gesù e “gridargli” la propria gratitudine, cioè il proprio amore per Lui. Un cristiano che non grida a Gesù il suo amore, che cristiano è? Un cristiano che in tutto non cerca per prima cosa Gesù, che cristiano è? E io…, e io che cristiano sono?

È Gesù stesso desidera questo grido di riconoscenza: “Non erano stati guariti dieci? E gli altri nove dove sono? Solo questo samaritano è tornato a ringraziarmi?”

Carissimi fratelli e sorelle facciamo in modo che Gesù non debba continuare ad essere amareggiato da qualcuno di noi che, magari, vive ancora senza gridarGli la sua gratitudine, senza aver scoperto l’immensità del suo amore per lui, senza cercarLo ogni giorno per ringraziarLo.        Amen.                                                                                             j.m.j.

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Ventinovesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                                                   Omelia

Carissimi fratelli e sorelle, 

poco prima di dare la sua vita per Gesù, Paolo scrive a Timoteo una lettera della quale oggi abbiamo ascoltato, come seconda lettura, un brano. Timoteo è un vescovo, appartiene al secondo anello della catena apostolica, fu strettissimo collaboratore di Paolo e fu posto a reggere la chiesa di Efeso. Paolo era molto affezionato a Timoteo, lo conosceva da quando era fanciullo: “Mi ricordo infatti della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te” (2Tm 1,5). Timoteo era figlio di papà pagano e mamma giudea. La mamma e la nonna si convertirono al cristianesimo ed educarono nella fede Timoteo.

Paolo ricorda a Timoteo l’opera educativa di sua mamma e di sua nonna nei suoi confronti e come, fin dalla sua giovane età, poté apprendere da queste due sante donne le Sacre Scritture la cui conoscenza gli sarà tanto utile ora che è vescovo “per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona”. 

La lettura e la meditazione della Parola di Dio, infatti, formano la persona alla sapienza, cioè a saper leggere la propria vita ad una luce superiore, a vedere la propria storia personale e del mondo da una più alta visuale che si apre all’orizzonte di Dio ridimensionando tutto nella verità.

“Tutta la Sacra Scrittura è ispirata da Dio”, Dio ha voluto che giungesse a noi quel racconto, quella storia, quella parola perché la nostra mente fosse illuminata. “Tutta!”. Non c’è qualcosa della Sacra Scrittura che non sia utile a noi per la nostra formazione cristiana. Molti cristiani si trovano in difficoltà leggendo il Vecchio Testamento per tante crudezze e anche perché sembra trasparire la figura di un Dio completamente diverso da quel Padre misericordioso e buono che abbiamo conosciuto tramite Gesù. Quanto ci sbagliamo! “Tutta la Scrittura è ispirata!” ed anche il V.T. ha la sua funzione educativa per noi cristiani che certamente siamo incompleti se non conosciamo questa parte della Bibbia: “L’ignoranza delle Scritture, è ignoranza di Cristo” (S. Girolamo).

Certi comandi di Dio o certe sue parole trasmessici dal V.T., vanno capite e inquadrate in un cammino storico in cui il buon Dio si è relazionato con il suo popolo secondo come poteva essere da questi accolto e capito. Dio è entrato nella storia di questo popolo, abbassandosi ai suoi limiti culturali, psicologi, sociali e storici. Lo ha preso per mano e piano piano, attraverso i secoli e l’intervento dei suoi profeti, lo ha educato, lo ha fatto maturare e crescere fino a renderlo capace di ricevere la sua rivelazione piena e completa, quando, “nella pienezza dei tempi Lui mandò il suo Figlio nato da donna” (Gal 4,4) per salvare l’umanità.

Però, perché la Scrittura possa produrre in noi la sua azione formativa, occorre che “noi l’accogliamo non quale parola di uomini, ma com’è veramente: Parola di Dio che opera in noi che crediamo(1Ts 2,13). Dobbiamo accoglierla cioè con fede, con devozione, con amore e dobbiamo leggerla così. Quando ci accostiamo con questi atteggiamenti alla Parola, essa “opera”, cioè: tocca, punge, rimprovera, illumina, scuote, apre, scombussola, travolge, sconvolge, consola e infiamma. 

Se ci mettiamo a leggere devotamente la Parola, con fede e affetto, con devozione, invocando su di noi quello stesso Spirito Santo che l’ha ispirata nel cuore chi la scrisse, allora Essa diventa uno specchio divino dove noi ci specchiamo e conosciamo non solo Dio, ma anche noi stessi nella verità: “Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v'è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi” (Eb 4,12-13).

Uno dei frutti principali della lettura devota, meditata, metodica e amorosa della Sacra Scrittura è proprio la conoscenza di Dio e di se stessi in profondità e nella verità. Essa entra con la sua luce nei meandri più bui e nelle fibre più nascoste della nostra anima e vi porta la luce di Dio in un modo molto semplice. Leggendo la Bibbia, infatti, ci incontriamo con la storia concreta di altri uomini e donne come noi e di come Dio ha agito nella loro vita e così impariamo facilmente due cose: la prima, è che così impariamo a capire come agisce Dio nella vita dell’uomo, la seconda, è che scopriamo le nostre personali deficienze e i nostri peccati. Infatti, la storia sacra è una storia di salvezza perché è una storia di peccato e la narrazione dei peccati dei suoi protagonisti fa sì che ci rendiamo conto dei nostri personali peccati che troppo spesso ci rifiutiamo di prenderne coscienza. 

E così capisco che, oggi, nascosti dietro un cespuglio perché sta passando Dio, non ci sono più né Adamo né Eva (cf Gen 3,8), ma ci sono io che mi nascondo a Dio perché mi vergogno di me stesso. Capisco che oggi quel Caino geloso che uccide suo fratello Abele, sono io con le mie tante gelosie che mi muovono ad azioni contro i miei fratelli, azioni apparentemente giuste, ma motivate sotto sotto, in verità, non altro che dalla gelosia. Capisco allora che, oggi, non è più Saul ad essere invidioso del successo di Davide (cfr 1Sam 18,8-9), ma io che mi rodo di invidia verso questo o quell’altro perché hanno o sono ciò che desidererei avere od essere io. Capisco che, oggi, non è più Davide a far uccidere Uria (cf 2Sam 11,15) o Getzabele Nabot (cf 1Re 21,8-10), ma sono io che pur di avere ciò che bramo, alle volte sono stato capace di tutto; e così, sono ancora io quello che oggi implora a Dio il suo perdono, non più Davide, confessando umilmente il mio peccato (cf Sal 50). Ed ancora io sono quel Giona (Gn 1,1-3) che oggi scappa di fronte alle esigenze della missione cristiana. E così via…: “Tu sei quell’uomo!” (2Sam 12,7).

I vari episodi e storie della Bibbia diventano, per illuminazione interiore dello Spirito Santo, che ci accompagna nella lettura, figura e simbolo della nostra storia personale. Quell’Isacco che Dio chiede di sacrificare ad Abramo ci fa scoprire i tanti “Isacchi” della nostra vita che non riusciamo a mettere dopo il posto che spetta a Dio (cf Gen 22,1ss). Quel viaggio pieno di insidie del popolo di Dio verso la libertà (Libro dell’Esodo), diventa simbolo e segno della mia personale storia di liberazione. Quei nemici agguerriti con cui gli ebrei se la dovettero vedere per prendere possesso della terra promessa (Libro di Giosuè), diventano metafora dei nostri vizi e tentazioni che dobbiamo combattere e vincere se vogliamo entrare nella terra promessa del Cielo.

Sono io, poi, che affronto Golia ogni giorno, non più Davide, sono io che, oggi, sono chiamato ad affrontare satana, il mondo ed il mio uomo vecchio, nemici tremendamente più forti di me, molto più forti e ben armati, ma che vincerò senza meno, pur avendo solo una fionda e una pietra perché li affronterò “nel nome del Signore” (1Sam 17,45).

E così, leggendo la prima lettura di oggi, capisco anche che in quell’Israele che è forte e vince solo quando sul monte c’è Mosè che alza le mani in preghiera, sono raffigurato io che sono in pace e gioioso quando prego e pratico i sacramenti, mentre finisco sempre lontano e nel fango ogni volta che decado dalla preghiera e dai sacramenti. 

Se tanto insegna il V.T. quanto più insegnerà al nostro cuore il N. T. con il Vangelo di Gesù, nostro Maestro, Signore e Dio! Oggi, poi, Gesù ci ha insegnato a pregare con fiducia e perseveranza. Ci ha insegnato che Dio nostro Padre non è come un giudice iniquo, Egli è buono e ci vuol bene e ascolta il grido del misero che grida a Lui (cf Sal 9,13.19; 18,7; 34,7; 40,18; ecc.) e bisogna pregare con questa fiducia nel suo amore:

«Egli infatti non è un giudice ingiusto e disonesto, ma è il nostro Padre (cfr. Lc 11,2) giusto e tenerissimo. Smettere di pregarlo è rifiutargli la nostra fiducia, non riconoscere più che è il nostro Padre e considerarlo come impotente o indifferente. Così viene meno la nostra fede. Assieme alla nostra preghiera è sempre in gioco la nostra fede in Dio, che è e rimane nostro Padre. Egli non è sordo. Non può non esaudirci. Ma noi non possiamo prescrivergli come e quando deve farlo. Una cosa sappiamo con certezza: non ci lascerà andare in rovina, ci salverà. Anche se può provarci a lungo, agirà in nostro favore. Di Lui ci si può, ci si deve fidare: il suo aiuto è sicuro, perché la sua potenza e il suo amore sono realtà assolutamente sicure. 

Non è però altrettanto sicura la capacità degli uomini di mantenere in tutte le prove la fede in Dio come Padre. "Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?". Questa domanda finale di Gesù provoca una certa inquietudine ed è un invito a vigilare perché quando verrà – non ci ha detto quando – ci trovi saldi nella fedeltà a Dio e vivi nella fede, cioè perseveranti nella preghiera. 

Viviamo in una società dove molti, prigionieri di un pessimismo opprimente, pensano che Dio non interviene mai e abbandona gli uomini in balia delle ingiustizie e della miseria. Ma la Chiesa – simboleggiata dalla vedova della parabola – non si stanca di consegnare a Dio in una preghiera insistente l'immensa sofferenza dei popoli, sicura che Egli farà trionfare la giustizia. Questa preghiera incessante vuole implorare da Dio la luce della fede per i miliardi di uomini che ancora non credono in Gesù, unico Salvatore di tutti. È l'impegno che ci richiama in modo speciale questo mese "missionario"» – Mons. Ilvo Corniglia – 29a Dom. del T. O. – 17/10/2004.

La Vergine Maria, che dal Padre ricevette il compito di educare nella religione dei suoi padri, il Figlio di Dio e insegnò al Fanciullo Divino a leggere e meditare quella Parola che Lui stesso, come Dio, aveva ispirato nel cuore chi la scrisse, ci aiuti e insegni a leggere con fede, devozione e amore la Bibbia per crescere e maturare come cristiani autentici.      Amen.                                                 j.m.j

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Ventinovesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                                    Omelia

Carissimi fratelli e sorelle, 

poco prima di dare la sua vita per Gesù, Paolo scrive a Timoteo una lettera della quale oggi abbiamo ascoltato, come seconda lettura, un brano. Timoteo è un vescovo, appartiene al secondo anello della catena apostolica, fu strettissimo collaboratore di Paolo e fu posto a reggere la chiesa di Efeso. Paolo era molto affezionato a Timoteo, lo conosceva da quando era fanciullo: “Mi ricordo infatti della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te” (2Tm 1,5). Timoteo era figlio di papà pagano e mamma giudea. La mamma e la nonna si convertirono al cristianesimo ed educarono nella fede Timoteo.

Paolo ricorda a Timoteo l’opera educativa di sua mamma e di sua nonna nei suoi confronti e come, fin dalla sua giovane età, poté apprendere da queste due sante donne le Sacre Scritture la cui conoscenza gli sarà tanto utile ora che è vescovo “per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona”. 

La lettura e la meditazione della Parola di Dio, infatti, formano la persona alla sapienza, cioè a saper leggere la propria vita ad una luce superiore, a vedere la propria storia personale e del mondo da una più alta visuale che si apre all’orizzonte di Dio ridimensionando tutto nella verità.

“Tutta la Sacra Scrittura è ispirata da Dio”, Dio ha voluto che giungesse a noi quel racconto, quella storia, quella parola perché la nostra mente fosse illuminata. “Tutta!”. Non c’è qualcosa della Sacra Scrittura che non sia utile a noi per la nostra formazione cristiana. Molti cristiani si trovano in difficoltà leggendo il Vecchio Testamento per tante crudezze e anche perché sembra trasparire la figura di un Dio completamente diverso da quel Padre misericordioso e buono che abbiamo conosciuto tramite Gesù. Quanto ci sbagliamo! “Tutta la Scrittura è ispirata!” ed anche il V.T. ha la sua funzione educativa per noi cristiani che certamente siamo incompleti se non conosciamo questa parte della Bibbia: “L’ignoranza delle Scritture, è ignoranza di Cristo” (S. Girolamo).

Certi comandi di Dio o certe sue parole trasmessici dal V.T., vanno capite e inquadrate in un cammino storico in cui il buon Dio si è relazionato con il suo popolo secondo come poteva essere da questi accolto e capito. Dio è entrato nella storia di questo popolo, abbassandosi ai suoi limiti culturali, psicologi, sociali e storici. Lo ha preso per mano e piano piano, attraverso i secoli e l’intervento dei suoi profeti, lo ha educato, lo ha fatto maturare e crescere fino a renderlo capace di ricevere la sua rivelazione piena e completa, quando, “nella pienezza dei tempi Lui mandò il suo Figlio nato da donna” (Gal 4,4) per salvare l’umanità.

Però, perché la Scrittura possa produrre in noi la sua azione formativa, occorre che “noi l’accogliamo non quale parola di uomini, ma com’è veramente: Parola di Dio che opera in noi che crediamo(1Ts 2,13). Dobbiamo accoglierla cioè con fede, con devozione, con amore e dobbiamo leggerla così. Quando ci accostiamo con questi atteggiamenti alla Parola, essa “opera”, cioè: tocca, punge, rimprovera, illumina, scuote, apre, scombussola, travolge, sconvolge, consola e infiamma. 

Se ci mettiamo a leggere devotamente la Parola, con fede e affetto, con devozione, invocando su di noi quello stesso Spirito Santo che l’ha ispirata nel cuore chi la scrisse, allora Essa diventa uno specchio divino dove noi ci specchiamo e conosciamo non solo Dio, ma anche noi stessi nella verità: “Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v'è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi” (Eb 4,12-13).

Uno dei frutti principali della lettura devota, meditata, metodica e amorosa della Sacra Scrittura è proprio la conoscenza di Dio e di se stessi in profondità e nella verità. Essa entra con la sua luce nei meandri più bui e nelle fibre più nascoste della nostra anima e vi porta la luce di Dio in un modo molto semplice. Leggendo la Bibbia, infatti, ci incontriamo con la storia concreta di altri uomini e donne come noi e di come Dio ha agito nella loro vita e così impariamo facilmente due cose: la prima, è che così impariamo a capire come agisce Dio nella vita dell’uomo, la seconda, è che scopriamo le nostre personali deficienze e i nostri peccati. Infatti, la storia sacra è una storia di salvezza perché è una storia di peccato e la narrazione dei peccati dei suoi protagonisti fa sì che ci rendiamo conto dei nostri personali peccati che troppo spesso ci rifiutiamo di prenderne coscienza. 

E così capisco che, oggi, nascosti dietro un cespuglio perché sta passando Dio, non ci sono più né Adamo né Eva (cf Gen 3,8), ma ci sono io che mi nascondo a Dio perché mi vergogno di me stesso. Capisco che oggi quel Caino geloso che uccide suo fratello Abele, sono io con le mie tante gelosie che mi muovono ad azioni contro i miei fratelli, azioni apparentemente giuste, ma motivate sotto sotto, in verità, non altro che dalla gelosia. Capisco allora che, oggi, non è più Saul ad essere invidioso del successo di Davide (cfr 1Sam 18,8-9), ma io che mi rodo di invidia verso questo o quell’altro perché hanno o sono ciò che desidererei avere od essere io. Capisco che, oggi, non è più Davide a far uccidere Uria (cf 2Sam 11,15) o Getzabele Nabot (cf 1Re 21,8-10), ma sono io che pur di avere ciò che bramo, alle volte sono stato capace di tutto; e così, sono ancora io quello che oggi implora a Dio il suo perdono, non più Davide, confessando umilmente il mio peccato (cf Sal 50). Ed ancora io sono quel Giona (Gn 1,1-3) che oggi scappa di fronte alle esigenze della missione cristiana. E così via…: “Tu sei quell’uomo!” (2Sam 12,7).

I vari episodi e storie della Bibbia diventano, per illuminazione interiore dello Spirito Santo, che ci accompagna nella lettura, figura e simbolo della nostra storia personale. Quell’Isacco che Dio chiede di sacrificare ad Abramo ci fa scoprire i tanti “Isacchi” della nostra vita che non riusciamo a mettere dopo il posto che spetta a Dio (cf Gen 22,1ss). Quel viaggio pieno di insidie del popolo di Dio verso la libertà (Libro dell’Esodo), diventa simbolo e segno della mia personale storia di liberazione. Quei nemici agguerriti con cui gli ebrei se la dovettero vedere per prendere possesso della terra promessa (Libro di Giosuè), diventano metafora dei nostri vizi e tentazioni che dobbiamo combattere e vincere se vogliamo entrare nella terra promessa del Cielo.

Sono io, poi, che affronto Golia ogni giorno, non più Davide, sono io che, oggi, sono chiamato ad affrontare satana, il mondo ed il mio uomo vecchio, nemici tremendamente più forti di me, molto più forti e ben armati, ma che vincerò senza meno, pur avendo solo una fionda e una pietra perché li affronterò “nel nome del Signore” (1Sam 17,45).

E così, leggendo la prima lettura di oggi, capisco anche che in quell’Israele che è forte e vince solo quando sul monte c’è Mosè che alza le mani in preghiera, sono raffigurato io che sono in pace e gioioso quando prego e pratico i sacramenti, mentre finisco sempre lontano e nel fango ogni volta che decado dalla preghiera e dai sacramenti. 

Se tanto insegna il V.T. quanto più insegnerà al nostro cuore il N. T. con il Vangelo di Gesù, nostro Maestro, Signore e Dio! Oggi, poi, Gesù ci ha insegnato a pregare con fiducia e perseveranza. Ci ha insegnato che Dio nostro Padre non è come un giudice iniquo, Egli è buono e ci vuol bene e ascolta il grido del misero che grida a Lui (cf Sal 9,13.19; 18,7; 34,7; 40,18; ecc.) e bisogna pregare con questa fiducia nel suo amore:

«Egli infatti non è un giudice ingiusto e disonesto, ma è il nostro Padre (cfr. Lc 11,2) giusto e tenerissimo. Smettere di pregarlo è rifiutargli la nostra fiducia, non riconoscere più che è il nostro Padre e considerarlo come impotente o indifferente. Così viene meno la nostra fede. Assieme alla nostra preghiera è sempre in gioco la nostra fede in Dio, che è e rimane nostro Padre. Egli non è sordo. Non può non esaudirci. Ma noi non possiamo prescrivergli come e quando deve farlo. Una cosa sappiamo con certezza: non ci lascerà andare in rovina, ci salverà. Anche se può provarci a lungo, agirà in nostro favore. Di Lui ci si può, ci si deve fidare: il suo aiuto è sicuro, perché la sua potenza e il suo amore sono realtà assolutamente sicure. 

Non è però altrettanto sicura la capacità degli uomini di mantenere in tutte le prove la fede in Dio come Padre. "Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?". Questa domanda finale di Gesù provoca una certa inquietudine ed è un invito a vigilare perché quando verrà – non ci ha detto quando – ci trovi saldi nella fedeltà a Dio e vivi nella fede, cioè perseveranti nella preghiera. 

Viviamo in una società dove molti, prigionieri di un pessimismo opprimente, pensano che Dio non interviene mai e abbandona gli uomini in balia delle ingiustizie e della miseria. Ma la Chiesa – simboleggiata dalla vedova della parabola – non si stanca di consegnare a Dio in una preghiera insistente l'immensa sofferenza dei popoli, sicura che Egli farà trionfare la giustizia. Questa preghiera incessante vuole implorare da Dio la luce della fede per i miliardi di uomini che ancora non credono in Gesù, unico Salvatore di tutti. È l'impegno che ci richiama in modo speciale questo mese "missionario"» – Mons. Ilvo Corniglia.

La Vergine Maria, che dal Padre ricevette il compito di educare nella religione dei suoi padri, il Figlio di Dio e insegnò al Fanciullo Divino a leggere e meditare quella Parola che Lui stesso, come Dio, aveva ispirato nel cuore chi la scrisse, ci aiuti e insegni a leggere con fede, devozione e amore la Bibbia per crescere e maturare come cristiani autentici.      Amen.                                                 j.m.j

 

 

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Trentesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                                                   Omelia

Carissimi fratelli e sorelle, 

oggi è la Giornata Missionaria Mondiale, quest’anno il Santo Padre ci ha invitati a viverla alla luce del Mistero Eucaristico, sottolineando lo stretto legame che c’è tra Eucarestia e Missione: noi che mangiamo di Lui, siamo chiamati a far conoscere al mondo l’ardente desiderio che Dio ha di salvare l’umanità donandosi come Pane di salvezza e di vita eterna (cf Gv 6,48-51), Pane dei poveri e degli umili, dei miseri e degli affamati.

Luca, oggi, ci propone un altro insegnamento di Gesù sulla preghiera. Domenica scorsa ci aveva parlato della fiducia e della perseveranza che dobbiamo avere in essa, attraverso la parabola della vedova molesta e del giudice ingiusto.

Oggi un’altra parabola, con altri due personaggi: il fariseo e il pubblicano. Non ci sfugga l’importanza fondamentale di questa parabola, che ci pone davanti due figure di uomini rappresentativi di tutta l’umanità, nella sua classificazione ultima e decisiva, di persone salvate o non salvate. Alla fine, infatti, o ci salviamo o non ci salviamo. La salvezza della nostra anima, è l’affare più importante della nostra vita, che è costata la morte in croce di Dio.

La parabola, ci presenta due atteggiamenti diversi di uomini oranti, delineandoci così due modi diversi di relazionarsi con Dio. Di questi due modi di relazionarsi con Dio, uno conduce ad ottenere salvezza, l’altro no. È una grazia per noi capire da quale di questi due uomini siamo rappresentati: il mio modo di pormi davanti a Dio, assomiglia più a quello del fariseo o a quello del pubblicano?

Il nucleo fondamentale dell’atteggiamento del fariseo nei confronti di Dio, è quello del “creditore”, di una persona cioè che “vanta dei diritti” e che quindi “pretende” tutto da tutti perché lui si ritiene “giusto”

Per entrare in profondità nella parabola, dobbiamo accostarla ad altre parabole di Gesù, dove emerge forte quest’atteggiamento oscuro della persona che, credendosi nel giusto, si arroga diritti che non ha, avanza pretese e accusa Dio di ingiustizia perché non glieli concede.

Come questo fariseo che, uscendo dal tempio non giustificato, presumibilmente, se la sarà presa con il Signore perché è stato ingiusto nei suoi confronti; così anche gli operai della prima ora, della parabola degli operai mandati alla vigna (cf Mt 20,1ss), se la prendono ferocemente con il padrone, che non li trattò come credevano meritarsi per il loro lavoro; così anche il fratello maggiore, della parabola del figliol prodigo, che “non voleva entrare” alla festa, perché pretendeva lui di avere diritto ad una festa e non il fratello debosciato; sono tutte figure con le quali il Signore Gesù ci invita a prendere coscienza della nostra radicale situazione di povertà, di insufficienza, di bisogno di salvezza.

Il pubblicano, così come il figliol prodigo, si presenta davanti a Dio senza arrogarsi meriti, senza pretese, ma con profonda umiltà, riconoscendo la propria indegnità e di non meritare quanto chiede: “O Dio, abbi pietà di me, perché sono un povero peccatore!”, “Padre, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio…”.

Quando il buon Dio vede un cuore così, si squaglia nella sua tenerezza divina, che si riversa come amore misericordioso sull’umile che invoca a Lui, è questo anche l’insegnamento del V. T. ricordato dalla Prima Lettura di oggi che ci mostra come “la preghiera dell’umile penetra le nubi”, cioè raggiunge il cuore di Dio.

Qui siamo nel cuore del Vangelo, della missione di Gesù, Egli è il Salvatore e il Redentore del mondo che ci comunica una salvezza assolutamente gratuita e da nessuno meritata.

Alla sinagoga di Nazareth, Gesù proclamò: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore”. (Lc 4,18-19). Si tratta di un “lieto messaggio” che viene proclamato solo “ai poveri, di una luce che illumina solo i cieci (cf Gv 9,39), di una liberazione che è solamente per chi è prigioniero e oppresso, di “un anno di grazia”, cioè di misericordia, di condono, di remissione dei debiti a dei debitori insolventi e tali siamo tutti noi, nessuno escluso.

E ancora, a chi Lo condannava perché “amico dei pubblicani e dei peccatori” (Lc 7,35), Gesù rispondeva dicendo: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mc 2,17) Io sono venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10).

Gesù dunque è venuto per i poveri, gli oppressi, i malati, i peccatori, i perduti, non è venuto per chi non ha bisogno di salvezza, per chi è a posto, per chi è giusto, perfetto, santo. Infatti chi è a posto, chi è giusto, chi è perfetto, chi è già santo per conto suo, esce dal Tempio come quel fariseo, “non giustificato”, perché nessuno si salva senza Gesù, nessuno è affrancato senza Gesù, nessuno! E Gesù è l’unico Salvatore di questo mondo che va alla deriva, non esistono altri “Salvatori” dell’umanità (cf 1Tm 2,5).

Se leggiamo la storia della vita di qualche santo, inevitabilmente troviamo sempre che costui o costei si riteneva un grande peccatore o una grande peccatrice. E, guarda caso, quanto più grande è la santità della persona quanto più grande è questo sentimento del proprio essere peccatore, peccatrice. Questo possibile che non ci insegna nulla? La nostra santità inizia proprio da quest’umile riconoscimento della nostra miseria esistenziale. 

Paolo ben conoscendo questa verità dirà: “Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità” (1Tm1 15-16). Oggi abbiamo ascoltato questo “primo tra i peccatori” che sta “per sciogliere le vele” perché ha “terminato la sua corsa” e sta per raggiungere il suo Gesù che lo ha salvato e trascinato in una meravigliosa avventura, conquistandolo con la forza del suo amore (cf Fil 3,12).

Francesco, il Poverello d’Assisi, a chi gli chiedeva come mai il Signore aveva scelto proprio lui per quella grandiosa opera di “restaurare la sua Chiesa” nella santità, rispondeva: “Perché in tutto il mondo non ha trovato nessuno più peccatore di me!”

E che dire poi di Caterina da Siena…, Teresa d’Avila…, di Giovanni della Croce…, di Ignazio di Loyola…, di Maria Maddalena de’ Pazzi…, di Teresina di Lisieux…, di Elisabetta della Trinità…, di Gemma Galgani…? Tutti, tutti che si ritenevano i più grandi peccatori o peccatrici di questo mondo? 

Come mai e perché questo fenomeno? E come mai loro si ritenevano così tanto “peccatori” e invece erano “santi”? E come mai, noi così tanto spesso non ci sentiamo affatto peccatori? Il motivo è molto semplice, chi si avvicina a Dio vede con più chiarezza se stesso e capisce meglio la propria miseria e fragilità. Infatti, noi possiamo conoscere noi stessi nella verità solo per riflesso, mai direttamente per introspezione. L’introspezione ci falsa la nostra realtà o esaltandoci o deprimendoci. È solo guardando Dio, che si lascia guardare in Gesù, che ciascuno di noi entra nella verità di se stesso, nella più profonda verità di se stesso. Ogni uomo che si avvicina a Dio, vive l’esperienza di Isaia che capisce di essere indegno di questa vicinanza: “Ohimè, un uomo dalle labbra impure io sono!…” (Is 6,5), o l’esperienza di Pietro che prega Gesù di allontanarsi da lui “perché è un peccatore” (cf Lc 5,8). Ma Gesù non si allontana dai peccatori, tutt’altro! È venuto proprio per cercarli, scovarli e abbracciarli e riportatarli (cf Lc 15,4-5). “nella casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente (1Tm 3,15).

Il segno dell’autenticità del nostro rapportarci con Dio, è la consapevolezza della nostra bassezza. Il crescere nel rapporto con Dio, comporta inevitabilmente crescere nella consapevolezza della nostra indegnità, del nostro niente. Quanto più ci rendiamo conto della nostra povertà e nullità esistenziale, quanto più diventiamo capaci di un contatto più profondo con Dio, che riempie del suo essere il nostro nulla, che riempie della sua ricchezza la nostra povertà, che riversa il suo amore misericordioso nell’unico contenitore capace di accoglierlo: la nostra miseria.

Impariamo dunque dai nostri fratelli santi e dalle nostre sorelle sante, a cercare Gesù per stare con Lui, guardarLo e lasciarci guardare da Lui. Guardando Gesù, impareremo come Pietro a conoscerci come poveri peccatori e lasciandoci guardare da Gesù, impareremo, come lo stesso Pietro, a piangere i nostri peccati (cf Lc 22,62) perché abbiamo mancato all'Amore. Allora forse capiremo quella richiesta che Gesù fece a quella donna al pozzo di Giacobbe: “Dammi da bere” (Gv 4,7), o quella che fece dall’alto della croce ai suoi crocifissori: “Ho sete” (Gv 19,28), o quella che fece a Pietro, sulle rive del lago di Tiberiade, pochi giorni dopo che questi l’aveva tradito e rinnegato: “Mi ami tu più di costoro?” (Gv 21,15). È questa sete di Dio, è questa sete di Gesù, è questo gemito implorante dello Spirito (cf Rm 8,26) che i nostri fratelli santi hanno colto e risposto, porgendo alle sue labbra l’acqua viva e pura del loro amore, unica bevanda che può dissetare Dio che “è Amore” (1Gv 4,8.16) Infatti, se è vero che ciascuno di loro si riteneva il primo e il più grande peccatore del mondo, contemporaneamente, dall’altra, si faceva un punto d’onore di amare il suo Gesù più di come Lo ami alcuna persona al mondo.

La Vergine Maria che magnificò il suo Signore, perché aveva guardato alla sua “bassezza(Lc 1,47), e che più di ogni altra creatura seppe rispondere alla sete di Dio, ci aiuti a comprendere come è nel riconoscersi piccoli e umili, il segreto della nostra più grande risposta d’amore verso Colui dal Quale siamo stati amati troppo e di più. Ed è proprio dall’esperienza concreta di questo segreto, che germoglia e matura la nostra missionarietà in mezzo ad un mondo sempre più bisognoso di incontrarsi con Dio e di finalmente conoscere quel “grande amore con il quale ci ha amati, e come da morti che eravamo per i nostri peccati, ci ha fatti rivivere in Gesù Cristo” (Ef 2,4-5).

Amen.

 

 

j.mj.

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Trentunesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                                                   Omelia

 

 

“Zaccheo, scendi subito, oggi devo fermarmi a casa tua!”

 

Carissimi fratelli e sorelle,

possiamo unificare il messaggio salvifico della Liturgia della Parola odierna, nella categoria dell’AMORE.

Amore di Dio che si espande e si dona ad ogni creatura, con la sua tenerezza divina: amore paziente e longanime verso tutti, specialmente verso i peccatori che aspetta a punire per dar loro tempo e modi di pentirsi e salvarsi (prima lettura e salmo). 

Amore di Dio che capacita all’amore, cioè, che rende, chi l’accoglie, capace di amare, regalandoci la reale possibilità di portare a termine ogni nostra “volontà di bene”, e glorificare, così, in noi il “nome di Gesù e noi in Lui” (seconda lettura).

Amore di Dio, che in Gesù, si presenta desideroso di essere accolto, ospitato, amato. Amore che mendica amore, bussando al cuore di ogni uomo per chiedere accoglienza (cf Ap 3,20) e fermarsi e stare con lui, nella sua casa (Vangelo). Amore che entrando illumina con il suo splendore luminoso e illuminando rinnova e trasforma con la sua forza travolgente, a cui niente e nessuno può resistere: “Le grandi acque non possono spegnere l'amore né i fiumi travolgerlo” (Ct 8,7). 

Amore di Dio di cui ogni uomo porta, nell’intimo del proprio cuore, una profonda e indelebile nostalgia. Nostalgia che suscita una continua, permanente, indistruttibile insoddisfazione. Creato da “Dio Amore” (1Gv 4,8.16) “a sua immagine” (Gen 1,26) l’uomo non ha pace, né potrebbe averla, finché non trova l’unica sorgente che può dissetare la sua infinita sete di amore, finché non trova l’unico cibo che può sfamare la sua insaziabile fame di amore. Questa sorgente e questo cibo, è “Dio Amore”, infinitudine e pienezza d’Amore del Padre e del Figlio che nell’Amore sono eternamente l’unico e il vero Dio.

In questa sua insoddisfazione che l’assedia, l’uomo va vagabondando alla ricerca di chi o di cosa possa dissetarlo e saziarlo d’amore. Affamato e assetato d’amore, nella sua fretta di sazietà, l’uomo cade spesso nell’errore di sbagliare acqua, di sbagliare cibo, bevendo di ciò che mai può dissetarlo e nutrendosi di ciò che mai può saziarlo, sprecando così la propria esistenza nel vuoto (cf Is 55,2; Ger 2,13). 

Zaccheo rappresenta quest’uomo, la sua storia è la storia di ogni uomo insoddisfatto che cerca Amore e che, finalmente, lo trova in quell’Uomo che lo ha guardato, lo ha chiamato per nome e si è autoinvitato a casa sua. Da allora la sua vita è trasformata, perché sconvolta dall’incontro con l’“Amore”. Sì, perché quell’Uomo che lo ha chiamato è Gesù Cristo, Colui che è venuto “a cercare e trovare chi era perduto” (Vangelo), un Uomo nel quale “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9) e quindi tutta la pienezza di “Dio Amore”, che proprio attraverso di Lui vuole farsi conoscere, accogliere e amare da ogni uomo e ogni donna di questo mondo.

Nel suo vagabondaggio alla ricerca di un amore che gli dia pienezza e gioia, l’uomo è portato a uscire fuori, ad allontanarsi da se stesso bevendo ad ogni fontana e sfamandosi di ogni piatto offertogli nel mondo e dal mondo, senza mai trovare sazietà, rimanendo sempre assetato e affamato d’amore.

Ecco, Zaccheo, è quest’uomo affamato e assetato d’amore, che sempre più insoddisfatto della vita e con un grande vuoto nel cuore, invocando disperatamente “amore”, esce dalla sua casa alla ricerca di Gesù. Ma è troppo basso di statura per vederLo, per questo sale un albero, un sicomoro, albero dal tronco basso, che subito si apre nei suoi rami grandi e frondosi. Si nasconde dietro le foglie, come il primo uomo che si nascose con la donna dietro a quel cespuglio (cf Gen 3,8), così come Adamo non sfuggì allo sguardo penetrante di Dio, anche Zaccheo non poté rimanere nascosto.

Lo stesso Dio che passò accanto al cespuglio e si fermò, si ferma ora sotto quel sicomoro, gli occhi di Zaccheo s’incrociano con gli occhi di Gesù: è l’incontro di due abissi, “un abisso che chiama un altro abisso” (Sal 42,8). L’abisso della misericordia di Dio che si scontra con l’abisso della miseria umana, l’abisso della miseria di Zaccheo viene risucchiato e disintegrato dal vortice travolgente dell’abisso della misericordia di Dio, che trabocca su di lui attraverso lo sguardo di Gesù.

È “un abisso che chiama un altro abisso”, due abissi che si cercano e si rincorrono. Sì, è così: prima ancora che l’abisso della miseria cercasse la misericordia e salisse su quel sicomoro, l’abisso della misericordia lo cercava, lo rincorreva e lo perseguitava, seminandogli amarezza, scontentezza, insoddisfazione, vuoto, in tutto ciò in cui l’altro cercava riposo, pace, gioia, felicità, amore, finché lì, sotto quel sicomoro si sono incontrati, e l’Uno e l’altro è stato appagato, abbeverato, saziato d’amore.

L’abisso della misericordia chiama l’abisso della miseria: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Chissà quante volte era stato chiamato per nome, nella vita, ma nessuno l’aveva mai chiamato così, come lo chiamò l’abisso della misericordia. Sentendosi chiamato per nome da Gesù, Zaccheo è sconvolto, toccato e trasformato dall’amore con cui è chiamato. Il suo nome pronunciato dalle labbra divine di Gesù, gli rivela la sua verità più profonda, la sua bellezza, la sua gloria, la sua santità, tutte cose alle quali aveva rinunciato nella sua folle corsa alla ricerca di ciò che gli aveva promesso pienezza di sazietà e che invece lo aveva lasciato vuoto e perduto.

“Zaccheo, scende dall’albero pieno di gioia”: Ha ritrovato se stesso! Ha trovato Gesù e ha ritrovato se stesso! Sono finite le corse del vuoto e sono finite pure le arrampicate sugli alberi: è ora di tornare a casa, a casa sua con Gesù. Gesù lo riaccompagna a casa perché vuole essere suo ospite. Non si tratta di un ospite di passaggio, pur illustre che sia, no, si tratta di un ospite permanente, stabile, perché ora quella casa, non è più solo di Zaccheo, ma è anche sua!

Nella casa di quel pubblicano, ladro e imbroglione entra “la Luce del mondo” (Gv 8,12) “quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9), ora Zaccheo ci vede, non è più cieco: vede tutti gli sbagli della sua vita, li vede con chiarezza e precisione. Quella Luce, però, non l’abbaglia e acceca, è una Luce che lo riscalda e lo rende forte. In quella Luce, Zaccheo prende coscienza di sé e pur vedendo l’abisso della propria miseria, non si uccide (cf Mt 27,5), non si dispera, non si deprime, ma “pieno di gioia” regala “metà dei suoi beni ai poveri” e con l’altra metà ripaga “quattro volte tanto” tutti coloro che aveva imbrogliato e derubato.

Dallo scontro di quei due abissi “è nata una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17). Zaccheo ora non può più essere quello di prima, quello che ancora non aveva sentito il suo nome pronunciato dalle labbra di Gesù, e ora che lo ha sentito, scopre che così lo chiamava non solo da sotto il sicomoro, ma sempre ed era proprio quella voce divina che lo chiamava per nome, a provocargli quel vuoto, quella insoddisfazione, quell’amarezza e quella profonda solitudine in ogni effimera compagnia che viveva. 

Non ci sfugga in questa splendida perla lucana, l’osservazione che i più fanno di fronte a questo Gesù che va in casa di Zaccheo: “È andato ad alloggiare da un peccatore!”. Non si trattava semplicemente di un peccatore, ma di un riccone peccatore, Gesù va a casa di quest’uomo ricco e imbroglione, sottomettendosi alla critica, non solo dei farisei, ma di tutti:

«La scelta di misericordia compiuta da Gesù è troppo originale per essere capita dalla gente, che anzi lo disapprova. I motivi della contestazione sono almeno due: Gesù entra nella casa del peccatore che, essendo in stato di impurità, lo contamina. Inoltre ha preferito la casa del ricco, quando molti poveri a Gerico avrebbero desiderato e meritato di accoglierlo. In realtà la gente non è in grado di capire fino a che punto l'amore spinge Gesù a solidarizzare con i perduti. Neanche comprende che il più povero è proprio lui, il pubblicano ricco: povero affettivamente in quanto scartato e odiato, ma soprattutto povero di Dio, bisognoso del suo perdono e affamato di amicizia».
Mons Ilvo Corniglia – Dom. XXXI  del T. O. – Anno “C” – 31/10/2004.

Ma chi può capire questo Dio? Chi può capire l’arsura della sua sete d’amore (cf Gv 4,7; 19,28)? Chi può capire quell’ardente desiderio (cf Lc 22,15) che Egli ha di donarsi a noi? Chi può capire quell’amore incredibile che lo spinse ad abbassarsi fino a noi, spogliandosi della sua divinità (cf Fil 2,7), per poterci cercare, scovare, afferrare e salvare (cf Lc 15,4-7)? Chi può capire quell’amore che Lo spinse ad accettare umiliazioni e beffe, sputi e tormenti, chiodi e croce, morte e sepolcro, per dare la vita a noi che “eravamo morti per i nostri peccati” (Ef 2,5)?

Chi può capire una simile, immensa e incredibile tenerezza divina? Solo Lei, solo Maria può capirla in pienezza, Lei dal cui seno Lui ha voluto dissetarsi e sfamarsi d’amore! In quel Bambino Divino che prende il latte al suo seno, c’è tutta l’immensità della tenerezza di Dio che chiede ad ogni uomo accoglienza, ospitalità, amore, perché non vada più vagabondo e infelice, ma felice e soddisfatto nella gioia della Sua presenza e della Sua amicizia, nella propria casa che è il suo cuore. 

Amen.    

j.m.j.

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Trentaduesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                                                   Omelia

 

“Dio, non è il Dio dei morti, ma dei vivi, perché tutti vivono per Lui!”

 

Carissimi fratelli e sorelle,

si avvicina la conclusione dell’anno liturgico, con le festività dei Santi e la Commemorazione dei Defunti, la Chiesa ci ha invitati a fissare il nostro sguardo sulla vita eterna che ci aspetta e, in queste ultime domeniche, ci chiama fortemente a riflettere sulle realtà ultime e definitive verso le quali tutti andiamo incontro nella consapevolezza o no di esse. 

Con la Liturgia della Parola odierna, la Chiesa ci sollecita a rinnovarci nella nostra fede nella risurrezione dei corpi. Ogni domenica concludendo il nostro Credo, affermiamo di credervi: Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà!

La verità della risurrezione dei corpi è fondata sulla rivelazione divina già del Vecchio Testamento, che Gesù poi ha confermato con la sua parola: “Verrà l'ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la mia voce e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna” (Gv 5,28-29).

Gli ebrei credevano nella risurrezione dei morti. Era una verità a cui il popolo santo di Dio era giunto dopo un lungo cammino. La prima lettura odierna, una perla preziosa del V.T., ci ha parlato di quella eroica mamma dei sette fratelli Maccabei, che assiste uno dopo l’altro i suoi figli mentre venivano trucidati dai pagani, perché non volevano adorare i loro dèi. Ebbene, questa mamma santa confortava i suoi figli mentre venivano torturati, incoraggiandoli ad essere fedeli al Signore Dio e a disprezzare la vita, se per vivere dovevano rinnegarLo. E così, dopo che le ammazzarono uno dopo l’altro i sette figli, uccisero anche lei, mamma santa e martire!

È una mamma forte, che ci richiama la figura di un’altra mamma forte, la quale stette vicino al Figlio mentre Lo trucidavano, sostenendoLo nella sua immolazione, facendoGli coraggio, tesa e pronta ad accorrere in suo soccorso, se solo avesse avuto bisogno di qualcuno che Lo aiutasse a tenere fermi quei piedi, ferme quelle mani ai chiodi che L’inchiodavano al legno.

È proprio nel contesto del racconto del massacro dei sette fratelli Maccabei che il V.T. giunge con chiarezza all’acquisizione della verità della risurrezione finale dei corpi e siamo nell’epoca immediatamente antecedente all’Incarnazione (II sec. a.C.). Abbiamo ascoltato le frasi del secondo e del terzo fratello martire e come essi affermassero così eroicamente questa loro fede nella risurrezione futura.

Ma non tutti gli ebrei credevano alla risurrezione. All’interno del mondo religioso ebraico c’era una setta, quella dei sadducei, che accettava, come libro sacro, solo il Libro della Legge (Il Pentateuco: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) e non accoglieva quindi tutti gli altri e neanche la tradizione orale. E così i sadducei, a differenza dei farisei, non credevano nella risurrezione. 

I sadducei appartenevano alle grandi e ricche famiglie sacerdotali ed erano sostenitori dei romani al fine di mantenere potere e ricchezze. Oggi potremmo definirli come i materialisti del tempo.

È proprio vero che “non c’è nulla di nuovo sotto il sole” (Qo 1,9)! Ora come allora ci sono i così detti sapientoni (cf 1Cor 1,17ss), che credono di saperla lunga su tutto, che sono convinti anche di spiegare a Dio come sono fatte le cose. Generalmente questa categoria di persone appartiene al mondo dei “sazi”, persone che non hanno mai avuto il problema di cosa mettere nel piatto per il pranzo; persone che hanno sempre avuto tutto e che non conoscono cosa vuol dire sacrificarsi, servire, donarsi; persone stracolme di se stesse e quindi sovrappiene di sottovuoto spinto. A questa categoria di persone appartenevano i sadducei: ricchi, sazi e gaudenti. Costoro non credevano a nulla di spirituale, tutto era materiale, secondo loro, e tutto finiva con la morte. Scettici e ironici presentano a Gesù un caso per ridicolizzare il fatto della risurrezione: una donna che è stata moglie di sette persone qui in terra, di chi sarà moglie lassù?

Vedete – carissimi fratelli e sorelle – coloro che vivono pascendosi di terra: di comodità, di piaceri, di gozzoviglie e cose del genere perdono la facoltà di comprendere le cose dello spirito. S. Tommaso diceva, che questo stile di vita, provocava nella persona l’“ottusità di mente”. Un mente ottusa, cioè incapace di capire, bloccata, impedita, oscurata dalle proprie passioni che scatenate e appagate offuscano la capacità più alta che ha la persona di comprendere le cose dell’anima, dello spirito. Finché una persona vive di fango non può capire il cielo! Per entrare nella comprensione delle cose dell’anima, delle cose di Dio, occorre prima che la persona si converta, capisca l’indegnità della propria vuota esistenza e gridi aiuto a Dio per uscirne fuori. 

Gesù li ascolta, osserva la loro arroganza: non sono venuti mica per chiedere e avere risposte! Macché, sono lì solo per prenderLo in giro. Figurarsi! Quattro poveri uomini che vogliono prendere in giro Dio! Gesù li ascolta e li guarda, chissà con quanta commiserazione li guardò! Anche per loro fra poco avrebbe donato la sua vita! Li guarda nella loro arrogante e scettica ironia… Gesù li guardò con quello stesso sguardo con cui guarda tante persone oggi che come quei sadducei hanno la mente impedita ad elevarsi al Cielo. 

Marco, raccontando lo stesso episodio riporta che Gesù rispose loro: "Non siete voi forse in errore dal momento che non conoscete le Scritture, nè la potenza di Dio?” (Mc 12,24). “Non siete voi in errore?”. Carissimi fratelli e sorelle, quanti ancora oggi vivono in quest’errore? I sadducei, nel loro goffo tentativo di immaginarsi le realtà dell’aldilà, immaginandole come un prolungamento naturale di quelle di quaggiù, non riescono ad andare aldilà del loro orizzonte materiale raffigurandosi una realtà ultraterrena che è solo una controfigura di quella terrena. Ma non è così, perché le realtà dello spirito sono assolutamente “diverse”: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano” (1Cor 2,9) ; per questo “i figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell'altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito; e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio”

Vedete, dietro questo Vangelo c’è implicita una grande verità che è questa: l’uomo non è fatto per la donna e la donna non è fatto per l’uomo, ma entrambi sono stati fatti da Dio per Dio.  La complementarietà uomo-donna è in ordine e in rapporto a questa relazione primaria e fondamentale che l’uomo e la donna hanno con Dio. La realtà del matrimonio è dunque un realtà transitoria, non definitiva, appartiene strettamente a questo mondo, non a quell’altro “dove non si prenderà più né moglie né marito”.

Per questo le persone consacrata, il religioso, la suora, il prete con la loro rinuncia al matrimonio e con la gioia della loro testimonianza di vita, ricordano incessantemente, anche senza fare nessuna predica, le realtà del Cielo dove non si prende né moglie né marito e si è nella pienezza della felicità e della gioia. Una felicità e una gioia che non comporteranno affatto il rinnegamento di quei legami affettivi che abbiamo contratto quaggiù, ma sarà una nuova più piena comunione d’amore con Dio e in Lui con coloro che abbiamo voluto bene quaggiù e dai quali siamo stati amati. Lassù non svanirà nessuno dei legami che avevamo quaggiù, ma tutti saranno vissuti nella pienezza della nuova dimensione che assumeremo, che è quella della vita eterna.

Ma chi può capire queste cose? Almeno un po? Chi può capirle? Come può capirle chi “non conosce le Scritture né la potenza di Dio”? Paolo oggi ci ha ricordato che “non di tutti è la fede!”. Beati noi se afferriamo anche solo qualcosa di questo discorso, perché è un discorso di fede! Questo significherà che la nostra mente non è chiusa, impedita, bloccata allo spirito, e che abbiamo cominciato conoscere l’amore di Dio, abbiamo cominciato a gustare l’amore di Dio, abbiamo cominciato ad amare Dio. Abbiamo cominciato a conoscere come “Dio non sia un Dio dei morti, ma dei vivi e che tutti vivono in Lui”:

«La risurrezione appare non tanto come semplice fatto fisico e biologico, ma come la "vita di comunione" con Dio, al di là della nostra breve esistenza storica, che già ci ha permesso di incontrarci con Lui. Nella misura in cui ora viviamo una relazione profonda col Padre e tra fratelli, siamo in grado di intuire che cosa intende dirci Gesù quando ci parla della vita futura. E si accendono in modo nuovo nel nostro cuore il desiderio e la speranza di ottenere la pienezza di tale rapporto, che costituisce la vita dei risorti. Se amiamo, abbiamo il dono di anticipare già, nell'adesso e nell'aldiqua, in un crescendo inarrestabile, la vita eterna e possiamo già vivere in qualche modo da risorti. Il fondamento della nostra speranza operosa ("Aspetto la risurrezione dei morti") è la consapevolezza che il nostro Dio è "il Dio di Abramo… il Dio dei vivi": il Dio Amico, il quale non permetterà mai che la morte spezzi inesorabilmente il nostro legame filiale con Lui, ma lo renderà supremamente vitale» – Mons. Ilvo Corniglia – Omelia 7 novembre 2004.

 

Carissimi fratelli e sorelle, chiediamo alla Vergine Maria, nostra Madre e Maestra di vita spirituale, che ci aiuti a liberarci da tutto ciò che ci soffoca spiritualmente e impedisce alla nostra anima di elevarsi alle cose di Dio. Ci aiuti a liberarci da tanto materialismo, troppo, che ci assale, ci assedia e ci svuota impedendoci di comprendere le cose dello spirito che solo un cuore libero e puro può intendere. 

Amen.                                                                               j.m.j.

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Trentatreesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno C                                   Omelia

 

Con la vostra perseveranza
                   salverete le vostre anime”

 

Carissimi fratelli e sorelle,

oggi, in questa penultima domenica del Tempo Ordinario, preparandoci a celebrare la Solennità di Gesù Re dell’Universo, la Chiesa c’invita a contemplare nella fede il giorno ultimo, quello finale in cui Egli tornerà a chiudere il libro della storia, “quando Egli consegnerà il regno a Dio Padre” (1Cor 15,24).

Malachia annunciò a suo tempo questo giorno, “giorno rovente come un forno” (prima lettura) per chi non lo attende con amore, per chi viene colto impreparato con il cuore e la mente tutti presi da altre cose, ingolfati di terra e impediti ad elevarsi verso il Cielo.

Il giorno ultimo del ritorno del Signore, sarà il giorno del trionfo dell’Amore, sarà la rivelazione piena e conclusiva dell’Amore Misericordioso di Dio. Sarà quindi un giorno bellissimo, meraviglioso e stupendo per coloro che “l’attendono con amore e che riceveranno dal Signore la corona di giustizia, perché hanno combattuto la buona battaglia, hanno terminato la corsa e hanno conservato la fede” (cf 2Tm 4,7-8). Questi sono “i cultori del nome del Signore” per i quali in quel giorno “sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia” (prima lettura).

Sarà il giorno della liberazione definitiva, giorno verso il quale “leviamo il capo” (Lc 21,28) nella fiduciosa e ardente speranza di vederLo e con “lo Spirito e con la Sposa, gridiamo anche noi: Vieni!” (Ap 22,17) e Lui ci risponde commosso: “Sì, verrò presto” (Ap 22,7.12.20).

Sì, verrà presto il Signore Gesù a chiudere la storia, solo che “davanti a Lui un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo” (2Pt 3,8; cf Sal 90,4) e allora a noi tocca solo aspettarlo con fiducia e amore, perché “la nostra patria è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose” (Fil 3,20) e insieme a Lui “aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia”  (2Pt 3,13).

Segno dell’autenticità del nostro amore a Gesù è la tensione del nostro cuore verso il giorno del Suo ritorno: se Lo amiamo veramente, L’attendiamo con amore, se non L’attendiamo con amore significa che non L’amiamo ancora veramente! E se non amiamo Lui, amiamo qualcos’altro più di Lui e abbiamo quindi bisogno di una profonda e più autentica conversione.

I primi cristiani interpretando malamente alcune frasi di Gesù, credendo imminente questo giorno, subirono l’amarezza della cocente delusione di non vederlo arrivare. Sì, perché i primi cristiani incrociarono e confusero quanto il Signore Gesù annunciò a riguardo della distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio con quanto si riferiva alla fine di questo mondo e l’inaugurazione di quel “nuovo cielo e di quella nuova terra… dove Dio dimorerà con gli uomini per sempre… e dove tergerà ogni lacrima dai loro occhi; dove non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate" (Ap 21,1-4).

Il discorso di Gesù riportato dal Vangelo odierno incrocia questi due annunzi: quello della fine di Gerusalemme con quello della fine del mondo. Gerusalemme sarebbe stata distrutta alcuni decenni dopo la sua morte, precisamente nel 70 d.C. ad opera delle Legioni romane di Tito, mentre questo mondo ancora non è stato distrutto ed esiste fino a quando non verrà il suo ultimo giorno, la cui data è a noi nascosta, ma non a Lui. Data che Lui ben conosce, anche se un giorno, per tagliar corto il discorso ai discepoli che, curiosi, volevano saperla, disse che non la conosceva neanche Lui (cf Mt 24,36), e non mentiva, perché neppure Lui, in quanto uomo, la conosceva, ma non Gli era nascosta in quanto Dio con il Padre e lo Spirito Santo.

Il Signore Gesù dà, poi, una serie di segni premonitori di quel giorno: “Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno, e vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandi dal cielo” (Vangelo odierno). Ma quale epoca non ha avuto questi segni? Ogni epoca, compresa la nostra, è stata segnata da guerre, terremoti e varie sciagure e cataclismi. 

E poi l’altro segno, quello della “persecuzione”, quale epoca non ha avuto le sue persecuzioni ai cristiani? Ancora oggi quanti poveri cristiani nei Paesi dell’Islam sono perseguitati? E che dire delle persecuzioni, non tanto lontane dai nostri tempi, dei cristiani dell’Europa dell’Est? 

Per non parlare poi delle persecuzioni non cruente, ma ugualmente efficaci con cui nel mondo occidentale odierno viene perseguitato chi vuole affermare i valori cristiani.

Ma tutto questo tempo di attesa, che è tempo di prova e di persecuzione, non è il tempo della depressione, dello scoraggiamento e della tristezza, è il tempo dell’amore, sì, è il tempo dell’amore. È il tempo, cioè, in cui il cristiano è chiamato all’amore, è chiamato ad amare concretamente il Signore Gesù dandogli testimonianza: “Questo vi darà occasione di render testimonianza” (Vangelo odierno).

Cosa vuole dire infatti avere “occasione di render testimonianza”, se non avere qualche occasione per dimostrare a noi stessi e a Dio che Lo amiamo? Sì, perché chi ama è fedele, chi ama persevera anche nelle avversità, chi ama non torna indietro va avanti fino in fondo. 

Quando il cuore è colmo dall’amore di Dio può tutto, supera tutto, vince tutto, anche la morte. Per gli innamorati di Dio non c’è nulla di pesante, nulla di insuperabile, nulla di invalicabile, perché quella forza d’amore che si portano nel cuore li rende capace di portare i più pesanti pesi, di superare i più alti monti, di scavalcare i più larghi e profondi burroni: nulla è difficile per chi ama!

E allora tutto ciò che il mondo e il nemico organizzano per abbattere chi ama il Signore (cf Sap 2,12-20), diventa “un’occasione di rendere testimonianza” di un amore più grande, nella consapevolezza di fede che “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8,28) e che nulla e nessuno può separarli dall’amore di Gesù (cf Rm 8,35-39).

In questa luce d’amore dobbiamo imparare a leggere ogni amara vicissitudine della nostra esistenza, ogni contrattempo, ogni prova, ogni piccolo o grande disastro che incontriamo, ogni piccola o grande persecuzione, emarginazione o incomprensione.

In questa luce d’amore dobbiamo anche affrontare ogni tentazione che il perverso nemico scateni contro di noi, fiduciosi nel Signore che “è fedele e mai permetterà che siamo tentati al di là delle nostre forze e insieme alla tentazione ci darà la via d’uscita e la forza per superarla” (1Cor 10,13).

Quando si ama così non si ha più paura di nulla e tutto diventa un’occasione provvidenziale per amare il Signore e si capisce così il vero significato del tempo, di questo tempo che abbiamo ricevuto in dono da “Dio Amore” (1Gv 4,8.16) per amare. Sì, il tempo ci è stato regalato da Dio perché potessimo amare e ogni istante che non è vissuto nell’amore è sprecato, mentre quando si ama, anche il tempo apparentemente più sprecato, diventa preziosissimo. 

Infatti le azioni che facciamo hanno un valore in funzione dell’amore, e anche la più piccola e insignificante azione, come quella di alzare uno spillo da terra, diventa preziosissima e ricca di valore, se fatta con un grande amore (S. Teresina di Lisieux). Sotto questa luce cogliamo anche l’invito che Paolo oggi ci ha fatto nella seconda lettura, a non essere oziosi, a non perdere tempo, cioè a colmare l’attesa del ritorno del Signore in un amore operoso e fattivo. 

Ciò che rende la nostra vita entusiasmante e bella, non sono le azioni che compiamo, ma l’amore con cui la viviamo. Un giorno Ignazio chiese cosa facesse ad un fratello che sbucciava le patate, quel santo frate gli rispose: “Faccio quello che sta facendo in questo momento Francesco Saverio nelle Indie”, cioè stava facendo la volontà di Dio, e facendola stava amando!

Sì, perché si ama solo facendo la volontà di Dio. La grande illusione dell’uomo e della donna di tutti i tempi è che si possa amare fuori dalla volontà di Dio, ma questo è impossibile! Non si può amare né Dio né i fratelli né nulla se non si osservano i suoi comandamenti, (cf 1Gv 5,3) e “chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4,8).

Carissimi fratelli e sorelle “non dobbiamo meravigliarci se il mondo ci odia” (1Gv 3,13), il mondo ci odia perché noi non possiamo amarlo, infatti se amiamo il mondo pecchiamo (cf 1Gv 2,15-17).

Il cristiano non può essere capito dal mondo, perché il mondo non ha conosciuto ancora l’amore di Dio (cf 1Gv 3,1). È proprio questa la missione che abbiamo ricevuto come cristiani: fare conoscere al mondo “il grande amore con il quale Dio ci ha amati” (Ef 2,4), quel “grande amore che ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio e lo siamo realmente” (1Gv 3,1) e testimoniarlo perché tutti possano avere in noi un’occasione di convertirsi all’amore di Dio che abbiamo conosciuto in Gesù, prima che Questi torni non più nell’umiltà e nella debolezza, ma nella potenza e nella gloria di Figlio di Dio.

La Vergine Maria, Madre della nostra speranza, Vergine dell’attesa vigilante e operosa, ci insegni a saper elevare i nostri occhi, le nostri menti e i nostri cuori al Cielo, e conquistati e afferrati dall’amore di Gesù, corriamo con Lei incontro a Lui con gioia ed entusiasmo (cf Fil 3,12.14; Ct 1,4) trascinando con noi tutti quelli che possiamo.

Amen.

 

 

j.m.j.

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Solennità di N. S. Gesù Cristo Re dell’Universo – Anno C                                   Omelia

 

Gesù, ricordati di me
             quando entrerai nel tuo regno”

 

Carissimi fratelli e sorelle,

in questa solennità conclusiva dell’anno liturgico celebriamo il Signore Gesù come nostro “RE”

“Re” è una parola che non siamo più abituati a sentire e che, difficilmente, oggi riesce a trasmettere alla nostra mente tutta la forza, la bellezza, la grandezza e il mistero di grazia che essa vorrebbe indicarci.

Cosa si nasconde dunque nel fatto che noi celebriamo oggi Gesù come nostro “Re”? Vediamo cosa le letture odierne ci dicono riguardo a questo termine.

La seconda lettura ci permette di comprendere innanzi tutto un aspetto fondamentale della regalità di Gesù strettamente legato alla sua divinità. Lui infatti è il Figlio che è una cosa sola col Padre nello Spirito Santo (cf Gv 10,30): tutti e tutto sono sotto il suo dominio, il suo potere, la sua autorità, perché Lui è Dio, il grande, onnipotente e tre volte santo Dio (cf Ap 4,8): “Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in Lui”.

La lettera di Paolo continua dicendo che “Egli è anche il Capo del Corpo, cioè della Chiesa”. Gesù quindi è nostro “RE” in quanto è il “ nostro DIO” e anche in quanto è il “nostro CAPO”, “il Capo della Chiesa che è il suo Corpo”. Egli è il “CAPO” in quanto vero uomo: “il Carpentiere, il Figlio di Maria” (Mc 6,3). 

La prima lettura ci aiuta ad andare più in profondità nella comprensione di cosa vogliamo significare dicendo che Gesù è il nostro “CAPO”. Questa tratta dell’unzione di Davide come re d’Israele. Le tribù ebree radunatesi ad Ebron per proclamare solennemente il loro nuovo re, dissero a Davide: “Ecco noi ci consideriamo come tue ossa e tua carne”. Che bell’immagine! Noi apparteniamo a te come appartengono a te le tue ossa e la tua carne; tu appartieni a noi come nostro capo: “Il Signore ti ha detto: Tu pascerai Israele mio popolo, tu sarai capo in Israele”.

Ecco, carissimi fratelli e sorelle, quando diciamo che “Gesù è nostro Re”, vogliamo dire – tra l’altro – che noi apparteniamo a Lui, che siamo suoi, e quanto Gli siamo costati! Quale grande prezzo ha dovuto pagare per comprarci (cf 1Cor 6,20; 7,23; 1Pt 1,18-19)! E che quindi non ci apparteniamo più, sì, non ci apparteniamo più, perché ormai apparteniamo a Lui (cf 1Cor 6,19; Gal 3,29; Rm 7,4; 8,9).

Ma, se è vero che noi apparteniamo a Lui, nondimeno vero è che Lui appartiene a noi: è nostro! Tutto nostro, per sempre nostro: è il regalo del Padre che tanto ci ha amati da donarci il suo Unico Figlio (cf Gv 3,16). Dono immeritato, del quale siamo tutti indegni, dono assolutamente gratuito che nessuno avrebbe potuto né può mai ripagare. Il P. Pio Bruno Lanteri [Fondatore dei Padri Oblati di Maria Vergine] riflettendo su questo dono del Padre scriveva: “Ora nulla vi è che dia un più giusto diritto sopra una cosa, quanto l'averla acquistata per mezzo di donazione: dunque avendomi il Padre donatomi il suo Figlio, Questi appartiene a me, ed avendoLo io accettato, Lo posso offrire al Padre per me” – [ “Tesoro del Crocifisso”  (Asc, 2269a:T3,2) – Trasposizione in italiano moderno]

Noi apparteniamo a Lui, sì, apparteniamo a Lui e non potremmo non appartenerGli perché Lui è Dio e tutto appartiene a Lui per la sua onnipotenza e forza: “Egli disse e tutto fu fatto” (Sal 148,5), chi potrebbe sottrarsi al suo dominio divino? Ma non è a questo genere di appartenenza che ci riferiamo quando diciamo che “noi apparteniamo a Lui”, infatti noi non apparteniamo a Lui solo per via della sua potenza, noi apparteniamo a Lui per amore, sì, per amore. Lui ci ha fatto suoi non con la manifestazione della sua potenza, ma con la manifestazione della sua debolezza, sì, perché non c’è persona più debole di chi ama e Lui ci ha amato a tal punto da rendersi – Lui, onnipotente ed eterno! – talmente impotente, debole, abbattuto – da morire crocifisso, senza scendere dalla croce, inchiodato e vinto dall’amore che ci porta.

Noi apparteniamo a Lui perché siamo stati conquistati, afferrati (cf Fil 3,12), sedotti (cf Ger 20,7) dal suo amore. Noi siamo suoi perché abbiamo conosciuto il suo amore e ci siamo lasciati affascinare da esso. Apparteniamo a Gesù perché Lo amiamo e l’amore non è amore se non è consegna di sé all’altro. Ma questa nostra consegna a Lui è risposta alla consegna che Lui ha fatto a ciascuno di noi di Se Stesso (cf Ef 5,2.25; Gal 1,4; 2,20; 1Tm 2,6: Tt 2,14) una volta per tutte morendo per tutti in croce (cf Eb 7,27).

Gesù si è consegnato per amore, amore assoluto, amore immenso, amore incredibile sottoponendosi così al rischio di non essere accolto, capito, stimato, apprezzato.

Luca, nel Vangelo odierno, mostrandoci Gesù vilipeso, umiliato e crocifisso, ci mostra anche il palcoscenico di questa consegna d’amore. Si tratta di una scena cosmica, che trascende il tempo e lo spazio e che coinvolge tutti i tempi e tutta l’umanità. Lì Gesù si è consegnato, per amore, ad ogni uomo ed ad ogni donna che era, che è e che sarà e tutti sono presenti a questo dramma della follia d’amore di Dio. Luca ce li mostra tutti lì rappresentati dal popolo che stava a guardare, dai capi di esso, dai soldati e dai due malfattori, a noi capire da quali di essi veniamo rappresentati:

– Ci sono quelli che stanno a vedere: “Il popolo stava a vedere”. Questi sono i più. Non si compromettono né con gesti irriverenti, né con gesti di sostegno al condannato: stanno a guardare, aspettano un segno. Pensate un po’, se Gesù fosse sceso dalla croce quelli lì avrebbero trovato il coraggio di ammazzare tutti quanti avevano preso in giro il Signore e messo in croce. Avrebbero trovato il coraggio perché ormai avrebbero saputo che Gesù era il più forte. Ma erano pronti a tornarsene alle loro case, al loro piccolo mondo che la faccenda “Gesù” non aveva ancora minimamente toccato o compromesso.

– Ci sono i capi (cioè gli scribi, i farisei, i sacerdoti che avevano macchinato contro Gesù) che Lo invitano a scendere dalla croce per dimostrare che veramente è il “Messia” e che quindi Dio è con Lui: “Lo salvi Dio se è il suo eletto!”. Per loro Gesù è un impostore, è uno che ha bestemmiato proclamandosi Dio come il Padre. Gesù viene da loro rifiutato perché Dio – secondo loro – non può lasciarsi crocifiggere, Dio non è debole!

– Ci sono i soldati romani che Lo scherniscono e Lo sfidano a scendere dalla croce per dimostrare che veramente è “Re”. Loro non ne sanno nulla di Messia e non si interessano del fatto che Egli sia o meno un essere divino, Lo scherniscono e Lo sfidano a scendere dalla croce per dimostrare che è “Re”. Per loro Gesù è un povero folle e come tale Lo hanno vestito e trattato: un misero re da burla (cf Mc 15,16-19). Un povero folle che propone una vita da vinti, falliti senza gloria né piaceri.

– Ci sono poi i due malfattori che vengono inchiodati “uno alla sua destra e uno alla sua sinistra” (Lc 23,33). Marco e Matteo ci raccontano che “anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano” (Mc 15,32; Mt 27,44). Luca, invece, – abbiamo ascoltato – ci racconta che uno dei due dalla sua croce difende Gesù. Probabilmente anche lui, prima, se l’era presa con Gesù come il suo pari, e come tanti che colpiti dalla sofferenza accusano Dio di essere ingiusto e cattivo. Ma poi lì sulla croce ci fu qualcosa che lo fece cambiare, uno sconvolgimento interno che lo porterà a difendere Gesù e, lui, ladro e assassino, entrare per primo in Cielo.

Cosa avrà provocato un tale rivoluzionamento interiore nell’animo di questo mascalzone? 

«Questo malfattore non si associa agli insulti proferiti dall'altro, ma lo rimprovera. Confessa la propria colpevolezza, riconosce la perfetta innocenza di Gesù e si rivolge a Lui con una domanda che esprime pentimento e fede messianica. Lo invoca con una supplica piena di umiltà e di fiducia: "Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno". Lo chiama familiarmente per nome "Gesù" (è l'unico caso in tutto il Vangelo che Gesù viene chiamato per nome senza alcun altro titolo) e gli chiede di ricordarsi di lui, cioè di intervenire in suo favore, quando verrà nello splendore del suo potere regale. Una fede straordinaria! Il ladrone, infatti, crede che Gesù introdurrà il Regno di Dio, che comporta la risurrezione dei morti. Lo crede nonostante la situazione tragica e irreparabile del Messia, crocifisso e morente come lui e accanto a lui. Che cosa ha potuto provocare e motivare tale fede? Il testo che precede il nostro presenta Gesù che prega per i suoi uccisori: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno!". Il ladrone si converte perché ha ascoltato questa preghiera di Gesù. Ha percepito la profondità inaudita del rapporto filiale che Gesù vive con Dio e ha capito fino a che punto arriva il suo amore. 

La risposta di Gesù supera ogni attesa: "In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso". "Oggi": la salvezza promessa da Dio e attesa per lunghi secoli è qui, interamente donata grazie alla presenza misericordiosa di Gesù. "Sarai con me". Ecco il bene supremo che Gesù assicura al ladrone: essere con Lui, in un rapporto di intimità e comunione profonda. L'esperienza della morte non lo separerà da Gesù, ma sarà unito a Lui e associato al suo destino di vivente al di là della morte. "Nel paradiso"».

[ Mons. Ilvo Corniglia]

E così l’ultimo degli ultimi, colui che era una misera feccia dell’umanità, diventa modello e precursore di tutti i membri di questo Regno di cui Gesù è Re e Signore e ci mostra quella confidenza, quella familiarità affettuosa, quell’intimità d’amicizia a cui ciascuno di noi è chiamato nel momento stesso che riconosce Gesù come suo Re e Signore.

La Vergine Maria, le cui braccia pietose accolsero e abbracciarono il suo Figlio morto, ci aiuti e ci insegni ad accogliere nel nostro cuore tutto l’amore di Gesù che si consegna a noi oggi per mezzo sacramenti della Chiesa, e commossi e conquistati da questo dono, impariamo anche noi a consegnarci a Lui nell’amore per la potenza della sua risurrezione che ha vinto per sempre la sua e la nostra morte. 

Amen.     

j.m.j

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