P. Louis Lallemant sj

 

 

 

 

P. Louis Lallemant sj

LA DOTTRINA SPIRITUALE

 

Introduzione del

card. Giovanni Colombo

Presentazione degli Editori

 

AVVERTENZA AI LETTORI 

 

SI CONSIGLIA FORTEMENTE DI NON AVVENTURARSI NELLA LETTURA DIRETTA DEL TESTO DEL LALLEMANT SENZA AVER PRIMA LETTO LO STUDIO INTRODUTTIVO DEL CARD.  COLOMBO QUESTA PREVIA LETTURA  È INFATTI NECESSARIA PERCHÉ PERMETTE AL LETTORE DI AVERE UNA PREZIOSA CHIAVE DI ACCESSO ALLA COMPRENSIONE DELLA DOTTRINA DEL P. LALLEMANT ED EVITARE . COSÌ  DAL CADERE IN FALSE INTERPRETAZIONI DI QUESTO CLASSICO DELLA SPIRITUALITÀ.

 

La spiritualità del P. Lallemant

Studio introduttivo del card. Giovanni Colombo

 
I. L’uomo II. Il libro
III.
La dottrina 

       a)  Il primo passo   b) La purificazione            del cuore        c) L’azione dello            Spirito Santo  d) Il primato      della  contemplazione            sull’azione

IV Lallemant ​e la Chiesa V Lallemant e la Compagnia di Gesù VI Attualità del  ​Lallemant

 

 

P. LOUIS LALLEMANT

 

DOTTRINA SPIRITUALE

 

INDICE

 

 

Primo Principio: LO SGUARDO AL FINE

 

Cap. 1°     Dio solo può renderci felici

 

Cap. 2°     La nostra felicità dipende dalla nostra sottomissione a Dio,                 che solo deve regnare nel nostro cuore.

 

 

Secondo Principio: LA PERFEZIONE

 

Parte Prima:  La perfezione in generale

 

Cap. 1°     Il primo atto di un’anima che tende alla perfezione

 

Cap. 2°     Principali mezzi di perfezione

 

Cap  3°     Pratica delle virtù più necessarie alla perfezione

 

 

Parte Seconda:  La perfezione propria della Compagnia di Gesù

 

Cap. 1°     In che consiste la perfezione propria della Compagnia

 

Cap. 2°     Diverse disposizioni dei religiosi di fronte alla perfezione

 

Cap  3°     Motivi che ci impegnano ad aver cura della nostra perfezione

 

Cap. 4°     Mezzi di perfezione propri della nostra Compagnia

 

Cap. 5°     Zelo della salvezza e della perfezione del prossimo

 

Cap. 6°     Suggerimenti diversi

 

 

Terzo Principio: LA PUREZZA E LA CUSTODIA DEL CUORE

 

Parte Prima:  La purezza del cuore

 

Cap. 1°     Sua natura e proprietà

 

Cap. 2°     Da quali cose dobbiamo purificare il cuore

 

Cap  3°     Cura necessaria per conservare la purezza del cuore durante l’azione

 

Cap. 4°     Cause che dall’interno corrompono il nostro cuore

 

Cap. 5°     Cause che dall’esterno corrompono il nostro cuore

 

 

Parte Seconda:  La custodia del cuore

 

Cap. 1°     Sua natura

 

Cap. 2°     Come vivere la custodia del cuore

 

 

 

Quarto Principio: DOCILITÀ ALLA DIREZIONE DELLO SPIRITO SANTO

 

Cap. 1°     Natura della docilità allo Spirito Santo che ci guida

 

Cap. 2°     Motivi che ci inducono a questa docilità

 

Cap. 3°     I doni dello Spirito Santo in generale

 

Cap. 4°     I doni dello Spirito Santo in particolare

 

           §1. Il dono della Sapienza

 

           §2. Il dono dell'Intelletto

 

           §3. Il dono della Scienza

 

           §4. Il dono del Consiglio

 

           §5. Il dono della Pietà

 

           §6. Il dono della Fortezza

 

           §7. Il dono del Santo Timore

 

Cap. 5°     I frutti dello Spirito Santo

 

Cap. 6°     Ostacoli opposti dal demonio alla pratica della docilità                   ed alla direzione dello Spirito Santo

 

 

Quinto Principio: IL RACCOGLIMENTO DELLA VITA INTERIORE

 

Cap. 1°     Natura e cause della vita interiore

 

Cap. 2°     I motivi che ci portano alla vita interiore

 

Cap. 3°     Occupazioni della vita interiore

 

Cap. 4°     Consigli per la vita interiore

 

 

Sesto Principio: L'UNIONE CON NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO                              SI RAGGIUNGE  CON LA CONOSCENZA, CON L'AMORE,                             CON L'IMITAZIONE

 

Parte Prima:  La conoscenza di Nostro Signore

 

Cap. 1°     I misteri dell’Uomo-Dio

 

Cap. 2°     Proprietà dell’Uomo-Dio

 

Cap  3°     I diversi stati della vita di Gesù Cristo

 

Cap. 4°     Maria Santissima

 

 

Parte Seconda:  L’amore a Nostro Signore

 

Cap. 1°     Le ragioni di onorare e di amare Nostro Signore in Se Stesso

 

Cap. 2°     La pratica di questo amore divino

 

Cap. 3°     I motivi di amare Nostro Signore nel SS. Sacramento dell’altare

 

 

Parte Terza: L’imitazione di Nostro Signore

 

Cap. 1°     I motivi di imitare Nostro Signore

 

Cap. 2°     Imitare Nostro Signore nel distacco da ogni creatura

 

Cap. 3°     Imitare Nostro Signore nella sua povertà

 

Cap. 4°     Imitare Nostro Signore nella sua castità

 

Cap. 5°     Imitare Nostro Signore nella sua obbedienza

 

Cap. 6°     Imitare Nostro Signore nella sua umiltà

 

Cap. 7°     Imitare Nostro Signore nella sua vita interiore

 

Cap. 8°     Come il mistero dell’Incarnazione ci torni utile per la perfezione

 

Cap. 9°     Pratica per onorare in maniera durevole il Verbo Incarnato,                 la SS. Vergine e S. Giuseppe

 

 

 

Settimo Principio: ORDINE E GRADI DELLA VITA SPIRITUALE

 

Parte Prima:  L’orazione meditativa ed affettiva

 

Cap. 1°     L’orazione in generale

 

Cap. 2°     La meditazione

 

Cap  3°     L’orazione affettiva

 

 

Parte Seconda:  L’uomo di orazione, o trattato sull’orazione mentale                                secondo i tre stati della vita spirituale

 

Cap. 1°     Consigli sulla meditazione per i principianti

 

Cap. 2°     Consigli sull’orazione affettiva per le anime progredite

 

Cap. 3°     Consigli sull’orazione di quiete, opresenza di Dio, per le anime più avanzate

 

Cap. 4°     Consigli sulla contemplazione per le anime più progredite

 

 

APPENDICE

 

Cap.  1°    Della perfezione in generale

 

Cap.  2°    La purezza del cuore

 

Cap.  3°    In che cosa consiste servire fedelemente il Signore

 

Cap.  4°    Importanti suggerimenti per il progresso spirituale

 

Cap.  5°    L’umiltà

 

Cap.  6°    la santa semplicità

 

Cap.  7°    Lo spirito di devozione

 

Cap.  8°    Diverse classi di religiosi e ciò che torna di pregiudizio ad alcune buone comunità

 

Cap.  9°    Lo spirito della Compagnia di Gesù

 

Cap  10°   Il regno di Dio nelle anime

 

 

 

 

 

Louis Lallemant  

La dottrina spirituale

 

 

 

 

 

Presentazione degli Editori

 

Attualità del libro e valore di una introduzione.

 

La Dottrina Spirituale del P. Louis Lallemant appartiene a quella categoria di libri che possono solo invecchiare un poco nella forza, ma conservano intatto il valore della loro sostanza: interpretando infatti e guidando con sicurezza la vicenda più rischiosa e più avvincente, cioè quella della vita dello spirito.

 

A una quarantina di anni fa risale l’edizione italiana di quest’opera, preceduta da un’introduzione acuta e illuminante di Giovanni Colombo, allora rettore del Seminario liceale di Vengono Inferiore e professore di teologia spirituale: «sintesi importante», la definiva ancora recentemente Georges Bottereau nel Dictionnaire de Spiritualité, ma già il P. Filograssi nella Civiltà Cattolica di quegli anni la condivideva, riconoscendovi «riflessione personale e sereno giudizio» nell’affrontare i delicati problemi che il libro pone.

 

Il valore della Dottrina Spirituale e quello dell’introduzione di G. Colombo – che mette in luce la fisionomia interiore del Lallemant, e i caratteri e il significato della sua opera – ci ha indotto a ripubblicare quel volume, nella convinzione che oggi non pochi cristiani sentono intensamente il bisogno di maestri di vita interiore dall’insegnamento chiaro e sicuro, e anche coraggioso, che scuota da torpore e stimoli alle alte mete del Vangelo. Lallemant è uno di tali maestri.

 

In questi anni non sono mancati aggiornamenti sulla biografia del P. Lallemant, la formazione dell’opera e il suo senso teologico, i contesto del secolo XVII in cu isi forma una nuova spiritualità dei gesuiti francesi, e l’influsso della Dottrina Spirituale; come non sono mancate riedizioni dell’opera originale del Lallemant, in particolare quella a cura di P. Courel: Doctrine Spirituelle, Collection «Christus» (n. 3), Desclèe de Brouwer, Paris 1959, con pregevole introduzione. A questa edizione e all’articolo Lallemant del Dictionnarie de Spiritualità (t. 9, coll. 125-135) rimandiamo, per l’aggiornamento.

 

Riportiamo invece una nuova sintetica riflessione dello stesso, ma ora cardinale, Giovanni Colombo dopo una rilettura dell’opera a quarant’anni di distanza dalla prima:

 

«Il padre Louis Lallemant è un gesuita interprete della linea mistica del grande Ignazio di Lodola. Questi alla Compagnia dei suoi seguaci non consegnò il Racconto del Pellegrino, libro che narra le visioni e le contemplazioni a cominciare da Manresa fino alla Storta in prossimità di Roma, ma pose loro in mano il libro degli Esercizi Spirituali ove insegna una dottrina severamente ascetica sulle linee del Rodriguez e del Granata. Che significa questo se non che il fondatore dei gesuiti si era persuaso che è difficile varcare le soglie che immettono nell’esperienza mistica senza la purificazione ascetica? Invece è normale che dagli esercizi ascetici, generosamente accettati e costantemente praticati, si approdi alla mistica. Ogni asceta diligente è un mistico in potenza, ma non è vero l’inverso perché l’asceta negligente nelle rinunce ai piaceri del mondo, non arriverà mai a gustare l’esperienza del divino.

 

La dottrina spirituale del Lallemant è uno specchio di equilibrio, tanto più se si considerano i tempi in cui venne stesa dall’autore. Questi doveva procedere guardingo tra due argini opposti, e parimenti pericolosi: quello antiquietista e quello giansenista. L’uno doveva premunire dallo slittare nell’errore antiquietista, l’altro nell’errore giansenista. Il Lallemant insegna una dottrina sicura e rassicurante, un misto di introspezione psicologica e di illuminazione soprannaturale, di rigore ascetico e di abbandono mistico.

 

Ciò non toglie che questa dottrina resti sempre uno strumento fine e delicato, che in mano agli inesperti o ai presuntuosi possa essere usato male. La colpa però non è dell’estensore, ma dell’imperizia o della presuntuosità di chi lo usa. Qualcuno ha rimproverato il Lallemant perché apre i cancelli della mistica a tutti; sì, ma sono i volenterosi che hanno avuto il coraggio «del primo passo» e la costanza indomita della purificazione totale. Ma se qualcuno si reputasse «del bel numero» e non lo fosse, il Lallemant non gli farebbe immeritati complimenti, ma lo prenderebbe per il bavero, e lo ricondurrebbe indietro, assegnandogli un posto tra coloro che ancora devono affrontare le prime pratiche della vita spirituale. Non solo, ma da quell’esperto che è, gli rinfaccerebbe i contrassegni delle sue illusioni; parlare continuamente di grazie straordinarie, di visioni e di rivelazioni senza comprenderle, trascurare la santa umanità del Signore Gesù per occuparsi nell’orazione esclusivamente della sua divinità, avere una condotta e sentimenti contrari all’insegnamento e alla pratica della chiesa Cattolica; mancare di semplicità e di schiettezza nei rapporti con i direttori spirituali.

 

Un Lallemant così come l’abbiamo descritto, non illude nessuno e a tutti indica il luogo che si sono meritati  con la fede, la speranza e la carità che mai viene meno».

 

Gli Editori

 

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Louis Lallemant La dottrina spirituale

La spiritualità del p. Lallemant Studio introduttivo del card. Giovanni Colombo

 

 

 

I. L’uomo

 

La vita di Louis Lallemant è di quelle che fanno disperare anche il biografo più sagace. All’esterno nulla di singolare o di appariscente, intorno a cui stendere narrazioni di facile interesse, ma solo poche date e pochi uffici a cui aggrapparsi. Uffici che di per sé, per quanto delicati e importanti, non valgono a distinguere questo gesuita dai molti che li hanno pure sostenuti in altri luoghi e in altri tempi. All’interno, invece, quanta ricchezza, quanta forza, che ardore meraviglioso e insonne! La sua vita, tutta la sua vera vita si è scavata un alveo interiore per scorrere senza clamori superficiali, fuori da ogni osservazione umana, mistero d’amore tra l’anima sola e Dio solo. E proprio per questo fu incomparabilmente feconda. Sugli spiriti migliori e più generosi ha sempre esercitato un silenzioso fascino conquistatore. Nessuno potrà mai sapere quanti furono che dal Lallemant appresero l’ansia delle vette. Ancor oggi, a distanza di secoli, chi s’accosta alla Dottrina spirituale, s’accosta a un’onda di freschezza e sapore inalterati, che pare sgorga adesso da regioni sotterranee per l’arsura delle anime moderne. Sente che non è un sistema congegnato a lume di lucerna, ma un’esperienza viva, scontata o goduta punto per punto. Sente che non è appena un libro, (anzi, è così poco libro!) ma soprattutto un cuore che, discacciatosi dai tentacoli dell’effimero e dell’illusorio, palpita nell’Eterno e nel Vero, un grande cuore dalle ombre pervenuto alla Luce, dall’inquietudine e dall’insoddisfazione alla Pace e alla Felicità, dalla creatura a Dio.

 

Nacque il 1588 a Châlons sur Marne nella Champagne. Fino dalla tenera infanzia fu messo nel collegio dei gesuiti a Bourges; a 17 anni è novizio della Compagnia; a 33 vi fa la professione. Successivamente, in diversi luoghi, insegna matematica, filosofia, teologia, morale, scolastica.

 

Di salute era gracile, ma d’animo era grande e gagliardo. Gli bastava sapere che Dio volesse una cosa da lui, per mettersi ad attuarla con un coraggio leonino e una fermezza granitica: né le difficoltà dell’impresa, né i sacrifici necessari, né le opposizioni del mondo, né le considerazioni della prudenza umana, neppure il timore di coprirsi di ridicolo o di vergogna per l’insuccesso, né tute queste cose assieme potevano arrestarlo. Fu così che sette od otto anni innanzi alla morte fece il voto della generosità suprema: fare, sempre in tutto, ciò che giudicava il più perfetto. E prima ancora, per tre anni, aveva supplicato di essere spedito nelle terre di Missione, specialmente nel Canada. Si diceva che questa fosse la Missione più aspra perché imponeva maggiori sacrifici, e la meno matura perché dava scarse conversioni. Non occorreva altro perché egli la giudicasse la più adatta alla santificazione dei missionari che cercassero non la propria soddisfazione nel fare il bene, ma la gloria e il puro amore di Dio. I superiori però non accolsero il suo voto: e così le Missioni perdettero un missionario, ma la Compagnia guadagno un formatore impareggiabile di missionari e di apostoli.

 

La natura e la grazia l’avevano fatto uomo di governo. Il suo dono peculiare era quello di formare e dirigere le giovani reclute della Compagnia e gli stessi suoi confratelli anziani. In questo ufficio sapeva dimenticare se stesso e i propri interessi per chinarsi su di loro, scoprire i disegni di Dio sulla loro vita e le loro attitudini. Inoltre aveva la virtù rara e preclara «di dedicarsi più volentieri a cooperare segretamente alle buone opere altrui che non a intraprenderne egli stesso». Scomparire nel bene fatto fare dai propri sudditi! Basterebbe questa dote per far grande un Superiore. E il Lallemant l’aveva in grado eccellente. Rifuggiva dall’essere accentratore e dal pretendere di far tutto da sé, a danno di un pronto governo; al contrario prendeva interesse alle fatiche dei suoi inferiori, non temeva ma stimava la loro crescente personalità, li aiutava, li favoriva e incoraggiava nelle loro sante imprese cercava e creava le occasioni perché potessero sviluppare le loro risorse a gloria di Dio e a bene delle anime. Dopo questo, non ci meravigliamo più di trovare tra i suoi discepoli le personalità religiose più cospicue del suo secolo.

I Superiori sfruttarono il talento del Lallemant, ponendolo a Rouen dapprima come maestro dei novizi e poi, dal 1628 al 1631, come Istruttore del Terzo Anno di Probazione[8]. Questo triennio fu la sua breve stagione d’oro, nella quale maturò i frutto mirabile della Dottrina spirituale. L’incerta salute del Padre Istruttore, fattasi ancora più precaria in quella sfibrante fatica, preoccupò i superiori che a malincuore si videro costretti a mutargli aria e lavoro. Venne trasferito a Bourges dapprima come Prefetto degli studi superiori e poi, per pochi mesi e furono gli ultimi della sua vita, come Rettore. La sua corsa finiva là dove era cominciata: in quel collegio che l’aveva visto fanciullo, dove spontaneamente e senza saperlo aveva scoperto le prime gioie del raccoglimento interiore; dove, per chi si meravigliava di vedere in un ragazzo tanta gravità e riflessione, aveva saputo trovare una risposta incredibilmente più grandi della sua età: «Bisogna che dimori dentro di me e non ne esca mai completamente». Risposta che il programma di tutta una vita.

 

A Bourges sembrò migliorare, ma le speranze di tutti quelli che gli volevano bene e stimavano preziosa la sua opera per la Compagnia, furono tosto deluse. Da parte sua, ormai, non faceva altro che languire dietro la morte e sospirarla. E la liberatrice attesa venne il giovedì santo del 1635: lo trovò con il crocifisso in una mano e l’immagine della Madonna nell’altra, sorridente tra il mesto lacrimare degli astanti.

 

Il P. Champion, nel tracciare quel profilo biografico, da cui furono dedotte le notizie che abbiamo riferito, ci ha lasciato due ritratti del Lallemant, l’uno fisico e l’altro spirituale, che meritano di essere qui ricordati.

 

«Una figura alta, maestosa nel portamento; aveva la fronte ampia e serena, il pelo e i capelli castani, la testa già calva, il volto ovale e ben modellato, il colorito lievemente abbronzato, le guance di solito accese dal riflesso del fuoco celeste che gli ardeva in cuore; gli occhi d’una dolcezza incantevole rivelavano la fermezza del suo giudizio e la perfetta uguaglianza del suo carattere…». «Una mente egregia, aperta a tutte le scienze; una forza di giudizio penetrante e ferma; un’indole dolce, sincera e dignitosa; disgusto istintivo e grandissimo per il vizio, massime per quello impuro; un’alta idea del servizio di Dio e una inclinazione specialissima per la vita interiore…».

 

Insomma, la forza con la dolcezza, il decoro con la affabilità, l’intuizione con l’equilibrio, il candore nativo con la saggezza, i talenti dello spirito con la bellezza e l’eleganza del corpo; bastava anche meno per fare del Lallemant un uomo di primo ordine. E la sua opera non smentisce questa impressione.

 

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La spiritualità del p. Lallemant Studio introduttivo del card. Giovanni Colombo

 

 

II. Il libro 

 

La quale opera, per altro, non fu scritta da lui. Se recentemente non fossero state messe in luce quattro lettere, non possederemmo neppure una riga di suo pugno. Fu uno di quei Maestri, umili e grandi che rifuggono dall’affidare alla carte la loro dottrina: fusa com’è senza residui con la vita, non lo potrebbero fare senza molto impoverirla, ed anche temono, forse, che la carta lasci adito a certe sottili compiacenze d’orgoglio di cui hanno estremo orrore. Preferiscono perciò trasfonderla dall’anima immediatamente nelle anime, come passione viva; preferiscono scrivere nei cuori. Penseranno, se mai, i discepoli a formulare e a fissare per i posteri l’insegnamento del Maestro.

 

Per il Lallemant pensarono il Surin e il Rigoleuc, Jean Surin (1600 †1665), facendo il suo terzo anno di pronazione a Rouen nel 1629-30, raccolse dalle istruzioni del P. Lallemant soltanto alcune brevi note. Molto più numerose, molto più ampie quelle che, l’anno successivo furono raccolte da Jean Rigoleuc (1625 †1658). Queste note con altre scritture, alla morte del Rigoleuc passarono al P. Vincenzo Huby (1623 †1693), altro uomo insigne per santità e intelligenza, il quale comprese il valore del tesoro di cui era depositario, ma assorbito nel lavoro apostolico, (si pensi che fu il grande iniziatore dei ritiri chiusi in Bretagna) non trovò il tempo necessario per riordinare e preparare per le stampe quel prezioso materiale. Trovò invece la persona che poteva egregiamente supplire in questo compito: il P. Champion.

 

Questi ritrascrisse e sistemò le note del Rigoleuc, vi premise la vita del Lallemant, collocò in appendice gli appunti del Surin che non gli era riuscito di incorporare nel testo, e pubblicò tutto in un volume dal titolo Vita e dottrina del P. Lallemant della Compagnia di Gesù.

 

Da cinquantanove anni l’Istruttore del Terzo Anno aveva chiuso gli occhi quando il suo insegnamento fu dato alla stampa. Un’edizione siffatta pone immediatamente il problema: quale parte qui dentro spetta originariamente all’autore Lallemant, quale al redattore Rigoleuc e quale all’editore Champion?

 

Cominciamo dal P. Champion. Noi sappiamo come maneggiava i testi prima di licenziarli alla stampa: ne abbiamo un esempio nelle lettere del Surin, di cui ci è possibile confrontare l’edizione del Champion con qualche manoscritto contemporaneo. Da tale confronto risulta che modificava continuamente lo stile, anzi, non è parola esagerata, ritrascriveva completamente il testo, sacrificando a volte anche la vigorosità e il realismo dell’espressione alla levigatura e purezza della lingua. Però, è giusto riconoscerlo, sotto il rivestimento formale conservava fedelmente intatta la sostanza del pensiero. Lo stesso Champion, pubblicando nel 1686, le operette del Rigoleuc, confessava candidamente il suo metodo: dare al dettato «l’esattezza e la purezza di stile di cui il nostro secolo ha grande esigenza… E io l’ho fatto, cambiando in tal modo lo stile da lasciare immutato il pensiero». Si deve dunque pensare che anche i riassunti delle istruzioni del Lallemant siano stati sottoposti a simile processo di ringiovanimento stilistico.

 

Ci si può chiedere ancora: finisce qui l’opera del P. Champion oppure si è spinta più in là, nella stessa sistemazione dei riassunti, con il proposito di dare organicità a delle pagine sparse? È un fatto che la Dottrina spirituale, sia pure nell’attuale riassetto, non dà l’impressione che si sviluppi secondo un rigoroso piano logico. Ci sono pensieri accennati scheletricamente vicino a pensieri sviluppati con accuratezza di particolari; ci sono idee raggruppate a caso e capitoli che si succedono senza esigenza di nesso intimo. Questa disiecta membra vengono polarizzate intorno a sette principi organizzatori (e potevano essere di più, come potevano essere di meno): Sguardo al fine; Idea della perfezione; Purezza del cuore; Docilità allo Spirito Santo; Raccoglimento e vita interiore; Unione a Nostro Signore; Ordine e gradi della vita spirituale. Orbene, questa settemplice classificazione e il conseguente incasellamento delle note è da attribuirsi al P. Campino o già esisteva nei quaderni del Rigoleuc? Allo stato presente dei documenti la questione è insoluta, e i pareri sono discordi. C’è chi l’attribuisce al P. Champion, e s’appoggia sulla premessa che questi pose in capo al libro: «Tutto ciò che P. Rigoleuc ha raccolto… si può ridurre sotto sette principi»; e c’è chi, invece, nega che dall’espressione riferita si possa dedurre tanto, massime se si pensa che la consuetudine del P. Champion era di rifare lo stile senza toccare l’ordine e la sostanza dei pensieri.

 

Questione ancora più ardua e delicata si fa innanzi, quando si tratta di far la parte esatta tra l’autore e i redattore. A questo proposito, molto peso deve essere dato alla testimonianza del P. Champion, il quale nell’Avvertenza premessa all’edizione del 1694, scrive: «Quanto all’insegnamento spirituale del Lallemant, è stato raccolto fedelmente dal P. Jean Rigoleuc, il quale non gli ha certo tolto forza o unzione, anzi gliene ha aggiunto». Autorevole senza dubbio questa testimonianza, ma inquietante: da una parte afferma la fedeltà, dall’altra un’aggiunta. Siamo ben lontani da quella intangibile esattezza che modernamente si pretende per gli scritti o i dettati d’un autore, e c’è quanto basta per giustificare la divergenza delle opinioni.

 

Auguste Hamon tende a ingrandire la parte del redattore: solo il fondo del pensiero sarebbe del Lallemant; invece sensibilità, immagini, espressioni e stile proverrebbero dal Rigoleuc, scivolate nel testo, sarebbero state incorporate con esso. L’argomento che convince Hamon nella sua tesi è che – secondo lui – le idee e le frasi della Dottrina spirituale sono impregnate della medesima sensibilità delle operette del Rigoleuc.

 

Aloys Pottier, al contrario, tende a ingrandire la parte dell’autore. Non solo il fondo, ma anche lo stile e l’espressione sono del Lallemant. E vi è di più. Nella Dottrina spirituale si riscontrano brusche interruzioni e brecce che già erano state notate, no senza meraviglia, dal primo editore, il P. Champion. Il Pottier ha creduto di doverle colmare, rivendicando al Lallemant alcuni trattatelli spirituali che lo stesso Champion aveva pubblicato come fossero del Rigoleuc e invece altro non erano, a suo parere, che ampi stralci della Dottrina spirituale.

 

Così avvenne che mentre in una prima edizione il Pottier s’era limitato a riprodurre fedelmente il testo primitivo del Champion, in una seconda edizione, fatta in memoria del terzo centenario della morte del Lallemant ma uscita l’anno appresso, volle inserire nel testo primitivo un trattatelo intero e parte di altri due attribuiti al Rigoleuc.

 

È su questa seconda edizione che il Prof. Don Gualberto Vigotti del Seminario di Milano ha condotto la presente traduzione. Non si è inteso con ciò dichiararci convinti dalle argomentazioni del Pottier, ma solo presentare ai lettori italiani l’insegnamento del Lallemant nello sviluppo più completo possibile, anche se il completamento non è autentico, ma dovuto ad un discepolo di gran valore e fedeltà. Del resto ciò che fu preso dai trattati del Rigoleuc viene conservato tra parentesi quadre, sicché a nessuno riuscirà difficile distinguere il genuino testo primitivo dalle inserzioni, più o meno persuasive, fatte recentemente dal Pottier.

 

Qualunque sia la parte del Rigoleuc o la parte del Champion nella Dottrina spirituale, resteranno sempre un ideale ed una passione che sono inconfondibilmente l’ideale e la passione che infuocavano i cuore e imporporavano perennemente il volto al P. Louis Lallemant.

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III. La dottrina

 

L’insegnamento del P. Lallemant, come afferma egli stesso, si può ricondurre a due elementi essenziali: la purificazione del cuore e la docilità allo Spirito Santo. Se non che nell’attuazione pratica i due elementi caratteristici implicano altre due disposizioni d’animo: l’una iniziale ed è il coraggio del «primo passo»; l’altra concomitante e consiste nel mantenere il primato dell’orazione sull’azione, come si vede, nell’insegnamento del Lallemant risultano quattro motivi salienti; e ciascuno merita d’essere brevemente illuminato.

 

a) «Il primo passo».

 

La Dottrina Spirituale s’apre con una constatazione psicologica profonda e detta con tale semplicità e forza che ha il sapore di quei pensieri che qualche decina d’anni appresso scriverà Biagio Pascal: «Portiamo nel cuore un vuoto che tutte le creature insieme non sapranno mai riempire. Dio solo lo può colmare di Se Stesso…». Queste parole definiscono la legge che governa tutta la vicenda dell’umana felicità e infelicità, ci spiegano tutta la storia intima delle illusioni e delusioni, degli smarrimenti e ritorni degli uomini.

 

«Dio solo lo può colmare di Se Stesso»: ma prima che il possesso di Dio ci riempia e sazi, una necessità ineluttabile impone di sbarazzarsi di ogni creatura, in modo assoluto. È qui dove scoppia il dramma d’ognuno. Pellegrino sitibondo e impaziente di felicità, l’uomo boccheggia dietro le creature che incontra lungo il suo cammino per quella stilla di piacere di cui le vede asperse. Stilla efemera, svaporata prima d’appressarvi le labbra riarse, stilla smisuratamente inferiore al desiderio, ma non occorre di più per imprigionargli il cuore anelante. Eccolo, ora chiuso tra le morse del dilemma: o rinunciare a quell’immediata piccola dolcezza o precludersi la felicità piena, oggetto vero della sua sete; o abbandonare il poco che stringe nel pugno o sacrificare il Tutto a cui si protende. Il compromesso che egli cerca tra la creatura e il Creatore non è possibile: finché resta in lui qualcosa d’altro che potrà essere riempito di Dio. Nulla è così esigente e totalitario come l’amore di Colui che è l’Assoluto. Bisogna dunque scegliere; e la scelta è sentita come un rischio che fa tremare il cuore di sgomento. Decidersi in modo che  non ammetta né riserve né rimpianti, è come morire, morire a sé e alle cose, è come strapparsi dalla propria pelle per inguainarsi in un’altra. Richiede un coraggio che troppo spesso vien meno. Ascoltiamo direttamente il Lallemant: «Noi ondeggiamo anni interi ed a volte anche tutta la vita nella indecisione di consacrarci interamente a Dio. Non possiamo indurci a fare il sacrificio completo. Ci riserviamo affetti, disegni, desideri, speranze, pretese, di cui non ci vogliamo spogliare per timore di trovarci in quella perfetta nudità di spirito, la quale è prerequisito indispensabile per essere pienamente posseduti da Dio… C’è un passo da varcare e l’ardire manca. Per paura di diventare infelici, restiamo sempre infelici, rifiutando di donarci senza limitazioni a quel Dio che ci vuole possedere unicamente per liberarci dalla nostra infelicità e miseria».

 

Per paura di diventare infelici, noi restiamo sempre infelici.

 

Come è detto bene e quanto è vero! È il triste epilogo di tante aspirazioni fallite, di tanti propositi mancati, di tante vite smunte e perplesse. Che cosa occorre? Il coraggio del «primo passo».

 

Il primo passo! Il passo decisivo! Il passo da varcare! Nel linguaggio del Lallemant, che significa questa espressione diventata famosa e ripetuta dai suoi discepoli come un ritornello di battaglia, come una provocazione all’eroismo? Significa la volontà incrollabile, sincera, operosa di non rifiutare nulla a Dio, di stare pronti a qualunque esigenza del suo divino servizio. Significa uno sganciarsi assoluto dalla riva della caducità per entrare in Dio, completamente. Significa un dono totale e reale di sé, che meglio si direbbe un abbandono: abbandono nelle mani del Signore perché faccia di noi come più gli aggrada.

 

La stessa realtà significata dall’espressione «primo passo», «passo da varcare», ecc., è detta anche con un altro nome seconda conversione. «Nella maggior parte dei Santi e dei religiosi che diventano perfetti sono due le conversioni che si riscontrano: la prima quando si decidono al servizio di Dio; la seconda quando si consacrano interamente alla perfezione. Lo possiamo vedere negli Apostoli, la prima quando il Signore li chiamò, la seconda quando inviò loro lo Spirito Santo, ed anche S. Teresa, nel P. Alvarez suo confessore ed in molti altri. Purtroppo questa seconda conversione non avviene in tutti i religiosi: ma la causa sta tutta nella loro negligenza». L’appello è dunque rivolto a tutti, però solo le persone generose lo odono e o seguono. Ma nella vita religiosa (e nel sacerdozio) è forse lecito non essere tali? Il Lallemante risponde di no, tanto è vero che la seconda conversione non è pensata da lui come oggetto di lusso a cui si può rinunciare impunemente. Al contrario, afferma che la «salvezza di un religioso è inseparabilmente unita alla sua perfezione».

 

Inseparabilmente! La parola è forte e non è da urgere troppo, altrimenti si correrebbe il rischio d’identificare il consiglio con il precetto; essa però ci svela tutta l’appassionata coerenza del Lallemant. Il religioso (e il ragionamento vale anche per il sacerdote) che non tende alla perfezione, giornalmente deve resistere a innumerevoli grazie che a quel fine gli sono  concesse. Tale resistenza a poco a poco spegne il fervore della carità, assopisce la vigilanza interiore ed esteriore, diminuisce il gusto della preghiera, ottunde la delicatezza di coscienza, in una parola crea quell’atmosfera opaca e greve che prepara la caduta fatale. Quindi il religioso (e il sacerdote) o tende alla perfezione o slitta insensibilmente verso l’irrimediabile perdita della sua anima. “Che se non arriva alla propria rovina e dannazione eterna – dice il Lallemant ponendo quasi una sordina su quanto il suo pensiero aveva di spinto – è solo perché Dio, volendo salvare, lo previene con la sua misericordia prima della caduta».

 

L’ardimentosa volontà di spezzare le catene che tengono sottomesso il cuore alla tirannia delle cose, l’eroico anelito alla libertà dell’impero mistico del Padre Creatore, l’ansia d’emergere dal grigio e dal comune per battere le alte vie dell’unione divina, viene proposta come il prerequisito, la porta, il primo passo della perfezione. La cima della perfezione sarà raggiunta solo da chi fedelmente, nella pratica quotidiana, saprà attuare quella volontà, quell’anelito, quell’ansia.

 

Come si vede il Lallemant brucia le tappe della salita della montagna santa: fin dal «primo passo» la fa aggredire non già a falde, che sarebbe troppo lungo, incerto e noioso cammino, ma verso gli ultimi crestati coni. Dei tre gradi ignaziani d’umiltà, sorpassa di volo il primo e il secondo, punta direttamente al terzo. Ci sono sulla terra tante piccole dolcezze in cui ci si può rimanere un poco senza la minima ombra di male; ci sono tante consolazioni e sollievi che nessuna legge ha mai pensato lontanamente d’interdire, eppure il Lallemant insegna a non soffermarsi neanche per tirare un respiro. Non è certo il timore del peccato che lo spinge così, ma l’amore, il fuoco dell’amore puro che cerca Dio solo, che in Lui solo può riposare e fuori di Lui in niente. Udite: «Una vocazione apostolica, come la nostra, esige da noi la rinuncia a tutte le amicizie, a tutte le conoscenze, a tutti gli studi che non servono affatto per elevarci a Dio o per condurre a Lui il prossimo». Chi tiene fissi gli occhi amorosi nel Sole divino, in Dio o nel suo Unigenito incarnato, se poi li abbassa sul mondo non lo vede più: ogni creatura è buio, è nulla e non dice più niente al suo cuore. È il terzo modo di umiltà. Dalla punta del terzo modo d’umiltà mi pare che la dottrina del gesuita Lallemant lanci un arco di ponte a raggiungere la dottrina del carmelitano S. Giovanni della Croce, il dottore di Todo y nada, e poi con quella proceda verso una identica meta: l’esperienza ineffabile dell’unione divina.

 

Proprio in questa luce di rinuncia totale alla creatura, di aspirazione unica e suprema all’unione divina, ha il suo giusto rilievo la triplice distinzione dei religiosi introdotta dal Lallemant. La prima classe di religiosi è formata da quelli «che non rifiutano nulla ai loro sensi. Hanno freddo? si riscaldano. Hanno fame? mangiano. Passa loro in mente i desiderio di qualche sollievo? se lo concedono senz’altro pensare, sempre rivolti ad accontentarsi in tutto… I religiosi della seconda classe evitano gli eccessi dei precedenti, si negano tutte le soddisfazioni non ritenute necessarie, però si lasciano ingannare dalle apparenze di bene. Formano un progetto che va loro a genio, e subito trovano motivi virtuosi per colorare la scelta e legittimare la loro condotta… Ad esempio: – Ho una gran voglia di fare una visita al Signor X: ci andrò perché intanto avrò il modo di invitarlo a partecipare a un corso di esercizi…». Ah quell’«intanto»! è la maschera d’angelo dietro cui nasconde il suo volto l’impulso della natura..

 

Religiosi siffatti, brava gente per altro, non sono certo il cuore del P. Lallemant. I primi dimorano sempre fuori di loro stessi in un banale esteriorismo. I secondi penetrano in se stessi, ma non abbastanza da scrutare il vero volto dei moti interiori, da strappare la maschera ai torbidi impulsi e denunciarli alla coscienza: restano quindi i superficiali e gli illusi del mondo interno. E gli uni e gli altri non lo soddisfano

 

Solo i religiosi della terza categoria lo fanno vibrare di entusiasmo e di grandi speranze, «perché spogli di ogni desiderio, indifferenti a tutto, contenti di tutto e bramosi soltanto del beneplacito divino». Sono questi, i decisi a non risparmiarsi in nulla, i protesi verso il terzo grado d’umiltà, che raggiungeranno la perfezione. Essi soli conosceranno la pace e il gaudio profondo che proviene dall’aver colmato il vuoto interiore con la presenza di Dio, sentita e gustata. Gli altri invece, i titubanti, cui è mancato l’ardimento di buttare via tutto, di saltare il varco, di tagliare alle loro spalle i ponti e bruciare i vascelli, non si sentiranno mai soddisfatti, stiracchiati come sono tra il mondo che li detiene e Dio a cui si sono offerti. Non c’è che un modo per diventare felici: vincere la paura di essere infelici. Questo, e non altro significa il «primo passo».

 

b) La purificazione del cuore

 

Ritrovato il coraggio del «primo passo», decisa la conversione totale o «seconda conversione», bisogna mettersi di lena alla purificazione del cuore. Veramente il Lallemant dice «purezza del cuore»; ma la parola oltre a prestarsi a un’interpretazione ristretta che qui non è la sua, quella di castità, indica una meta posseduta più che lo sforzo di conquistarla. Non per nulla il Rigoleuc a indicare meglio il pensiero del Maestro ha preferito l’espressione «custodia del cuore». Io penso che dicendo «purificazione» si vada molto vicino alla parola e al senso del Lallemant.

 

Che intende il Lallemant per purificazione del cuore? A dirlo, si fa presto: purificare il cuore è togliervi tutto ciò che «o poco o tanto è contrario a Dio» e all’azione della sua grazia». In pratica solo chi vi si è impegnato seriamente sa che lavoro aspro e lungo sia!

 

Il cuore! «È lì dentro che si nasconde la radice di tutti i nostri mali!». «C’è in noi una malizia infinita che non vediamo solo perché non entriamo mai a scandagliare seriamente il nostro cuore…». «Desideri e affetti smodati di onore, di godimento, di comodità, vi fermentano senza pausa…». «Idee false, giudizi erronei,affetti sregolati, passioni e malizie ci riempiono talmente che, se ci vedessimo come siamo in realtà, sentiremmo un orrore immenso di noi stessi». Indubbiamente questi paesaggi interiori sono di color fosco. E qualcuno ne ha tratto argomento per parlare di pessimismo agostiniano a proposito della Scuola del Padre Lallemant. Non entriamo in una questione che ci allontanerebbe dall’ordine prestabilito dei nostri pensieri. Avvertiamo soltanto che ci sono due sorta di pessimismo che stimola e sospinge. Il primo illumina gli scarti della natura e gli svantaggi della nostra condizione in un modo deprimente, che ci paralizza le forze e ci fa sentire la perfezione come un ideale inaccessibile. L’altro invece scruta il male solo per provocare la reazione, per risvegliare lo spirito pigro che forse potrebbe assuefarsi al suo basso stato, per tormentarlo con il pungolo della sua miseria non mai perduta di vista; e nello stesso tempo infonde una speranza sempre più grande dell’altezza, una fiducia sempre più corroborante nei mezzi di natura e massime in quelli potenti e imbattibili della grazia. Se si vuol parlare di pessimismo nel Lallemant, bisogna intenderlo nel secondo modo. La sua intenzione, che affiora un po’ da per tutto, è di far sentire con veemenza il disagio della trascuratezza interiore e l’ansia della mondezza del cuore, prerequisito indispensabile all’unione con Dio.

 

Quali sono i mezzi della purificazione del cuore? Il primo e il più geniale, sul quale il Lallemant ritorna continuamente, è la vigilanza interiore. Se immaginate il cuore come un campo di battaglia, egli insegnerà a fare senza sosta la sentinella, «in una piccola garitta interiore per osservare qualunque movimento avvenga»; e lì vi scoprirà le manovre astute del demonio nell’ordire tranelli e nel preparare imboscate; vi mostrerà la natura coi suoi sottofondi e coi suoi istinti mascherati; vi rivelerà ancora l’azione dello Spirito Santo con le sue illuminazioni e ispirazioni, attrazioni e rimorsi. Dio, la natura, i demonio; ecco i tre protagonisti del combattimento spirituale che si svolge nel nostro piccolo cuore. Se invece immaginate la coscienza come un pozzo, egli vi insegnerà a non fidarvi del limpido specchio superficiale, perché sotto c’è torbidezza che bisogna cavare e cavare senza stancarsi. «Da principio ciò che si estrae non è quasi altro che fango, ma poi, a forza di attingere, il pozzo si purifica e l’acqua va diventando sempre più limpida, finché alla fine si estrae acqua chiarissima, cristallina».

 

Questa sorveglianza interiore è qualcosa di più e di diverso del semplice esame di coscienza. L’esame di coscienza è a momenti fissi ed isolati, è una constatazione ad eventi già compiuti: invece la custodia del cuore è una presenza continua nel proprio interno, è un’assistenza alle nostre azioni nell’atto stesso del loro svolgersi. Disciplina  dura, quasi insopportabile, per quelli che hanno il cuore disordinato e ingombro; costoro infatti si sentono simili «ai disgraziati mariti che hanno spose bisbetiche e d’umore insopportabile: i poveretti escono di buon mattino e vi ritornano quanto più tardi possono, perché solo così sperano di sfuggire alla persecuzione che hanno in casa». Per coloro invece a cui il cuore man mano si fa terso, i rientrare all’interno, il dimorarvi raccolti e vigili, diviene un esercizio di volta in volta più facile e consolante.

Un secondo mezzo di purificazione, inculcato spesso e caldamente dal Lallemant, è la confessione frequente, anzi giornaliera[9]. E ne dà il motivo: ciascun Sacramento conferisce una grazia particolare che mira a produrre in noi l’effetto del Sacramento stesso; orbene, l’effetto proprio della Confessione è la purezza del cuore; perciò quanto più spesso ci si confessa, tanto più abbondante si riceve la grazia di purificarci. Raccomandava inoltre la penitenza, la mortificazione, la pratica delle virtù, l’unione con Dio.

 

Con questi mezzi, usati con tenacia, il Lallemant vuole ottenere una purificazione che includa: 1) l’annientamento dei peccati veniali; 2) il dominio sicuro delle proprie passioni; 3) la distruzione del «fondo di orgoglio che è in noi»; 4) la cura d’evitare anche le minime imperfezioni; 5) l’indifferenza verso qualsiasi luogo ci si mandi, qualsiasi impegno ci si affidi, sacrificando al Signore ogni nostra pretesa e le molte speranze che, soprattutto nella giovinezza, si affollano attorno al cuore; 6) il distacco dalla devozione sensibile e dagli stessi doni del Signore, perché il nostro amore non deve arrestarsi al dono, ma salire intero al Donatore; 7) una massima purezza di intenzione nell’agire; 8) la preservazione da tutto ciò che può in qualche modo corrompere il cuore, sia che provenga dall’interno, come l’errore e l’ignoranza, sia che provenga dall’esterno, come le amicizie particolari, le conversazioni e le visite.

 

Aspro e lungo cammino! Si tratta di «rinunciare alla somiglianza con il diavolo, la quale sta tutta nell’orgoglio, nella vanità, nella presunzione, ed alla somiglianza con le bestie, che consiste nelle passioni e impulsi sregolati della sensualità»; scrostate le somiglianze con il demonio, riapparirà luminosa e dolcissima la fondamentale e primitiva nostra somiglianza con Dio. E on sarà solo questione di una somiglianza astratta, ma sarà la reale presenza di Dio che trasparirà nell’anima.

 

Le pagine dedicate a scoprire il «fondo d’orgoglio» sono mirabili e memorabili: rare volte il buio interiore è stato scandagliato da proiettori così potenti e precisi alla ricerca di un’insidia proteiforme, mimetizzata, mascherata in mille guise. Non appena lì, ma un po’ dappertutto nella Dottrina spirituale si dà la caccia all’orgoglio, lo si snida dalle sue tane recondite, gli si strappa da dosso i suoi astuti travestimenti, lo si mostra per quello che è. Il nemico numero uno dei doni di Dio. «Dove esso si insinua, Dio non è più libero di agire; se agisse, la sua divina azione sarebbe travolta a rovina, perché l’anima orgogliosa se l’approprierebbe a suo merito, precipitando così in un abisso peggiore».

 

Molto interessante è pure la genesi e lo sviluppo del traviamento del peccatore. Di solito si dice che il male morale comincia da un oscuramento intellettuale, da un falso concetto onde il proverbio: «È nella testa che il pesce incomincia a guastarsi». Il Lallemant non è di questo parere; per lui il pesce comincia a guastarsi nel cuore. «Ogni disordine inizia da una passione, da un affetto sfrenato verso qualche oggetto, passione e affetto che a poco a poco seducono l’intelletto. L’intelletto si lascia inavvertitamente conquistare in tal modo che non è più capace di giudicare se non in favore della passione dominante nell’anima… Non solo accondiscende alle inclinazioni della volontà, ma le approva, anzi trova ragioni per giustificarle. Così l’intelletto corrotto dalla volontà, ne diventa, a sua volt, il corruttore, proponendo falsi principi coi quali legittimare i suoi deviamenti».

 

Nel cuore, dunque il Lallemant vede la sorgente di tutto il bene e di tutto il male che sono nell’uomo. Non c’è più da meravigliarsi, allora, se a lui non preme che il cuore. Se il mondo esterno con gli avvenimenti e sconvolgimenti ai suoi occhi perde consistenza ed interesse, mentre il più fuggitivo palpito interiore è messo in una evidenza spettacolare ed acquista un’importanza capitale. Se le sue esortazioni ripetono sempre l’identico ammonimento: rientrare ne centro dell’anima e vegliare! Se tutta la sua ascetica si riduce a una sola norma: custodire e purificare il cuore. Una norma sola, ma di quale valore e di quali vantaggi!

 

È il mezzo più efficace, l’unico indispensabile della perfezione. Infatti, insegna il Lallemant, senza la custodi a del cuore, per quanto ci si dia da fare non si diverrà mai santi; mentre con essa sola, senza altre azioni esteriori, senza altri soccorsi, molti si sono santificati, come un S. Paolo Eremita, una S. Maria Egiziaca, e tanti altri solitari e sante vergini».

 

È la scorciatoia più agevole e più breve alla santità. «La via più facile e più sicura alla perfezione non è l’esercizio delle virtù, ma l’impegno costante di purificare il cuore». «Due persone che si consacrano nello stesso tempo al servizio di Dio, delle quali l’una si dia alle opere buone e l’altra si applichi interamente a purificare il cuore…quest’ultima arriverà alla perfezione due volte più in fretta della prima».

 

Per questa via anche il più piccolo successo, secondo il Lallemant, ha un valore e un’importanza grandissima. «Strappare dall’anima una sola imperfezione è guadagno maggiore della conquista di mille mondi. Quando, lavorando tutta la giornata come facchini, non ci fosse riuscito d’ottenere altro che di sbarazzarci di un pensiero inutile, dovremmo considerarci largamente ricompensati».

 

Basterebbero questi vantaggi a persuadere anche il più prevenuto sulla bontà della via; ma il Lallemant ne enumera ancora molti altri. La purificazione del cuore supplisce da sola le mortificazioni straordinarie. Ci fa compiere atti eccellenti di virtù. Ci rende strumenti adatti per le gran di imprese del Signore. Ci prepara a muover incontro al Giudice eterno senza paura e senza sorprese, anzi con desiderio come ad un premio e ad una festa.

 

E v’è di più. A quelli che vi si impegnano seriamente per tre o quattro anni il Lallemant promette esperienze intime ed ineffabili. Otterranno una conoscenza misteriosa del proprio cuore e dell’altrui. A volte illuminazioni profonde riveleranno al loro spirito attonito la presenza della Provvidenza divina in mezzo agli aggrovigliati avvenimenti del mondo. Altre volte folgorazioni di luce s’accenderanno sulla loro vita passata ed essi vedranno riaffiorare dalle nebbie della lontananza e dell’oblio gli anni remoti della puerizia e della giovinezza, con un’evidenza da giudizio universale. Vedranno allora e sentiranno tutta la miseria della loro vita e tutta la trascendenza e santità del Signore.

 

E queste esperienze sono presagi di altri e più grandi doni che stanno per essere loro comunicati. Sono l’alba annunciatrice di un nuovo giorno che sta per sorgere negli intimi recessi dello spirito, ormai perfettamente purificato: il giorno misterioso e inenarrabile della contemplazione mistica. Verso di essa, come a suo sbocco naturale, si protende tutta l’ascetica, unitaria e ardimentosa, del Lallemant.

Ma non precipitiamo: prima c’è qualcosa d’altro da dire.                        [Torna all’indice]

 

 

c) L’azione dello Spirito Santo                                

 

Resta da dire il rapporto tra la purificazione del cuore e l’azione dello Spirito Santo.

 

Quanto più il cuore si purifica, tanto meglio lo Spirito Santo svolge e fa sentire in noi la sua opera, per mezzo della quale mira a impossessarsi dell’intero governo dell’anima. La meta auspicata è che tutte le facoltà e i sensi, tutti i moti interiori ed esteriori siano diretti da Lui, e solo da Lui. Con tale guida divina non si camminerà appena, ma si faranno passi da giganti, si volerà sulla via della perfezione.

 

Svariatissime forme di illuminazioni alla mente e di commozione alla volontà sono le parole concrete e fattive con cui il dolce Ospite dirige l’anima. L’eccellenza e l’efficacia di queste parole sono esaltate dal Lallemant con trasporto e convinzione. «Consideriamo quello che ha potuto fare una parola di Dio; ha creato il cielo e la terra, ha tratto tutte le creature dal nulla alla partecipazione dell’essere di Dio nell’ordine della natura, perché non trovò nessuna resistenza nel nulla. Anche maggiori cose opererebbe in noi, se non le resistessimo. Dal nulla morale ci trarrebbe alla partecipazione soprannaturale della santità di Dio nello stato di grazia». Se non le resistessimo! È ben qui, deplora il Lallemant con dolentissime espressioni, «una delle nostre peggiori disgrazie», anzi la nostra «stupidità immensa»: resistere e soffocare in noi la parola creatrice dello Spirito Santo per correre dietro a fosforescenze fatue: un puntiglio d’onore, a un ufficio ambito, a un piccolo piacere di un momento, a una sciocchezzuola. È ben qui la causa della scarsità delle anime perfette: sono poche, perché poche sono docili e abbandonate alla guida del Maestro interiore.

 

La dottrina del Lallemant è semplificatrice al massimo. Come ha ridotto tutta la parte negativa a un solo precetto: purificare il cuore, così ora in un solo precetto raccoglie tutta la parte positiva: docilità allo Spirito Santo. Quello che c’è da fare, dunque, è tutto qui: porgere orecchio alla voce interiore, ubbidire fedelissimamente allo Spirito Santo, aderire a Lui, legarci a Lui come S. Paolo, che diceva: «Ecco che legato dallo Spirito Santo vado a Gerusalemme» (At 20,22). Male più grande un uomo non può fare a se stesso che resistere, opporsi alle intime attrazioni divine.

 

Le osservazioni che si possono muovere a questa dottrina, i pericoli a cui potrebbe condurre, non sono ignoti al Lallemant; anzi li affronta a viso aperto, tanto è sicuro della bontà del suo insegnamento.

 

Qualcuno gli potrebbe obbiettare: non è questo un avviare gli spiriti a quel soggettivismo calvinista che annulla il valore della Chiesa e delle sue decisioni, per non riconoscere altra regola alla propria fede fuori del sentimento interiore individuale? No assolutamente, risponde, perché la direzione dello Spirito Santo induce ad assoggettarsi alla fede e alla autorità della Chiesa e non può ammettere nulla che sia discorde da essa.

 

Qualche altro gli potrebbe dire: non è fornire a certi spiriti inquieti un pretesto all’indipendenza e all’evasione dagli obblighi dell’ubbidienza? Neppure. La direzione dello Spirito Santo è sempre da intendersi con una tacita clausola: «Purché l’ubbidienza non imponga altro». Nel caso di un preteso conflitto, il Lallemant insegna esplicitamente che il comando del Superiore deve prevalere su quello che il suddito ritiene comando del Signore, anche se gli fosse giunto per mezzo di una supposta visione o rivelazione immediata.

 

Ed ancora: non favorite un esagerato e troppo comodo soprannaturalismo, esigendo l‘intervento dello Spirito Santo là dove si può arrivare con la ragione, con la prudenza, con il buon senso, oppure con il sussidio di buoni libri? Quanto ai buoni libri di spiritualità, il Lallemant riconosce l’utilità, ma né per suo conto teneva alle molte letture (cita infatti pochissimo), né desidera che gli altri ne fossero esageratamente smaniosi. Era persuaso che , incomparabilmente più del leggere molto, giova al profitto spirituale l ostare raccolti ascoltando e ruminando le ispirazioni interiori. Queste formano la scienza del cuore che con un minimo di letture basta all’anima, mentre la scienza libresca, se non è fermentata dalle ispirazioni interiori, è sempre un arido ingombro, quando non diventa un pericolo d’orgoglio. Perciò dice che «s’impara di più in un mese con la grazia infusa dall’alto che in parecchi ani con lo sforzo e lo studio»

 

Faceva però un’eccezione, ed era per il libro delle Sacre Scritture non lo si leggerà mai abbastanza, non lo si mediterà mai a sufficienza. Esso è la sorgente inesauribile delle ispirazioni divine, e chi più puro ha il cuore, più abbondantemente e a fondo ne attinge.

 

Quanto, poi, alla ragione e al buon senso, il Lallemant riconosce ampiamente la loro funzione formatrice, ma nello stesso tempo afferma, e con maggior forza, la loro insufficienza in ordine alla più alta perfezione. «La maggior parte dei religiosi, anche dei buoni e virtuosi, nella loro condotta personale e nella direzione degli altri non seguono che la ragione e il buon senso; ed in questo, anzi, eccellono. Tale criterio, pur essendo buono, nella perfezione cristiana è insufficiente». E giustifica l’accusa di insufficienza mossa al cosiddetto buon senso con due argomentazioni: la prima è che il buon senso viene modellato sul senso comune, cioè sul senso della massa, e la massa non è fatta per intuire l’anelito alle vette; la seconda è che quando si tratta di scegliere quel giusto mezzo in cui consiste la virtù, troppo spesso il buon senso preferisce indicare la via meno rischiosa e meno penosa che poi è il solito giusto mezzo della mediocrità.

 

Critica audace al tanto lodato buon senso, denuncia aperta ai limiti della ragione; pare quasi che il Lallemant, presentendo i traviamenti a cui condurrà nell’età successiva l’illimitata fiducia nelle forze dell’intelligenza umana, reagisca in anticipo. Il secolo dei lumi ha deificato la ragione, ha creduto che fosse la misura del tutto e che bastasse a tutto. Ma fu un’illusione presuntuosa. Infatti, se la ragione con la sua prudenza non ha ali sufficienti per tener dietro al volo del genio nelle imprese naturali e spesso, prima della loro riuscita, le ritiene un folle sogno, come potrà pretendere di essere l’unica norma all’impeto del Santo nelle imprese soprannaturali? Quanto è difficile raggiungere la santità senza subire, per un periodo più o meno breve, la prova tremenda di sembrare folle o almeno eccentrico ed esagerato agli occhi del senso comune! Il Santo non deve mai prescindere dalla ragione, ma a volte ha bisogno di una luce più alta. Chi potrà allora preservare il Santo dalle facili e disastrose illusioni quando, lasciando indietro la prudenza e la ragione umana, si lancia ad imprese superiori? Chi lo potrà salvare dal pericolo di gettarsi a rompicollo, all’interno e all’esterno, in pericolose e squilibrate avventure? Risponde il Lallemant: lo Spirito Santo, che con la luce dei suoi doni potenzia oltre il limite naturale le capacità della mente umana; lo Spirito Santo, che solo sa mostrare le vie della generosità e dell’eroismo senza indurre nella temerarietà e nello squilibrio.

 

Per tutte queste ragioni il Lallemant confessa ripetutamente il suo intimo disagio verso quei Superiori i quali, attaccai come ostriche esclusivamente alle rocce della prudenza umana e del senso comune, in pratica vengono a negare e a soffocare la funzione dei doni dello Spirito Santo. Costoro quando incontrano un suddito a cui il Signore concede favori un po’ diversi dal consueto e impulsi a cose più in su dell’ordinario, subito condannano senza previa discriminazione quei favori e quegli impulsi, giudicandoli in cuor loro illusioni o psicastenie, e umiliando il poveretto, prescrivendogli pozioni sedative oppure inviandolo da uno specialista di malattie nervose. Siffatti Superiori nel loro governo saranno sempre eccessivamente cautelasi e soffocanti: non condurranno mai i loro sudditi alla perfezione, e, per loro conto, non faranno neppure la metà del bene che potrebbero fare, per l’orgogliosa paura di sbagliare. Peggio ancora quando tra questi Superiori che non riconoscono nessuna norma più alta della ragione umana, si deve annoverare anche il Direttore spirituale: «Per un’anima su cui Dio ha grandi disegni è una grave sventura imbattersi in un Direttore spirituale che si regoli appena sulla prudenza umana, più dotato di politica che di unzione».

 

Se la ragione col suo buon senso, se i maestri umani coi loro insegnamenti stampati nei libri, se i Superiori coi loro ordini, sono guide preziose, indispensabili, ma non sempre sufficienti, occorre che chi aspira alle alte cime si metta sotto la guida di un altro maestro, lo Spirito Santo, e si abbandoni con la massima docilità alla sua direzione. Abbandonati, così, in balìa della divina Guida interiore, dove saremo trasportati? In quali porti approderemo? Gli approdi sono due: l’unione con nostro Signore Gesù Cristo e la contemplazione infusa. Il primo come fine essenziale, il secondo come mezzo per raggiungerlo più facilmente, più presto, più pienamente.

 

Non si deve dimenticare che il termine dell’azione dello Spirito Santo in noi è generare misticamente Gesù Cristo nell’anima, come una volta per opera sua fu generato fisicamente nel seno della Vergine. E lo genera nella nostra mente, facendocelo conoscere sempre di più; lo genera nel nostro cuore, facendocelo amare sempre più; lo genera alla nostra azione, facendocelo imitare sempre più e sempre meglio. È l’argomento del sesto principio della Dottrina spirituale. Il Bremond che con acume magistrale ha saputo individuare e imporre al riconoscimento universale i nuclei genetici della spiritualità del Lallemant, ha sorvolato su questo grande amore per il Verbo Incarnato. Tale lacuna mi sembra nuocere alla precisa e completa conoscenza dell’insegnamento del Lallemant., i quale resta pur sempre, anche e soprattutto per questo amore, nell’orbita ignaziana. Una unione con Gesù Cristo, sempre più intima e piena, è la meta che risplende in cima alla via della perfezione tracciata dal Lallemant. Egli non sa concepire una via di perfezione che, anche per qualche tratto, distolga gli sguardi dal Verbo Incarnato. Perciò ha diffidato di quella corrente mistica che prescinde dalla santa umanità di Cristo per fissarsi esclusivamente sulla divinità del Verbo. «In linea generale – ha scritto – tale tendenza è temerari e cattiva…».

 

Lo Spirito Santo per attuare nelle anime pure e docili una perfetta unione con Cristo le guida verso le esperienze mistiche, verso la contemplazione infusa. È la contemplazione che infonde lo slancio a tutte le rinunce e a tutte le dedizioni, che dà l’orrore delle minime imperfezioni, e che rende quindi possibile una fusione più piena dell’anima con Cristo.

 

La contemplazione infusa è un frutto dello Spirito Santo. I doni, nel pensiero del Lallemant, sono «disposizioni che Di scomunica all’anima con la grazia santificante e con le virtù infuse», «coronamenti delle stesse virtù», «per irrobustire le potenze naturali, farle arrendevoli agli impulsi dello Spirito Santo, capaci di esercitare gli atti più difficili e nobili». Anche da questa sola definizione (ma tutto il resto ce lo conferma) si può dedurre che sotto l’aspetto teologico il Lallemant non ci fa conoscere nulla di nuovo sui doni dopo quello che ha scritto S. Tommaso. Ma sotto l’aspetto psicologico le sessanta e più pagine che vi dedica sono di una sagacia e ricchezza sorprendenti, e ben difficilmente se ne possono leggere altrove di cos interessanti.

 

Ed eccoci ad uno dei punti più caratteristici, se non più nuovi, della Dottrina spirituale: il rapporto tra i doni e la mistica. Vi si insegna apertamente che i doni coltivati con fedeltà e fervore, normalmente (che non vuol dire in modo assoluto e meccanico) conducono l’anima alla contemplazione infusa; che la contemplazione infusa è un effetto dei doni pervenuti al loro pieno sviluppo; che se anime buone e pie non arrivano all’orazione passiva, è perché in loro i doni sono cresciuti sì, in se stessi, ma nella loro azione restano impigliati tra i peccati veniali e debolezze, vincolati da affetti terreni, in una parla la loro inerzia è dovuta alla mancata purificazione del cuore. Si sforzino, dunque, sinceramente le anime di raggiungere una perfetta purezza interiore: nel frattempo si rendano consapevoli di essere «simili ai naviganti che avanzano a forza di remi contro vento e contro onda»; una volta ottenuta quella indispensabile mondezza, nella quali i doni trovano l’atmosfera libera e propizia alla loro azione, potranno allora gustare le ineffabili comunicazioni di Dio, e si sentiranno navigare «a vele spiegate, con il vento in poppa».

 

Al tempo del Lallemant la classificazione degli stati mistici introdotta da S. Giovanni della Croce e da S. Teresa d’Avila, così semplice e così calzante, non si era ancora imposta a tutti i teologi, e circolavano diverse opinioni sul modo di graduare o comunque riordinare le esperienze contemplative. Il Lallemant ne ricorda parecchie: tuttavia, epr conto suo, s’accontenta di una sommaria distinzione in due gradi: 1) la contemplazione ordinaria che è «una vista di Dio e dei suoi misteri divini, semplice, libera, penetrante… che ce li fa sentire, gustare, sperimentare nel proprio interno»; 2) la contemplazione straordinaria, più elevata e intensa, distinta dall’antecedente a motivo d’alcuni fenomeni che l’accompagnano, come i rapimenti, le estasi, le visioni, le locuzioni…

 

Nonostante le espressioni poco felici, usate a volte dal Lallemant, che parrebbero indurre una confusione tra l’essenziale e l’accessorio, è giusto rilevare, che di là dall’espressione, i concetti sono chiari ed esatti giacché l’essenza della mistica («una vista di Dio e dei misteri divini semplice… che ce li fa sentire, gustare…») non è scambiata con i fenomeni, diciamo così, paramistici che la possono accompagnare. Anzi, in più di un punto, fa capire chiaramente che codesti effetti sensibili sono indizio di debolezza, di imperfezione, di insufficiente assuefazione della natura umana a sopportare quelli forti operazioni divine. Nostro Signore, la Madonna e gli Apostoli, egli dice, pur avendo sublimi comunicazioni mistiche, non subivano né svenimenti, né levitazioni, né estasi. Non ignora inoltre che il mistico, quando giunge alle supreme esperienze dell’unione trasformante, avendo l’anima irrobustita e abituata a quelle grazie intense, non va più soggetto a nessuna perturbazione esteriore.

 

Bisogna attardarsi un momento a considerare il grandissimo valore e influsso spirituale attribuito dal Lallemant alla contemplazione infusa. A chi ne varca la soglia, egli dice, nuovi cieli e nuova terra si spalancano, si spalanca «un mondo nuovo dalla cui bellezza l’anima resta affascinata», e il cuore si trova ad essere così felice da sembrargli «di non aver mai fino allora né conosciuto né amato il Signore». E quando, dall’altezza dell’esperienza mistica, le necessità del vivere terreno richiamano l’anima ai suoi impegni con le creature, il cuore sente indicibilmente i vuoto delle cose effimere e l’amarezza dell’esilio. Tutto questo sente e sospira verso la morte, la liberatrice dalle angustie penose di qua, la donatrice della esperienza meravigliosa di là.

 

La contemplazione importa una grande novità anche nell’orazione. I modi ascetici d’orazione, lenti, discorsivi, affaticanti, non sono neppure comparabili a quelli mistici della contemplazione. E quando si vogliono confrontare, è con uno svantaggio impressionante. «Meditare sull’inferno, ad esempio, è come vedere un leone dipinto; contemplare l’inferno è incontrare un leone vivo».

 

Ma le affermazioni più interessanti e impressionanti sono quelle che riguardano il rapporto tra contemplazione e perfezione, tra contemplazione e apostolato. «Senza la contemplazione – dice il Lallemant – né faremo noi grandi progressi nella virtù né sapremo guidare gli altri a farli. Non riusciremo mai a liberarci del tutto dalle nostre fragilità e imperfezioni. Si farà di più per sé e per gli altri in un mese con la contemplazione, che in dieci anni senza di essa…».

 

Il Lallemant parlava per esperienza personale. Altri Maestri spirituali che o non avevano avuto le sue esperienze, o più di lui temevano i pericoli della via contemplativa, diffidavano per proprio conto della contemplazione e distoglievano gli altri dall’aspirarvi. La consideravano come un miraggio d’eccezione, destinato a pochi privilegiati; per tutti gli altri, aspirarvi significava cader vittima o d’un’illusione ambiziosa oppure dello scoraggiamento quando, stremate le forze nel vano tentativo d’arrivarci, si sarebbero accasciati disperatamente su di sé. Contro questi Maestri il Lallemant ribadiva la sua convinzione che la contemplazione è una via aperta a tutti i generosi che decidono di purificarsi totalmente e di abbandonarsi docilmente alla guida dello Spirito Santo. Ammetteva che si potevano incontrare degli illusi e dei presuntuosi che aspiravano a volare prima di mettere le ali, che pretendevano di fare orazione di quiete mentre avevano il cuore ancora ingombro d’innumerevoli imperfezioni ed attacchi alle creature, ma c’era pure un rimedio anche per costoro: scuoterli rudemente e risvegliarli da loro sogno fallace per metterli da capo «alle prime pratiche» della vita ascetica. Ammetteva anche il caso di Direttori spirituali faciloni e imprudenti che introducevano alla contemplazione tutti quelli che trovavano, senza la preparazione indispensabile, e non parlavano che di preghiera di semplice sguardo, di grazie straordinarie, di parole soprannaturali, di rivelazioni e di estasi: imperdonabile mancanza di discernimento! Ma è giusto ed è logico condannare una dottrina per gli abusi che ne possono derivare per colpa di spiriti superficiali o scriteriati? E posto pure – affermava il Lallemant – che la via mistica non vada esente da pericoli e illusioni, forse che la via ascetica, costruita tutta su sforzi e iniziative personali, su esercizi particolareggiati delle singole virtù, n’è del tutto al riparo?

 

Del resto, se un pericolo è da temersi, questo non proviene dalla contemplazione, bensì da quei fenomeni accessori e sensibili che noi abbiamo detto paramistici. Di questi, sì, – pensava il Lallemant – sarà sempre prudente diffidare e temere perché possono recare grave danno alle anime deboli, non ancorate nella purezza e nell’umiltà. Ma la contemplazione, no: essa è sempre buona e non può fare del male a chi vi porta le dovute disposizioni, perciò non è mai temibile, ma sempre desiderabile. «Oggi invece – osservava con profondo rincrescimento – se alcuno aspira a qualche dono di orazione superiore al comune, si sente dire recisamente che questi sono doni straordinari che il Signore concede solo quando e a chi a Lui piace; doni che non si devono desiderare n è domandare; e così gli si chiude per sempre l’accesso ad esi. E questo è un grande sbaglio!»

 

È un grande sbaglio! E facciamo punto sulla fiera protesta del mistico di fronte alle prime avvisaglie della reazione antimistica che durerà qualche secolo.

 

Ma non precipitiamo: prima c’è qualcosa d’altro da dire.                              [Torna all’indice]

 

 

d) Primato della contemplazione sull’azione

 

attendere incessantemente alla custodia del cuore, tenersi pronto al più lieve sussurro del Maestro interiore, non sarà mai possibile fin tanto che, non solo in teoria, ma anche nella vita pratica quotidiana, non venga riconosciuto e mantenuto i primato della contemplazione sull’azione. Ecco un altro cardine dell’insegnamento del P. Lallemant.

 

Ricordiamo a chi lo impartiva. Non gi a certosini o camaldolesi, ma a gesuiti che avevano abbandonato il coro per darsi più liberamente all’apostolato, ad uomini trentenni, frementi d’energie e d’entusiasmi, che da dieci, da quindici anni si preparavano tenacemente nel loro segreto ed aspettavano impazienti l’ora di lanciarsi alla conquista delle anime. Proprio a costoro egli ribadiva con un’insistenza che pare cocciutaggine il suo ritornello: primato della contemplazione sull’azione, pena la sterilità  dell’azione e la rovina dell’apostolo.

 

Veramente egli parla di con temperanza, di fusione armonica tra azione e contemplazione. Ma appena si penetra oltre le parole, ci s avvede tosto che nel suo pensiero tale armonia non è possibile senza concedere il primato alla contemplazione. Essa, infatti, deve animare, dirigere, imbevere ogni attività esterna, e d’altra parte l’attività esterna non deve mai ostacolare o turbare la contemplazione, anzi deve servire a rinvigorirla, unendoci a Dio con più forti e amorosi legami.

 

A scanso d’equivoci, prima di procedere oltre, sarà bene precisare il significato dei due termini azione e contemplazione. Che cosa il Lallemant intende col primo, è ovvio: qualunque azione esteriore a favore del prossimo o della Chiesa, ad esempio tutti gli esercizi del ministero, predicare, confessare, ecc., tutte le opere di misericordia; studiar, insegnare, scrivere; lavorare nelle Missioni, ecc. Più importante è definire il senso esatto in cui è preso qui il termine contemplazione: a differenza delle pagine precedenti dove era usato nella sua rigorosa accezione moderna indicante uno stato passivo cioè autenticamente mistico, qui è preso nel senso antico, più largo e vago, di vita interiore, di vita raccolta nei pensieri eterni e nella preghiera, e abbraccia qualsiasi esercizio spirituale rivolto a favorire l’unione con Dio.

 

La contemplazione così intesa su quali argomenta appoggia il suo primato? Il P. Lallemant insiste sui seguenti: l’esempio divino, la definizione ignaziana dell’apostolato, i pericoli dell’azione, l’eccellenza e i vantaggi della vita interiore.

 

Il Lallemant ama rifarsi dall’alto e dal profondo: l’esempio divino è l’argomento ch’egli ricorda ripetutamente e sempre con un accento convinto. Addita Gesù Cristo «che ha impiegato ben trent’anni nella vita contemplativa, consacrandone solo tre o quattro a quella che è un insieme di azione e di contemplazione». Il suo breve triennio d’azione ebbe un’efficacia infinita, che dura e durerà nei secoli, perché è fiorito sopra una contemplazione infinita. Molto più nuovo, e vorrei dire più ardito e solenne, è il risalire del Lallemant all’esempio dello stesso Dio Uno e Trino. «Noi dobbiamo imitare Dio nella sua vita interiore la quale è infinita, sia per l’attività della sua mente per cui Egli è il principio della persona del Verbo, sia per l’attività della volontà per cui è il principio dello Spirito Santo. Lo dobbiamo imitare anche nella sua azione esterna creatrice e governatrice del mondo, in quanto questa né diminuisce né turba mai la sua vita interiore». È doveroso confessarlo: nei libri devoti non è facile incontrare esortazioni e pensieri così fortemente teologici. Un altro sostegno al primato della contemplazione il P. Lallemant lo vede nella definizione ignaziana dell’apostolo, come si trova nelle regole della Compagni: instrumentum coniunctum cum Deo, strumento unito a Dio causa principale dell’azione apostolica. Più sarà unito e più il frutto sarà abbondante: il frutto, si badi bene, e non il successo che è tutt’altra cosa. Ora ciò che unisce l’azione strumentale dell’apostolo a Dio è appunto la contemplazione. In questa luce si dovrà concludere che non solo la contemplazione non è di impedimento allo zelo delle anime, ma ne è la condizione indispensabile, la forza fecondatrice. Perciò «un uomo d’orazione in un anno otterrà più copiosi frutti che un altro in tutta la sua esistenza». «Un uomo interiore inciderà più profondamente su cuori con una sola parola animata dallo Spirito di Dio, di qualunque altro con un discorso intero, che avrà richiesto molto lavoro e dove avrà speso tutte e risorse della sua mente».

 

Il terzo motivo che assicura il primato alla contemplazione è dedotto dai pericoli e dagli scarti dell’azione. In verità, da nessun religioso di ordine contemplativo l’azione fu sottoposta a una critica esigente, direi quasi esosa, come ha fatto questo gesuita. Ed in tale modo intendeva preparare per il ministero ormai imminente degli apostoli zelanti e infaticabili. È tanto facile egli pensava, lasciar guastare la soprannaturalità di una azione! Troppe insidie la minacciano da tutte le parti. All’inizio c’è da sorvegliare la simpatia o l’avversione naturale, c’è da eludere ogni infiltrazione di orgoglio, di interesse, di sensualità. Si cerca è vero il Signore; ma non si cerca forse anche se stessi? Si vuol promuovere la gloria di Dio ed il bene delle anime; ma si agisce proprio sempre per un puro motivo di zelo e di carità? Non si cerca forse anche di sfuggire così al sacrificio che importa la preghiera, lo studio, il raccoglimento nella propria camera? Durante il corso dell’azione, bisogna vigilare per difenderla da ogni contaminazione che la corrompa o da ogni stanchezza che la raffreddi. Alla fine c’è da sventare il facile gonfiarsi davanti al successo, come se la bontà soprannaturale dell’azione fosse merito nostro. Quando gli scogli sono tanti e così subdoli, non è meraviglia che poche delle nostre azioni arrivino in porto intatte. Il Lallemant conclude la sua critica all’azione con una constatazione amara, non priva di un velo di pessimismo: «la gran parte delle nostre azioni sono o esclusivamente naturali o miste di natura e di grazia: possiamo dire di non compierne quasi mai che derivino esclusivamente dalla grazia e siano perfettamente soprannaturali».

 

Per tutti questi motivi l’azione avrà sempre un posto subordinato e sorvegliato di fronte alla contemplazione, che è l’ottima parte. Ma anche non ci fossero pericoli e scarti estrinseci mi pare pensiero del Lallemant che la subordinazione rimarrebbe ancora, legata all’intrinseca natura dell’azione stessa. Sicché la contemplazione, per quanto prevalga, non è mai troppa né nociva, mentre l’eccessiva prevalenza dell’azione provoca nello spirito quello che certi umori producono nel corpo quando predominano. È la soffocazione inevitabile.

 

Ma quand’anche gli argomenti fin qui ricordati non avessero valore, il P. Lallemant afferma che basterebbe da sola l’intrinseca eccellenza della contemplazione con gli incomparabili vantaggi che ne derivano, a stabilirne un primato indiscutibile. Quanto all’eccellenza, richiamando un paragone di San Gregorio Magno, fa notare che Dio non permette alle anime predilette di espandersi sulle cose esterne, così come nelle famiglie aristocratiche si usano i servi per le commissioni e gli affari, ma i figliuoli si tengono gelosamente vicini, in casa. Che significa questo, se non che la contemplazione fa di noi dei figli, mentre l’azione al più ci fa abili e fedeli ministri? Sì, è per la contemplazione che le piccole creature umane entrano nella familiarità e nell’intimità di Dio, in modo che «Dio solo viva nei loro cuori e che i cuori non vivano che per lui solo, non gustino che lui solo. O la felice vita di quel cuore che è posseduto pienamente dal Signore e sul quale Egli regna!… Vita di amore e di immensa libertà…».

 

Quanto ai vantaggi, il Lallemant afferma che «non ‘è nulla che contribuisca alla nostra perfezione spirituale come l’applicazione e il tempo consacrati agli esercizi della vita interiore».

 

In diversi modi la contemplazione contribuisce al nostro progresso interiore: con lo sfatare gli strani giochi del demonio e del mondo e massime i tradimenti che il cuore tenta di ordire a nostro danno, quando assorbiti dal trambusto e dall’incalzare delle occupazioni esteriori non si resta vigili a custodirlo; col mostrarci la volontà di Dio, i mezzi per compierla e il gradi di perfezione con cui eseguirla, cose tutte che non possono essere percepite se non da chi entra in se stesso per ascoltare nel silenzio lo Spirito Santo; col rendere efficace il nostro e l’altrui apostolato.

 

A proposito di quest’ultimo modo, il Lallemant fa delle osservazioni audaci. La sensibilità dell’apostolo – egli dice – sui bisogni e sui problemi più urgenti, non dipende dal grado della sua immersione nel lavoro esterno e nemmeno dalla sua abilità, bensì dal suo grado di amore a Dio. Considerando le grandi opere di bene promosse dalla Congregazione in tutto il mondo, egli afferma che sarebbero ancora più grandi e numerose, se aumentassero quei mezzi e quelle ricchezze spirituali che si accumulano solo con la contemplazione. «A ciò dovrebbero riflettere quelli che non sono abbastanza interiori o abbastanza umili in Dio».

 

Questa era la sua risposta a quelli che temevano sviasse il fine apostolico e conquistatore della Compagnia.

 

Ed ora, dopo questi ragionamenti, se qualcuno chiedesse: in concreto come deve comportarsi l’apostolo per rispettare il primato della contemplazione e, d’atra parte, non mancare al dovere dell’azione? Risponderei condensando in poche regole pratiche l’insegnamento del Lallemant agli operai evangelici (sia religiosi che laici).

 

1)      Anzitutto e soprattutto l’unione con Dio, che nessuna azione esteriore deva mai interrompere. Questa è la più generale e inderogabile regola. Le altre sono applicazioni dedotte da questa col coraggio della coerenza totale.

 

2)      Chi è privo di raccoglimento interno, di spirito di preghiera, di unione col Signore deve assolutamente astenersi dall’apostolato.

 

3)      Chi ha raggiunto un grado mediocre nella vita interiore, deve limitare parecchio anche le sue attività esteriori.

 

4)      Solo chi ha raggiunto una virtù perfetta, solo chi è uomo di orazione può occuparsi molto nella vita attiva. E poiché nel sistema del Lallemant la virtù perfetta normalmente coincide con la contemplazione infusa, non dobbiamo sbigottirci se la regola predetta viene enunziata anche in quest’altra forma: senza aver ricevuto il dono della contemplazione (intesa questa volta nel senso rigorosamente mistico) non ci si deve consacrare ai ministeri che riguardano il prossimo se non in forma provvisoria, come per assaggi.

 

5)      Qualora i Superiori imponessero un lavoro sproporzionato al grado di vita interiore raggiunto, la responsabilità ricade sui Superiori, ed il suddito deve assolutamente ubbidire. La Provvidenza interverrà a risolvere tutto per il maggior bene di chi ha ubbidito fino a sacrificare apparentemente ciò che gli poteva sembrare in sacrificabile. Il suo stesso progresso spirituale.

 

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La spiritualità del p. Lallemant Studio introduttivo del card. Giovanni Colombo

 

 

IV. Lallemant e la Chiesa                     

 

Diciamo subito che la Chiesa non ha mai levato un sospetto sulla Dottrina spirituale. Neppure allora che le trepide circostanze della lotta antiquietista e antigiansenista la rendevano molto guardinga di fronte a qualunque possibile slittamento verso l’errore, non vi ha mai sentito pericolo alcuno. Il Lallemant è dunque un Maestro sicuro e rassicurante.

Un suo discepolo però, il quale in sostanza non fa che ricalcare le tesi del Maestro, in qualche parte dell’opera sua, almeno per qualche sospetto, fu giudicato pericoloso e messo all’indice[10]. È vero, ma la cosa si spiega. Basta riflettere che il sistema spirituale tracciato dal Lallemant è un misto, in dosatura singolare, di introspezione psicologica e di illuminazione soprannaturale, di totalitarietà e di abbandono mistico. È sufficiente una forzatura minima sull’uno o sull’altro elemento perché, perso quell’equilibrio superiore, sparisca la sicurezza della dottrina, e si apra un varco a estremismi inquietanti. È il caso del Surin, il più grande discepolo del Lallemant: il più grande ma non il più normale.

 

Che signifia ciò? Significa che anche dopo averne affermata l’insospettabile ortodossia, la dottrina del Lallemant resta ancora uno strumento dine e delicato che in mano a degli inesperti o a dei presuntuosi può essere usato male. È un bisturi e non un temperamatite, è un rasoio e non un tagliacarte. Richiede perciò in chi la manovra una personalità sensibile e ricca, sì, ma nello stesso tempo equilibrata e avveduta. Altrimenti si correrà il rischio di scivolare da una parte verso forme mistiche pretenziose di sapore quietista, dall’altra verso un rigorismo e un pessimismo di sapore giansenistico. Comunque, di nessuno dei due pericoli si potrà incolpare l’insegnamento del Lallemant, ma solo l’imperizia o la presuntuosità di chi lo fraintende. Le sagge riserve disseminate nella Dottrina spirituale, i preliminari ascetici richiamati e ribaditi continuamente, le avvertenze chiare e forti che si incontrano quasi ad ogni capitolo, bastano a precludere qualsiasi possibilità di equivoco, sicché con tutta tranquillità questo libro potrà andare tra le mani di chiunque abbia la preparazione per capirlo e nel cuore l’anelito della perfezione. Lo dimostrano le poche considerazioni che seguono.

 

Tesi caratteristica e fondamentale del Lallemant: la contemplazione mistica è aperta ad ogni volenteroso; essa è di tale efficacia per la nostra e altrui perfezione che la vita spirituale deve essere tutta orientata verso il suo acquisto.

 

Di fronte a questo insegnamento, alcuni temono che esso abbia a moltiplicare i sognatori, le mediocrità ambiziose, tutti quelli insomma che a motivo del temperamento morbido o di un gioco d’orgoglio sono già naturalmente trasportati a credersi favoriti di doni straordinari per dispensarsi dalla lotta, dalla fatica, dallo sforzo metodico e penoso. Ma questo è un timore che fa un torto grosso al Lallemant è vero, egli apre la porta della mistica a tutti; cioè a tutti i volenterosi che hanno il coraggio eroico del «primo passo», che hanno la costanza indomita della purificazione totale. Sono molti questi volenterosi? Dio lo voglia! Che se taluno si reputasse del bel numero, e non lo fosse, il Lallemant, s’è già detto, non gli fa i complimenti: impone di prenderlo per il bavero e ricondurlo indietro, rimettendolo «alle prime pratiche della vita spirituale» i segni poi che egli suggerisce per distinguere gli illusi e i pretenziosi dai veri spirituali, sono particolareggiati e inequivocaboli: «Parlare continuamente di grazie straordinarie, di visioni, di rivelazioni, non aver che questo nell’anima; curarsi poco di conoscere e dominare i moti del proprio cuore; mancare di semplicità e di candore coi Superiori e coi Direttori di spirito; trascurare la santa umanità di Nostro Signore per occuparsi nell’orazione esclusivamente della divinità; avere una condotta e nutrire sentimenti contrari alla dottrina e alla pratica della Santa Chiesa: sono tutti contrassegni di un’anima illusa».

 

Un cammino di perfezione sorvegliato da così precise cautele mi pare offra più che sufficiente garanzia contro qualsiasi slittamento verso il quietismo.

 

Veniamo ora all’opposto timore di eventuali slittamenti verso gli stati d’animo giansenisti. Alcuni infatti accusano il Lallemant d’eccessivo rigorismo o d’eccessivo pessimismo. Guardiamo in faccia a questa accusa.

 

Per amore della verità, dobbiamo riconoscere che il Lallemant ama le affermazioni violente, concrete in numeri, non senza una spinta all’estremismo. Vi dirà, ad esempio: «In un giorno solo commettiamo più di cento atti di orgoglio»; oppure: «Forse a stento riusciamo in un anno a compiere un solo atto di puro amor di Dio»; o anche: «Con la contemplazione si farà di più per sé e per gli altri in un mese, che in dieci anni senza di essa»; ed ancora: «La salvezza di un religioso è inscindibilmente unita alla sua perfezione». E la spigolatura di frasi appuntite simili a queste potrebbe continuare a lungo. In tali espressioni c’è forse una parte da fare all’enfasi? Facciamogliela pure. Ma non può essere molta, perché il Lallemant non è uomo da lasciarsi trasportare dalla retorica. La sua parola, maturata attraverso un tacito e lungo meditare e pregare, è sempre controllata e misurata sul pensiero e se afferma molto, è perché occorre molto; e se diviene violenta, è perché senza violenza nessuno s’illuda d’entrare nel regno della perfezione. Il Surin ha scritto: «Nelle cose spirituali se non si esagera un po’, non si conclude nulla». Nelle parole del discepolo è indubbiamente un’eco del pensiero del Maestro. Anche nel mondo spirituale c’è una forza di gravità che abbassa (quella della natura decaduta): bisogna tenere la mira più alta del giusto per colpire esattamente nel segno. Questo, e non altro, è il senso dell’estremismo del Lallemant.

 

Dobbiamo ancora riconoscere che, a volte, descrivendo la natura abbandonata alle sue forze dopo il peccato  egli esagera nei colori cupi. Ci dirà, ad esempio, che «senza la grazia, nello stato di natura corrotta in cui viviamo, tutto è vizioso in noi, e nella maggior parte le nostre azioni sono cattive e, spesso, meritevoli di dannazione. Inoltre tutti gli oggetti che ci si offrono da di fuori, sono occasione di male: le ricchezze, gli onori, i piaceri, tutto è pieno di lacci». E altrove paragonerà la ragione «ai fuochi fatui che di notte brillano e volteggiano poco elevati dal suolo, e conducono il viaggiatore direttamente negli acquitrini e nei precipizi», per concludere che «la ragione umana, se non è rischiarata dalla fede, vola rasente terra e non può guidarci che alla nostra rovina». Ed ancora constaterà: «C’è in noi un’incalcolabile malizia che non arriviamo a percepire, perché non entriamo mai seriamente a scandagliare il nostro interno».

 

Disconoscere l’asprezza di questi pensieri è impossibile. Anzi, staccati dal contesto e presi con rigore teologico, si devono dire erronei. Tuttavia avvertiamo che quando si leggono nel complesso organico dell’insegnamento del Lallemant, perdono, non dico la loro forza singolare, ma quel «sapor di forte agrume» che lega i denti a chi li assaggia isolati dal resto. Ponete l’espressione ricordata un momento fa: «Tutto gli oggetti che ci si offrono dal di fuori sono occasione di male… tutto è pieno di lacci», vicina a quest’altra: «Ogni creatura del mondo… tende a toglierci dall’anima ciò che è contrario a Dio»: il pessimismo della prima viene temperato dall’ottimismo della seconda. E al di là dell’apparente contraddizione delle due frasi, emerge i forte realismo del Lallemant, per cui di volta in volta le creature sono un pericolo o un aiuto: se ti ferme ad esse, sono un pericolo e diventano lo strame su cui si adagia il vizio; se le oltrepassi, sono un aiuto e diventano un gradino della scala che sale alla felicità.

 

Un’altra osservazione importante è questa: il pessimismo del Lallemant, a differenza di quello giansenista, non deriva esclusivamente dal peccato originale e dalla susseguente corruzione della natura, ma anche e spesso dal nulla fondamentale della creatura, dai suoi limiti. Limiti che appaiono ancora più angusti e oscuri a quegli occhi che rimangono a lungo fissi nella luce sfolgorante dei beni soprannaturali. Così avveniva che fuori di questi superni valori, ogni cosa allo sguardo del Lallemant scolorisse, rimpicciolisse, perdesse consistenza. Già S. Tommaso aveva sentito svilire tutta quanta la natura comparandola al più piccolo dei beni soprannaturali e l’aveva espresso, secondo il suo temperamento, in forma metafisica: Bonum unius gratiæ maius est quam bonum naturæ totius universi [un unico bene della grazia è più ricco di valore di tutti i beni della natura insieme]. Il Lallemant era dominato dallo stesso sentimento e, secondo il suo temperamento, l’esprime in forma psicologica: «Dio s’interessa maggiormente d’un cuore dove Egli regna, che non del governo naturale dell’intero universo fisico, e de governo civile di tutti gli imperi del mondo».

 

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La spiritualità del p. Lallemant Studio introduttivo del card. Giovanni Colombo

 

 

V. Lallemant e la Compagnia

 

È stato scritto che «tra i Gesuiti di Francia il P. Luigi Lallemant fu ciò che il P. Alvarez rappresentò fra quelli di Spagna». L’accostamento è quanto mai significativo: definisce di colpo la posizione spirituale del Lallemant di fronte alla spiritualità, per così dire, ufficiale della Compagnia di Gesù. Ma non sottintende anche un parallelo sulle vicende dei due grandi direttori di anime? Sappiamo che il P. Alvarez dovette soffrir molto per l’accusa di introdurre nella Compagnia una spiritualità nuova e diversa da quella tradizionale, una spiritualità ingolfata nella mistica e avviata verso l’illuminismo. Non è accaduto qualcosa di simile anche al P. Lallemant?

 

Cominciamo col precisare i rapporti personali del Lallemant con la Compagnia, diremo poi di quelli dottrinali.

 

Una testimonianza di P. Rigoleuc lascia intravedere che sofferenze d’incomprensione non mancarono neppure al Lallemant, incomprensione che gli proveniva dall’alto e, forse ancora più dolorosa, dal basso. «Più volte, alcuni di quelli che dovevano aver per lui o più bontà come Superiori o più rispetto e sottomissione come suoi inferiori e discepoli, si lasciarono un po’ trascorrere a suo riguardo e gli furono cagione di rammarico». Ai Superiori e colleghi doveva sembrare che con la sua direzione spirituale avviasse troppo incautamente alle forme straordinarie dell’orazione e che, in ogni caso, rappresentasse una deviazione dal genuino spirito della Compagnia. Giudizi siffatti sul suo conto, per mancanza di discrezione e riserbo, come purtroppo avviene facilmente in simili casi, trapelano anche in mezzo ai giovani Padri del Terzo Anno, i quali capitava giungessero a lui prevenuti e piuttosto ostili. Ma poi «in meno di tre mesi egli li aveva guadagnati con la sua dolcezza, bontà, umiltà, così che anch’essi s’abbandonavano totalmente alla sua direzione, confidandosi a vicenda di non aver giammai avuto un Superiore simile»[11].

 

Il fatto è che nel 1629, mentre era a Rouen Istruttore del Terzo Anno, proprio da Rouen parte alla volta di Roma una denuncia a suo carico. È il P. Luigi Grimald che scrive al Generale della Compagnia, P. Muzio Vitelleschi, manifestandogli gravi inquietudini sull’insegnamento e sulla spiritualità mistica del Lallemant. Il P. Generale, non poco allarmato, risponde al P. Grimald imponendogli di parlarne tosto al Padre Provinciale, giacché lo esigeva la gravità della cosa. Nel medesimo tempo scrive egli stesso al Provinciale, esprimendo la sua dolente meraviglia per quello che accadeva a Rouen: glielo avevano proposto come l’uomo più dotato per il delicatissimo ufficio d’Istruttore del Terzo Anno, invece ora gli si fa sapere che la sua condotta e la sua direzione sono stranamente singolari,quali non si addicono alla sua carica, poiché il Padre Istruttore «deve soprattutto possedere lo spirito della nostra vocazione (apostolica e non unicamente contemplativa) e deve tenere e insegnare la via comune della Compagnia; si faccia perciò una diligentissima inchiesta, affinché se occorra il Padre Lallemant sia dispensato dal suo impegno».

 

Il P. Provinciale Giovanni Fileau, sollecitato da questa lettera avrà dovuto interessarsi, indagare, riferire; forse lo stesso Lallemant si sarà trovato nella necessità di inviare a Roma la propria apologia. Lo possiamo congetturare con buona probabilità, ma nessun documento finora è venuto a illuminarci sulle vicende di quella penosa inchiesta. Sappiamo invece con certezza che due anni appresso, nell’autunno del 1631, Lallemant veniva trasferito a Bourges come Prefetto degli Studi. Così ncque la leggenda di un Lallemant censurato e caduto in disgrazia dei suoi Superiori.

 

Ma vennero in luce altre lettere del P. Generale, posteriori all’incidente, nelle quali, pur mancando qualunque accenno ad esso, si trova quanto basta per concludere indubbiamente che l’incidente era stato chiuso per sempre e che al Lallemant era stata riconfermata una fiducia e una stima grandissima. Infatti il P. Generale più d’una volta si rallegra del fervore dei Padri del Terzo Anno e loda l’edificante spirito che regna in quella casa. Scrivendo poi il 21 marzo 1631 allo stesso Lallemant si dichiara contentissimo dell’ardore dei giovani Padri e ne attribuisce il merito, dopo che a Dio, ai Superiori che dirigono il Terzo Anno. Sennonché la precaria salute del P. istruttore deperiva sensibilmente. Il P. Generale, come ne fu informato, rispose al Provinciale con affettuosa e preoccupata insistenza perché non si risparmiasse nulla di ciò che potesse giovar a rinfrancare quelle preziose forze, essendo suo vivissimo desiderio di vedere il Lallemant continuare a lungo in quella carica.

 

I voti del P. Generale non si avverarono. La salute scossa obbligò il Lallemant a lasciare l’ufficio e Rouen. Solo la salute e non altra causa. Ce lo conferma i cordoglio e il rimpianto espressi dal P. Generale alla notizia della sua morte: «Non è la prima volta che Dio ci fa veder di non aver bisogno del nostro aiuto. Ci porta via nel bel mezzo del lavoro uomini che davano speranze così certe e splendide, uomini a cui si sarebbe voluto augurare, se fosse possibile, di viver lunghi secoli…».

 

Dunque se un sospetto o un timore si interpose tra il Lallemant e i suoi Superiori, fu una nuvola passeggera; se un’inchiesta fu fatta a suo carico, questa si concluse in suo favore e il P. Generale gli conservò il posto e la fiducia, e gli accrebbe la stima e l’affetto.

 

Ed eccoci ai rapporti dottrinali fra la spiritualità del Lallemant e quella del suo Ordine. Nella Compagnia di Gesù, fin dagli inizi si possono trovare due correnti spirituali. L’una, più vasta, si muove in un alveo metodicamente e uniformemente ascetico e attivo, e pur non mancando d’inculcare i principi unificatori della vita spirituale, insiste nello sforzo analitico di combattere uno dopo l’altro i difetti e sviluppare una dopo l’altra le virtù. L’altra, più esigua, ha premesse rigorosamente ascetiche, ma poi a coloro che sono chiamati (e sarebbero relativamente molti) apre le porte delle vie mistiche e passive; ed invece che sul combattimento dei singoli vizi e sulla pratica delle singole virtù, pone l’accento sulla purificazione del cuore per giungere alla docilità sempre più perfetta verso lo Spirito Santo. La prima corrente trova il suo breviario nell’Esercizio della Perfezione e delle Virtù cristiane del P. Alfonso Rodriguez; la seconda trova il suo codice nella Dottrina spirituale del P. Luigi Lallemant. La prima, olte al Rodriguez, vanta i nomi del Bouhours, del Bourdaloue, del Judde, del Ravignan, dell’Olivaint, ecc.; la seconda contrappone agli asceti i nomi dei suoi mistici: Alvarez, Lallemant, Surin, Rigoleuc, Guilloré, Caussade, ecc.

 

Per la verità, e l’una e l’altra hanno diritto di cittadinanza nella Compagnia. E come potrebbe essere diversamente se l’una e l’altra s’abbeverano alel stesse fonti (gli Esercizi e le Costituzioni), che sono poi le fonti della genuina spiritualità della Compagnia? Rodriguez e Lallemant sono due particolari interpretazioni della stessa melodia. La melodia unica è data dagli scritti e dallo spirito del Fondatore; l’interpretazione particolare proviene soprattutto dalla diversa sensibilità dei due grandi Maestri, ed anche dalla diversa finalità. Il Rodriguez, infatti, si dirige specialmente ai novizi, e per adattarsi alle loro necessità d’essere guidati passo passo sul cammino della perfezione, cerca di essere analitico e minuto. Il Lallemant, invece, ammaestra i Padre del Terzo Anno, uomini formati, nei quali suppone conosciuto e (almeno in parte) compiuto il lavoro metodico e attivo della prima formazione, e perciò apre a loro panorami superiori, più ardui e più liberi.

 

In concreto, se è vero che gli incoraggiamenti ufficiali della Compagnia furono e sono rivolti di preferenza alla scuola del Rodriguez, forse meno brillante, ma giudicata complessivamente sicura, non è meno vero che l’ideale e il metodo mistico del Lallemant non sono mai stati proscritti, né positivamente sconsigliati nella Compagnia; anzi potremmo dire che furono approvati, almeno implicitamente. Alcuni decenni or sono, un grande e autorevole gesuita [P. Grandmaison] ha potuto scrivere che la tradizione mistica del Lallemant, pur non cessando dal far discepoli tra i gesuiti, «è tenuta in un ombra discreta e voluta, in una lontananza poco accogliente». Sotto un certo aspetto, forse l’osservazione può essere vera durante gli anni della formazione del Gesuita; ma forse oggi lo stesso Grandmaison non la ripeterebbe più.

 

È un fatto che alla Compagnia poco importa se un gesuita si muove nella scia del Lallemant o in quella del Rodriguez; nella sua valutazione sono differenze accidentali e trascurabili. Ad essa preme una cosa sola, ed è questa: che ogni gesuita sia un vero figlio di S. Ignazio, e per essere tale miri a trasformare tutta quanta la sua vita in un ardimentoso servizio d’amore per Cristo e per la Chiesa. A questo fine (e la Compagnia lo sa!) «la legge della carità e dell’amore, che lo Spirito Santo suole scrivere e imprimere nei cuori, giova più di qualsiasi metodo e regola esterna» (Prologo delle Costituzioni).

 

Premesso questo sguardo generale, osserviamo un po’ da vicino le più significative consonanze e divergenze dell’insegnamento del Lallemant con quello del Rodriguez in rapporto alla spiritualità della Compagnia:

 

1)      Il Lallemant concorda coi Maestri dell’altra corrente nell’amore e nella devozione a S. Ignazio. Le due tradizioni spirituali dicono di rifarsi a lui, con eguale amore si vantano d’interpretarne fedelmente lo spirito del grande Fondatore, e di tramandarlo senza deviazioni o deformazioni. Se non che quella ascetica aderisce più strettamente, vorrei quasi dire esclusivamente, all’insegnamento come fu codificato dalla cauta e concreta saggezza del Santo negli Esercizi e nelle Costituzioni; quella mistica, senza sminuire di nulla il valore dell’insegnamento scritto, tiene occhi rivolti agli esempi personali del Fondatore: alle esperienze del neo convertito a Manresa, e soprattutto a quelle dell’uomo maturo durante gli anni di governo di Roma quando alla potente e serena logica dell’organizzatore geniale congiungeva le lunghe contemplazioni del mistico perduto in Dio, vivente nell’intimità delle Tre Persone, raccolto nel silenzio interiore ad ascoltare i consiglio delle voci divine, del mistico che durante la Messa era soffocato da singhiozzi d’amore.

 

2)      La corrente del Rodriguez e quella del Lallemant concordano pure nel dare la massima importanza al «fondamento» ignaziano. Dal «fondamento» deriva il rilievo dato dal Lallemant all’idea del fine supremo e unico, (primo principio della Dottrina spirituale), e quella indifferenza virile e magnanima per tutto ciò che non è questo fine, unica cosa degna dei palpiti del cuore umano.

 

3)      Altra caratteristica che il Lallemant e tutta la tradizione mistica hanno in comune con la tradizione sorella è una grande e perfetta devozione a Verbo Incarnato. Mistici e asceti ignaziani gareggiano nell’imitare Gesù Cristo: se sente che tutti sono egualmente generati nel seno di quel piccolo grande libro degli Esercizi, dove i dramma di Jñigo di Lodola in cerca della più grande gloria di Dio attraverso il più perfetto servizio d’amore reo a Gesù Re Eterno, diviene il dramma d’ogni anima generosa, assetata di perfezione. Ebbene non si deve mai dimenticare che il Verbo Incarnato è il protagonista del dramma degli Esercizi: appare all’inizio della Seconda Settimana e non abbandona più la scena. Ed anche le battute della Prima Settimana, da cui sembra assente, sono piene della sua attesa, sono calde del suo respiro.

 

4)      I mistici ed asceti ignaziani, Lallemant e Rodriguez, hanno pure in comune uno spiccato moralismo psicologico; nei mistici, forse, ancora più esigente che negli asceti. Anche in questo, figli tutti di quel S. Ignazio maestro incomparabile nell’insegnare i modi di esaminare la coscienza. Essi hanno il dono dell’introspezione, dell’analisi lucida e minuta a cui nulla sfugge dei movimenti interiori. E che cosa è la purificazione del cuore, cardine dell’insegnamento del Lallemant, se non uno sviluppo dell’esame di coscienza che cessa dall’essere puntualizzato in determinati tempi o su determinati difetti, e invade tutta la giornata, accompagnala ogni azione nel suo sorgere, muoversi e finire? Però si badi bene, i moralismo psicologico dei mistici ha un’anima e un’orientazione diversa da quella degli asceti. L’analisi della coscienza insegnata dal Rodriguez mira anzitutto alla propria perfezione morale, la indagine e la purificazione del cuore del Lallemant mirano direttamente all’intima unione con Dio. La perfezione del Rodriguez è qualcosa di attivo che l’anima si conquista con l’aiuto della grazia attraverso la pratica delle singole virtù; la perfezione del Lallemant, invece, è qualcosa di passivo, prodotta dallo Spirito Santo, mentre il compito dell’anima è solo quello di rimuovere ogni ostacolo all’azione divina (con la purificazione del cuore) e abbandonarsi ad essa (con la docilità al Maestro interiore). Insomma l’orientazione del moralismo rodrigueziano è ascetica, l’orientazione del moralismo lallemaniano è mistica.

 

5)      Altro punto di contrasto tra la dottrina spirituale del Lallemant e la tradizione ascetica della Compagnia è il valore insostituibile della meditazione metodica per la formazione del gesuita. Ma mentre per la tradizione ascetica a meditazione (e la parola va qui intesa non appena nel suo significato ristretto di orazione discorsiva, ma in quello più vasto di orazione ordinaria che abbraccia diverse forme) non aspira direttamente alla contemplazione passiva, benché se fatta bene ne costituisca a preparazione più sicura, per il Lallemant la meditazione è intesa direttamene e apertamente come una forma di passaggio verso la preghiera più alta, cioè l’orazione mistica.

 

6)      Quando il Lallemant esige dai giovani Padri del Terzo Anno che diventino uomini spirituali, uomini di orazione; quando afferma che la fecondità dell’apostolo è condizionata dalla santità della vita dell’apostolo, e dalla benedizione di Dio ottenuta nella preghiera, non fa che riallacciarsi alle Costituzioni di S. Ignazio, ed in ciò trova consenzienti tutti i gesuiti a qualunque altra corrente spirituale appartengono.

 

Ma quando insegna come «volontà di S, Ignazio che «i professi e coloro che hanno fatto gli ultimi voti debbono consacrare alla preghiera tutto il tempo che rimane a loro disposizione dopo aver adempiuti i doveri imposti dall’obbedienza», impresta a S. Ignazio una volontà che il Santo non ha  espresso e cammina per una via tutta sua, sulla quale non lo seguono certo quelli della corrente ascetica, i quali vi temono il pericolo di trasformare l’ordine da attivo in contemplativo.

 

Indubbiamente il Lallemant s’è ispirato, qui, a una lettera del P. Generale Acquaviva sulla pratica dell’orazione e delle penitenze. Ma il P. Acquaviva dice che «si può», che «è facoltativo» dare alla preghiera tutto i tempo che l’ubbidienza lascia a propria disposizione, anzi circostanzia quella libertà con parecchie norme prudenziali: «purché non sia un peso eccessivo alla salute, purché venga provveduto sufficientemente alle opere di ministero in favore del prossimo, purché non sia di impaccio alla pronta ubbidienza…». Il Lallemant invece, trasportato dal suo temperamento contemplativo, taglia corto e dice addirittura: «S. Ignazio vuole…». S. Ignazio in realtà vuole, sì, degli «uomini spirituali» gelosi della «familiarità divina», ed insiste sulla «preghiera continua», ma in pratica per quanto riguarda l’orazione, non fissa regole, si rimette allo zelo discreto di ciascuno, vigilato dal Superiore e controllato dal Confessore.

 

7)      Quando il Lallemant protesta che la contemplazione non può essere messa al bando della Compagnia, si riallaccia alla lettera già ricordata del P. Acquaviva, il quale riconosce grandi meriti alla contemplazione non solo per la santificazione personale ma anche per infondere ardimento e costanza nelle opere per la salvezza delle anime. Ma il Lallemant afferma molto di più. Afferma che le anime generose sono tutte chiamate alla «seconda conversione»; che la «seconda conversione» immette nella contemplazione infusa; che la contemplazione infusa è tale che senza di essa non si dà perfetto servizio a Dio, né apostolato grandemente fecondo. Queste, che sono le tesi essenziali dell’insegnamento del Lallemant, segnano il suo distacco più profondo dalla dottrina e dal metodo della spiritualità ufficiale della Compagnia di Gesù. Anche S. Ignazio vuole il perfetto servizio di Dio e l’apostolato, e perciò inculca con tanta forza e insistenza lo spogliamento di sé, che è poi la «seconda conversione». Ed a quelli che sacrificano tutto, promette genericamente che Dio sarà liberale di là d’ogni loro aspettativa. Però, assai più cauto del Lallemant, non dice che Dio verrà loro incontro on i doni della contemplazione; egli non determina nulla, lascia alla bontà divina di scegliere il modo e il grado della sua liberalità. S. Ignazio non mette mai l’accento sui doni mistici, pur essendo ben lontano dall’escluderli.

 

8)      Se tale è il genuino pensiero di S. Ignazio, dobbiamo riconoscere che in rapporto ad esso, il Lallemant, e in genere la corrente mistica ignaziana, ha qualcosa di eccessivo: mette in piena luce e in vista ciò che la cautela del Fondatore volutamente aveva lasciato in penombra e fuori della vista diretta. D’altra parte il Rodriguez, e in genere la corrente ascetica ignaziana ha preferito non staccarsi dalla cautela del Maestro e forse, mossa dall’esperienza, ha preferito insistervi anche di più di quanto non avesse fatto S. Ignazio, tenendo nell’ombra, quasi fuori vista, i doni mistici e pensandoli riservati ad alcuni privilegiati da Dio.

 

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La spiritualità del p. Lallemant Studio introduttivo del card. Giovanni Colombo

 

 

VI. Attualità del Lallemant

 

Al termine di questo studio introduttivo alla Dottrina spirituale, non so trovar più opportuna conclusione che ripetere due giudizi del Bremond:

 

«Questo modesto libro, ignoto ai profani, resta sempre uno dei tre o quattro libri essenziali della letteratura religiosa moderna»

 

«Come grammatica della mistica, come manuale di iniziazione alla vita contemplativa niente gli può essere preferito. È vero, Luigi Lallemant non eguaglia la statura di quegli incomparabili che sono Ruysbroeck, Tauler, Suso, Teresa, Giovanni della Croce, Francesco di Sales, eppure bisogna incominciare da lui. Perché nessuno meglio di lui insegna i principi essenziali della mistica e la sua divina semplicità».

 

Belle lodi e da che autorevoli labbra! Esse trovano la loro conferma più sicura nella stessa perenne attualità del libro. Dopo trecento anni conserva ancora intatta la sua potenza di seduzione: e non solo per i gesuiti del Terzo Anno a cui fu originariamente dettato, ma per chiunque, sacerdote o laico, abbia un’anima d’apostolo nella Chiesa di Cristo. Forse alcuni potranno discutere su qualche punto, non accettare tutte le sue idee e le sue esperienze, forse, – e l’ho già rilevato, – qualche espressione, isolata dal contesto, può essere dichiarata teologicamente erronea, ma nessuno che abbia aperto il cuore sui panorami e sugli interessi del Regno di Dio, può sottrarsi dal fascino caldo della pietà, dell’introspezione, dello slancio del Lallemant. Si avverte che quest’apostolo ha scavato così profondamente nel suo cuore da intuire i tormenti e i bisogni del nostro cuore d’apostoli moderni meglio di noi stessi; questo sacerdote ha vissuto così intensamente la sua vita che la sua esperienza è divenuta una risposta ai problemi di questa nostra vita sacerdotale.

 

Ebbene qual è il messaggio del P. Luigi Lallemant agli apostoli di questa età formidabile?

 

Vedete bene che è la fine di un mondo. Intere generazioni spariscono, soffocate nel loro sangue. Imperi e città precipitano. Ambiziose civiltà crollano. Tutto crolla tra fiamme e fragori, sotto ordigni che scendono dal cielo come stelle cadenti. E i crolli più immani non sono quelli che si vedono e si sentono: avvengono silenziosamente nel segreto delle coscienze, facendovi tenebra e deserto.

 

Bisognerà incominciare da capo: c’è un mondo da rifare e riconsacrare. Quando Cristo volle rifare e benedire il mondo, ha cominciato a formare dodici Apostoli. Anche adesso non c’è altra via migliore. Occorrono apostoli, e occorre formarli pari all’ardua impresa che li aspetta. Nessun bisogno della Chiesa è più importante e più urgente di questo.

 

Domandiamoci: che cosa suggerisce il Lallemant per la formazione dei moderni apostoli, affinché simili agli antichi abbiano la miracolosa forza di rinnovare il mondo?

 

Forse di dare loro una cultura religiosa superiore? Certo che l’ambiente moderno, viziato da un criticismo esasperante, spesso sdegna di accogliere la verità evangelica da labbra che non custodiscono la scienza. E se il Lallemant avesse dovuto rivolgere le sue istruzioni a sacerdoti impegnati nei ministeri parrocchiali, avrebbe insistito assai sulla necessità d’uno studio approfondito. Ma egli parlava a dei gesuiti che fin allora erano stati curvi sui libri e che nella più parte avrebbero dovuto trascorrere la vita intera nello studio e nell’insegnamento. C’era forse da temere il pericolo opposto. Egli constatava che «di solito la scienza, almeno quella essenzialmente richiesta, non manca; più spesso manca una sufficiente unione con Dio». E la constatazione neppure oggi ha perso la sua attualità per tutti i sacerdoti. Comunque, siccome il suo timore era il pericolo che parecchi dei suoi ascoltatori si lasciassero inaridire il cuore dalle orgogliose preoccupazioni di studio, egli faceva loro echeggiare il rimpianto estremo del Card. Du Perron, che morendo si doleva d’aver atteso nella sua vita più a ornare di scienza la mente che agli esercizi della vita interiore. Dunque per quanta importanza debba essere data alla scienza dell’apostolo, il Lallemant era del parere che agli esercizi della vita interiore ne deve essere data ancor di più.

 

Forse che il suggerimento più attuale del Lallemant per la formazione dell’apostolo moderno è l’addestramento a nuove forme di apostolato? Riconosciamo che oggi questo è un problema assillante della cura d’anime. Certi metodi, creati alcuni secoli or sono, per condizioni di vita più statiche e tranquille, sono attrezzi talvolta arrugginiti e spuntati per la gente irrequieta, dinamica del nostro tempo. Da tutti si constata che le masse operaie, le folle studentesche, gli agglomerati della periferia sfuggono all’influsso tradizionale della parrocchia: bisogna che l’apostolo non dorma sulle posizioni del passato, aggiorni le sue forme, ne crei di nuove. Il Lallemant ha riconosciuto la necessità e il valore dell’azione efficacemente ammodernata, e giunse a dire che «il far scuola, per esempio, può giovare alla salvezza delle anime e promuovere la gloria di Dio più che il presenziare al coro e cantare l’ufficio divino». Parlava a gesuiti, ricordiamolo; è però sempre una preziosa confessione sulle sue labbra, e un atteggiamento d’avanguardia per quei tempi. Non di meno non è qui il centro dei suoi interessi. I metodi e le opere sono soltanto carmi del ministero, ed egli sentiva che le armi, per quanto moderne e affinate, non potranno far molto se il soldato che le porta è imbelle. Era dominato prepotentemente da una convinzione sola: ogni vero rinnovamento religioso non può non cominciare che dall’intimo dell’apostolo.

 

Qual è dunque il messaggio del Lallemant per questo intimo rinnovamento? Eccolo dare all’apostolo un’anima di contemplativo. Questa è stata la passione struggente di tutta la sua vita, la meta d’ogni sua fatica, il succo di tutto il suo insegnamento spirituale. E questa è ancora la sua palpitante attualità.

 

Mai come adesso l’azione ha impegnato a vita dell’apostolo che non ha più respiro, e forse domani lo dovrà impegnare ancora più assiduamente; appunto per questo, mai come ora è stato necessario che sia saturato di contemplazione. Ciò che una volta era come disgiunto, l’azione al clero e la contemplazione ai monaci, bisogna che sia riunito il più possibile nell’unica persona dell’apostolo moderno. Riunito in modo che la contemplazione non impedisca ma alimenti la fiamma dell’azione, e l’azione non disamori dalla contemplazione ma ne provochi incessantemente la sete. Riunito in modo che l’apostolo sia sempre più immerso nella massa da fermentare evangelicamente, sempre più animoso e duttile ad ogni iniziativa, ma nel medesimo tempo sia sempre più raccolto in Dio, congiunto a Lui, staccato, disgustato da ogni cosa che ha fine quaggiù. Difficile, paradossale conciliazione di due opposti! Eppure necessaria. Del resto nell’intima essenza del Cristianesimo i paradossi stanno come di casa.

 

Dare all’apostolo un’anima di contemplativo! Perché questo si avveri, (quanto è urgente che si avveri!), il Lallemant esige dall’apostolo tre cose: che abbia un anelito inestinguibile di perfezione; che non perda mai di vista il proprio cuore; che gusti, almeno un poco, sperimentamene il Signore.

 

Un disdegno innato dell’insipida mediocrità, un aborrimento istintivo, e d’altra parte un’ansia indomita della propria perfezione, sentita come l’interesse supremo e l’unico necessario, una volontà costante di tendervi con tutto lo slancio, senza impazienza e senza abbattimenti, tutto ciò forma la prima caratteristica che deve lievitare il cuore dell’apostolo. Cuori senza questo fermento il Lallemant pensava non si dovessero trovare tra le file della Compagnia di Gesù, e il Mercier era del preciso parere non si dovessero trovare neppure tra il sacerdozio diocesano. Neppure tra il clero diocesano, dunque, quelli che in pratica risolvono ogni situazione allo stesso modo egoistico: il mio comodo ad ogni costo… a costo anche della mia perfezione; ma quelli soltanto che fieramente sanno dire: la perfezione ad ogni costo… a costo anche di qualunque mio comodo.

 

Ai giovani sacerdoti, che lo ascoltavano allora e che lo leggono adesso, il Lallemant rivolge parole esuberanti di santa passione: badate che «la salvezza di un religioso (e vale anche per ogni sacerdote) è inseparabilmente congiunta alla sua perfezione; badate che «Dio non si serve mai degli imperfetti  per realizzare i suoi grandi disegni». Se dunque il desiderio della perfezione non si agita, non temi tu di mettere  repentaglio la tu stessa salvezza? Se questo desiderio, che forse è brillato un momento nei giorni della tua consacrazione e dà appena fosforescenze di fuoco fatuo ad ogni corso d’esercizi, non ti scotta più il cuore, come pretendi che Dio ti usi per i suoi grandi disegni? Apostolo può essere solo chi in ogni circostanza cerca la perfezione nella sua vecchiaia se non l’ha fatto nella giovinezza. E sente che deve far presto: perché la morte può sorprendere e non c’è delusione più amara che morire lontani da quella perfezione a cui eravamo chiamati e per cui ci erano state prodigate le grazie necessarie.

 

Attenzione al cuore! Ecco la seconda cosa necessaria perché l’apostolo abbia un’anima di contemplativo. E non già un’attenzione qualunque, ma assidua che non lo perda mai d’occhio. Cuori non custoditi sono terra di nessuno, dove le erbe di tutti gli istinti pullulano indisturbate, dove i venti di tutte le passioni scorazzano e predano, dove il mondo  scarica tutti i suoi rifiuti. Cuori senza riparo fanno ballare le loro marionette: «la stima delle doti umane, degli uffici, delle cariche, dei luoghi di una certa importanza…, l’amore della gloria, la ricerca del pauso, delle comodità di una vita tranquilla». Le meschine inezie del nulla invadono, così, la parte più segreta dell’anima, che pure appartiene a Dio solo, vi inscenano la loro sguaiata gazzarra, soffocando le delicate voci del Signore e disperdendone i doni con incalcolabile rovina.

 

Solo un controllo continuo sul proprio interno, una permanenza ininterrotta nel proprio intimo, può formare il vero apostolo. Il quale, anche nei giorni d’azione indefessa, non si espande mai totalmente al di fuori, conserva sempre una parte del suo spirito raccolta nel suo cuore per riparare sbagli, per sventare sorprese e assalti e per ricevere i messaggi e le visite divine. «Alla scuola del cuore, – ha detto il Lallemant – in un solo istante si può imparare più che non sappiano insegnare i maestri della terra durante un secolo intero». Mirabile scuola, dove s’impara a compiere ogni attività con purezza d’amore; s’impara a scoprire il fondo della nostra coscienza, il nostro passato e il nostro presente; s’impara a intuire i nostri problemi spirituali e quelli del prossimo; soprattutto s’impara l’intimità con Nostro Signore. Ricordi l’apostolo che la sua occupazione principale dovrà sempre essere la vita interiore. E si persuada che vegliare sul cuore è cosa più grande ed esige forza maggiore che gettarsi in mille faccende, ed è incomparabilmente più fruttuosa. Pietro tutto agitazione quando si tratta di cercare e maneggiare armi, non regge se c’è da vigilare un’ora sola vicino al suo Maestro.

 

Da ultimo è necessario che l’apostolo gusti, almeno un poco, sperimentalmente il Signore. Il cuore dell’uomo, compreso quello dell’apostolo, è fatto per la felicità e non per la mortificazione, per il possesso e non per la rinuncia. E si badi bene che l’esigenza alla felicità e al possesso è già in atto quaggiù sulla terra, non aspetta il nostro ingresso in paradiso. Se dunque il cuore dell’apostolo fin da quaggiù non gusta concretamente qualche felicità del soprannaturale, se non sente qualche gaudio del possesso di Dio, come potrà reggere a disprezzare sempre le soddisfazioni che gli offrono le creature di questo mondo?Soddisfazioni basse e fugaci, sì, ma presenti e concrete e come tali di una terribile potenza allettatrice. Bisogna che da parte loro le soddisfazioni della fede non restino pallide e insipide, confinate in un sogno remoto, ma anch’esse si facciano in qualche modo sentire come presenti e concrete, altrimenti dovranno rassegnarsi a una condizione di inferiorità di fronte alle violente profferte dei sensi. Altrimenti il cuore tremerà sempre un poco e, alla fine, purtroppo, piegherà vinto da queste.

 

Occorre che l’apostolo sperimenti quello che dice Riccardo da S. Vittore citato dal Lallemant: «Una sola goccia delle divine consolazioni può produrre ciò che non riuscirebbe a fare tutti i paiceri del mondo. Questi non possono appagare a sazietà il cuore; mentre una sola goccia di interna dolcezza che lo Spirito Santo versi in un’anima la rapisce fuori di sé e le causa una santa ebbrezza». Soltanto dopo che avrà cominciato a gustare una certa conoscenza del divino, camminerà impavido tra qualunque minaccia e qualunque lusinga. Un ardore incontenibile lo farà maggiore di sé e lo spingerà ad ogni più bella impresa: i sacrifici non lo spaventeranno, le fatiche non lo arresteranno, gli insuccessi e le incomprensioni non lo abbatteranno, perché il suo cuore è ancorato in quei beni e in quelle consolazioni che nessuna cosa al mondo può dare o togliere.

 

Ecco perché il Lallemant ha concepito tutto il suo insegnamento spirituale come una via verso l’esperienza del divino. Ma qui un dubbio ci assale. E se Dio volesse condurre l’apostolo non per la via delle consolazioni sensibili, ma per quella della nuda fede, nell’aridità e nel buio? Nessun timore per questo. Quando la perfezione è davvero il sospiro ardente dell’animo, quando il raccoglimento e la purezza del cuore sono scrupolosamente custoditi, anche l’aridità e il buio della nuda fede sono un modo di sperimentare il Signore. È l’inverso amaro e crocifiggente dell’esperienza mistica, ma è pure una esperienza. Tanto è vero che l’apostolo anche da questa esperienza oscura e dolorosa trae energie potenti non inferiori a quelle che potrebbero provenirgli dall’esperienza luminosa e consolante; e, pur soffrendo e faticando con acerbità ineffabile, sente che non darebbe la minima parte delle sue sofferenze e fatiche per tutti i piaceri del mondo.

 

Dare all’apostolo un’anima di contemplativo! Ecco, dunque, l’attualità del Lallemant e del suo insegnamento. Attualità che non è altro se non un ritorno deciso e totalitario a ciò che fu da principio, cioè all’ordine gerarchico, essenziale stabilito dal capo degli Apostoli tra le diverse funzioni dell’apostolato: Nos vero orationi et ministero verbi instantes erimus (At 6,4: Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola). Per San Pietro e i primi Apostoli il ministero consisteva anzitutto e soprattutto nella preghiera. La predicazione veniva dopo. Le altre opere, dopo ancora, e potevano essere lasciate ai diaconi. Così e non altrimenti, deve essere per i moderni apostoli. Forse, trascurando quell’ordine essenziale, s’è creduto di fare di più e più presto. Invece s’è dovuto spesso constatare che l’azione diventata agitazione spossante, divorante, e non poco vana. Marta, ha perso di vista Maria e s’è messa vertiginosamente a correre, la faccendiera!, disperdendosi in troppe cose periferiche a scapito dell’unum necessarium.

 

Il Lallemant insegna a non temere che l’apostolo preghi troppo a danno dell’azione, ma a temere che lavori troppo a danno della preghiera. Poiché la preghiera da sola basta a riempire una vita apostolica fecondissima (ricorda S. Teresa del Bambino Gesù proclamata dalla Chiesa patrona delle Missioni e dei missionari) ma l’azione da sola, no! (ricorda la condanna dell’Americanismo).

 

Del resto, che cosa pretendono i cristiani e in non cristiani dall’apostolo moderno? che cosa pretendono le anime dal sacerdote che vive in mezzo a loro? Una sola cosa, semplice e ardua: che viva nel senso etimologico e primitivo la sua parrocchialità. Ebbene in questo senso[12], parrocchia significa dimora temporanea e parrocchiano o parrocchiale è colui che vivendo in un luogo vi si sente come forestiero e di passaggio: la sua anima è assorta altrove, cioè è un’anima contemplativa.

 

Oggi è soprattutto necessario che questi nostri contemporanei dalla scarsa fede, avvicinando il sacerdote della parrocchia, lo sentano veramente parrocchiale. Lo sentano cioè in cammino verso una meta al di là di tutti gli interessi terreni di cui essi sono impigliati. Sentano che se egli resta tra loro, è solo per amore, ma il cuore in esilio non gli cessa un istante dal sospirare verso la patria (che è Dio). Se lo ascoltano parlare, nel suo respiro avvertono il profumo di un altro mondo! E se lo fissano negli occhi che glieli vedano invasi da una luce immortale.

 

Soltanto da sacerdoti parrocchiali i difficili uomini moderni si lasceranno persuadere  a ritornare ad essere parrocchiani.

 

Orbene, per la formazione di questi sacerdoti il Lallemant è ancora l’«Istruttore» incomparabile.

 

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 Louis Lallemant              La dottrina spirituale                     

 

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Primo principio: Lo sguardo al fine

 

Capitolo 01: Dio solo ci può rendere felici

 

§ 1.      Sentiamo nel cuore un vuoto che tutte le creature insieme non riuscirebbero a riempire. Esso non può essere colmato che dal Signore, nostro principio e nostro fine. Il possesso di Dio riempie questo vuoto, rendendoci felici, mentre la privazione di Dio lo abbandona, rendendoci infelici.

 

Prima di riempire un simile vuoto, Dio ci mette sulla via della fede, a questo patto: se noi lo consideriamo sempre come nostro fine ultimo, usando delle creature con moderazione e riferendo al suo servizio l’uso che ne facciamo. Quando fedelmente si contribuisce da parte nostra alla gloria che Dio vuol trarre da tutti gli esseri creati, Egli allora si comunicherà al nostro spirito per riempire il vuoto che sentiamo dentro di noi e renderci felici. Se invece noi manchiamo di fedeltà, Egli ci lascerà in questo vuoto che, non riempito, costruirà la nostra somma miseria.

 

§ 2.      Le creature vogliono far le veci del nostro fine ultimo e noi stessi siamo i primi a voler essere ultimo fine a noi medesimi. Una creatura ci dice: «Accostati a me che ti renderò pago e soddisfatto». Noi le prestiamo fede; ma essa ci delude. In seguito una seconda, una terza ci ripetono lo stesso invito, ma esse ugualmente ci ingannano; così per tutta la durata della vita. Da ogni parte ci lusingano le creature, promettendo di soddisfare a ogni nostra brama. Ma nonostante che tutte le loro promesse non siano che menzogne, pur tuttavia noi siamo sempre disposti a lasciarci sedurre. Sarebbe come se uno tentasse di riempire il fondo del mare rimasto vuoto con acqua presa dal cavo della mano. Ecco perché noi non siamo mai contenti: aderendo alle creature, esse ci allontano da Dio, gettandoci nella pena, nel turbamento, nella miseria; qualità tutte così inscindibili dalla creatura come la pace e la felicità sono inseparabili da Dio.

 

§ 3.      Noi assomigliamo a quelle persone prese da nausea che, assaggiata una vivanda, la rifiutano per stendere tosto la mano ad un’altra, lasciata poi da parte come la prima: così non trovano nulla che sia secondo il loro gusto. Ci gettiamo su ogni sorta di oggetti senza mai raggiungere un completo contento. Dio solo è il supremo bene che ci può rendere felici; e noi ci eludiamo quando andiamo dicendo: «Se fossi in quel luogo, se avessi quell’ufficio, sarei proprio contento. Quella persona, avendo quanto brama, è veramente felice!». Vanità!…

 

Anche se si occupassero le più alte cariche, non si potrebbe essere interamente contenti. Cerchiamo perciò Dio, unicamente Dio, perché Dio solo può appagare ogni nostro desiderio.

 

§ 4.      Un tempo il demonio si nascondeva sotto le sembianze di Dio, quando negli idoli si presentava ai popoli pagani come l’autore e il fine di quanto esiste nell’universo. Le creature ripetono press’a poco lo stesso giuoco. Esse prendono le sembianze di Dio, dandoci a intendere che ci accontenteranno, offrendoci anche di che soddisfarci. Ma quando esse presentano non serve che ad aumentare il vuoto del nostro cuore, che noi ora non percepiamo. Non lo si potrà percepire bene se non nell’altra vita, quando l’anima separata dal corpo, ha un desiderio quasi infinito di vedersi tutta investita da Dio; un tale desiderio, frustrato dall’attesa, fa soffrire al nostro spirito una pena quasi infinita.

 

§ 5.      Nell’ora della morte capiremo la grande nostra sventuta di esserci lasciati illudere e affascinare dalle creature. Ci meraviglieremo d’aver voluto far getto, per futili e basse cose, di grandi e preziosi beni; e giusta pena della nostra pazza condotta sarà il trovarci privati, per un determinato tempo, della visione di Dio, senza la quale nulla può appagare il nostro spirito. Inconcepibile è il desiderio che abbiamo di vedere e di possedere Dio, come del resto è inconcepibile la pena che nasce in noi da un tale desiderio non appagato.

 

Ecco perché dobbiamo deciderci a rinunciare con generosità a tutte le iniziative che potremo intraprendere di nostro arbitrio, a tutte le mire, le brame, le speranze di quelle cose che potrebbero lusingare l’amor proprio, insomma tutto quanto è di ostacolo a promuovere la gloria di Dio. Le espressioni bibliche: camminare alla presenza di Dio, aver l’anima retta, camminare nella verità, cercar Dio con tutto il cuore esprimono tutto ciò. Senza di che, noi non potremo mai essere contenti.

 

§ 6.      Perché affezionarci alle creature, come purtroppo facciamo? Sono così limitate e così prive di beni solidi, che il massimo piacere e l’intera soddisfazione che da esse possiamo riprometterci, non è che una vana ed immaginaria felicità, la quale, invece di saziarci, non fa che eccitare la fame, perché le nostre brame, essendo infinite, non possono essere appagate che mediante il possesso del sommo bene. Tanto più che le creature hanno una breve durata, e presto o esse ci abbandonano, o noi stessi siamo costretti ad abbandonarle.

 

Quanto poi agli uomini in particolare, non ci è forse noto che essi non amano, che essi stessi e che in ogni cosa non cercano che il loro interesse? Al proprio vantaggio indirizzano quel poco di bene di credito, di autorità che posseggono; quand’anche avessero in abbondanza ogni bene, non ne userebbero diversamente. Quanto essi non compiono puramente per amor di Dio, lo compiono per amor proprio; anche in tutto ciò che fanno per gli altri, non perdono mai di vista se stessi. Né ci si dimostrano favorevoli, fedeli ed amici, se non perché trovano il loro tornaconto. Che assegnamento possiamo fare sul favore e sull’amicizia degli uomini?

 

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 Primo principio: Lo sguardo al fine

 

Capitolo 02: La nostra felicità dipende dalla perfetta sottomissione a Dio,                      che solo deve regnare sul nostro cuore

 

§ 1.      La nostra vera grandezza sta nella sottomissione a Dio. Dipendiamo da Dio per un triplice motivo: 1) non possiamo ricevere l’esistenza che da Lui; 2) non possiamo procacciarci i mezzi per arrivare a Lui che da Lui; 3) non possiamo ottenere il possesso del nostro fine e del sommo bene che da Lui. In questo gli antichi filosofi si ingannavano, poiché cercavano la propria felicità in se stessi e nelle cose umane.

 

§ 2. Non c’è che Dio, il quale abbia diritti di sovranità sui cuori. Né i potenti del mondo, né la Chiesa vi estendono il proprio dominio. Tutto quanto succede nei cuori non dipende affatto da loro. Dio solo ne è il re. Qui veramente è il suo regno; qui veramente Egli stabilisce il trono della sua grazia, la sua gloria sta tutta in questo regno interiore.

 

Per parte nostra, invece, la perfezione e la felicità consistono nella sottomissione del cuore a questo dominio di Dio, e quanto più il nostro cuore sarà soggetto a Lui, tanto più saremo perfetti e felici.

 

§ 3.      Dio si interessa maggiormente della direzione soprannaturale di un cuore, su cui regna, che non del governo naturale dell’intero universo e del governo civile di tutti le potenze terrene. A Lui non preme che il cuore; è contento solo quando lo vede sottomesso al suo potere e quando lo possiede. Come pure non v’è che Dio, il quale possa appagare il nostro cuore, in cui esiste un tale vuoto da non poter essere riempito che da Lui. 

 

§ 4.      Il Signore pone le sue delizie nel conversare coi nostri cuori. È qui dove Egli si riposa ed anche per noi Dio solo è il centro dei nostri cuori. Questi non devono cercare la propria quiete che in Lui e non darsi pensiero che per Lui.

 

Benedetta la vita interiore, la quale fa sì che Dio solo viva nei cuori e che i cuori non vivano che per Lui e non gustino che Lui.

 

Felice la vita di quel cuore che è posseduto pienamente dal Signore e sul quale Egli regna! Vita separata dal mondo e nascosta in Dio; vita di amore e di santa libertà; vita che spinge il cuore a trovare nel regno di Dio la gioia, la pace, i veri godimenti, la gloria, la grandezza: beni e grandezze che il mondo non può dare né togliere.

 

§ 5.      Noi immaginiamo che, allorquando uno si dà al raccoglimento ed alla vita interiore, debba condurre una vita triste e miserabile. In realtà succede invece il contrario. Anche quaggiù la felicità consiste nel possesso del Signore e quanto maggiore è il rinnegamento di noi stessi per unirci con Dio, tanto più cessiamo di essere miserabili e diventiamo felici. Ma il demonio approfitta della nostra ignoranza e debolezza per gettarci in errore ed in infermità continue, da cui è indispensabile liberarci per renderci degni del massimo bene possibile quaggiù, che è il veder Dio, godendo del dono della sua santa presenza, senza la quale i più eccelsi Serafini sarebbero infelici. Sarebbe senza dubbio felice quell’anima che, contemplando incessantemente Dio, si tenesse pronta a seguire i suoi ordini.

 

 

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Secondo principio: La Perfezione

Parte Prima: La perfezione in generale

 

Capitolo 01: Il primo atto di un’anima che tende alla perfezione

 

Art. 01: In ogni cosa si deve cercare Dio solo

 

§ 1.      Per bene cercare Dio, ce lo dobbiamo rappresentare dapprima come l’autore della natura e della grazia, poi come il conservatore di tutti gli esseri e da ultimo come il padrone sovrano che tutto governa e dispone con la sua Provvidenza. Perciò dobbiamo riguardare tutti gli avvenimenti, anche i più insignificanti, come voluti da Dio a Lui graditi.

 

Cercare Dio è non volere e non desiderare se non quanto Egli vuole e dispone con la sua Provvidenza. Relativamente a noi, in Dio dobbiamo considerare due atti. L’uno, con cui vuole concederci queste e quelle grazie per condurci ad un certo grado di gloria, se però noi corrispondiamo a Lui con fedeltà. L’altro, con il quale Egli non vuole concederci ulteriori grazie e neppure elevarci ad un più alto grado di gloria. Pochi hanno coraggio e tanta fedeltà da corrispondere ai disegni di Dio ed arrivare con la loro cooperazione a quel punto di grazia e di gloria che Dio desidera. Dobbiamo aver tanta stima, tanto amore e sottomissione ai voleri di Dio, ai suoi giudizi, agli ordini della sua Provvidenza da non desiderare grazia né gloria maggiore di quella di cui Egli vuol farci dono, quand’anche fosse in nostro potere di averne quanta ne vorremmo.

 

Dobbiamo contentarci in questi limiti a causa dell’infinito rispetto che si deve nutrire per le disposizioni della Provvidenza divina

 

§ 2. Una seconda eccellente maniera di cercare Dio è quella di non cercare in ogni cosa altro fine che la gloria di Dio.

 

Nel campo degli studi questa massima ci suggerisce di non bramare di sapere se non ciò che tende al maggior servizio di Dio. Il demonio ha una scienza incomparabilmente superiore alla nostra; di fronte a lui però noi godiamo del vantaggio di poter indirizzare la nostra scienza alla maggior gloria di Dio; il che il demonio non può fare.

 

La stessa massima può applicarsi a tutte le nostre occupazioni ed, in generale, ad ogni cosa. Dobbiamo essere talmente staccati da noi stessi, dagli interessi, dai gusti, dalle inclinazioni, dai nostri progetti particolari, da trovarci disposti alla rinucia di tutto per il servizio di Dio, e per il conseguimento di quanto può essere di aiuto a cercare e a trovare Dio: poiché nulla è desiderabile in se stesso, se non Dio, e tutto il resto non è desiderabile che in rapporto a Dio. Di modo che applicarci è compiacerci nella ricerca di quanto non conduce al Signore è errore ed illusione.

 

Quando ci scostiamo da questa regola, preferendo ciò che ci torna più comodo a ciò che riesce di maggior gloria per Dio, agiamo come un re che vendesse il suo dominio per un bicchiere di acqua; del che non vi può essere pazzia peggiore, perché all’infuori degli interessi divini, tutto quaggiù non è che vanità e menzogna. Da ciò consegue che ogni giorno noi facciamo immense perdite; perdiamo infatti tanta gloria per noi quanta, potendolo, avremmo dovuto procurare a Dio.

 

§ 3.      C’è un terzo modo di cercare Dio, che è difficile da comprendersi se non è messo in pratica. Consiste nel ricercare non solo la sua volontà e la sua gloria, non solo i suoi doni e le sue grazie, non solo le sue consolazioni ed il gusto della devozione, ma nel ricercare Lui stesso, nel riposare in Lui solo, nel non gustare che Lui. In altre parole, se ci affezioniamo alle sue grazie e alle dolcezze sensibili, ci esponiamo a gravi periocoli e non arriveremo mai alla mèta a cui tendiamo. Ma quando cerchiamo unicamente Dio, allora ci troviamo sopra tutte le cose create e consideriamo come un nulla i trionfi, le grandezze dell’universo, perfino mille mondi; insomma tutto ciò che non è Dio.

 

La nostra massima cura e il continuo nostro impegno devono essere nel cercare Dio in questa maniera e finché non l’abbiamo trovato, non dobbiamo consacrarci alle attività esteriori a servizio del nostro prossimo, se non trattandosi di prime prove, se non per via di esperimento. Dobbiamo essere come quei cani da caccia, ai quali si allenta alquanto il guinzaglio. Soltanto quando saremo giunti al possesso di Dio potremo concedere una maggiore libertà al nostro zelo ed allora, in un sol giorno, guadagneremo di più che non prima, in dieci anni.

 

§ 4.      Quando un’anima ama soltanto Dio e non cerca che Lui, quando essa è così unita a Dio che non gusta che Lui e non trova riposo che in Lui solo, nulla può esserle causa di sofferenza. Ecco la ragione per cui i Santi, quando venivano perseguitati dagli uomini e vessati dai demoni, tenevano tutto ciò in nessun conto. Ricevevano i colpi dall’esterno, mentre l’interno rimaneva nella pace.

 

Finché non raggiungeremo questo felice stato, saremo sempre miserabili. Anche se ornato di gioie e di pietre preziose, un corpo non vivificato da un’anima, rimane preda della corruzione, è un cadavere totalmente infetto. Così nulla potrà impedire ad un’anima di essere infelice quando non possiede Dio, anche se è ornata di tutte le prerogative che essa può ambire.

 

Il mezzo migliore di superare le seduzione delle creature, quando ci presentano i loro allettamenti nelle tentazioni, è di rifugiarci subito in Dio, gustare Dio con qualche pensiero di pietà, invece di perdere tempo per combattere e disputare contro le lusinghe della tentazione: il che è certamente più molesto e pericoloso. La medesima linea di condotta va seguita anche nel primo incontro con le pene, con gli ostacoli, con le avversità.

 

La nostra sollecitudine dev’essere cercare Dio e la nostra mira riempirci di Lui. A ciò arriveremo dopo una completa purificazione dai nostri peccati. Intanto però dobbiamo sempre tendere, servendoci delle creature come di mezzi a questo fine, senza legare ad esse il nostro cuore.

 

§ 5.      È per noi un male assai grande il poter trovare soddisfazioni nelle creature, riguardo alle quali dovremmo coltivare solo disprezzo e distacco. Infatti facciamo gran caso di un impiego appariscente o comodo. Brighiamo per raggiungerlo, ed una volta arrivati, ci sentiamo contenti. Un nonnulla basta per accontentarci, come se Dio non fosse la nostra felicità. Invece non dobbiam stare troppo legati né avere un soverchio attaccamento, neppure ai doni soprannaturali di Dio[5]. È Lui solo che bisogna cercare; è in Lui solo che possiamo trovare la nostra quiete. Dio eccettuato, ogni essere non è che un nulla. Dio è il mio retaggio in eterno (Sal 62,26).

 

Il nostro Direttore, [aggiunge il P. Rigoleuc], non ci raccomanda nulla con tanta insistenza quanto di cercare in tutto esclusivamente Dio, senza indugiarci in nessuna cosa fuori di Lui, neppure nei suoi doni.

 

Art. 02: Necessità di consacrarsi interamente a Dio

 

§ 1.      Grande vantaggio per la perfezione è il servire Dio con animo generoso, con cuor largo e senza riserva. Paragonando la vita di un tiepido con quella di un fervoroso, facendo il computo dei loro giorni lieti e tristi, scopriremo che il primo avrà vissuto più ore infelici del secondo.

 

§ 2.      Pensate a due anime religiose: l’una che, consacratasi dagli inizi a Dio, si è proposta di non risparmiarsi nulla per la sua santificazione; l’altra che avanza a passi lenti, senza avere il coraggio di superare se non la metà degli ostacoli incontrati. Mettete a confronto la vita, tutta intera s’intende e non soltanto una parte, di quella e di questa e scorprirete che il tiepido ha avuto da inquietarsi di più del fervoroso: Non c’è afflizione ed infelicità nella loro condotta, dice il Profeta, parlando dei deboli, che non sanno consacrarsi con generosità a Dio. Rimane sconosciuta ad essi la via della pace (Sal 62,26).

 

La parola «via», in questa citazione, significa la disposizione interiore di chi, resistendo a Dio, non ha nel suo intento che afflizioni ed angustie di spirito. Egli non è contento che apparentemente ed alla superficie del suo spirito anziché nell’intimo del cuore, dove i fervorosi gustano la pace, parola che in ebraico indica l’abbondanza di ogni bene.

 

Del resto è una spregevole infedeltà l’accontentarsi di una limitata perfezione che possiamo aver acquistato, essendo noi chiamati ad uno stato, in cui ci è possibile sperare tutto da Dio, se corrispondiamo fedelmente alla grazia della nostra vocazione.

 

§ 3.      Noi rimaniamo anni interi, e talvolta anche tutta la vita, indecisi se consacrarci interamente a Dio. Non possiamo indurci a fare il sacrificio completo. Ci riserviamo affetti, progetti, desideri, speranze, pretese, di cui non ci vogliamo spogliare per non trovarci nel più completo distacco di spirito, che è il requisito indispensabile per essere pienamente posseduti da Dio.

 

Sono questi altrettanti lacci con cui il nemico ci tiene legati per impedirci di avanzare nella perfezione. Nell’ora della morte riconosceremo l’inganno e vedremo che, come fanciulli, ci saremo lasciati illudere da bazzecole.

 

Per anni interi combattiamo contro Dio e opponiamo resistenza agli impulsi della sua grazia, che ci spingono interiormente a lasciare una parte delle nostre miserie, abbandonando i vani diletti che ci sono di impedimento per consacrarci a Lui senza riserva e indugio. Ma sotto la tirannia dell’amor proprio, resi ciechi dalla nostra ignoranza, trattenuti da fallaci timori, non abbiamo l’ardire di superare il varco e, per paura di essere infelici, restiamo davvero miseri per sempre, invece di consacrarci pienamente a Dio, che ci vuol possedere soltanto per liberarci dalle nostre miserie.

 

Dobbiamo dunque una buona volta rinunciare ad ogni nostro interesse ad ogni soddisfazione, ai progetti ed ai nostri voleri, per non dipendere più, d’ora innanzi, che dal beneplacito di Dio e per affidarci pienamente a Lui.

 

Art. 03: L’astuzia e la finzione allontanano da Dio

 

Lo Spirito Santo che è il maestro della sapienza, fugge la finzione (Sap 1,5), dice la Santa Scrittura. Non faremo mai progressi, se non avanzando nella sincerità davanti a Dio e davanti agli uomini.

 

§ 1.      Gli uomini sono infinitamente ripieni di menzogna. Ci nascondiamo a noi stessi ed agli altri, rifugiandoci incessantemente sotto false apparenze. È questo un difetto che tentiamo di riconoscere meno degli altri. Non dovremmo mai ricorrere né a scuse né a palliativi in cosa alcuna. Simili doppiezze ed artifici dell’amor proprio allontano sommamente dal Signore.

 

§ 2.      Un’anima ammaliziata e che nei rapporti col prossimo si serve dell’astuzia e della scaltrezza non formula quasi mai alcun progetto, non accoglie in sé nessun pensiero che non sia peccato, poiché le sue mire ad altro non tendono che ad ingannare il prossimo. Una tale condotta è una continua menzogna. Essa è in un’opposizione ininterrotta con Dio e sembra implicitamente negare il provvido governo del Signore sui cuori.

 

§ 3.      Non dobbiamo usare mai scaltrezza od astuzia quando trattiamo coi Superiori nelle disposizioni riguardanti gli uffici a noi destinati e neppure in altra materia od occasione: perché tutto ciò è prudenza della carne, riprovata da Nostro Signore. La prudenza della carne è morte. La sapienza dello Spirito è vita e pace (Rm 8,6).

 

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Secondo principio: La Perfezione

Parte Prima: La perfezione in generale

 

Capitolo 02: Principali mezzi di perfezione

 

Art. 01: I Sacramenti sono i mezzi principali per conseguire la perfezione

 

§ 1.      Quando ai Sacramenti si premette la debita preparazione, essi diventano i principali veicoli di perfezione. Eppure, cosa sorprendente!, sembra che si trascurino troppo questi potenti sussidi. Essi conferiscono grazie che mirano a produrre in noi gli effetti particolari di ciascuno di essi: la Confessione produce una grande purezza di cuore e la Comunione produce una stretta unione con Dio ed i fervore di spirito nelle nostre azioni.

 

§ 2.      È un fatto dimostrato dall’esperienza, che al progresso delle anime nulla contribuisce di più della Confessione e Comunione quotidiana, supposto agli inizi della vita di perfezione si siano fatte delle buone Confessioni: perché quanto più vi accostate a questi Sacramenti, tante più grazie riceverete per partecipare ai loro effetti. Ora gli effetti propri di questi due Sacramenti, la purezza del cuore ed il fervore di spirito, sono la miglior preparazione che si possa premettere per riceverli.

 

§ 3.      Un’anima che prima della Comunione si trovava debole, languida, nelle tenebre, e che dopo aver ricevuto l’Eucaristia si sente illuminata, fervida, vigorosa, non può dubitare del frutto della sua Comunione, perché l’effetto dei Sacramenti è di rendere partecipi le anime della grazia che loro è propria e che è chiamata grazia sacramentale. Così, dopo una Confessione ben fatta, l’anima riceve una grande luce per conoscere il suo stato interno, un’umile ed amorosa contrizione, una pace e una tranquillità di coscienza.

 

Dopo una buona Confessione si prova un vero gusto di Dio ed un nuovo vigore per consacrarsi al suo servizio.

 

 

Art. 02: Come regolarsi nelle mortificazioni

 

Il criterio da seguire nelle mortificazioni è di non farne così tante, che la salute ne abbia da soffrire; né così poche, che la ribellione della natura si faccia sentire troppo vivamente. Quando si raggiunge un alto grado di perfezione, se ne fanno molte con una certa facilità; se ne abbracciano pure delle eroiche, come seppero fare i Santi per uno speciale favore del Signore. Le mortificazioni più nocive sono quelle che privano del sonno, per quanto Dio conceda alle persone più perfette anche la grazia di dormir poco.

 

Appare così che la misura delle mortificazioni è variabile, secondo la diversità dei problemi spirituali, delle complessioni, della età, delle condizioni, dei tempi e dei bisogni.

 

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Secondo principio: La Perfezione

Parte Prima: La perfezione in generale

 

Capitolo 03: Pratica delle virtù più necessarie alla perfezione 

 

Art. 01: La Fede

 

§ 1.      Siccome la Fede, dopo la chiara visione di Dio, è la più eccellente partecipazione della Sapienza increata, essa non deve appoggiarsi su ragioni naturali e neppure sopra invenzioni umane. Al più, queste risorse create possono servire a superare le nostre ripugnanze e contraddizioni, a svincolarci dalla nostra sventatezza e a disporre il nostro spirito a credere; ma non devono certo servirc di appoggio alla verità della nostra Fede: poiché la Fede implica tutta l’autorità di Dio, ha per fondamento la sua sovrana infinita Sapienza, per cui Egli non può essere ingannato, e la sua infinita fedeltà, per cui non può ingannarci.

 

§ 2.      Alcuni tremano di fronte alle verità della Fede, rifuggendo dall’applicarvisi, sebbene le accettino senza alcun dubbio; ma evitano di pensarvi, perché non ne hanno preso l’abitudine. È questo un grande errore, e alla loro morte il demonio li potrà attaccare da questo loro lato debole.

 

§ 3.      La Fede comunica facilità all’esercizio di tutte le virtù, perché perfeziona le conoscenze che spingono la volontà all’azione, e perché, secondo l’insegnamento di S. Tommaso, risiede in parte nella volontà; così, per esempio, una nozione intorno alla temperanza, presa dalla Fede, mi farà esercitare un atto di temperanza con maggior facilità, che non la sola bellezza naturale di questa virtù, rendendo in pari tempo soprannaturale la mai azione.

 

Dobbiamo dunque cercare di fondarci ognor più sulla Fede, camminando sempre nella sua luce, sostituendola a quei criteri che lo spirito umano vuol formulare su ogni specie di argomenti, servendoci di lei come di una fiaccola e di principio direttivo di tutte le nostre azioni. Un solo atto di volontà, che poggia sulla Fede, vale più di molti sentimenti che hanno come base il proprio gusto spirituale.

 

§ 4.      Quando Dio vuol rendersi interamente padrone di un’anima, comincia col guadagnarsene l’intelligenza, comunicandole una Fede vivissima. Dalla mente discende nella volontà, poi nella memoria, nell’immaginazione, nell’appetito concupiscibile ed irascibile, guadagnandosi a poco a poco tutte queste facoltà. In seguito passa ai sensi e ai moti del corpo, ed in tal modo viene a possedere interamente la creatura nel suo interno e nel suo esterno: tutto ciò è opera della Fede, la quale abbraccia ogni virtù in modo eminente, come dicono i teologi, ed è il primo movente per farle agire. È questa la ragione per cui dobbiamo renderci familiare l’esercizio della Fede e lasciarci regolare da lei in ogni nostra azione.

 

§ 5.      È una triste realtà che, anche nella vita religiosa, alcuni, e spesso anche la maggioranza, non si regolino che sulla ragione umana e sulla prudenza naturale, servendosi della Fede quasi soltanto per non agire contro di lei. Si affaticano a perfezionare la ragione e il buon senso, senza darsi la pena di crescere nella Fede. Il che equivale veramente ad agire come chi, prendendosi oltremodo a curare l’educazione del suo servo, trascurasse quella del figlio.

 

§ 6.      Non c’è nulla che meglio dimostri come la ragione umana, da se stessa e senza la Fede, sia cieca e debole nel campo della perfezione morale, quanto il poco progresso che essa ha saputo fare fra tutte le genti prima della nascita di Gesù Cristo.

 

Sembra che i Romani siano stati i più saggi e perfetti fra tutti i popoli infedeli. La Santa Scrittura attribuisce ogni loro espansione e potenza alla saggezza e resistenza al dolore di cui erano forniti; e S. Agostino ritiene che Dio diede ad essi l’impero dell’universo quasi a ricompensa della loro virtù. Eppure, che cos’era la loro sapienza, ed a qual fine era essa rivolta? E quanta vanità, quanta corruzione nelle loro più pure e più sode virtù!

 

Art. 02: Quanto dispiaccia a Dio e porti danno a noi la poca confidenza in Lui

 

§ 1.      Una delle manifestazioni, nella quale noi priviamo maggiormente Dio della gloria che gli è dovuta, è la nostra poca confidenza in Lui: e l’origine di questo difetto sta nel non considerare abbastanza il dono che il Signore ci ha fatto nell’Incarnazione, e ciò che un Dio fatto uomo ha operato per gli uomini. Poiché Dio ha talmente amato il mondo, che ha dato il Figlio suo Unigenito (Gv 3,16); ed Egli, che non risparmiò nemmeno il proprio Figlio, avendolo dato a morte per tutti noi, che cosa potrà rifiutarci dopo un tale dono? (Rm 8,232).

 

Sarebbe già una prova ammirabile di misericordia e di bontà che il figlio di un re volesse morire per espiare il delitto di un vassallo da lui amato; ovvero che un re volesse sacrificare il proprio figlio per un favorito; ma che questo figlio accettasse di morire e che un tal padre ne decretasse la morte a favore dell’unico e mortale comune nemico, è un eccesso inconcepibile di misericordia e di bontà. Eppure è ciò che Dio ha fatto, sacrificando il suo divin Figlio per la natura umana che gli era nemica, non solo per salvarla, ma anche per elevarla alla grandezza delal Divinità. È ciò che ha fatto il Figlio di Dio, il quale, pur potendo salvare gli uomini con un sol motto, con una lacrima, con i suoi sospiri, ha voluto meritare per essi la grazia della salvezza con una morte così crudele e vergognosa, quale Egli appunto sopportò.

 

E dopo tante prove di misericordia, noi mancheremo di confidenza in Lui? Non dovremo sperare da un Redentore così pieno di bontà, che ci ha riscattati a prezzo del suo sangue, la liberazione dai nostri peccati e dalle nostre imperfezioni?

 

La diffidenza dispiace assai a Dio, specialmente nelle anime che sono state da Lui prevenute con grazie straordinarie. Fu in punizione di una leggera diffidenza che Mosè non entrò nella Terra Promessa. Morì in vista di questo paese che era stato termine di molte promesse e di ardenti desideri, ma non vi entrò ed il Signore non si lasciò piegare da alcuna preghiera.

 

§ 2.      Noi facciamo un torto a Dio, allorché gli diciamo: «Quando, o Signore, avrò la santa indifferenza? Quando riceverò il dono della preghiera?». Quasi che il Signore fosse povero od avaro dei suoi doni e Lui stesso non avesse intrapreso l’opera della nostra perfezione! Facciamoci un dovere di seguire i suoi voleri e di cooperare alle sue grazie; adoperiamoci inoltre per raggiungere la purezza del cuore, e stiamo sicuri ch’Egli non verrà mai meno.

 

§ 3.      Parecchi non arriveranno ad una grande perfezione, perché non hanno abbastanza speranza, che pure ci occorre grande stabile, fondata sulla grande misericordia ed infinita bontà del Signore oltre che sui meriti infiniti di Gesù Cristo. Voi solo o Signore, siete il fondamento della mia speranza (Sal 4,10).

 

§ 4.      Noi dobbiamo sperare  ed aspettarci da Dio grandi cose, poiché nostri sono i meriti di Gesù Cristo, e nutrire grandi speranze nel Signore è onorarlo altamente. Quanto più infatti speriamo in Lui, tanto più l’onoriamo.

 

Art. 03: L’umiltà

 

§ 1.      S. Lorenzo Giustiniani dice che non possiamo sapere che cos’è l’umiltà, se non l’abbiamo nel cuore. Non ci sono che le persone dal cuore umile che siano capaci di conoscerla; ecco perché Nostro Signore ha detto: «Imparate da Me che sono dolce e umile di cuore» (Mt 11,29).

 

Per acquistare l’umiltà bisogna prima di tutto che non tralasciamo mai nessuna di quelle azioni nelle quali noi la possiamo praticare secondo la nostra condizione, come pure bisogna attuarla nelle occasioni che si presentano, chiedendo a Dio i veri sentimenti di umiltà per ben praticare le azioni esterne di questa virtù, che talvolta si compiono per vanità.

 

In secondo luogo è indispensabile fare molto frequentemente atti interni di umiltà, riconoscere il nostro nulla e le nostre miserie, amare la nostra meschinità, esercitare incessantemente un giudizio severo contro noi stessi, e condannarci interiormente, con tutto ciò che facciamo.

 

Non dobbiamo mai riprendere nessuno, se prima non ci siamo convinti e non abbiamo riconosciuto davanti a Dio che noi facciamo ancor peggio e che siamo peggiori di colui che riprendiamo.

 

Quando si è incaricati di qualche ufficio o di governo o di predicazione o di direzione, bisognerebbe prepararvisi con qualche esercizio pratico di umiltà, di mortificazione o di carità, come, per esempio, visitare i prigionieri od i poveri dell’ospedale, servire in cucina, ecc.

 

§ 2.      Le cariche umili e le incombenze di carità sono certamente le migliori, perché l’umiltà conserva in noi la pace ed i doni di Dio e perché la carità ci tiene occupati a favore del prossimo. Siamo umili, pazienti, mortificati, uniti a Dio che benedirà le nostre fatiche, i successi delle quali dipendono assolutamente dalla sua benedizione, senza della quale ogni nostro talento ed ogni nostra industria sono un nulla.

 

§ 3.      Dio riserva per Sé il dominio dei doni che ci elargisce, vuole averne la gloria solo Lui. Non ce li concede prr manifestare la nostra eccellenza, ma la sua. Noi non ne abbiamo né dobbiamo averne che il semplice uso, esclusivamente per la gloria sua e non per il nostro interesse. La stessa cosa deve dirsi di ogni sorta di grazie, di doni, di privilegi ed anche a proposito dei beni e dei talenti naturali.

 

Del bene che operiamo e di quello che possediamo Dio ci lascia il profitto e l’utilità, riservandosene perà la gloria: e non vuole che ce la attribuiamo. Noi non siamo contenti di questa ripartizione: perciò usurpiamo la parte di Dio, volendo la gloria ed il vantaggio dei nostri beni.

 

Questa ingiustizia è una forma di bestemmia, perché alla natura considerata in se stessa, come dobbiamo considerarla, è dovuto solo bassezza ed abbiezione. A ciò dovremmo tendere ed aspirare incessantemente con un desiderio e con una sete insaziabile, poiché in questo sta la nostra vera grandezza; tutto il resto non è che presunzione, illusione, vanità e peccato. Tanto che i veramente grandi davanti a Dio sono soltanto coloro nei quali è più vivo questo desiderio di abbiezione; sono coloro che camminano più illuminati nella verità; e sono tanto più somiglianti a Lui, quanto più non cercano, come Lui, che la sua gloria. Qui sta il bene proprio di Dio: la gloria infatti non appartiene che a Lui. In fondo l’uomo non è che un nulla e diventiamo ladri se ci attribuiamo qualche altra cosa. Siamo pazzi e ci nutriamo di vento se bramiamo la stima ed il plauso del mondo.

 

§ 4.      Ci formiamo una idea falsa dell’umiltà pensandola come una cosa che ci impiccolisca. In realtà essa fa tutto il contrario, poiché, dandoci un’esatta conoscenza di noi stessi ed essendo la pura verità, ci avvicina a Dio e, di conseguenza, ci apporta la vera grandezza, che noi invano cerchiamo fuori di Lui.

 

L’umiliazione ci abbassa solo nella stima degli uomini, il che non conta nulla; ma essa ci eleva invece nella stima di Dio; ed in ciò consiste la vera gloria.

 

Negli eventi umilianti, che riescono tanto penosi alla nostra natura, dobbiamo ricordarci che, mentre gli uomini ci vedono disprezzati, screditati, derisi, Dio ci vede sommamente esaltati; per le stesse cause che ci degradano agli occhi degli uomini, Gesù Cristo gode, vedendoci rivestiti della sua livrea, e gli Angeli ci invidiano questo onore.

 

§ 5.      Si potrà dire: «Non mi posso persuadere di essere un peccatore peggiore degli altri. Se io vengo meno ad un dovere, vedo altri che ne trasgrediscono parecchi: se io commetto certe mancanze, osservo altri che incorrono in mancanze più gravi».

 

La difficoltà che incontriamo ad aver un umile sentimento di noi stessi proviene dal fatto che non siamo ancora giunti ad un alto grado di vita spirituale. Possederemo questa virtù quando saremo più progrediti nella perfezione. In tutte le arti e in tutte le scienze ci sono segreti che sono conosciuti soltanto dai maestri. Così nella scienza dello spirito, che è certamente la più eccellente fra tutte perché di natura esclusivamente soprannaturale, vi sono principi la cui conoscenza è posseduta dai Santi, che sono i dottori di questo scibile divino. S. Francesco d’Assisi e S. Francesco Borgia erano maestri nell’umiltà. Si proclamavano i peggiori peccatori del mondo, non solo per modo di dire, ma con sincerità, nell’intimo dell’anima. Il loro cuore era persuaso di ciò che diceva la loro bocca.

 

Art. 04: L’amore alle croci

 

§ 1.      S. Ignazio martire aveva così radicato in cuore l’amore delle croci e del proprio annientamento che, condannato ad essere divorato dalle belve nell’anfiteatro, desiderava che i leoni, dopo avergli lacerato il corpo, consumassero le sue ossa, così che non rimanesse nulla dell’olocausto da lui consacrato a Dio, per essere suo degno discepolo. Stimava una vera felicità l’essere annientato nelle sofferenze, in maniera che non apparisse più nulla del suo corpo agli occhi del mondo. «Il mondo, dice, non vedrà più il mio corpo»; ed esulta di gioia a questo pensiero.

 

§ 2.      Come Nostro Signore ha redento il mondo soltanto con la croce, la morte e lo spargimento del suo sangue, e non con i miracoli e con la predicazione: così gli operai evangelici non applicano la grazia della redenzione che con le loro croci e con le persecuzioni che soffrono. Di conseguenza non si devono attendere copiosi frutti dai loro ministeri, se non a condizione che siano accompagnati da ostacoli, calunnie, ingiurie e sofferenze.

 

Alcuni si illudono di operare meraviglie perché dispongono di ottime prediche ben congegnate, diligentemente preparate, che sanno pronunciare con grazia e perché, molto accreditati, sono bene accolti ovunque. Costoro si illudono, i mezzi sui quali contano, non sono quelli di cui il Signore si serve per operare grandi cose. È attraverso la via della croce che Dio conduce gli Apostoli e le anime apostoliche, come S. Francesco Saverio, S. Ignazio, S. Vincenzo Ferreri, S. Domenico, dei quali si è servito per la salvezza delle anime.

 

§ 3.      Le nostre croci e afflizioni non devono essere considerate come mali che ci fanno soffrire, e neppure come mortificazioni che ci avviliscono agli occhi del mondo; ma devono essere considerate, seguendo l’esempio di Nostro Signore, nei disegni eterni di Dio, nelle disposizioni della sua Provvidenza, nelle mire del suo amore per noi, nel Cuore di Gesù Cristo, il quale le ha scelte per noi e ce le presenta come la materia con cui intreccia le corone per noi preparate e come una dimostrazione della nostra virtù e della fedeltà al suo santo servizio.

 

§ 4.      Agli inizi della vita spirituale non è conveniente ancora domandare al Signore di soffrire: dobbiamo invece aver cura di purificare la coscienza, consacrandoci alla purezza del cuore, alla conoscenza del proprio stato interno ed al raccoglimento. Per questa strada si ascende alla pace dell’anima ed alla comunicazione con Dio: in seguito poi, anche alle virtù infuse e ai doni dello Spirito Santo. Allora Iddio ispira i suoi disegni e i suoi voleri, guidando alcuni per la via delle fatiche, come S. Francesco  Saverio, altri per la strada delle sofferenze, come S. Liduina, o attraverso ostacoli e persecuzioni, come S. Ignazio; ma di nostra iniziativa non dobbiamo permetterci nessuna scelta particolare, altrimenti ci esporremo ad un continuo turbamento, non possedendo ancora una virtù capace di resistere alla prova delle croci; assomiglieremo a colui che si sobbarca ad un carico gigantesco, senza averne la forza. Ma quando noi ci impegneremo in cariche faticose, moleste ed umilianti, perché chiamati da Dio, allora le fatiche non ci stancheranno, le persecuzioni non ci turberanno, e spesso perfino le più severe austerità non saranno di rovina per la nostra salute. 

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Secondo principio: La Perfezione

Parte Seconda: La Perfezione propria della Compagnia di Gesù

 

Capitolo 01: In che consiste la perfezione propria della Compagnia

 

Art. 01: Il fine e lo spirito della Compagnia di Gesù. Mezzi per raggiungerli.

 

Dio Padre ha dato la Compagnia di Gesù al suo divin Figlio affinché Gesù Cristo sia da lei amato e onorato; ed il nostro Istituto imita ed onora tutti gli aspetti della vita del Redentore. Che se alcuni mancano a questo dovere, è colpa loro e non della Compagnia.

 

Siccome il fine della Compagnia è eccellente e sublime quant’altri mai, perché è il medesimo Figlio di Dio sulla terra, anche i mezzi diventano eccellentissimi; il nostro Istituto infatti abbraccia tutti quanti i mezzi di ordine soprannaturale come l’orazione, i Sacramenti, la predicazione; ed inoltre tutti quelli di ordine naturale, cioè attitudini particolari, ingegno, le scienze ed il modo di insegnarle. Ma questi mezzi naturali devono essere subordinati alla prudenza soprannaturale ed attingere la loro forza ed efficacia dalla più alta orazione.

 

È qui dove, se non stiamo attenti, veniamo a mancare di solito; proprio perché manca questa prudenza soprannaturale diamo troppa importanza ai mezzi naturali ed umani, applicandoci ad essi e ricercandoli, a scapito di quelli soprannaturali e divini. Ecco perché nei nostri ministeri non raccogliamo frutti; questo solo difetto è sufficiente per rovinare tutto il resto, non potendo sussistere nulla senza la grazia e la vita interiore.

 

Provoca molta meraviglia il vedere un religioso della Compagnia vivere a lungo nell’imperfezione anche perché a sua disposizione sono i medesimi mezzi di perfezione che si trovano a portata di tutti; ed è inconcepibile l’abuso e il numero delle grazie ch’egli deve aver consumato, particolarmente se è vissuto parecchi anni nella Compagnia.

 

Non appena il rilassamento si introduce nella via della perfezione ci si accontenta di una virtù mediocre, ecco che veniamo meno al fine a cui dobbiamo tendere e come religiosi, che è appunto il nostro perfezionamento, e come Gesuiti, che è la maggior gloria di Dio, la quale deve essere promossa da noi con la ricerca della nostra più alta perfezione e di quella del prossimo.

 

Una persona distinta diceva ad un nostro Padre a Parigi che non si meravigliava dello zelo, del fervore e della santità del P. Suffren, quanto piuttosto che non fossimo tutti come lui. Quanto bene potrebbe compiere un superiore che possedesse lo spirito interiore di questo santo religioso!

 

Il motto ignaziano «ad maiorem Dei gloriam» ci insegna a non mettere limiti ai nostri disegni nel campo della perfezione e della santità e a non dire mai: «Ora basta, sono contento, non voglio avanzare oltre», poiché per dovere di vocazione dobbiamo aspirare alla perfezione della vita apostolica e ad una virtù tutta evangelica.

 

Art. 02: La Compagnia appartiene a Gesù Cristo in quanto Salvatore

 

S. Ignazio bramava ardentemente di essere ammesso nella famiglia di Nostro Signore. Pregò la Madonna di ottenergli questo favore, che in seguito domandò all’Eterno Padre. I suoi desideri furono esauditi. Un giorno, durante un viaggio per Roma, a lui che, entrato in una Cappella [si tratta della famosa visione della Storta, una borgata a 15 km. da Roma, avvenuta nel novembre del 1537], s’era raccolto in preghiera, comparve l’Eterno Padre con Gesù Cristo che portava la croce e con la Vergine ed uno stuolo di Angeli e di Santi. Il Padre presentò e raccomandò Ignazio ed i suoi compagni al divin Figlio che li accolse con favore, promettendo che li avrebbe assistiti a Roma nell’esecuzione del progetto di consacrarsi al ministero apostolico. È nella sua qualità di Salvatore che Gesù Cristo ha accolto al suo servizio la Compagnia, per impegnarla a promuovere la salvezza delle anime; le ha inoltre assegnato il suo nome per attestare che l’associava alla missione che il suo nome di Salvatore ci ricorda.

 

Noi figli di S. Ignazio, dobbiamo considerarci come appartenenti al divin Salvatore, essendo della sua famiglia, consacrati per di più al suo servizio e, per amore di Lui, al servizio delle anime. A questo scopo, facciamo tre atti di zelo generoso:

 

1)      di gioia, per aver potuto servire ed onorare Nostro Signore secondo il suo merito, fin dal primo istante della nostra vita;

 

2)      di rincrescimento, per aver perso tanto tempo che avremmo potuto impiegare per conoscere, amare, servire Lui;

 

3)      di offerta, rinnovando la consacrazione di noi stessi al suo servizio in unione dell’amore che gli portano l’Eterno Padre e lo Spirito Santo e dell’onore, delle adorazioni che a Lui furono, sono o saranno tributate dalla Madonna, dagli Angeli e dai Santi in tutti i secoli.

 

Offriamogli il nostro corpo perché lo usi e lo consumi nell’adempimento dei suoi disegni; tutti gli istanti della nostra vita, fino all’ultimo, per impiegarli al suo servizio; l’anima nostra, abbandonandola alle disposizioni della sua Provvidenza; la nostra morte, augurandoci che ci colga consumati dagli eccessi delle fatiche per la sua gloria; la nostra resurrezione e il nostro stato di beatitudine, per amarlo e benedirlo in eterno.

 

Art. 03: S. Ignazio modello della perfezione della Compagnia

 

S. Ignazio è stato ugualmente eccellente sia nella vita attiva che in quella contemplativa, e si può dire che numerosi Santi non hanno avuto in grado eminente che una sola delle perfezioni da lui possedute in grado sovrano. Che austerità può essere superiore a quella da lui praticata nei primi anni della sua vita fervorosa? Quale grazia di castità può essere più eccezionale di quella di cui fu favorito dalla Vergine fin dalla sua conversione? Ci fu povertà volontaria più rigorosa di quella ch’egli conservò così a lungo ed in tanti viaggi non vivendo che di elemosine, come un mendicante? Quale umiltà fu più profonda di quella da lui esercitata, quando, per apprendere i primi rudimenti del latino in ben due riprese si abbassò a stare tra fanciulli, mentre era in una età molto avanzata? Ci fu pazienza più eroica di quella che seppe dimostrare in tante persecuzioni? Prudenza soprannaturale più perfetta di quella che notiamo nella sua condotta e nelle sue Costituzioni? Qual zelo più ardente e più vasto del suo? Quale costanza di umore inalterabile ed uguale? Quale orazione più sublime della sua? Ci fu familiarità più intima con Dio?

 

Contemplando un tale modello di perfezione che noi figli del santo Patriarca, dobbiamo imitare, troviamo un serio motivo di confusione, considerando le poche virtù acquistate ed il poco bene che facciamo in uno stato così apostolico. Ma quelli che si lasciano affascinare dai falsi splendori delle apparenze passeggere del mondo come fossero dei secolari, non comprendono la loro miseria. Che confusione proveranno nell’altra vita, se non si danno pensiero di questo loro stato!

 

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Secondo principio: La Perfezione

Parte Seconda: La Perfezione propria della Compagnia di Gesù

 

Capitolo 02: Diverse disposizioni dei religiosi di fronte alla perfezione 

 

Tra i religiosi si possono distinguere tre categorie. I primi non rifiutano nulla ai loro sensi. Hanno freddo? Si riscaldano. Hanno fame? Mangiano. Passa per la loro mente un qualche sollievo? Se lo concedono, senza sapere quasi in pratica cosa sia il mortificarsi. Quanto ai loro ministeri, essi li compiono con trascuratezza, senza spirito interiore, senza gusto e frutto.

 

Costoro vivono in pericolo di peccato mortale e talvolta anzi sono effettivamente in peccato, per quanto non se ne accorgano, non rinnegandosi mai seriamente in se stessi e non esaminando che superficialmente lo stato della loro coscienza.

 

In questa profonda dimenticanza di sé, un’infinità di oggetti passa ogni giorno per il loro spirito, ed il loro cuore, dominato e come intontito dal trambusto delle cose mondane, nella sua dissipazione è incessantemente tradito dalle illusioni della natura e del demonio, di cui segue ciecamente gli impulsi.

 

Questi religiosi possono spesso trovarsi in maggior pericolo degli stessi secolari, perché questi ultimi, sapendo per esperienza che cascano qualche volta nel peccato mortale, diffidano di se stessi ed il loro timore li spinge a delle precauzioni. Ma i religiosi, confidando nel loro stato ed appoggiandosi sulla falsa presunzione che nella loro vita religiosa è raro che si pecchi mortalmente, vivono in una sicurezza ingannevole che li fa cedere senza ch’essi riescano mettersi in guardia: e per soffocare i rimorsi di coscienza, inventano menzogne, che li lusingano nel loro errore. Condizione pericolosa, questa, perché non si percepiscono le cadute.

 

I religiosi della seconda categoria evitano gli eccessi dei precedenti e si negano le soddisfazioni non ritenute necessarie, ma si lasciano però ingannare dalle apparenze di bene. Formano un progetto che ad essi va a genio e poi ricercano motivi di virtù per simulare la propria scelta e giustificare la loro condotta. Nei ministeri si applicano con cura a tutto ciò che è apparenza, ma con poco zelo interiore e con poco raccoglimento, lasciando troppa libertà ai loro sensi e trascurando la custodia del cuore.

 

Questi religiosi sono pieni di imperfezioni e di peccati veniali e spesso in pericolo di peccato mortale, perché, essendo fiacchi e non attingendo che una forza limitata dalla loro vita interiore, si lasciano vincere in quelle circostanze, in cui sarebbe pur facile riportare la vittoria, se l’interno fosse bene custodito.

 

Alla terza categoria appartengono i religiosi che sono perfetti perché spogli di ogni desiderio, indifferenti a tutto, contenti di ogni cosa e bramosi soltanto del beneplacito divino. Essi sanno unire l’esattezza esterna dell’azione con l’applicazione interiore dello spirito, vegliano sulla custodia del cuore, conservano la pace dell’anima, praticano il raccoglimento nella misura che l’obbedienza concede ad essi. Costoro ricevono tre insigni favori dalle tre divine Persone: dal Padre, come una forza invincibile nell’agire, nel soffrire, nel superare le tentazioni; dal Figlio, raggi e fulgori di verità che rischiarono incessantemente la loro anima; dallo Spirito Santo, fervore, dolcezza ed un’inebriante consolazione.

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Secondo principio: La Perfezione

Parte Seconda: La Perfezione propria della Compagnia di Gesù

 

Capitolo 03: Motivi che ci impegnano ad aver cura della nostra perfezione

 

Articolo 01: Il desiderio della salvezza

 

La salvezza di un religioso è inseparabilmente unita alla sua perfezione, di modo che, abbandonando la cura del suo progresso spirituale, si avvicina a poco a poco alla propria rovina e dannazione eterna. Che se non vi arriva, è perché Dio, volendolo salvare, lo previene con la sua misericordia prima della caduta. Tutti i maestri di spirito si trovano d’accordo sul principio che non progredire è retrocedere. Ma alcuni, dopo che hanno già segnato qualche progresso, talvolta passano poi un periodo abbastanza lungo senza accorgersi di retrocedere, perché ciò avviene quasi insensibilmente.

 

Articolo 02: L’ordine di uno zelo ben ordinato

 

La nostra prima cura e il principale nostro sforzo deve essere il raggiungimento della perfezione che dobbiamo preferire ad ogni altra occupazione; poi, distribuendo il restante delle nostre cure e delle risorse del nostro spirito, ci muoveremo al servizio del prossimo, per un impulso di vero zelo, regolato dalla prudenza.

 

Chi agisce diversamente, può ritenersi sicuro che, per quanto porti l’abito della Compagnia, non ne possiede affatto lo spirito, perché la regola e la nostra professione ci obbligano a tenere in maggior considerazione i mezzi di perfezione, coi quali ci uniamo a Dio, che non tutti gli altri esercizi, perché questi mezzi ci legano al Signore come strumenti alla causa principale, dalla quale dobbiamo ricevere il movimento. Tutto il resto, per questo motivo, deve regolarsi su ciò che è principale: la nostra vita interiore.

 

Una vocazione apostolica, come la nostra, esige da noi la rinuncia a tutte le amicizie, a tutte le conoscenze, a tutti gli studi che non ci servono affatto per elevarci a Dio o per condurre a Lui il prossimo.

 

Articolo 03: Il frutto delle nostre fatiche

 

Dio non si serve mai degli imperfetti per realizzare i suoi grandi disegni: Egli teme che ne subirebbero danno. Se infatti si servisse di costoro, essi prenderebbero da ciò motivo di insuperbire, e la vanità che dimostrerebbero sarebbe causa della loro rovina. Lavorate invece fermamente per la vostra perfezione, consacratevi a Dio, cercate esclusivamente di piacere a Lui: foste anche in un deserto, saprà ben trovarvi Lui e farvi compiere delle meraviglie, quand’anche per il vostro stato e la vostra vocazione non vi sentiste portati a ministeri della vita apostolica. Quanti vescovi, prelati e dottori ragguardevoli per sapere e prudenza vivevano al tempo di S. Bernardo! Tuttavia Dio non fissò il suo sguardo su di essi, ma andò a togliere dalla sua solitudine il santo abate di Chiaravalle per valersene negli affari più importanti della chiesa. Di quante opere buone di diverse specie fu strumento la Beata Maria dell’Incarnazione ! [1559 †1672, orsolina, famosa mistica].

 

Articolo 04: Persone che hanno interesse alla nostra perfezione

 

A chi interessa la nostra perfezione? Consideriamolo attentamente, ché ciò sarà per noi un potente impulso a diventare perfetti:

 

1)      Nostro signore che ha versato il suo sangue e sacrificato la sua vita per meritarci la perfezione a cui Dio ci destina e che non vuol perdere il frutto della sua morte.

 

2)      La Chiesa, alla quale saremmo ben più utili se avessimo raggiunto quel grado di santità a cui Dio ci ha chiamati.

 

3)      La Madonna, che ci ottiene tante grazie per renderci perfetti e che si aspetta che noi diventiamo un giorno la sua gloria e la sua corona.

 

4)      I nostri buoni Angeli, che si adoperano con tanto zelo per guidarci nelle vie della perfezione, onde averci compagni nella felice eternità.

 

5)      S. Ignazio, i nostri Santi patroni e gli altri amici che abbiamo in Cielo, i quali desiderano con ardore che noi seguiamo le loro tracce, mentre ci assistono così potentemente con la loro intercessione.

 

6)      Le anime del Purgatorio, che riceverebbero molto maggior aiuto da parte nostra se noi fossimo più perfetti.

 

7)      La nostra famiglia religiosa, che noi serviremmo assai meglio se avessimo maggior unione con Dio.

 

Dal Signore ci saranno mostrate tante anime che Egli avrebbe salvato, se fossimo stati strumenti perfetti della sua gloria. Quante ce ne farà vedere, alla cui santificazione avremmo contribuito, se a nostra volta fossimo stati più santi! Quante altre saranno trattenute più a lungo in Purgatorio, le quali avrebbero raggiunto più in fretta la loro liberazione per nostra intercessione, se fossimo stati di maggior merito davanti al Signore!

 

Chi potrebbe dire fin dove arriverebbe l’efficacia del nostro ministero, se fosse animato da una perfetta carità?

 

Le persone che noi potremmo conquistare a Dio, guadagnerebbero altre anime, le quali, a loro volta santificherebbero altre ancora, e così per un lunga serie di anni. Se ciò non avviene, è colpa nostra: renderemo un giorno conto a Dio di tutto questo bene mancato; ma noi siamo così ciechi, che non comprendiamo queste cose.

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Secondo principio: La Perfezione

Parte Seconda: La Perfezione propria della Compagnia di Gesù

 

Capitolo 04: Mezzi di perfezione propri della nostra Compagnia

 

Articolo 01: In che senso dev’essere praticata l’orazione nella Compagnia

 

La meditazione è un discorso che tende a perfezionare la volontà e a renderla più santa.

 

Perciò non è puramente speculativa, come la contemplazione dei filosofi. Essa invece ha un carattere di praticità, perché serve:

 

1)      a migliorare la volontà e regolare le altre potenze dell’anima;

 

2)      a produrre diversi atti interni che siano di impulso alle azioni esterne affinché queste si conformino al modello che ci siamo proposto.

 

L’orazione propria della Compagnia è pratica nell’un senso e nell’altro, e chi volesse pretendere che non basta ch’essa sia pratica nel primo senso, ma che è necessario che lo sia anche nel secondo; avrebbe torto; perché si dovrebbe concludere che la contemplazione non è nelle consuetudini della Compagnia: il che è falso.

 

L’angustiarsi nell’orazione per indirizzarla esclusivamente alla pratica è un errore. Ci diamo premura per vedere come agiremo in questa od in quella circostanza, per esempio quali atti di umiltà faremo. Una simile via per raggiungere la virtù diventa estenuante e capace di provocare disgusto. Non è che non sia un bene esercitarsi in questa maniera nell’orazione, prevedendo le occasioni e preparandovisi; ma ciò si deve fare con santa libertà di spirito, senza rifiutare di raccoglierci con semplicità nell’orazione, quando se ne prova l’attrattiva, perché in questo caso Nostro Signore in un sol esercizio di contemplazione comunicherà all’anima una virtù od anche numerose virtù in un eminente grado, che non si acquisterebbero in parecchi anni coi soliti mezzi esteriori. S. Paolo eremita possedeva, anche senza esercitarle, le virtù della pazienza e della carità verso il prossimo. Bisogna approfittare con calma delle occasioni di praticare la virtù, per esempio l’umiltà, quando si presentano e di cercare anche, senza agitazione, l’attuazione di qualche atto di questa virtù; rimandando il resto all’ orazione. Dev’essere considerata come l’orazione pratica e non speculativa che eleva l’anima alla carità, alla religione, all’umiltà, ecc. per quanto questi sentimenti rimangono nel proprio interno senza terminare ad atti esterni.

 

Articolo 02: L’obbedienza e l’osservanza esatta delle regole della Compagnia.

                     Motivi che ci spingono a queste virtù

 

La Compagnia di Gesù, dice il Suarez, è la più severa di tutte le famiglie religiose pur non essendo la più austera. Non vi può essere infatti maggior precisione nella disciplina imposta dalla regola; tutto inoltre dipende dalla sola volontà di un superiore: dimora, carica, modo di comportarsi; il che è sorgente di grande consolazione per noi e di alta perfezione.

 

Quando noi siamo nello stato che Dio ci ha destinato, al posto fissatoci da Lui, le grazie ch’Egli ci concede manifestano la volontà sua nei nostri riguardi. Il Signore agli incarichi dell’obbedienza annette in modo tale le grazie con cui vuole condurci a salvezza che, finché vi rimaniamo, ci riempie di grazie: se da essi ci allontaniamo, Egli solitamente ci volta le spalle, finché per opera della sua misericordia vi ritorniamo.

 

Non ci deve importare molto che i superiori non ci siano affezionati; Dio opererà tutte le nostre vicende così che ci succederà senza fallo quello che Egli ha disposto per noi. E se talora permette, come pena dei nostri peccati, che i supeiori manchino di carità e di prudenza nella loro condotta a nostro riguardo, dopo una buona Confessione e penitenza delle mancanze che ci avranno attirato questa punizione, il Signore ci ripagherà due volte tanto lo svantaggio che potrà esserci capitato.

 

Perciò non dobbiamo brigare per avere superiori che siano amici o per guadagnare le loro simpatie, come anche non dobbiamo parlare ad essi per i nostri uffici, e neppure interporre altre persone che ne trattino a nostro favore.

 

Ma è nostro dovere abbandonarsi tra le braccia della Provvidenza del Signore; e se veniamo maltrattati dai superiori o da qualche altro, persuaderci:

 

1)      che ce lo siamo meritato, se non proprio ora, almeno in altre circostanze;

 

2)      rientrare in noi stessi e, se colpevoli, domandare perdono a Dio;

 

3)      ritenere quella che noi giudichiamo un’ingiuria fattaci, come uscita dalla mano di Dio che ora lo permette per il nostro bene e che aveva la volontà di permetterla prima ancora che i superiori o gli altri avessero in mente di recarcela;

 

4)      adorare con umiltà e dal profondo del cuore questa volontà di Dio e questa disposizione della sua divina Provvidenza, sottomettendoci ad essa con perfetta rassegnazione pensando che quello che è un effetto dell’odio e dell’invidia degli uomini per abbassarci, diventa un mezzo di cui si varrà la bontà del Signore per elevarci ad un altissimo grado di gloria, se a Lui rimaniamo fedeli. È ciò che ci dimostra l’esempio di Giuseppe ebreo e di Nostro Signore Gesù Cristo stesso. Impariamo dunque a consacrarci al servizio di Nostro Signore in un completo abbandono di noi stessi.

 

Chi pratica questi principi e obbedisce, può dire: Faccio ciò che compirebbe un Angelo, se fosse al mio posto; anzi ciò che farebbero la Madonna e Nostro Signore medesimo. Che santa audacia e che buon motivo di consolazione!

 

Si deve godere di una certa libertà nelle nostre devozioni ed azioni, di modo che abbiamo ad essere sempre pronti a staccarci da tutto, quando l’obbedienza o la carità ci chiamano altrove. Se, per esempio, nel tempo da noi fissato per il Rosario, venissimo chiamati per la Confessione di una persona o a rendere qualche altro servizio al prossimo, dobbiamo saper lasciare la nostra pratica di pietà per attendere all’opera di carità che ci si presenta.

 

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Secondo principio: La Perfezione

Parte Seconda: La Perfezione propria della Compagnia di Gesù

 

Capitolo 05: Zelo della salvezza e della perfezione del prossimo

 

Articolo 01: Perché dobbiamo essere zelanti

 

Se uno possiede dei beni materiali, e vedendo il fratello nel bisogno, gli chiude il cuore e l’animo, come può rimanere in lui l’amore di Dio (1Gv 3,17)

 

Questo brano dell’Apostolo prediletto di Gesù Cristo si estende anche ai beni spirituali e deve far tremare i religiosi e gli ecclesiastici che, resi partecipi con tanta abbondanza della scienza della salute e della conoscenza della grazia, vedono perire milioni di anime nell’ignoranza delle verità della fede, senza renderle partecipi della loro ricchezza e senza sentirsi scossi per la loro infelicità. Questo pensiero commoveva profondamente S. Francesco Saverio, come egli  stesso confessa in alcune sue lettere.

 

Articolo 02: Come dobbiamo servirci della scienza sull’esempio di S. Ignazio

 

Già pieno dello spirito del Signore, S. Ignazio si diede agli studi letterari per acquistarsi credito ed autorità nei ministeri della vita apostolica a cui si sentiva chiamato. Possedeva già la sapienza soprannaturale che gli bastava per insegnare agli altri le vie della  salvezza; ma lo zelo e la prudenza gli insegnarono ad unire a questa scienza, che gli era stata infusa, anche quella che si acquistò nella scuola, perché senza quest’ultima non gli avrebbero dato il permesso di dedicarsi all’istruzione del prossimo.

 

Non fanno forse il contrario alcuni fra noi? Vuoti come sono di vita interiore, li vediamo consacrati agli studi guidati da un criterio tutto umano, senza rettitudine e purezza d’intenzione, senza moderazione, forse anche per vanità, con l’occhio fisso già agli uffici, a cui li porta il proprio orgoglio e considerando la scienza come un mezzo per attuare le loro esigenze, in serio contrasto con lo spirito di S. Ignazio e con lo scopo che la Compagnia vuol raggiungere negli studi.

 

Che frutti dovrà apportare una scienza acquistata per vanità, mirando a scopi così opposti alla maggior gloria di Dio? S. Ignazio si serviva della scienza acquisita negli studi, perché la sapienza infusagli dal cielo trovasse maggior credito presso gli uomini. E si dovrà trovare qualcuno che, sprovvisto dei doni di grazia, si serve dei propri talenti di natura e della propria scienza per guadagnarsi la stima degli uomini?

 

Articolo 03: Quali sono i mezzi per mantenere la stima e l’autorità della Compagnia

 

I mezzi di cui occorre servirsi per mantenere ed accrescere l’autorità e la stima della Compagnia sono l’umiltà, la pratica delle virtù cristiane, lo zelo delle anime e non le visite e le amicizie dei grandi della terra.

 

S. Ignazio volle che il p. Laynez e gli altri primi Gesuiti si ricordassero scambievolmente ogni giorno i loro difetti, che attendessero al servizio dei poveri negli ospedali e catechizzassero i fanciulli. Il p. Laynez, già Provinciale della Provincia Romana, stava spiegando il catechismo, allorché s. Ignazio lo mandò per la seconda volta al Concilio di Trento come uno dei teologi del Papa. Il p. Antonio Araoz [che fu il primo Provinciale gesuita delle Castiglie. Di tendenza separatista, arrivò al punto di brigare presso il Papa, perché fosse nominato per le Provincie spagnole della Compagnia un Generale indipendente da quello di Roma] invece, seguendo nella Spagna un altro metodo di condotta, fu in procinto di rovinarci la Compagnia.

 

È incredibile come diverrebbero utili le nostre prestazioni, se fossero assecondate dalle benedizioni che gli ostacoli e le umiliazioni attirano dal cielo..

 

S. Ignazio nelle sue opere di zelo ha sofferto infinite prove di disprezzo e di persecuzione. S. Francesco Saverio, partendo per le Indie, non volle accettare le distinzioni che gli furono offerte, e siccome gli facevano presente che avrebbe avvilito la propria dignità di legato pontificio se si fosse lasciato sorprendere a lavarsi i propri indumenti e ad apparecchiarsi il pasto, rispose che era suo intendimento attendere al servizio di se stesso e degli altri senza disonorare la sua dignità né perdere l’autorità che la Santa Sede gli aveva affidato, ricodando come fossero stati questi vani rispetti umani e queste false idee di benessere che avevano condotto la Chiesa al presente doloroso stato.

 

Chi è maestro diventi capace di accettare da uno scolaro qualche piccola umiliazione, senza lasciar trapelare nessun indizio di risentimento. Dio sarà onorato da questo atto di pazienza e non mancherà di procurare una riparazione anche pubblica davanti alla scolaresca dell’ingiuria fatta al buon religioso.

 

Gli stessi mezzi, cioè quelli soprannaturali, che hanno servito a stabilire la Compagnia, devono conservarla nella sua vita e perfezionarla nella sua attività. Per questo non dobbiamo desiderare che i nostri padri diventino Cardinali o confessori di Re. Sarebbe commettere grave ingiuria contro Nostro Signore l’appoggiare sul favore dei potenti una Istituzione di cui Egli è così visibilmente l’autore, e l’attenderne la conservazione dalla protezione dei principi. Dio e la virtù conserveranno la Compagnia.

 

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 LOUIS LALLEMANT  –  La dottrina spirituale

 

Secondo principio: La Perfezione

Parte Seconda: La Perfezione propria della Compagnia di Gesù

 

Capitolo 06: Suggerimenti diversi

 

Articolo 01: Suggerimenti al Direttore dei giovani religiosi che escono dal Noviziato

 

La gloria di Dio esige che, appena usciti dal Noviziato, i nostri Fratelli si facciano avanzare nelle vie della perfezione propria della Compagnia. A questo scopo riusciranno utili i seguenti suggerimenti.

 

1) Bisogna che chi è resposabile della loro direzione anzitutto si renda conto del progresso già fatto nella vita interiore, e se hanno cominciato ad entrarvi veramente oppure se il loro profitto non consista semplicemente nel distacco dai peccati soliti per i giovani, con qualche sollecitudine per le proprie pratiche spirituali dell’orazione, della lettura spirituale, dell’esame di coscienza. Di solito non sono molto progrediti nell’orazione. Poi ci si deve accertare se sono ancora nell’ignoranza delle vie di Dio, non riconoscendo altra perfezione che quella da essi praticata od anche agendo senza nessuna idea di perfezione. Bisogna infine rendersi conto, nei limiti del possibile, della disposizione del loro spirito. Quest’ insieme di conoscenze è indispensabile per giudicare in qual modo si debbano guidare e per aiutarli a corrispondere ai disegni di Dio.

 

2) Mostrate ad essi una bontà paterna e cercate di guadagnarvi i loro cuori con ogni sorta di prestazioni, anche riguardo alle cose materiali, procurando loro, se vi è possibile, quelle di cui abbisognano. Poi, una volta che vi siete assicurati de loro affetto, dimostrate ad essi o zelo che avete per la loro perfezione, il vostro desiderio che appartengano intieramente a Dio, e la vostra volontà di contribuire a ciò nella misura del possibile.

 

3) Adoperatevi a riordinare la loro coscienza, liberandoli dal turbamento e dalle oscurità in cui si dibattono le anime che non sono ancora entrate nelle vie della perfezione. Per questo vi tornerà di vantaggio leggere sul libro degli Esercizi Spirituali del P. Gaudier, il trattato «De Reformatione vitæ». Per quanto poca sia la luce che Dio può far brillare nella loro anima, sarà sempre molta. Abbite riguardo e state sicuri che sarà molta, se il loro spirito, in seguito ad un diligente esame, giunge a rischiararsi alquanto. Il Signore comincia da umili inizi, dei quali dobbiamo sempre fare un grande conto, quando lo spirito della perfezione si è una buona volta radicato nell’anima.

 

4) Tosto che vi acorgerete che ssi cominciano ad uscire dalla loro oscurità, spingeteli ad una grande purezza di coscienza, come alla strada più indicata per arrivare sicuramente all’unione con Dio. Siccome è in vostro potere il farlo, permettete che si accostino con frequenza alla Confessione. Date loro come principio, di non tacere mai il minimo sbaglio che abbiano commesso con avvertenza ed anche di confessarsene tutte le volte che in esso ricadranno. Biasimateli anche qualche volta, prudentemente, quando hanno commesso degli sbagli, specialmente se lo sbaglio è di una certa gravità; e dovete applicare questo rimedio nella Confessione stessa, perché allora acquista maggior efficacia. Tuttavia non permettete mai che si allontanino, senza averli prima incoraggiati. Temperare l’amaro del rimprovero con la dolcezza dell’esortazione è la condotta che normalmente si deve seguire con le anime che sono ancora deboli, le quali vanni necessariamente trattare con tuti i riguardi possibili.

 

5) Istillare ad essi lo spirito di mortificazione, e fate che arrivino a non tener celato nulla di cui possano fae una pubblica accusa, raccomandando molto a loro questa pratica. Fate che concepiscano un’alta stima ed un vivo desiderio delle mrotificazioni corporali, così che ve ne domandino molte e ne concediate ad essi con frequenza, ma poche per volta, come, per esempio, darsi frequentemente la disciplina, ma solo nel breve spazio di un Pater o un’Ave. Fate loro comprendere che l’assidua pratica di queste leggere mortificazini serve assai per tenere la carne sottomessa allo spirito e lo spirito a Dio; ma abbaite cura che ne usino con prudente moderazione. Se ne doveste permettere molte, la più piccola tentazione potrebbe provocare in essi il disgusto, e di conseguenza arriverebbero con facilità ad avere in orrore la vita spirituale. Inoltre è opportuno nell’accordare ad essi questi permessi che vi comportiate in modo tale da accorgersi che voi li concedete con stento. Con questo mezzo togliete dalla loro mente un pensiero che si affaccia a parecchi, impedendo di progredire nella via del bene.

 

6) Seppiateli mantenere in un grande distacco da ogni cosa. Il che non sarà difficile, se dall’inizio con avvedutezza riuscite a svincolarli da certi piccoli attacchi che hanno la loro radice nell’istinto della natura, come, ad esempio, preferire uan camera ad un’altra, conservare con attaccamento disordinato delle immagini o per la loro bellezza o per affetto alle persone da cui le hanno ricevute. Fate loro comprendere i grandi vantaggi di cui godono le anime che sono staccate da tutto. Persuadeteli ad accontentarsi, secondo la Regola, di ciò che di peggio c’è nella casa; si abituino a domandarlo e siano contenti di essere i peggio provvisti. Con discrezione, dovete procurare ad essi le occasioni di praticare questo distacco, e quando ne troverete qualcuno di animo generoso, fatelo passare pure per prove un po’ notevoli.

 

7) Mettetevi bene in guardia dal dimostrare una maggiore simpatia all’uno o all’altro. Uguale con tutti sia il vostro affetto e la vostra mitezza, rendendo con tutta la tenerezza ad essi i servigi che la Regola e l’obbedienza vi permettono. State sicuri di aver contribuito di più alla loro perfezione, guadagnandovene il cuore, che se aveste tenuto le migliori istruzioni. Saranno obbligati così a nutrire verso di voi un amore reciproco ed una filiale confidenza che li spingerà ad aprirvi tutto il cuore e ad affidarvi lealmente i loro piccoli interessi. È di somma importanza che non diate ascolto ai lamenti degli uni contro gli altri e che teniate in nessun conto delle delazioni che vi potrebbero fare. Non c’è nulla che rechi maggior pregiudizio alla pace ed alla unione della carità, che voi dovete conservare tra essi.

 

8) Distribuite ad essi gli impegni di studio con una moderazione tale da non precipitarli nell’affanno del lavoro: d’altra parte però non lasciate ad essi troppo tempo libero. Non assegnate mai ad essi un compito per un determinato periodo di tempo, come per esempio un lavoo da compiersi in un giorno od in una settimana. Oltre le passioni cattive ed i peccati, nulla è tanto nocivo per un’anima quanto l’affanno del lavoro quando si ha premura di condurre a termine un determinato studio entro un tempo limitato. Col pretesto di produrre il progresso di questi giovani nelle scienze, voi riuscirete di ostacolo in essi allo spirito di Dio, distogliendoli dalle sue vie per esporli in quelle della natura, in un stato estraneo e contrario alle loro vocazioni. Dio vuole possederli senza intralci ed in una piena libertà; nelle sue operazioni ha come scopo di distaccarli dal secolo e dalle cose temporali, per unirseli e per consacrarli ai soli interessi del suo amore e del suo servizio.

 

9) Vigilate perché non si lascino legare da amicizia particolare con qualcuno, in casa o fuori. Con simili legami non potranno progredire nella virtù. Dimostratevi forte perciò contro tutti i piccoli rapporti, che aprono la via a questa specie di affetti. Se poi doveste osservare che alcuni, sinceramente desiderosi della propria perfezione, riuscissero ad avere giovamento dalla compagnia di altri, non bisognerebbe distoglierli dal trovarsi con costoro, a condizione però che le persone con cui trattano siano effettivamente capaci di giovare al loro progresso.

 

10) Fate in modo che abbiano un alto rispetto ed una grande deferenza vicendevole, come se fossero principi che, amandosi teneramente, non si dovessero ritrovare insieme che una sola volta in vita, o come se trattassero con Nostro Signore. Questo modo serio e religioso di trattarsi, questo spirito di santa cortesia è sommamente gradito a Dio, e bandisce dal proprio tratto le molte puerilità ed i numerosi difeti, in cui si incorre di solito, quando ci si abbandona al proprio temperamento.

 

Ecco le norme generali che li possono disporre ad essere condotti dallo Spirito di Dio. Osservate poi in quale direzione li piega l’attrattiva della grazia: se allo spirito di mortificazione od in particolare all’orrore di qualche loro vizio o all’amore di qualche virtù: e dopo che avrete scoperto in questo campo i disegni di Dio, assecondatene l’opera, dando loro le istruzioni opportune per combattere quel vizio o per praticare quella virtù. E una volta che avranno ricevuto luce su ciò, comandate ad essi che, dopo una Comunione, vi indichino per iscritto a quali atti di quella virtù essi sentono attrattiva maggiore, e di quali manifestazioni di quel vizio intendono disfarsi. Tenere sempre in grande stima ciò che attesteranno come suggerito ad essi da Dio, a meno che evidentemente non scopriate qualche tentazione o qualche inganno del maligno.

 

Alle volte si può credere che queste anime non ricavino nessun profitto: in questo caso si deve con calma esaminare la loro condotta, studiare la preparazione che premettono all’orazione, alla Confessione, alla Comunione; esortarlia qualche pia pratica, alla devozione alla Madonna e a S. Giuseppe, a quella dell’Angelo Custode; obbligarli a ripensare di quando in quando ciò che avrete raccomandato a loro, di cui fate sempre un semplice richiamo quando vi incontrate con essi, per eccitarli sempre più alla santa fatica iniziata.

 

Art. 02: Suggerimenti ai Padri del terz’anno per il tempo del loro noviziato

 

§ 1.      Il terz’anno di noviziato è di tale importanza, che Dio soltanto ed i Padri direttori sanno come sia necessario, non solo per la loro perfezione, ma per la salvezza stessi dei nostri religiosi; ed è per un giusto motivo che il nostro Padre Generale non vuol dispensare nessuno.

 

È un anno di ritiro spirituale; bisogna passarlo nel silenzio e nel raccoglimento. Tutti quelli che vi arrivano senza seria decisione di rimanervi volentieri, e di evitare tutte le occasioni di parlare, di conversare, di distrarsi, non guadagneranno molto, perché è necessario fuggire le occasioni, quando la virtù è ancora debole.

 

Dopo questo anno di vita raccolta, passeremo il resto dei nostri giorni nei ministeri della vita attiva; non ci appliceremo mai troppo allora alla vita interiore durante questo periodo.

 

Nella maggior parte dei Santi e dei Religiosi che arrivano alla perfezione sono due le conversioni che si riscontrano: la prima quando si decidono al servizio di Dio; la seconda quando si consacrano interamente alla perfezione. Lo possiamo vedere negli Apostoli, la prima quando Nostro Signore li chiamò, la seconda quando inviò lo Spirito Santo; ed anche in S. Teresa, nel P. Alvarez suo confessore ed in molti altri. Purtroppo questa seconda conversione non avviene in tutit i Religiosi; ma la cuasa sta tutta nella loro negligenza. Il terzo anno di noviziato di solito è per noi della Compagnia il tempo di questa seconda conversione. Animiamoci perciò allora di un nuovo coraggio, non risparmiandoci fatiche al servizio del Signore, perché nessun altro periodo della nostra vita religiosa la nostra conversione ci presenterà maggiori difficoltà che agli inizi di questo terzo anno. A poco a poco essa andrà diventando agevole e le difficoltà si appianeranno. Infatti riceveremo maggiori grazie, a misura che il nostro cuore si purificherà sempre di più.

 

§ 2.      Tre sono le cose a cui ci impegnamo particolarmente nella Compagnia. La prima è l’amore di Nostro Signore, che noi dobbiamo riconoscere come Fondatore, il quale si è servito di S. Ignazio come di un ambasciatore.

 

La seconda è un disprezzo sincero di noi stessi che ci faccia bramare di essere messi da parte, all’ultimo posto in tutto, distogliendo ogni nostro desiderio dalle cariche onorifiche, dai clamorosi successi e dalla considerazione degli uomini. Se avremo la pretesa di fermarci in uno stato di mediocre virtù, senza il vero amore e la sincera ricerca della nostra abbiezione, non saremo mai preparati alle grazie sublimi, che il Signore ci concederebbe, se non trovasse in noi questo impedimento. Soltanto attingendo nel Cuore di Gesù Cristo, entrandovi sovente per contemplare il Verbo annientato e la sua santissima umanità, pure annientata nell’Eucaristia, potremo conseguire questo amore e questo desiderio del disprezzo.

 

La terza cosa è la vita interiore o spirito di raccoglimento. A quanti sostengono che c’è il pericolo che essa riesca di intralcio alle opere di zelo a cui siamo tenuti per vocazione, rispondo che da questa vita interiore deriverà un grande vantaggio al nostro ministero, essend cosa provata che un uomo di orazione otterrà in un anno più copiosi frutti che un altro in tutta la sua esistenza.

 

Dobbiamo domandare incessantemente queste tre grazie a Dio, a Nostro Signore e a S. Ignazio, soprattutto nell’ottava della sua festa.

 

§ 3.      Durante il corso della vita, a tre cose dobbiamo atendere:

 

La prima, è l’amore di Dio. Parecchi, anche fra coloro che sono ritenuti i più perfetti religiosi, passano il loro tempo nelle occupazioni del servizio di Dio senza innalzare quasi mai, o almeno molto raramente, la loro mente a Dio. Ma che è mai ogni cosa che ci possa occupare, ad eccezione del Signore, messa aconfronto con Dio? Tutto ciò che non è Dio, è un nulla. La maestà di un Dio è un qualche cosa di così sublime, che se un uomo avesse fatto e sofferto per la gloria di Lui tutto ciò che gli uomini hanno fatto e sopportato dagli inizi del mondo, non sarebbe ancora nulla per la sua divina maestà. Tali erano i sentimenti dei Santi.

 

La seconda è un disprezzo continuo di noi stessi, di quanto ci porta al peccato, considerandoci come una sentina ed una cloaca di tutti i mali.

 

La terza è l’orrore e la detestazione del peccato e delle nostre zioni, di tutto ciò che ci riguarda, con un odio santo di tutto ciò che in noi è contrario a Dio.

 

A due occupazioni dobbiamo incessantemente dedicare la nostra vita: a purgarci sempre più dai peccati veniali, a cercare Dio, sia con l’orazione, impiegandovi tutto il tempo che ci rimane libero, sia con il fervore e la fedeltà nell’adempiere i doveri assegnati dall’obbedienza, senza permettere che nel cuore sorga attacco, affetto, desiderio per altri luoghi o per altre occupazioni diverse da quelle che i superiori ci prescrivono. Per arrivare a tanto è indispensabile il dono della preghiera.

 

§ 4.      La nostra vita spirituale ha tre particolari necessità in tutto il suo svolgersi. La prima è di ricercare continuamente la purezza del cuore, ottenuta dalla conoscenza e mortificazione indefessa delle passioni.

 

La seconda è di abbandonarsi sempre più alla conoscenza ed all’amore di Nostro Signore, senza i lquae non potremo avere una spiritualità soda ed elevata.

 

La terza è di non indugiarci nel gusto e nella contemplazione piacevole dei lumi e dei sentimenti che Dio ci comunica, perché è perfettamente inutile perder tempo nella contempalione di grazie che producono il loro efetto dal primo momento in cui sono concesse: ciò non farebbe che aumentare l’amor proprio. Non dobbiamo riflettere su ciò che Dio opera in noi, se non per rassicurarci del bene che Egli ispira, per sentirsi confusi davanti al favore che ci concede, per mettere in pratica l’abnegazione che esige il nostro attacco a Dio solo e non ai suoi doni.

 

[Ciò che continuamente il P. Direttore ci raccomanda, aggiunge il P Rigoleuc, è la purezza del cuore, i raccoglimento, la preghiera; come pure di evitare i peccati veniali e di non darci all’azione che in una misura limitata, a meno che l’obbedienza non ci obblighi a maggiore attività; di dedicarci ai più bassi e disprezzati esercizi di umiltà; di conservare sempre una grande libertà di spirito].

 

Art. 03: Suggerimenti ai Padri del terzo anno alla fine del loro noviziato

 

per premunire santamente il resto della loro vita

 

Pericolosissimo è il tempo che segue immediatamenteil terzo anno, e particolarmente i primi tre o quattro mesi. È un tempo di crisi, da cui dipende tutto l’avvenire. La vita metodica e fervorosa, di cui si dà prova, non può piacere a coloro che non hanno una coscienza così fine. Poi non sempre c’è il coraggio di aderire con costanza alla perfezione; si teme di spiacere agli uomini, ci si stanca d’andar contro corrente, ci si lascia andare, si cade, poi ci si rialza; si ritorna a cadere ed infine veniamo ad incontrarci in qualche oggetto che esercita tale potere su di noi, che a poco a poco fa sfumare tutti i buoni propositi che avevamo formulato; in breve tempo si scopre di essere ritornati all’antico stato e come prima ci accompagnamo alla massa degli imperfetti.

 

Dopo il terzo anno dobbiamo conservarci soprattutto in una grande purezza di cuore con la fuga dei più piccoli peccati veniali ed anche in una vera libertà di spirito con la mortificazione di ogni specie di affetti disordinati e di attacchi alle creature, al punto da non desiderare neppure un numero di grazie maggiore di quello che Dio ha fissato di darci.

 

Esaminiamo spesso la situazione dell’anima nostra e vediamo se non ci sia qualche affanno, qualche turbamento o movimento disordinato. Trovandoci troppo aggravati da occupazioni, domandiamo al superiore di esserne alleggeriti, almeno parzialmente, per un certo tempo.

 

Abbandoniamo quelle che non ci sono imposte; in compenso aumentiamo con maggior cura la vigilanza su noi stessi e fortifichiamoci ognor più con la preghiera e con le altre pratiche di pietà e di mortificazione.

 

Pià spesso e con maggior zelo, dice il P. Rigoleuc, ci suggeriva raccomandazioni sui punti seguenti:

 

1) La purezza del cuore, che si acquata con una atenta vigilanza sul nostro interno e con la Confessione quotidiana, di cui dobbiamo fare gran conto. Più infatti ci si confessa e più ci si purifica, perché la grazia propria di questo Sacramento è di produrre la purezza di coscienza. Ecco la ragione per cui ogni confessione, oltre all’aumento della grazia abituale e dei doni, comunica anche una nuova grazia sacramentale, un nuovo titolo cioè per ricevere da Dio le grazie attuali e gli aiuti indispensabili per liberarci sempre più dal peccato.

 

2) Una piena e completa fedeltà di fronte a Dio, dandogli sempre il meglio del nostro essere, non trattando con Lui per mezzo di piccole astuzie e sotterfugi, non andando affatto alla ricerca di vie traverse con Lui, servendolo con tutta la lealtà possibile; non avendo che Lui come fine di ogni nostra impresa e di ogni nostro disegno. Il re Saul non aveva peccato più gravemente di Davide, eppure Dio riprova il primo, perdonando al secondo, perché Davide, per quanto peccatore, aveva un cuore retto, mentre Saul non agiva con sincerità davanti a Dio.

 

3) Un desiderio ed una fame della nostra perfezione, una volontà decisa a tendervi costantemente con tutte le nostre forze, a ciò sia sempre rivolta la nostra principale mira e la maggior cura. Ci sia sempre presente che questa è più essenziale alla vita religiosa degli stessi voti, perché da essa dipende ogni nostro progresso nello spirito. In ciò si differenziano i veri religiosi da quelli che lo sono soltanto in apparenza ed agli occhi degli uomini. Senza la cura del nostro progresso nella perfezione lo stato religioso non può assicurarsi l’eterna salvezza; ma non c’è nulla che capiti tanto frequentemente, quanto l’illuderci su questo punto. Si dice a fior di labbra di tendere alla perfezione, senza che nell’intimo l’anima vi aspiri sinceramente.

 

4) Un grande cura di progredire nell’orazione e di formarci solida spiritualità. A questo fine bisogna separarci, nella misura del possibile, da trambusto delel cose esteriori che di nostra iniziativa potremmo intraprendere; fuggire la familiarità eccessiva coi nostri e con gli estranei, particolarmente con i fanciulli ed ancor più con le donne; darci molto al raccoglimento; prepararci diligentemente al santo sacrificio della Messa, studiandoci di ricavare tutto il frutto che può recare; non abbreviare mai il tempo del ringraziamento che, se ben fatto, può riparare gran parte delel negligenze. Non stancarsi mai nell’esercizio della mortificazione.

 

5) Una sincer e pura osservanza dei nostri voti, senza mai interessarci di certe cose che sono contrarie ad essi, anzi divengono sorgente di grandi scrupoli nell’ora della morte. Mentre invece sarà viva consolazione in quell’estremo limite della vita, nell’imminenza di comparire davanti al tribunale di Dio, il non aver nulla da rimproverarci sui santi voti, vedendo di averli sempre lealmente mantenuti. Il loro fine è di togliere attorno a noi ciò che potrebbe impedirci di tendere ed acnhe di arrivare alla perfezione, come hanno pensato alcuni.

 

6) Seguire la condotta dello Spirito Santo, i suoi voleri, le sue ispirazioni, nella misura in cui riusciamo a conoscerle, senza metterci in pena per il resto. Se infatti facciamo un buon uso dei lumi e delle conoscenze che abbiamo, Dio con maggior abbondanza ce ne elargirà altre e più eccellenti; ci troveremo perciò più illuminati a misura che saremo fedeli a cooperare con la grazia.

 

7) Non attribuirci né appropriarci mai le grazie che Dio ci concede, e neppure esaltarci in noi stessi e vantarci dei successi nelle cariche e nei lavori, ad esempio in una predica, in una declamazione, in una commenda. Dio ci permette di ricavare dei vantaggi da queste cose, ma è geloso della gloria che Egli si riserva; essa Gli è dovuta e l’attribuircela sarebbe una vanità che Egli non sopporta.

 

8) Al chiudersi di quest’anno di ritiro, badiamo bene che non sembri che vogliamo ammaestrare o riformare gli altri. Per il nostro prossimo facciamo ciò che ci torna possibile, desiderando di fare ancor di più. Parliamo con discrezione con quelli che sono capaci di intenderci, delle forme più elevate di perfezione. Noon diciamo mai di colpo il meglio che sappiamo; vi sarebbe in questo vanità e non ricaveremmo alcun profitto.

 

È di grande importanza per noi l’essere persuasi che nella Compagnia nessuna dispensa dei voti è valida davanti a Dio senza una legittima causa, che possa reggere anche al giudizio di Dio. Tanto che un Gesuita, il quale ottenga questa dispensa senza giusto motivo, è in verità un apostata davanti al Signore, anche se agli occhi degli uomini, o come si dice in foro externo, possa sembrare in regola.

 

Art. 04: Suggerimenti ai predicatori

 

§ 1.      Se un predicatore non è un uomo di preghiera, non produrrà mai grandi frutti, perché le sue prediche per la trama e il contenuto, per lo stile e il gesto, per le mire inferiori e le intenzioni non rette che avrà avuto saranno affatto piene di peccati, per lo meno veniali. In massima parte i profitto degli uditori dipende dalla virtù del predicatore, dalla sua unione con Dio, che in quarto d’ora di preghiera può suggerirgli molti pensieri, ed anche più appropriati, per commuovere i cuori, che egli non troverebbe in un anno di letture e di studio.

 

Ci si ammala a forza di studiare per stendere prediche riuscite; e tuttavia non si ottiene quasi frutto alcuno. Qual è la causa di questo fenomeno? È il fatto che la predicazione, come del resto la salvezza delle anime, che rimane sempre il vero fine della predicazione, è una funzione soprannaturale. Ora è indispensabile che lo strumento conservi la proporzione a questo fine. Quindi non sono la scienza né l’eloquenza o gli altri taenti umani, che ci rtendono strumenti atti a procurare la salvezza delle anime. La gran parte dei predicatori ha una scienza sufficiente, ma non ha abbastanza pietà e santità.

 

§ 2.      Il vero mezzo per acquistare la scienza dei Santi ed avere materia adatta per una predica, una esortazione, un trattenimento spirituale, non è tanto nel ricorrere ai libri, quanto piuttosto al’umiltà interiore, alla purezza del cuore, al raccogliemento ed alla preghiera.

 

Questa è la pratica dei Santi Padri nei loro commenti alla Scrittura, dei santi dottori scolastici, che hanno saputo insegnare la teologia con il maggior successo, dei santi predicatori che hanno spiegato il Vangelo con i più notevoli frutti.

 

Quando un’anima è arrivata alla completa purezza di cuore, Dio stesso se ne fa maestro, ora con l’unioe delle consolazioni e dei godimenti spirituali, ora con dolci e affettuosi lumi che sanno suggerire il modo di parlare al cuore degli uditori meglio dello studio e di tutti gli altri mezzi umani. Così si è sempre comportato i Signore con gli operai apostolici della nostra Compagnia. In tl modo il P. Edmondo Auger assorbito da mille incombenze e non disponendo di tempo libero per lo studio, affascinava la Francia con le sue prediche, che operavano meravigliose conversioni.

 

Noi dovremmo battere questa strada, come la più corta e la più agevole per raccogliere frutti tra le anime. Ma non riusciamo a liberarci dalla nostra presunzione, se non affidandoci completamente a Dio.

 

§ 3.      Un predicatore deve saper parlare bene e non trascurare l’arte del dire. Lo esige i rispetto dovuto alla parola di Dio. Bisognava tuttavia evitare l’estremo di una ricercatezza troppo studiata, per paura che l’orecchio degli ascoltatori non si lasci attrarre dalle parole e dall’eloquenza, i lche comprometterebbe il frutto della predica. Si finirebbe col predicare se stessi e non Gesù Cristo.

 

Quano si è arrivati a formarci un buon stile, si deve aver soltanto il pensiero di procurare che la grazia si insinui nella propria arte naturale e che lo Spirito di Dio regni nel proprio dire, come l’aima nel corpo.

 

Perciò il predicatore domanderà allo Spirito Santo i pensieri più adatti per arrivare al cuore degli ascoltatori.

 

Anzitutto non deve amare, stimare, lodare che Gesù Cristo e ciò che lo riguarda; poi non voler essere lui stesso amato, lodato e stimato da alcun, né avrà di mira che far conoscere e amare Nostro Signore, guadagnando tutti al suo servizio.

 

§ 4.      È una cosa che ha dell’incredibile i lvedere uomini chiamati alla vita apostolica, che portano nel sacro ministero della predicazione l’ambizione e la vanità. Che frutti possono raccogliere? Dopo sei o sette anni hanno raggiunto ciò che si proponevano. Ma il prezzo della loro riuscita fu tutta una serie di peccati e di imperfeioni. Che misera vita interiore, che fredda unione con Dio!

 

Come si sdegnerà il Signore di servirsi di simili strumenti? Da questa situazione nascono scontenti, affanni, turbamenti e funeste cadute. Si cade in due direzioni diverse: o negli scrupoli ed agistazioni di coscienza, che non danno pace; oppure nelle mormorazioni contro i Superiori e nelel rivolte di spirito che rendono insopportabile i giogo dell’obbedienza.

 

Qualcuno poi arriva ad uscire dalla Compagnia. Tali guai nascono dal non essere entrato nele sue occupazioni per la via dell’obbedienza.

 

Art. 05: Suggerimenti per i diversi uffici della Compagnia

 

§ 1.      Poiché la Compagnia è uno stato soprannaturale, bisogna che anche il suo governo sia soprannaturale, affinché esista una proporzione tra i mezzi di cui si serve ed il fine che si propone.

 

Perciò i Superiori che si lasciano guidare dalla prudenza naturale sono spesso nell’errore. Giosuè fu ingannato dai Gabaoniti, poiché non consultò il Signore. Ogni Superiore ed in proporzione ogni Direttore deve essere mosso nel suo agire da principi soprannaturali.

 

Bisogna lavorare ad aumentare nelal Compagnia non i comandi, ma lo spirito di vita interiore. È la prudenza umana che suggerisce di moltiplicare le disposizioni, perché essa fa un calcolo maggiore sulle proprie iniziative che non sui mezzi soprannaturali e divini. Perciò si trova in grande opposizione con la perfetta regolarità che nasce da un principio interiore ed è basata sull’amore e sul desiderio di pefezione. I grande numero invece delle disosizioni, che vengono aggiunte alle regole, disgusta lo spirito che è portato con somma facilità a disprezzarle, tanto più che non tutte sono uniformi, non accordandosi spesso le une con le altre. È per questo che S. Ignazio fa un assegnamento maggiore su la legge interiore che lo Spirito Santo scrive nei cuori, che non su le Costituzioni e le regole esteriori [Costituzioni della Compagnia di Gesù, 134].

 

§ 2.      Dettando gli Esercizi ad anime già iniziate alla vita spirituale, si deve innanzitutto considerare quale stato di grazia hann raggiunto, per adattrci ai loro bisogni. Dobbiamo seguire la stessa norma anche per noi, all’inizio dei nostri ritiri; ed in generale è di somma importanza sapere in quale grado di vita spirituale si trovano le anime, della cui direzioni ci occupiamo, perché Dio ordinariamente proporziona le grazie allo stato dell’anima: di modo che se un’anima si trova ancora sulla vita purgativa, le occorrono grazie di mortificazione; se invece è già sulla via unitiva, avrà bisogno di grazie di unione.

 

Il frutto di un ritiro dipende completamente dall’applicazione del Direttore a comprendere cosa avviene nell’anima a cui detta gli Esercizi; bisognerebbe perciò, se fosse possibile, parlarle diverse volte al giorno e vedere come la grazia, la natura, i demonio agiscono in lei, per aiutarla così secondo le sue necessità.

 

Sono due gli eccessi da evitare nella direzione delle persone che vivono una vita spirituale. L’uno di credere con troppa facilità alle anime che avendo letto nelle vita dei Santi le meravigliose operazioni della grazia, alle minime consolazioni che provano, si immaginano di essere favorite dagli stessi doni. Vanità davvero pericolosa. L’altro è di trattenere ad una quota troppo bassa le anime, non lasciandole mai elevarsi a que grado di perfezione, a cui Dio le chiama. Ci sono dei Direttori che non vogliono mai sentir parlare di contemplazione, di grazie straordinarie. Illusione questa, che può compromettere il progresso delle anime.

 

§ 3.      Nel prendere decisioni in un caso di coscienza, bisogna fare assegnamento maggiore sopra le illuminazioni dello Spirito Santo, che formano la scienza dei Santi, che non sui ragionamenti umani. Tutti quelli che in ciò si fondano sull’argometno di parità, cadono spesso in errore. Si può, per esempio, uccidere chi tenta di toglierci la nostra vita: allora sarà permesso uccidere chi vuol toglierci l’onore con la calunnia. Questo non è un ragionamento buono; anche in casi dove l’analogia è ancora più perfetta, la conseguenza non è legittimamente dedotta dalle premesse. Nei casi di morale basta che ci siano due fatti differenti, per non giudicare l’uno alla stregua dell’altro, per quanto piccola sembri la diversità tra i due.

 

§ 4.      Se nelle nostre scuole noi dessimo testimonianza di maggior riguardo ai figli dei ricchi, per i vantaggi della fortuna, noi sbaglieremmo grandemente perché alimenteremmo lo spirito d’orgoglio che le ricchezze fomentano; riusciremmo anche di scandalo agli altri, i quali vedrebbero che noi pure, come il resto degli uomini, ci lasciamo adescare dal fascin delle grandezze del mondo, per cui la nostra professione ci obbliga a non nutrire e a non attestare che disprezzo ed avversione.

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  Terzo principio: La Purezza e a custodia del cuore

Parte Prima: La Purezza del cuore

 

Capitolo 01: Sua natura e sue proprietà

 

Articolo 01: In che cosa consiste la purezza del cuore

 

La purezza del cuore consiste nel non aver nulla sul cuore che, poco o molto, ia contrario a Dio ed all’azione della sua grazia.

 

Ogni creatura del mondo, nell’ordine della natura e nell’ordine della grazia, come anche tutta la condotta della Provvidenza divina tende a toglierci dall’animo ciò che è contrario a Dio, perché non arriveremo mai al Signore se non dopo aver corretto, tolto, distrutto quaggiù e nell’altra vita, cò che è contrario a Lui.

 

Art. 02: Necessità della purezza del cuore

 

§ 1.      Il primo mezzo per arrivare alla perfezione è la purezza del cuore.

 

È per essa che la raggiunsero S. Paolo eremita, S. Maria Egiziaca ed altri santi solitari.

 

Alla purezza del cuore seguono per importanza gli insegnamenti di vita spirituale che si trovano nei libri ascetici, poi la direzione dello Spirito Santo e la fedele cooperazione alla grazia. Ecco la via maestra della perfezione.

 

Dobbiamo mettere ogni nostra cura nella purificazione del cuore, perché appunto nel cuore è nascosta la radice di tutti i nostri mali. Per persuaderci della necessità di questa purezza, bisognerebbe comprendere quanto il nostro cuore sia naturalmente corrotto. C’è in noi una incalcolabile malizia, che non arriviamo a percepire, perché non entriamo mai a scandagliare seriamente il nostro interno. Ma se vi penetrassimo, vi troveremmo un’infinità di desideri e di smodati affetti di onore, di godimento, di comodità che vi fermentano incessantemente.

 

Siamo talmente pieni di idee false e di giudizi erronei, di affetti sregolati, di passioni, di malizie che ci vergogneremmo di noi stessi se ci conoscessimo come siamo in realtà. Immaginaiamoci un pozzo torbido e fangoso, da cui si debba attingere continuamente acqua; da principio ciò che si estrae non è quasi altro che fango, ma poi a forza di attingere, il pozzo si purifica e l’acqua va diventando sempre più limpida; ed in fine si estrae acqua chiarissima e cristallina. Così, lavorando incessantemente a purificare l’anima, se ne scopre a poco a poco il fondo e Dio vi manifesta la sua presenza con affetti meravigliosi e  sorprendenti, da Lui prodotti nell’anima, i quali si riverberano anche sugli altri, promovendone il bene.

 

Quando il cuore è arivato ad una completa purificazione, Dio con la sua santa presenza e il suo amore occupa l’anima e tutte le potenze: memoria, intelletto e volontà. Così la purezza del cuore conduce all’unione con Dio, alla quale normalmente non conducono altre vie.

 

§ 2.      Più che l’esercizio delle virtù, sarà lo sforzo per purificarsi il cuore che ci porterà più brevemente e più sicuramente alla perfezione, perché il Signore è disposto a concederci ogni sorta di grazie, a condizione che non vi mettiamo assolutamente ostacoli. È proprio rendendo puro il nostro cuore che togliamo quanto ostacola le operazioni di Dio; e chi po’ comprendere le stupende meraviglie che il Signore opera nell’anima una volta che essa sia libera dagli impedimenti? S. Ignazio diceva che più di una vota i Santi stessi mettono ostacoli alle grazie del Signore.

 

§ 3.      Non potremo mai compiere atti sublimi di virtù se non saremo molto ricchi di grazie, e questa abbondanza di grazie potrà essere raggiunta soltanto dopo che avremo reso puro il cuore. Ma una volta arrivati a questa perfetta purezza, praticheremmo tutte quelle virtù di ui ci si offrirà l’occasione; di quelle invece che non avremo opportunità di praticare, possederemo lo spirito, e per così dire, l’essenza, il che Dio principalmente richiede da noi; mentre può benissimo capitare che si compia qualche atto di una determinata virtù, senza poi averne affatto lo spirito e la sostanza.

 

§ 4.      Tra tutti gli esercizi della vita spirituale non ve ne è uno che il demonio ostacoli con maggior opposizione, quanto lo sforzo di rendere puro il cuore. Ci lascerà fare indistrbati alcuni atti esterni di virtù, accusarci, per esempio, in pubblico dei nostri sbagli, servire in cucina, visitare gli ammalati negli ospedali e gli infelici nelle prigioni, perché in tutto ciò troviamo talvolta una certa soddisfazione; se non altro favorisce la nostra vanità e può soffocare i rimorsi interiori della coscienza: ma il demonio non può soffrire che scandagliamo profondamente il nostro cuore, esaminandone i disordini e applicandoci ad emendarli. Perfino il ostro cuore rifugge assolutamente da questo scandaglio e da questa cura che mette a nudo e fa sentre le proprie miserie. Tutte le nostre facoltà sono cadute in uno stato di grave disordine, che a noi non piace scoprire, perché rimarremmo umiliati da questa conoscenza.

 

Art. 03: Ordine da seguirsi e gradi diversi della purificazione del cuore

 

§ 1.      C’è un ordine da seguire nelle diverse operazioni che conducono alla purità del cuore. Da prima ricercare i propri peccati veniali per correggerli. In secondo luogo osservare i movimenti sregolati del cuore, per rimediarvi. Poi essere vigilanti sui pensieri per regolarli. Da ultimo riconoscere le ispirazioni di Dio, i suoi disegni i suoi voleri, per deciderci ad assecondarli.

 

Però dobbiamo fare tutto ciò senza precipitazione, animati dalal vera devozione per Nostro Signore, che non ci può essere senza una profonda conoscenza delle sue grandezze, un alto rispetto per la sua persona e per tutto ciò che lo riguarda; come anche senza il suo nome e la sua imitazione.

 

§ 2.      Quattro sono i gradi di purità di cuore a cui possiamo arrivare con una fedele cooperazione alla grazia. Il primo è di purificarci dai peccati attuali e dalla pena dovuta ad essi. Il secono è di liberarci dalle abitudine cattive e dalle affezioni sregolate. Il terzo è di staccarci da quella corruzione originale, chiamata fames peccati, fomite di peccato, inerente a tutte le nostre potenze ed a tutte le nostre membra, come si può controllare nei fanciulli, che hanno inclinazione al male, senza essere ancora in grado di commetterlo. Il quarto è di svincolarsi da quella debolezza che è naturale a noi, creature formate dal nulla e che è chiamata defettibilità.

 

Al primo grado si arriva con la penitenza, al secondo con la mortificazione e la pratica delle altre virtù; al terzo coi Sacramenti, che operano in noi la grazia della nostra riparazione; al quarto, con l’unione con Dio, che solo, essendo per noi il primo principio e la sorgente dell’essere, uò infonderci vigore contro le debolezze, a cui per natura è trascinato il nostro nulla.

 

Un’anima può arrivare a un grado di purezza in cui esercita un dominio tale sulla sua immaginazione e sulle sue facoltà, da riuscirle impossibile l’occuparsi in altro che nel servizio di Dio. Non potrà volere, ricordare, pensare, né intendere cosa alcuna che in rapporto a Dio; di modo che, se nella conversazione, per esempio, si tengono discorsi vani ed inutili, essa dovrà raccogliersi in sé con uno sforzo, se vuol comprendere ciò che altri dicono o per conservarne il ricordo, perché si troverà mancante di immagini corrispondenti.

 

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Terzo principio: La Purezza e a custodia del cuore

Parte Prima: La Purezza del cuore

 

Capitolo 02: Da quali cose dobbiamo purificare il cuore

 

Articolo 01: I peccati veniali

 

§ 1.      Noi pensiamo che il peccato veniale sia semplicemente una parola leggera, un pensiero vano, un’azione di nessuna importanza. È anche una grave illusione perché è di fede che Dio lo punisce con pene soprannaturali di una durata molto lunga e più gravose dei più orribili tormenti che si soffrono quaggiù [L’espressione è da intendersi nel senso comunemente ammesso dai teologi che la pena del peccato veniale nell’altra vita è superiore alla pena corrispondente necessaria nella vita presente per ripararlo. Ad ogni modo questa è dottrina comune e non di fede, come qui erroneamente asserisce il Padre Lallemant]. Da ciò è legittimo concludere che la malizia del peccato veniale è incomparabilmente maggiore davanti al giudizio di Dio che non alla stima degli uomini.

 

Il peccato veniale è un così grande male che obbliga un Dio di bontà infinita, il quale per amore degli uomini, a condannare un’anima alla pena del massimo rigore, quando essa compare dinanzi al suo santo tribunale macchiata da questo peccato; rimanendo sempre vero che il maggior tormento immaginabile per un’anima separata dal corpo è quello di esser privata, o per sempre od anche solo per qualche tempo, della vista di Dio. Questa temporanea separazione dalla visione di Dio è ciò che ci guadagna il peccato veniale non espiato dalla penitenza durante la vita. ecco sotto qual luce dobiamo valutare questo male.

 

Al presente noi non guardiamo i nostri peccati che nella loro realtà fisica, che può procurarci del diletto, o nella loro essenza morale che non arriviamo a comprendere bene. Li dobbiamo invee guardare anche nei loro effetti, e tener presente che sono di impedimento alla nostra unione con Dio, tenendoci durante la vita terrena lontani da Lui, se noi vi perseveriamo. Li dobbiamo anche guardare come opposti al bene di Dio, che è la sua gloria, e di ostacolo al nostro progresso spirituale, come anche all’assistenza e ai disegni della Provvidenza su di noi, che il peccato veniale può interrompere o cambiare.

 

§ 2.      Ciò che si verifica tra i secolari per il peccato mortale, capita ai religiosi nei riguardi del pecato veniale. In quelli, la passione spegne la luce della fede e della ragione. L’affetto sregolato corrompe i giudizio e costoro cadono di conseguenza nei peggiori disordini. I Giudei avevan lumi sufficienti per riconoscere la divinità di Gesù Cristo; ma furono accecati dall’invidia e condannarono a morte il Messia che aspettavano. A socrate, Platone, Traiano poteva bastare la sola luce naturale per conoscere gli abominevoli delitti a cui si abbandonavano. La loro brutale passione invee li accecò.

 

Così nulla è più chiaro del dovere di restituire la roba d’altri, quando sia stata ingiustamente usurpata. Eppure ogni giorno vediamo che l’avarizia spegne ogni lume naturale e soprannaturale che asserisce questo dovere; quindi non si restituisce e forse anche si arriverà a non restituire più. L’attacco alla roba ha corrotto il giudizio della mente in modo tale da non aver più luce che fissi il dovere della restituzione.

 

Allo stesso modo va radicandosi sempre più in noi l’abitudine di molti peccati veniali. La vanità, la sensualità, l’attaccamento ai nostri comodi soffocano in noi la luce della grazia, che sola può far percepire il male nascosto in tutti questi peccati. Noi accusiamo poi di scupolo coloro che per delicatezza di coscienza tengono una condotta diversa. E siccome vogliamo illuderci sul nostro accecamento, troviamo il palliativo di mille pretesti per rivestire la passione, che ci fa velo. Formuliamo una buona intenzione, per poter meglio trascurare le ispirazioni della grazia.

 

§ 3.      La rovina dele anime ha la sua origine nela molteplicità dei peccati veniali, che causa una diminuizione dei lumi e delle ispirazioni divine, delle grazie e delle consolazioni interiori, del fervore e del coraggio per resistere agli attacchi del nemico.

 

Da questo impoverimento gnerale nascono l’accecamento, la debolezza, le frequenti cadute, l’abitudine al peccato, l’insensibilità, perché una volta che l’affetto al peccato si è fatto strada in un’anima, si pecca senza la coscienza del proprio peccato.chiunque nn si prende cura di sfuggire i peccati veniali, anche se nelle opere apostoliche a favore del prossimo conseguisse i più splendidi successi, è in pericolo di perdersi; perché è impossibile che, vivendo in questo modo, non cada qualche volta nel peccato mortale (anche senza avvedersene).

 

Ma non cessa per questo di essere colpevole dei peccati che commette, peché la sua è una specie di ignoranza affettata.

 

§ 4.      Quelli che mettono ogni cura nell’evitare i peccati veniali di solito provano un vivo sentimento di devozione ed hanno nell’anima la certezza morale di essere nello stato di grazia. Al contrario, queli che si abbandonano a commettere senza scrupolo peccati veniali, non sentono affato l’unzione di una soda pietà e lo Spirito Santo non concede loro l’assicurazione di vivere nello stato di grazia.

 

§ 5.      Non appena che, dopo una caduta, percepiamo il male fatto, dobbiamo umiliarci davanti a Dio con una interna adorazione, ritornare al suo amore, domandandogli con confidenza il perdono, riprendere il lavoro della nostra perfezione senza mai abbandonarci all’abbattimento e all’inquietudine.

 

Art. 02: Le passioni

 

§ 1.      Da Clemente Alessandrino le passioni sono chiamate sigilli del demonio come se il diavolo ci imprimesseil suo marchio nell’anima mediante i nostri peccati e le cattive abitudini, i nostri affetti sregolati e le passioni. Allude con questa espressione al marchio degli imperatori che i soldati portavano e che S. Agostino chiama sigillo della milizia (cf Epist. 185,23).

 

Finché ci lasciamo vincere dalle passioni, siamo sotto la schiavitù del demonio, che imprime ad esse un impulso, come fa press’a poco un organista, quando fa scorrere le sue dita sui tasti. Allo stesso modo il demonio eccita gli umori del nostro temperamento, le fantasie dell’immaginazione. Risvegli il ricordo dei diversi oggetti, rappresentandone l’idea nel modo che sa essere più adatto per eccitare la passione che vuole mettere in moto; e se non stiamo più che vigilanti, di solito riesce nel suo disegno. Dio gli permette alle volte di eccitare il nostro temperamento così da riuscire fastidiosi agli altri ed a noi stessi

 

§ 2.      Chi ha raggiunto la perfezione, ha un tale impero sulle sue passioni da governarle a piacimento. Esse si trovano in costui come erano, in un certo modo s’intende, in Nostro signore, nella Madonna e nei Santi, nei quali si deve parlare piuttosto di propassioni che di vere passioni. Si tratta cioè di movimenti d’appetito inferiore, simili a quelle delle passioni, ma sottomessi alla ragione, da cui dettami soltanto e dagli impulsi della grazia che guida la ragione essi vengono eccitati.

 

Gli imperfetti sono ora nella gioia ed ora nelal tristezza, secondo che le loro passioni sono in calma od in tempesta; tristezza ed inquietudine trovano infatti la loro sorgente negli affetti, che, non essendo mortificati, causano questo alternarsi di pace e di turbamento.

 

Chi aspira alla perfezione trova insopportabile la tirannia delle passioni e si applica ad un continuo e coraggioso sforzo per mortificarle. Ma le persone del mondo, nella loro perpetua schiavitù, non hanno aneliti verso la propria liberazione. Amano le catene e, come dice Giobbe, trovano le loro delizie tra i rovi e le spine che le straziano (Gb 30,7).

 

§ 3.      La concupiscenza e le passioni estinguono insensibilmente nell’intelletto le luci infuse e soprannaturali, riuscendo in fine a soffocarle completamente; ecco perché si possono vedere persone di eminenti doti, che sono tuttavia colpite da grande cecità per le cose spirituali. Se uno ha una vista acutissima, non si può pretendere che possieda anche uno spirito elevato, perché si tratta di facoltà affatto diverse. Coloro che sono spinti ad abbracciare l’eresia da una passione (come fece un principe di Sassonia per dispetto contro Carlo V [si allude a Maurizio di Sassonia]), in un primo tempo non sono eretici che per capriccio e passione, conservando ancora nell’anima un apprezzamento contrario agli errori della falsa dottrina che professano esteriormente. Ma poi, a lungo andare, quando le passioni prendono piede ed i peccati si moltiplicano, va perdendosi la luce dell’anitca fede che era rimasta, nell’intelligenza si fa buio e finiscono col diventare davvero eretici.

 

Perciò nel campo della perfezione ogni disordine comincia da una passione, da un affetto sregolato verso qualche oggetto, i quali seducono a poco a poco lintelletto; questo si lascia finalmente guadagnare in maniera tale da non riuscire più a giudicare che in favore della passione dominante dell’anima. Si prende di mira qualche oggetto, per esempio, una carica che si trova comoda o che porta lustro. La passione, destatasi, fa amare e poi bramare qualche carica. Da prima la mente, illuminata dalla luce della grazia, resiste a un tale desiderio e lo condanna; ma ingigantendo la passione, mentre vanno spegnendosi a poco a poco i lumi della grazia, la mente non oppone più resistenza. Accondiscende alle incliazioni, sregolate della volontà; le approva; trova ragioni per gisutificarle e, corrotta dalla volontà aiuta a sua volta a corrompere, proponendole principi falsi per autorizzare i propri deviamenti.

 

Art. 03: Il fondo d’orgoglio che è in noi

 

§ 1.      L’orgoglio è l’amore ed il desiderio della propria eccellenza. È più nascosto e radicato di tutti i nostri vizi, quello che incontra più numerose occasioni. Ad ogni ora se ne può presentare qualcuna, provocata dalle nostre qualità e da ciò che di bene può esserci in noi; il che ci offre il pretesto di compiacerci in noi stessi, di elevarci al di sopra degli altri e di voler essere stimati e lodati. Occasione all’orgoglio può essere anche il male ed i difetti che ci sono in noi, in quanto procuriamo di nasconderli, di mascherarli, di diminuirli, di scusarli, non volendo neppur riconoscerli nel nostro interno. In un sol giorno commettiamo più di cento atti d’orgoglio.

 

Questo vizio nei religiosi ha manifestazioni diverse che nei secolari. Costoro trovano oggetto e materia di orgoglio nella fortuna e nei beni materiali, dove aspirano ad eccellere; ma l’orgoglio dei religiosi assomiglia a quello degli Angeli ribelli, dando peso alla propria eccellenza personale ed ai beni spirituali. Diventa così un grande male e sorgene di tutti i mali.

 

§ 2.      Se vogliamo diventare simili a Dio, dobbiamo rinunciare alla somiglianza con il diavolo, la quale sta tutta nell’orgoglio, nelalvanità, nella presunzione, ed alla rassomiglianza con gli animali irragionevolim che consiste nelle passioni e nei movimenti sregolati della sensualità.

 

Ogni vizio produce quattro funesti effetti nell’anima: 1) oscura ed acceca la mente; 2) macchia l’anima; 3) getta il turbamento e l’inquietudine nello spirito; 4) indebolisce le forze. Ma tra tutti i vizi, quello che maggiormente acceca lo spirito è l’orgoglio; e quello che particolarmente macchia l’anima è l’impurità.

 

Noi siamo sempre portati da una naturale inclinazione a lasciarci affascinare dallo splendore dell’onore, dal plauso e dalla stima degli uomini, dalle attrattive del paicere e dalla soddisfazione dei sensi, perché alla grazia lasciamo un limitatissimo impero sul nostro spirito. Da questa medesima ragione proviene il non poter sopportare neppure una parola contro i nostri difetti, la quale scatenerebbe su nostro spirito un vero tumulto di collera, di tristezza, d’amarezza, di impazienza.

 

Strana l’ingisutizia del cuore umano! Mentre il Signore ha perdonato a noi un’infinità di peccati veniali, concedendoci, quando li abbiamo confessati, anche delle consolazioni interne come suggello e pegno della nostra riconciliazione; noi invece non possiamo dimenticare una parola sgarbata, detta contro di noi, od una leggera offesa fattaci; ne conserviamo anzi un continuo ricordo e non facciamo che spiare l’occasione per dimostrare il nostro risentimento. Ciò nasce dalla esagerata stima e dal falso amore che abbiamo per noi stessi. Ci stanno più a cuore i nostri interessi che quelli di Dio; l’orgoglio ci acceca. La malizia del nostro orgoglio ha una nuova manifestazione, quando scopriamo il minimo difetto in qualcuno, pur eccellente nel resto. Allora noi dimentichiamo tutte le sue perfezioni, per interessarci di quel solo difetto; vi pensiamo, ne parliamo, ne prendiamo occasione per stimare quella persona men di noi e per farci collocare dal nostro interno giudizio al di sopra di lei; così nei confronti di tutti gli altri, ci riserviamo nella nostra stima il primo posto.

 

§ 3.      Abbiamo un’estrema difficoltà ad ammettere le mancanze contro quelle virtù che crediamo di aver acquistato, anceh quando in realtà ne commettiamo di quelle che si possono controllare. La nostra superbia non vuole abbassarsi a farne un’umile confessione, perché questa è contraria alla stima che abbiamo di noi stessi ed urta contro la vanagloria, pascolo del nostro spirito. Siamo così pieni di menzogna e di vanità che, benché consapevoli di non possedere certe virtù, se per caso ne pratichiamo qualche atto che ci attira la lode degli altri, ci lasciamo tosto persuadere di avere queste virtù, illudendoci in questa falsa opinione, ome quei pazzi che si immaginano di essere re; crediamo infatti di essere quel che non siamo.

 

§ 4.      Se non siamo più che fedeli alal grazia, arrischiamo di far tutto per il motivo della propria eccellenza, perfino le azioni iù sante, così che, se celebriamo la Santa Messa, se attendiamo all preghiera, se facciamo lettura spritiuale o qualche altra pratica, ciò che noi teniamo sempre di mira è il nostro orgoglio spirituale. Questo non è un motivo ordinato. Ciò che ci dobbiamo proporre, è di tendere al Signore e di unirci a Lui per mezzo di queste pie pratiche. Questo solo motivo non guarda che la gloria di Dio. È perciò conforme alal volontà del Signore. È puro e disinteressato. Torna gradito a Lui.

 

§ 5.      Siamo alle volte troppo sensibili per i dispiaceri che ci possono venire da parte dei superiori o delle Regole della nostra Congregazione. Esiste forse a questo mondo una condizione di vita, on cui sia possibile non soffrire di tempo in tempo qualche contrarietà? Se i Superiori ci negano una concessione che non erano obbligati ad accordaci, per esempio la facoltà di assentarci per qualche tempo, allora muoviamo un alto lamento e mormoriamo. Vi può essere cosa più ingiusta di questa? Un po’ di umiltà e di mortificazione ci eviterebbe molte pene.

 

§ 6.      Dio pesa i cuori. E certe volte è costretto a ritirare le sue grazie, perché scorge il nostro grande orgoglio. Prevede che concedendoci maggiori lumi e consolazioni, accordandoci favori paricolari, diventeremmo più superbi. Trovandoci già sull’orlo del precipizio, Egli per impedirci di cascarvi, ci priva delle grazie che sarebbero l’occasione della nostra caduta; per questo ricusò di liberare S. Paolo dall’importuna tentazione di impurità [Paolo parla di pungolo e non specifica che genere di prova subisse, il Lallemant l’interpreta come tentazione d’impurità, cf 2Cor 12,7]. Temendo che la vanità si insinuasse nel suo cuore. Non già che S. Paolo fosse superbo; ma il Signore voleva impedire che lo diventasse.

 

§ 7.      Troppo meschino è il nostro cuore. Se Dio ci concede una minima consolazione, come una sola lacrima di pentimento, troviamo in ciò motivo di smodato orgoglio interiore. Eppure a che si riduce ciò? Alla millesima parte dei doni che Dio vorrebbe concederci. Immaginandoci un povero che, subito dopo aver ricevuto un soldo dalla mano di un signore, senza aspettare neppure di raccogliere le abbondanti elargizioni di quel ricco, che pur vuole dargli a manciate monete d’oro, se ne vada tutto gioioso. Ecco una appropria immagine di quel che facciamo noi.

 

Art. 04: Anche le più piccole imperfezioni devono essere corrette

 

§ 1.      Dobbiamo avere una grande cura anche dei più piccoli movimenti della vita spirituale, perché il Signore li tiene in maggior conto che non tutte le occupazioni e le azioni della vita naturale.

 

Aver soffocato nel proprio cuore i moti di una passione o di una inclinazione sregolata, aver strappato dall’anima una sola imperfezione, è aver fatto un guadagno maggiore dell’acquaisto e del possesso imperituro di mille mondi.

 

Quando, lavorando tutta la giornata come facchini, non avremo guadagnato altro che sbarazzarci di un pensiero inutile,dovremmo considerarci largamente ricompensati delle nostre fatiche.

 

§ 2.      Certe manifestazioni, che in sé non hanno gravità alcuna, possono diventare invece di un certo rilievo in un religioso. Così, camminare per la città con un fare dissipato, permettersi qualche sensualità alla mensa dei secolari, ridere sgangheratamente alla presenza di persone estranee, sono tutti difetti piccoli in se stessi, ma di una certa entità nelle loro conseguenze, perché da essi si può arguire che chi li commette manca di una soda pietà e di conseguenza si può far perdere la stima per l’Ordine.

 

Così manifestare qualche particolare che torni di svantaggio ad una casa religiosa od a un superiore delal casa medesima a chi vi si deve recare per rimanervi, è un difetto di una certa gravità, perché toglie a questo religioso quell’indifferenza che dovrebbe avere per ogni luogo, il che è di grande importanza. Eppure questa è un’imperfezione abbastanza comune.

 

§ 3.      Dobbiamo sopprimere con la massima cura certe velleità, o atti inefficaci di volontà, che nascono incessantemente in noi di fronte a diversi oggetti, che possono provocare sentimenti imperfetti di orgoglio, di invidia, di astio, di sensualità.

 

Queste velleità, che sé sono inefficaci, potrebbero cambiarsi in atti volontari che sono efficaci, perché procedono da una volontà piena e deliberata. Invece nel campo della devozione queste volontà inefficaci sono buone, come osserva il Suarez.

 

Art. 05: Il rinnegamento delle proprie inclinazioni conduce ad una santa indifferenza

 

§ 1.      Ordinariamente conserviamo nell’animo qualche attaccamento che riesce di danno alla nostra vita interiore. Potrà essere un affetto sregolato, un nostro disegno, o la brama di una carica, di un luogo, di un ministero. Bisogna invece tendere ad una completa indifferenza, dichiarando a noi stessi che non cerchiamo altro nelal vita se non il possesso di Dio, per quanto ci è possibile, e che il resto ci lascia indifferenti.

 

Abbiamo torto di lamentarci non trovandoci abbastanza occupati nei luoghi dove abbiamo dimora. Tale lamento viene dal non essere sufficientemente staccati dalle proprie inclinazioni e dalla nostra volontà. Non possediamo affatto la perfetta indifferenza per ogni sorta di cariche; coltiviamo dei nostri progetti particolari. Vorremmo essere addetti a certe incombenze, a cui intendiamo limitare la nostra attività, come, per esempio, a predicare, oppure a dirigere una Conregazione in quella quale città; e quando non ci vengono assegnate queste occupazioni, ci sembra di aver le mani legate; crediamo di essere senza alcun incarico: è questa una illusione. Chiunque ha la propria volontà nella perfetta indifferenza per ogni opera buona, non formula nessun progetto da sé e troverà fin troppe occupazioni. Dapprima l’impegno della preghiera, che sola può riempire la vita di un religioso; ma chi non ha saputo fae in essa dei progressi nelal giovinezza non vi riuscirà neppure nella vecchiaia. Poi la visita degli ospedali e delle prigioni; l’istruzione catechistica, che è un ministero così caratteristico della Compagnia e che S. Ignazio ed i nostri primi Padri hanno sempre esercitato con tanto zelo; le esortazioni alle Religiose; corsi di predicazione nelle parrocchie di campagnia per qualche giorno, ecc.

 

Voi aspirate ad un certo ufficio; vorreste, per esempio, essere incaricato dell’insegnamento in quella classe di quel tal collegio. Supponiamo che vi riusciste con i vostri raggiri e col continuo importunare i superiori. È vero che la vostra volontà proverà soddisfazione, ma dobiamo almeno dire che rimarrà senza frutto per voi tutto il lavoro che vi domanderà quella classe; potete anche offrirlo a Dio con rette intenzioni attuali, ma a Lui non tornerà gradito, perché non conforme all sua volontà. Non era questa la fatica che Egli desiderava da voi. La sola grazia che il Signore, seguendo la sua normale condotta, può farvi in questa circostanza, è di impedire che nell’adempimento del vostro nuovo dovere non abbia a capitarvi qualche funesta caduta: a meno che, avendo riconosciuto il vostro sbaglio, vi mettiate con sincerità nella disposizione di assumere un’altra incombenza e che, dopo di aver informato i Superiori, vi abbandoniate al loro volere.

 

§ 2.      Avete un bel dire di essere indifferenti a tutto; se voi apprezzate di più quegli uffici che vi tornano di gloria, non lo siete affatto. Finché durerà questa stima, la vostra pretesa indifferenza non sarà che fine ipocrisia.

 

In due casi torna impossibile essere indifferenti: quando, privi di un’alta stima della vita interiore, nn si ha tanta sapienza da preferirla a qualsiasi altra occupazione e quando non si nutre un sincero disprezzo per l’appariscente gloria dell’attività esteriore, per i gusto naturale che si può godere, per i vantaggi umani che ci si ripromettono. Mancando queste due condizioni, potrà sì esserci una specie di indifferenza, ma a gran stento. E poi non potrà mai essere costante, perché, dopo tutto, il cuore deve pur amare qualche cosa. E soltanto se si amerà e si apprezzerà la vita interiore, si potrà vivere una perpetua indifferenza per tutte le occupazioni della vita esteriore, perché quella, un volta conosciuta, offre maggiori attrattive e consolazioni di questa. Deve starci grandemente a cuore convincerci di questa verità; poiché, come non si può pretendere di persuadere i secolari di disprezzare le ricchezze, se non si mostra ad essi la possibilità di cqusitare altri beni più solidi e duraturi, così noi non riusciremo a disprezzare le soddisfazioni che ci ripromettiamo dalle occuapzioni esteriori, se non dopo esserci convinti che ne troveremo delle più solide nel raccoglimento della vita interiore.

 

Senza il dono della preghiera, non avremo mai una indifferenza perfetta, universale e costante. Potremo averne in qualche modo per certe cose e per un determinato tempo; non prò completa e serena, anzi sempre accompagnata da agitazioni e combattuta da molte ripugnanze.

 

§ 3.      Bisogna raggiungere una indifferenza tale che ci porti più volentieri alle cose per cui nutriamo maggior avversione e che ci spinga a domandarle a Dio ed ai Superiori. Chi non si sente in grado di tendere a questo, è molto lontano dalla vera indifferenza. Alcuni non hanno progetti particoalri, ma nutrono la vaga speranza di un certo ufficio o l’aspettativa di un generico bene; ma per essere nella perfetta indifferenza si deve assolutamente disfarsi di tutto ciò.

 

Dobbiamo vivere in un grado di abbandono del nostro essere ai voleri di Dio, agli ordini della sua Provvidenza, alle disposizioni dei Superiori, sacrificando al Signore ogni nostra pretesa e le molte speranze che, soprattutto nella giovinezza, si affollano attorno a noi. I giovani vivono nell’attesa dell’avvenire, i vecchi ne ricordo del passato.

 

Persuadiamoci che non vi è nulla di più vano delle speranze umane, che solitamente ci illudono, delle quali a stento tre o quattro su cinquanta si realizzeranno, perché al Signore piace confonderl non essendo che altrettante usurpazioni dei suoi diritti. Il promuovere il loro successo è un uscire dalle vie della Provvidenza ed un abbandonare la strada che Dio da tutta l’eternità ha tracciato per noi.

 

Art. 06: Direttive di condotta nelle grazie e distacco con il quale le dobbiamo ricevere

 

§ 1.      Chi è agli inizi della vita spirituale deve saper fuggire le occasioni del peccato, mortificare le passioni, la volontà ed il proprio giudizio. Chi invece ha già fatto qualche progresso, deve aver cura di non attaccarsi ai doni di Dio. Per quanto con le labbra riconosciamo che tutto ci viene da Dio, tuttavia in praica agiamo come se avessimo da noi stessi quelle grazie, che il Signore ci concede per pura misericordia, come se le potessimo conservare e possedere nello stesso modo che possediamo i doni dovuti alla liberalità degli uomini; il che è falso.

 

Il Signore, perimepdire questa indebita appropriazione talora ritira le grazie e ci toglie quella facilità di praticare la virtù, che precedentemene ci aveva concesso; allora ci sembrerà di essere ridiventati superbi o sensuali, proveremo di nuovo quella difficoltà all’umiliazione ed alal mortificazione che già avevamo sperimentato agli inizi; ma ciò che il Signore fa non è che per il nostro bene; bisogna lasciarlo agire; in questi momneti vuole operare Lui stesso in noi, perché noi impariamo a subire passivamente la sua operazione. Ut simus patients divina [S. Dionigi Aeropagita].

 

Egli ci priva delle sue consolazioni e del fervore sensibile nella preghiera e nelle altre pratiche del bene per mettere a prova la nostra fedeltà e per condurre il nostro spirito in quell ostat di perfetto distacco, in cui devono vivere le anime che lo Spirito Santo vuole riempire dei suoi doni. Ciò che ci rimane allora da fare è di mantenerci nelal maggior purezza di cuore possibile, evitando con somma cura le minime mananze; per il resto abbandoniamoci al Signore e pieghiamoci a tutte le disposizioni della sua Provvidenza.

 

§ 2.      Spesso ci appropriamo il merito dei buoni sentimenti che il Signore ci concede e, aderendovi con una certa sensualità spirituale o cn un a segreta vanità, arriviamo a scriverli e vorremmo averli sempre.

 

Non è un male il tenere una breve annotazione per conservare il ricordo, con o scopo di servircene nell’avvenire; ma fare ciò con lo spirito di appropriarceli è un abuso pericoloso.

 

Come viatori, dobbiamo sempre camminare verso la nostra mèta, senza perderci in piccole cose; Dio tiene in serbo per noi molti altri favori.; Egli è infinitamente ricco e generoso e non manca di largheggiare con noi di doni in proporzione della nostra fedele cooperazione. Serviamoci soltanto dei doni che egli ci fa, mentre questi sono ancora a nostra disposizione; poi passiamo oltre, come un viaggiatore che allegramente percorre un ameno sentiero, senza indugiarsi sotto il pretesto della bellezza.

 

Quelli invece che incessantemente ripensano ai lumi interiori ed a sentimenti della grazia, assomigliano al viaggiatore che a brevi intervalli si rivolge, dopo pochi passi, a contemplare il cammino percorso, perdendo tempo a mirarlo con vana compiacenza.

 

§ 3.      Considerando che le grazie che Dio ci elargisce, sono beni suoi e non nostri. La virtù della povertà deve praticarsi anche a riguardo dei  beni spirituali: quanto iù noi nel ricevere le grazie del Signore ci comporteremo con sacrificio e con purezza, tanto più esse saranno efficaci ed abbondanti.

 

§ 4.      Quando il Signore ci concede qualche suo lume particolare, questo, subito dopo che è stato ricevuto, produce imediatamente l’effetto che Dio si aspettava, avendo disposto l’anima al volere del Signore, che è di rendere l’anima ancor più capace dell’unione con Lui, fine ultimo di tutto.

 

È un errore quindi pensare, come fanno alcuni, che lo scopo di tutte le illustrazioni della mente sia nell’azione e nella pratica, in modo da ritenere vane le illustrazioni non ordinate all’azione. Basta che esse dispongano a poco a poco l’anima all’unione con Dio, la quale è il fine anche di ongi nostra opera. Poiché tutto ciò che noi facciamo nella pratica della virtù, ci porta a questo termine.

 

Ed una volta che i lumi ed i setnimenti sono passati, non dobbiamo fare nessun sforzo per richiamarli. Se tuttavia Dio li fa brillare di nuovo alla nostra mente, il ripensarvi non è un male; ma sono soltanto le persone che si trovano agli inizi della via della perfezione che li devono scrivere.

 

§ 5.      Non appena che ci attacchiamo a qualche cosa estranea a Dio, offriamo un appiglio al demonio che, approfittando di questo attaccamento, non mancherà o di toglierci la libertà di spirito o di turbarci, o di concederci e procurarci, nella misura del possibile, ciò che ci attrae, soprattutto nel campo dei gusti e delle consolazioni sensibili, delle quali egli stesso ci sarà generosissimo per perderci, se gli riesce.

 

Quando dunque un direttore si accorge che le anime da lui guidate hanno questi attaccamenti, deve per qualche tempo proibire ad esse ogni rapporto con l’oggetto; poi quando le vedrà nell’indifferenza, ne permetterà l’uso normale.

 

Le persone favorite del dono dei veri lumi, portno il loro amore soltanto a Dio, non attaccandosi neppure alle cose più sante. Se il Signore concede ad esse qualche buon sentimento, lo ricevono con riconoscenza e abnegazione, guardandosi bene dal sostituirvi altri pensieri, che il demonio con astuzia cerca di insinuare. E quando questo buon sentimento è passato, non lasciano che il loro cuore vi resti attaccato e non fanno alcuno sforzo per trattenerlo più a lungo di quello che Dio vuole. Né si sentono di richiamare la causa o l’occasione che lo aveva provocato, o di ripetere il medesimo esercizio, la medesima preghiera e lettura, con l’intento di ridestare lo stesso sentimento; ma passano oltre, camminando sempre in un perfetto distacco di spirito: e con questo mezzo tolgono al demonio la possibilità e l’occasione di ingannarli col propinare ad essi dolcezze e consolazioni sensibili ed altre cose straordinarie, per trascinarle poi nel precipizio.

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Terzo principio: La Purezza e a custodia del cuore

Parte Prima: La Purezza del cuore

 

Capitolo 03: Cura necessaria per conservare la purezza del cuore

 

Articolo 01: Si deve agire con retta intenzione

 

Dobbiamo avere una cura prticoalre di compiere tutte le nostre azioni con retta intenzione. Un’azione, anche buon in sé, si guasta completamente quando è preceduta o accompagnata da una intenzione meno che retta, mentre diventa in parte buona ed in parte cattiva quando iniziatasi con retta intenzione, viene poi contaminata da uno scopo cattivo, come, per esempio, dalal vanagloria che vi si  insinuata insensibilmente.

 

I principali ostacoli alla rettitudine d’intenzione sono la vanità, il gusto o l’avversione per una determinata azione, l’interesse. Dobbiamo essere vigilanti agi inii delle nostre azioni, per esempio, quando andiamo a tavola od in ricreazione, per dominare le ripugnanze e per non assecondare i gusti personali; in mdo che nessuno sia mai portato all’agire da una intenzione meno che retta, perché si deve vivere nella disposizione di cercare esclusivamente il paicere del Signore in tutto ciò che è in procinto di fare, anche a costo di non gustare nessuna soddisfazione e di non assecondare alcun interesse. Durante il corso dell’azione poi è necessario usare una grande circospezione per difenderci dalle contaminazioni esterne, epr esempio da un contegno meno modesto, e da quelle intenre, quali le segrete infiltrazioni dell’amor proprio, che pretenderebbero inavvertitamente insinuarsi.

 

Art. 02: Solo i principi soprannaturali devono guidarci nell’agire

 

Il nostro cuore è in continuo movimento verso il bene, ma sempre però verso qualche bene naturale, se lo Spirito Sant non lo eleva ad un ordine superiore. Perciò dobbiamo vigilare su tutti i moti del nostro cuore, per non seguire che quelli suggeriti dallo Spirito Santo.

 

Gli Angeli non compiono mai le azioni che noi chiamiamo di pura natura, avendo rinunciato per sempre all’amor proprio per il puro motivo dell’amor di Dio, e mentre vissero nel periodo della prova, non fecero che atti soprannaturali di fede, di speranza, di carità e delle altre virtù. E ciò ha meritato ad essi il possesso di Dio, rendendoli eternamente felici.

 

Noi dovremmo imitare questa fedeltà degli Angeli, lasciandoci sempre spingere all’azione da principi soprannaturali. Ma invece siamo troppo immersi nel mono naturale e la maggior parte delle nostre azioni sono o esclusivamente naturali o miste di grazia e natura. Possiamo dire di non compierne quasi mai che derivino esclusivamente dalla grazia e siano perfettamente soprannaturali.

 

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Terzo principio: La Purezza e a custodia del cuore

Parte Prima: La Purezza del cuore

 

Capitolo 04: Cause che dall’interno corrompono il nostro cuore

 

Articolo 01: L’errore dei falsi principi

 

Se in noi ci sono vizi ed imperfezioni, è perché ci sono falsi giudizi e idee errate che producono questi disordini nei nostri costumi, essendo l’intelligenza e la volontà le due sorgenti del ben e del male nelle creare libere.

 

È in questo che va cercata la ragione per cui gli imperfetti sono anche pieni di giudizi pratici fndati sulle false idee, che si formano secondo le tendenze della nostra natura corrotta. È questa la rete che ci tiene sempre impigliati nelle nostre miserie. Il poco bene che compiamo ci acceca e noi ci crediamo abbastanza virtuosi; qusta opinione che facciamo di noi stessi ci impedisce di correggere i nostri difetti, se non con difficoltà. Il buon popolo seguiva Nostro Signore, che rivolgendosi a lui diceva: «Beati i poveri di spirito» (Mt 5,3). E tutte quelle anime buone ricevevano con umiltà il suo insegnamento. Invece i farisei, i dottori della legge, i principi dei sacerdoti non lo seguivano affatto, giudicando falsamente di possedere un vangelo più elevato di quello predicato da Gesù Cristo.

 

Art. 02: L’ignoranza

 

Tre forme di ignoranza, ricordate da S. Lorenzo Giustiniani, dominano tutta la vita di quelli che non si lasciano guidare dallo Spirito Santo.

 

La prima è quella che i santo chiama «nescientia veri et falsi», la mancanza di discernimento del vero e del falso.

 

Questa ignoranza si trova in tutti coloro che, non dandosi pena di studiare i movimenti della loro vita interiore, non sanno distinguere in sé le differenti operazioni di Dio, della natura, del demonio; di modo che quando due diversi sentimenti, come spesso capita, vengono a trovarsi l’uno difronte all’altro, essi considerano quello falso come vero, ritengono un’idea della loro immaginazione od anche una suggestione diabolica come una ispirazione divina; giudicano quasi un impulso della grazia la propria inclinazione. Si concedono tutto ciò che ad essi non sembra male, tutto ciò che ritengono approvato dalla ragione e dal buon senso. È questa la loro unica norma e non seguon gli insegnamenti della fede se non con le attenuazioni ed i cambiamneti suggeriti dalla loro ragione. Per sorreggersi in questa libert, non si basano che sui pretesti di non voler essere scrupolosi né di rompersi la testa, di voler evitare stranezze, di non agire contro i senso comune.

 

Riesce sempre dannoso per diversi motivi a chi è chiamato ad una perfezione eminente il limitarsi ai suggerimenti della ragione e del buon senso, oppure l’appoggiarsi più ad essi che a quelli dello Spirito Santo.

 

1)      Non c‘è mente così acuta, né intelligenza così penetrante che non possa essere ingannata dal demonio.

 

2)      Questo criterio di vita è difettoso, perché in troppi problemi la ragione ha limitate risorse e non semre basta a se stessa per cavarsela nelle diverse evenienze.

 

3)      Essendo un criterio puramente naturale, è basso, ristretto e limita a ben poco i disegni di Dio che sono vasti e di grande estensione.

 

4)      Usurpa i diritti dello Spirito Santo, costituendo la ragione umana regolatrice ed arbitra dei medesimi inviti e ispirazioni divine a cui dovrebbe soggiacere, tanto più che spetta allo Spirito Santo governare e regolare le sue grazie.

 

La seconda forma di ignoranza è chiamata da San Lorenzo Giustiniani: «Nescentia boni et mali», mancanza cioè di discernimento del bene e del male. Consiste precisamente nel non saper seguire la giusta misura e tenere il giusto mezzo, che costituisce la virtù tra le due estremità od eccessi dei vizi che le sono contrari. Ciò non ci può essere suggerito con certezza che dall’ispirazione dello Spirito Santo.

 

Si sa che le virtù morali degenerano in vizio, quando oltrepassano un certo limite, che non è sempre identico, potendo essere spostato dalla minima circostanza di tempo, di luogo, di persona. La ragione da sola può arrivare alle volte a rintracciare questo limite, ma non sempre; essa può illudersi facilmente in questo campo. È solo lo Spirito Santo che insegna a trovare infallibilmente il giusto mezzo ed a rimanervi, senza arrivare ad un eccesso che rovina la salute e senza risparmiarsi col pretesto della discrezione; è Lui che ci fa piegare ora dalla parte della discrezione, ora dalla parte della severità e che ci spinge a maggior mortificazione e preghiera in un certo tempo piuttosto che in un altro. Dal che si deve concludere:

 

a)      fuori dalla Chiesa non vi può esser virtù morale in grado perfetto;

 

b)      ciò che è bene in una certa circostanza, può essere che non lo sia più in un altro momento, come del resto molte usanze, in vigore un tempo nella disciplina della Chiesa, non lo sono più ora; e numerosi canoni degli antichi Concili attualmente non hanno più vigore, perché di secolo in secolo si sono prodotti molti cambiamenti;

 

c)      non si deve accusare la Chiesa di rilassamento, come fanno i protestanti, i quali esaltano la Chiesa antica con la sua disciplina e le sue pratiche, che essi vorrebbero rimettere in vigore, non pensando che lo stesso Spirito che governa la Chiesa, la governa anche al presente, adattandosi nel suo influsso ai tempi ed alle disposizioni diverse dei fedeli.

 

La terza forma d’ignornza è chiamata: «Nescentia comodi et noxii» ossia, mancanza di discernimento di ciò che è utile e di ciò che è nocivo. Si verifica quando tra le cose anche buone in sé noi non riusciamo a distinguere quelle che sono piùz o meno conformi ai disegni di Dio. COì vediamo S. Paolo, combattuto dall’importuna tentazione della carne (cf 2Cor 12,7), non sapeva se gli fosse conveniente o meno l’esserne liberato; ne domandò la liberazione, e lo Spirito Santo gli rivelò che quella tentazione era permessa dalla Provvidenza per la gloria di Dio.

 

Da questo fatto appare che una simile ignoranza può alle volte trovarsi anche nelle persone più sante, almeno in certi casi particolari della loro vita, per quanto solitamente costoro nelle azioni e negli uffici loro vedano ciò che va fatto e ciò che è più perfetto, e ricevono luce dallo Spirito Santo perr conoscere i voleri del Signore, press’a poco come noi dal sole riceviamo la luce per contemplare gli oggetti che si presentano ai nostri occhi.

 

Così pure possiamo persuaderci che se anche tutta la sagacia e il buon senso, che vediamo ripartito fra tutti gli uomini, fosse raccolto in un’anima sola, questa non riuscirebbe nelle differenti circostanze a giudicare ciò che per noi è più perfetto e ciò che è nell’ordine della Provvidenza per il nostro bene. Gli Angeli stessi non lo saprebbero dire; chi infatti potrebbe sapere ciò che Dio vuole da noi, dove ci conduce o per dove vuol condurci, quando le fisionomie interiori dei giusti sono diverse per lo meno come i loro volti?

 

Altra conseguenza: questo discernimento, come i precedenti, appartiene allo Spirito Santo che scruta le profondità del cuore divino e conosce tutti i disegni e voleri suoi, manifestandoli alle anime che si abbandona alla sua azione.

 

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Terzo principio: La Purezza e a custodia del cuore

Parte Prima: La Purezza del cuore

 

Capitolo 05: Cause che dall’esterno corrompono il nostro cuore

 

Art. 01: Il grave danno delle amicizie particolari e della familiarità con le persone lontane dalla perfezione

 

Le amicizie particolari e le familiarità assidue e frequenti tendono ordinariamente alla maldicenza, agli intrighi, a piccoli maneggi, a mormorazioni, a canzonature del prossimo, al disprezzo delle regole a perditempo e ad altri simili difetti.

 

Bisogna invece avere una carità che tutti abbraccia, frequentare nella stessa misura tutti durante le ricreazioni, non evitare né ricercare di preferenza alcuno, non stringere un particolare rapporto con nessuna persona, senza averla precedentemente ben vigilata, così da poter sperare con ragione di trarre profitto dai suoi buoni esempi per il progresso nella virtù.

 

È sempre un vantaggio avere qualcuno nella casa che raccolga la nostra fiducia ed a cui domandare consiglio nei dubbi; egli raccomanderà al Signore il nostro bisogno e poi con franchezza ci dirà il suo parere.

 

Art. 02: Difetti da evitare nelle corversazioni

 

§ 1.      Abbiamo cura che le nostre conversazioni non siano puerili e stiamo attenti a non trattarci mai senza la serietà, il rispetto e l’onore dovuto; evitiamo il vezzo di contraddire gli uni agli altri e di scusarci quando veniamo biasimati, non conversiamo eccessivamente e l’argomento del nostro dire sia soltanto di ordine spirituale; non effondiamoci troppo all’esterno; guardiamoci dal riempire lo spirito nei nostri trattenimenti e nelle ricreazioni con una infinità di cose che servno solo a dissiparci ed a portare turbamento.

 

Bisognerebbe non uscire mai dal nostro raccoglimento, non dimenticare mai la presenza di dio, mantenerci sempre nella modestia e nell’umiltà, parlar poco e non parlare che di cose buone, portar rispetto gli uni agli altri e liberarci uan buona volta dallo spirito di contraddizione che ci porta ad impugnare i sentimento altrui.

 

§ 2.      La nostra conversazione deve essere educata, dolce e gradevole, contenuta nei debiti limiti di una misurata allegria e di una modesta serietà, in armonia con l’umore degli altri; senza contrasti, puntigli, scherzi, leggerezze, adulazioni, aliena dai vezzi e dalle maniere mondane, accompagnata da prudenza e semplicità, piena di edificazione, animata dallo spirto di Dio, pervasa dall’unzione santa, che la grazia comunica alle anime, le quali si lasciano da lei possedere interamente.

 

§ 3.      Dobbiamo anche vigilare perché il cuore e il nostro spirito nelle conversazioni e nelle visite non si fermino e non si limitino alle cose appariscenti. Davanti a qualsiasi oggetto che si presenti ai nostri sensi dobbiamo dire nel nostro interno: «Via, via, non è questo che io cerco; ciò che cerco e desidero è l’unione con Dio; Dio solo è l’oggetto delal mia volontà».

 

Art. 03: Delle visite e delle conversazioni inutili

 

§ 1.      Gran parte delle visite non serve che a far nascere distrazioni. Quelli che nelle visite che fanno, si lasciano guidare da criteri naturali, non riusciranno a recare ai secolari in tutto un mese quel vantaggio che in una sola giornata sanno provocare quelli che sono condotti da motivi soprannaturali.

 

§ 2.      Bisogna mortificare, per quanto è possibile, la curiosità di udire notizie e la voglia smaniosa di diffonderle. Tutto ciò è assai contrario alla vita interiore e dissipa lo spirito. Come un pesce muore fuori dall’acqua, perché non è più nel suo elemento, così lo spirito di raccoglimento sfuma nelle conversazioni, perché viene a trovarsi in un’atmosfera che non è la propria.

 

§ 3.      Com’è doloroso dover vedere (ciò che purtroppo capita qualche volta) un’anima consacrata al Signore che Dio ha tolto dagli intrighi del mondo e che ha messo nella vita reigiosa come in un paradiso terrestre, dove può nutrirsi del pane degli Angeli, del frutto della vita, della manna nascosta, dove nel raccoglimento, nella preghiera e negli stessi rigori della mortificazione può gustare le sole dolcezze e consolazioi che soddisfano a pieno il cuore e dove può bere alle sorgenti pure della grazia; vedere quest’anima, a cui Dio presenta le delizie del cielo e che può trovare in Lui la felicità della vita, perdersi, come le persone del mondo tra i piaceri che inebriano i sensi, gustare la lettura di un libro profano, cercare il proprio contento in visite, in notizie, in vane conversazioni che richiedono sciupo di ore, tempo preziosissimo che si sottrae alle pratiche di pietà, ai doveri del ministero e dell’obbedienza!

 

E come mai può accadere cio? Da qual fascino si lascia trascinare? Fascinatio nugacitatis obscurat bona [Il fascino del vizio oscura il bene] (Sap 4,12).

 

Certe bazzecole diventano sufficienti ad ammaliare un’anima che si è consacrata a Gesù Cristo con promesse solenni, con i santi voti tante volte rinnovati.

 

Esse impediscono di conoscere i beni che Dio ha preparato per quelli che con generosa abnegazione tutto abbandonano per consacrarsi a Lui.

 

Che torrenti di sante delizie Dio versava nell’anima di S. Francesco Saverio, quando, dopo le fatiche e i pericoli di cinque o seimila leghe di viaggio, confessava che anche per una sola di queste divine consolazioni, di cui l’anima sua era inondata, si sarebbe esposto volentieri alle medesime fatiche! Ognuno avrebbe potuto fare lo stesso, se Dio gli avesse fatto gustare le medesime delizie.

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Terzo principio: La Purezza e a custodia del cuore

Parte Seconda: La Custodia del cuore

 

Capitolo 01: Sua natura

 

Art. 01: Che cos’è la custodia del cuore ed in che cosa differisce dall’esame di coscienza

 

La custodia del cuore non altro che l’attenzione che si deve prestare ad ogni moto del cuore e a tutto ciò che avviene nel proprio interno, affinché la nostra condotta sia regolata dallo Spirito di Dio e sia in armonia coi doveri ed obblighi del nostro stato.

 

Da quanto abbiamo detto, possiamo già comprendere come differisca questa pratica dall’esame di coscienza:

 

5)      l’esame si fa in certi tempi fissi, senza nessuna limitazione di temo;

 

6)      l’esame si esercita intorno alle azioni, quando già furono compiute, intorno all’insieme di diversi atti, e di solito intorno ad una parte della giornata, la custodia del cuore invece sta nello scrutare le azioni nel corso del loro svolgimento e nell’applicare lo spirito alle diverse fasi di un’azione, man mano che essa viene compiuta;

 

7)      l’esame è uno sguardo non troppo minuzioso e piuttosto superficiale; la custodia del cuore invece fissa gli oggetti nei particolari, in una visione più distinta ed intima;

 

8)      l’esame affatica la memoria; mentre la vigilanza del cuore non stanca affatto questa facoltà e non è così impegnativa come qualcuno potrebbe a tutta prima credere;

 

9)      non esige affatto uno sforzo violento che obblighi il nostro spirito a concentrarsi; ma soltanto vuole un’applicazione moderata di mente, sorgente di una intima pace interiore e delle maggiori consolazioni che si possono gustare nella vita.

 

Art. 02: Necessità della custodia del cuore

 

Per comprendere quanto importi vegliare incessantemente alla custodia del cuore, basta fare una breve riflessione sulla corruzione della nostra natura, causata dal peccato, sulla guerra continua da sostenere contro i nemici della salute e sui pericoli a cui ci troviamo esposti ogni momento.

 

Poiché è una cosa certa he il nostro cuore, a meno di avere saputo fare notevoli progressi nelal grazia, non è quasi mai senza un qualche disordine, no noperando di solito che nell’agitazione e nell’imurità dell’amor proprio, e opponendoci incessantemente allo Spirito di Dio.

 

Oltre che essere ad ongi momento zimbello della propria incostanza naturale e subire i diversi influssi degli avvenimenti della vita, oltre che esseretenuto in una perpetua alternanza di sentimenti, dovuti alle varie impressioni che si ricevono dlal’esterno, il cuore è ancora soggetto ad una febbre continua di numerose passioni, che per la violenza dei loro eccessi gli impediscono di restare in un giusto equilibrio, dove dovrebbe trovarsi per godere una perfetta sanità.

 

È incessantemente nell’avida ricerca delle proprie soddisfazioni, incessantemente occupato a formar nuovi progetti per appagare la sete di felicità e riempire l’immenso vuoto delle brame, che non potrebbero essere soddisfatte neppure dal godimento di tutte le creature. I lcuore poi è di una estrema delicatezza e sensibilità. La minima cosa l’offende, i minimi assalti lo feriscono. È pieno di raggiri e di finzioni. Ama le illusioni, di cui si pasce, e per colmo di sventura rifugge assolutamente dal consocersi, dallo studiarsi; si effondew invece esteriormente su tutte le vie che gli si offrono, per non essere obbligato a rientrare in sé, perché non riuscirebbe a spprotare la vista dei suoi disordini, né i rimproveri della coscienza.

 

Dato questo stato di cose, non si può credere che dominio eserciti il demonio su un cuore così abbandonato, come egli provochi qualsiasi passioni quando ci si trova alal presenza degli oggetti opportuni od anche con il semplice richiamo di essi: come soffochi le buone ispirazioni, rendendo inutili gli inviti della grazia; come sappia irrobustire ora le inclinazioni, ora le ripugnanze della natura anche di fronte ai più forti impulsi dello Spirito di Dio; come sappia ridestare le antiche abitudini; riaccendere gli affetti spenti, eccitare i sentimenti assopiti, agitare con il ricordo dei peccati passati anche le loro remote origini, attraverso i disegni di Dio e impedire, indebolire o corrompere le operazioni divine.

 

E siccome il cuore rimane aperto all’influsso di tanti oggetti esterni, esposti alle sorprese del nemico sconvolto dalla guerra intestina delle passioni, data la debolezza e la corruzione della natura che ci accompagnano nella vita in un contatto continuo con il mondo così pericoloso, dato i cumulo degli affari che si succedono gli uni agli altri, tra una folla di preoccupaioni che attraggono la nostra attenzione, tra gli allettametni al peccato che si offrino ovunque, è veramente inconcepibile di quanti difetti il cuore vada riempiendosi, come si contamini, quante piaghe riceva senza quasi accorgersene.

 

Da ciò possiamo arguire il bisogno che abbiam di vegliare incessantemente su noi stessi. Siccome la nostra perfezione consiste nell’unione con Dio, è chiaro che non possiamo sperare di raggiungere la perfezione senza una attenzione continua alla vigilanza del cuore, con lo scopo che nulla entri o esca che possa turbare la pace e offuscare la purezza, ambedue assolutamente necessarie per disporre lo spirito all’unione con Dio.

 

È per questo che i maestri di spirito insistono tanto sulla custodia del cuore. Ve ne sono anzi molti che non dannoa chi vuol progredire nella via del Signore che questo solo precetto: Vigilate sul vostro cuore, non perdendo mai di vista il vostro interno.

 

Mi ricordo, agigunge il P. Rigoleuc, che il P. L. Lallemant, che fu uno dei maestri più esperti nella scienza dei Santi, aveva l’abitudine di ripeterci durante il terzo anno di noviziato che una della maggiori grazie che Dio possa elargirci nella Compagnia e che noi con più insistenza dobbiamo chiedere, è quella di essere vigilanti a custodire il cuore in modo da conoscere e correggere, anche i minimi affetti disordinati, perché mancando questa vigilanza se ne insinuano ogni giorno un’infinità che noi non avvertiamo.

 

E se in realtà una simile vigilanza è generalmente necesaria a tutte le anime che aspirano alla perfezione, lo è in particolare ancor di più a coloro che, per dovere di vocazione, sono quasi sempre occupati nei ministeri delal vita attiva; costoro, senza una vigilanza continua, sono nel pericolo di effondersi troppo esteriormente e di conseguenza, oltre che nuocere a se stessi, raccogliere, pochi frutti presso gli altri.

 

Poiché, se è vero che è dalla vita interiore che ricavano ogni efficacia tutte le opere esterne di zelo per le anime, quale valore possederanno, se si trascura di coltivare questa vita interiore? Se, come quei torrenti che per aver il corso delle acque troppo veloce precipitano nella loro discesa, ma si trovano ben presto all’asciutto, anche noi dovessimo espanderci interamente all’esterno con foga, bisognerà meravigliarci se ci troviamo aridi, senza devozione, senza vita interiore? Chi, se non il Signore, comprende pienamente quanto noi compromettiamo il successo dei nostri ministeri a favore del prossimo e quanto il contatto con il mondo ci torni dannoso per la perfezione, e forse anche per la nostra salvezza, per aver mancato di raccogliere le nostre forze interne, per resistere al fascino che gli oggetti esterni esercitano sui sensi ed anche sul cuore?

 

Per qual motivo tanti religiosi, tane persone devote, che pur hanno nobili desideri e che sembra faccian tutto ciò che si deve fare per diventare santi, ricavano così poco frutto dalle loro preghiere, dalle sante Comunioni, dalle buone letture e cme mai dopo di aver atteso a tutte le pratiche della vita spirituale per parecchia anni, non danno prova di averne approfittato? Per qual ragione i direttori che conducono gli altri nella via della perfezione, rimangono essi stessi sempre nele solite imperfezioni? Perché uomini animati da zelo, operai che lavorano con vivo ardore per la salute delle anime, persone che si dedicano interamente alle opere di bene, hanno tuttavia passioni così ardenti, ricadono sempre negli stessi difetti e quasi non si sentono portati alla preghiera? Tutti questi mali sono da ascriversi alla negligenza nel custodire il proprio cuore.

 

Queste persone lasciano da parte il proprio interno, per consacrarsi alle attività esteriori.

 

E a ciò si deve attribuire la quantità di difetti che ad esse sfuggono, i mille loro pensieri inutili, le molte parole inconsiderate, gran parte dei loro trasporti d’ira, i moti sregolati e le azioni puramente  istintive che prevengono la grazia e la libertà. Tutto ciò non capiterebbe, se avessero un’attenzione attuale a regolare la loro condotta interiore e si risparmiassero un po’ nelle attività esterne, per impedire che le passioni, che in esse trovano uno stimolo, abbiano a prendere piede con tanto maggior danno delle anime, in quanto riescono a camuffarsi sotto la speciosa apparenza dello zelo e della virtù.

 

Dobbiamo dunque riconoscere che la custodia del cuore è tanto necessaria all’incremento della vita spirituale, che vi si progredisce quanto più si pratica questo eccellente esercizio.

 

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Terzo principio: La Purezza e a custodia del cuore

Parte Seconda: La Custodia del cuore

 

Capitolo 02: Come vivere la custodia cuore

 

Art. 01: Pratica della custodia del cuore

 

Suppongo che dopo un corso di esercizi ed una Confessione generale un’anima abbia presa la generosa risoluzione di essere tutta di Dio a qualunque costo e di tendere con tutte le sue forze alla perfezione; che poi sia stata usata tutta la diligenza necessaria per conoscere il proprio interno, le proprie passioni e cattive abitudini, le vie di Dio e la condotta che Egli ispira. Supposto tutto questo, ecco in qual modo dobbiamo praticare la custodia del cuore lungo il corso della giornata:

 

1)      Fin dal mattino dobbiamo fare il buon proposito di vegliare sul nostro interno per regolare azioni, parole, pensieri e momenti secondo lo Spirito di Dio.

 

2)      Cerchiamo di prevedere e prevenire le occasioni delle solite mancanze, in cui potremmo cadere o per abitudine, o per sorpresa.

 

3)      Nelle occasioni di peccato, o di una tentazione o passione che vi potrebbe trascinare, resistiamo con decisa fermezza.

 

4)      Accogliamo in tutta la loro estensione le ispirazioni di Dio, gli impulsi della grazia, seguendoli senza indugio e senza riserve.

 

5)      Rientiamo in noi stessi quanto più ci è possibile e particolarmente in certi determinati momenti coem, per esempio, al suono dell’orologio, o quando cambiamo la occupazione e soprattutto dopo quelle più lunghe e importanti; e per quanto possiamo trovarci ingolfati negli affari e nelle occupazioni, non perdiamo mai di vista il nostro interno, ma gettiamoci i quando in quando uno sguardo indagatore.

 

6)      Teniamo nota per iscritto, più volte al giorno, delle nostre mancanze: questo eserczio è di tale importanza che, omettendolo, tutto i lresto non potrà giovare gran che.

 

Un simile controllo può sembrare gravoso; ma ci sobbarcheremo volentieri a questa fatica pensando che dovendo portare impressi nelle anime nostre a grossi caratteri e leggibili per tutta l’eternità i nostri peccati, se non li cancelliamo con la penitenza, è ben giusto scriverli almeni sulla carta, affinché leggendoli abbiamo ad essere spinti a piangerli. Questa fatica del resto sarà la prima punizione che ci imporremo per le nostre mancanze e l’offriremo a Dio come il primo frutto della nostra compunzione.

 

Infine cerchiamo di ridestare un continuo dolore dei nostri peccati, u distacco completo da noi stessi e dalle nostre inclinazioni, una preparazione di spirito per ogni croce, per ogni distacco e privazione, come anche per i doni e le cosnoazini spirituali. Così, col cuore che resta aperto alle comunicazioni di Dio, sensibile agli impulsi della grazia, pronto all’obbedienza dei voleri divini, generoso e vigile a soffocare i sentimenti meno retti, faremo mirabili progressi ed arriveremo alla più alta perfezione, se sapremo essere costanti.

 

Sono questi, mi sembra, i punti essenziali della custodia del cuore. Si può aggiungere che nei controlli di ogni settimana, di ogni mese, non si deve tralasciare di esaminare con qual cura abbiamo praticato questo esercizio e quale ne fu il profitto.

 

Per riassumere in breve quanto si riferisce alla vigilanza del cuore, rendendola anche più facile diremo che essa esige un’attenzione attuale, od almeno frequente, sul proprio interno per reprimervi ogni sentimento contrario alla grazia e per seguire in tutta la loro portata gli impulsi dello Spirito Santo.

 

Art. 02: Utilità e vantaggi della custodia del cuore

 

È veramente questo l’esercizio essenziale della vita di purificazione. È l’esecuzione del comando così esplicito che Nostro Signore ci rivolge per essere vigilanti nell’attesa della sua venuta. È la sentinella che vigila presso il letto dello sposo. È la via più diretta e più breve, come anche più facile, per giungere alla santità. È ciò che comunemente vien chiamato vivere secondo lo Spirito. È la disposizione che il Signore richiede da noi per comunicarsi alle anime nostre e unirci con Sé. È l’accesso alle vie straordinarie della grazia.

 

Con questo esercizio gli antichi eremiti dell’Egitto e della Libia, senza direzione spirituale, senza aiuti umani, senza la frequenza ai Sacramenti, si sono innalzati alla più alata perfezione; poiché la cura che avevano di vigilare alla custodia del cuore suppliva alla mancanza di tutti gli altri mezzi ed era la risorsa di tutti questi santi per vincere l’orrore ed il peso della solitudine, per perseverare nel più completo distacco e nelle mirabili austerità di cui hanno lasciato così rari esempi e per riportare sui demoni le gloriose vittorie, che destano tanto stupore in chi legge.

 

Fu principalmente con questo esercizio che S. Iganzio governò i nostri primi padri nel fervore della loro conversione, disponendoli alle mirabili imprese che a Dio piacque compiere per mezzo loro nelle diverse parti del mondo.

 

Ed anche noi ogni giorno constatiamo che come agli inizi,così anche gli sviluppi ed i progressi della vita spirituale sono dovuti alla custodia del cuore; i progressi anzi sono proporzionati all’applicazione di ognuno ad essa. Non vi può essere né direttore né libro migliore di questo controllo continuo sul proprio interno per conoscersi e per attendere alla propria formazione. Sarà da essa che impareremo a regolare tutta la nostra condotta secondo i disegni del Signore, a compiere ogni nostra attività nella purezza del suo amore; a moderare le nostre passioni ed a soffocare i primi moti dal loro sorgere. Sarà per noi come un occhio sempre nella luce; e cresceremo quasi ad ogni momento in grazia ed in meriti. Ci prepareremo a ricevere la pienezza dei doni dello Spirito Santo, e gli lasceremo la più completa libertà di condurci e di operare in noi e per mezzo nostro ciò che a Lui piacerà. Avremo accesso al regno di Dio, dove si trova la pace dello spirito e quella dose indispensabile di coraggio per progredire nello spirito e toccare la cima della perfezione. Scopriremo nel nostro intimo un mondo nascosto per coloro che hanno occhi soltanto per fissare le esteriorità di questo mondo visibile che passa come un sogno; scopriremo un’altra vita sconosciuta a chi si lascia affascinare dai piaceri della vita presente. Vedremo come un grande teatro, dove, tre diversi spiriti, quello di Dio, quello della carne e quello del male, si muovono incessantemente o tutti insieme o separatamente; vi contempleremo come un campo di battaglia, dove questi tre spiriti lottano senza tregua e senza sollievo per la conquista della nostra anima. Cento volte a giorno potremo notare in questi spettacoli ed in queste lotte interne le debolezze della natura, le astuzie del demonio, gli artefici e isotterfugi dell’amor proprio, ancor più temibile del demonio, i metodi amorosi dello spirito di Dio e le ammirabili risorse della grazia. Saremo ammessi all’intimità con Nostro Signore e diventeremo suoi discepoli alla scuola del cuore, dove in un solo istante si può imparare più che non sappiano insegnare i maestri della terra durante un secolo.

 

Questo raccoglimento interno ci renderà capci di promuovere il bene del prossimo. Per mezzo suo acquisteremo una prudenza soprannaturale, in un umore uguale e costante, in una perfetta ed immutabile dipendenza da Dio; e quando non facessimo altro che praticare con fedeltà la custodia del cuore senza compiere a zioni strepitose né imporci mortificazioni straordinarie, ma limitandoci a ciò che il dovere del nostro stato e l’obbedienza comanda, e considerandoci sempre come una sentinella in una piccola trincea interiore per spiare i moti del cuore, non mancheremo di arrivare ad una santità sublime. Al contrario, anche se noi ricevessimo le grazie più straordinarie, se facessimo le più sorprendenti penitenze ed esercitassimo i più nobili ministeri di zelo e carità, non potremo progredire molto, né gusteremo mai le delizie nascoste nella vita interiore e neppure la dolcezza della presenza dello Spirito Santo, perché non ci prendiamo cura di vigilare sul nostro cuore.

 

Facciamone la prova: riconoscereo tosto per esperienza che le passioni sono la causa più ordinaria dei nostri disgusti e gli strumenti dele nostre pene; che soltanto le deviazioni del cuore sono la causa precipua dei cambiamenti di umore, cui andiamo soggetti durante la vita e che una volta che il peccato è distrutto, che le passioni sono mortificate, che i movimenti del cuore sono regolati e sottomessi allo Spirito Santo e che tutto nel proprio interno è all’ordine, l’anima si sente così ripiena di luce, così ricolma di gioia, che gusta già un anticipo del paradiso, riconsoce per sensibile esperienza che santità e felicità sono due inseparabili compagne, anzi due sorelle, che non stanno mai una senza l’altra.

 

Art. 03: Il raccoglimento interno: in che cosa consiste e quanto sia necessario

 

Siccome la vita interiore consiste nell’unione e nell’adesione dell’intelligenza e della volontà a Dio e alle cose sante, per essere anime di soda interiorità bisogna:

 

1)      che la mente sia sciolta dal tumulto e dalla confusine, dalle cure superflue e dai pensieri inutili, e che vigili incessantemente alla custodia del cuore;

 

2)      che la volontà sia liberata dalle passioni e dagli affetti, che la portano alle cose esteriori ed inoltre che tutta la propria inclinazione sia per il raccoglimento.

 

Svuotandosi lo spirito, con questo mezzo, di tutto ciò che lo poteva distrarre, liberandosi il cuore da quanto lo poteva turbare, mentre i sensi son tenuti a freno e una profonda pace inonda le potenze de’anima, si va diventando, come osserva S. Vincenzo Ferreri, più interiori e ci si trova in condizione di non essere occupati che del Signore e delle cose divine, e di riferire a Lui ed al suo servizio ogni azione e movimento, anzi tutta la nostra vita.

 

L’edifico spirituale di un’anima ha coma fondamento questo raccoglimento interiore, senza del quale è impossibile ogni progresso nella perfezione; e si può affermare che tutte le grazie che un’anima non stabilita su questo fondamento riceve da Dio non sono che fugaci scie tracciate nell’acqua od instabili segni impressi nella sabbia. Perché per progredire nella perfezione è di assoluta necessità l’unirsi empre più a Dio, il quale fissa la sua dimora solo nella pace e nel raccoglimento dell’anima, che non sia soggetta alla dissolutezza dei sensi, che non sia turbata dal frastuono delle occupazioni esteriori.

 

È questo il motivo che determina molti maestri di vita spirituale a fissare un solo precetto: Siate interiori; che è come dire: Non effondetevi all’esterno; non perdete mai di vista il vostro cuore; fate tutto alla presenza di Dio.

 

I più grandi Santi sono stati molto interiori e San Gregorio Magno osserva che Dio non permette alle anime che gli sono care di applicarsi alle attività esteriori. Allo stesso modo, nelle famiglie nobli sono i servi che attendono ai servizi all’esterno, mentre i figli si fermano in casa.

 

Dobbiamo però essere vigilanti a non esimerci dai doveri dell’obbedienza e della carità, col pretesto di non esaurirci nell’attività esteriore. Poiché è vero che quando ci si consacra ad essa nello spirito della propria vocazione, allora non è affatto sorgente di dissipazione, come nota S. Giovanni della Croce e come l’esperienza, lo dimostra negli uomini zelanti.

 

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  Quarto principio: Docilità alla direzione dello Spirito Santo

 

Capitolo 01: Natura della docilità allo Spirito Santo che ci guida

 

Art. 01: In che cosa consista questa docilità

 

§ 1.      Quando un’anima si è abbandonata alla guida dello Spirito Santo, viene da Lui governata ed elevata graduatamente. Dapprima non arriva a comprendere dove tende; ma poi a poco a poco la luce interiore la illumina e le rende manifesto il proprio agire ed il governo di Dio nelle proprie azioni, così che non le resta altro da fare che lasciar libero corso in sé e per mezzo proprio all’opera ed al beneplacito del Signore; e così essa progredisce meravigliosamente.

 

§ 2.      Abbiamo un esempio della condotta che segue lo Spirito Santo in quella che fu tenuta dal Signore di fronte agli Israeliti, quando, usciti, dall’Egitto, compirono il loro viaggio attraverso il deserto per raggiungere la terra promessa. Perché avessero una guida, concesse ad essi di giorno una colonna nuvolosa, di notte una colonna di fuoco. Si era messo il popolo alla sequela di questa colonna, fermandosi al fermarsi di essa; non la precedeva mai, ma soltanto le teneva dietro, senza mai allontanarsene. Ecco come dobbiamo comportarci di fronte alla Spirito Santo.

 

Art. 02: Mezzi per conseguire questa docilità

 

I principali mezzi per lasciarci docilmente guidare dallo spirito Santo sono i seguenti:

 

3)      Obbedire con fedeltà ai voleri del Signore, che già ci sono noti; ve ne sono poi parecchi che noi non conosciamo, perché siamo immersi in una grande ignoranza; ma Dio ci chiederà conto soltanto delle cognizioni che ci avrà comunicato. Facciamone un buon uso, anche per meritarcene altre. Compiamo quei suoi disegni che già ci ha fatto conoscere penserà poi Lui a manifestarci gli altri.

 

4)      Rinnovare spesso il buon proposito di seguire in tutto la volontà di Dio, consolidandoci in questa decisione quanto più è possibile.

 

5)      Domandare continuamente luce e forza allo Spirito Santo per compiere i voleri divini, legarci ad aderire a Lui, come S. Paolo che diceva ai presbiteri di Efeso: «Ecco che io legato dallo spirito, vado a Gerusalemme» (At 20,22). Implorare la luce dello Spirito Santo da Dio protestandogli sinceramente di non aver altro desiderio che di compiere la sua volontà, quando dobbiamo sottostare ad un cambiamento negli uffici di maggior importanza. Se dopo queste suppliche il Signore non ci concederà nuova luce, continueremo a compiere ciò che già prima avevamo l’abitudine di fare e ciò che ci apparrà più opportuno al momento. È per questo che si usa implorare l’assistenza dello Spirito Santo con S. Messe votive che si celebrano in suo onore, quando si mette mano ad affari di somma importanza, come l’apertura di Parlamenti, di Assemblee del clero, di Concili.

 

6)      Controllarare con esattezza i diversi moti dell’anima nostra. Con questa diligenza arriveremo gradatamente a conoscere ciò che proviene da Dio e ciò che non viene da Lui. In un’anima sottomessa alla grazia, ciò che viene da Dio, porta pace e tranquillità, ciò che viene dal demonio , violenza ansietà turbamento.

 

Art. 03: Obbiezioni contro questo insegnamento sulla direzione dello Spirito Santo

 

Quattro particolari obbiezioni si muovono di solito contro la direzione dello Spirito Santo.

 

La prima è che essa sembra avere quacosa di simile allo spirito interiore dei Calvinisti.

 

A questa si può rispondere:

 

1)      È di fede che senza la grazia di una ispirazione interna (ed in questo consiste la guida dello Spirito Santo) non si può fare alcuna opera soprannaturalmente buona; asserire il contrario è cadere nell’errore dei semipelagiani.

 

2)      I Calvinisti hanno la pretesa di regolare tutto con il loro spirito interiore, sottomettendogli perfino la Chiesa e le sue decisioni, non riconoscendo nessun’altra regola alla propria fede ed avendo inoltre inventato questa erronea dottrina per sbarazzarsi della Tradizione, dei Concili, dei Padri; la direzione invece che noi riceviamo dallo Spirito Santo per mezzo dei suoi doni suppone la fede e l’autorità della Chiesa, che sono riconsciute come forze direttrici, non ammettendo nulla che sia opposto ad esse e non tendendo che al perfezionamento della pratica della fede e delle altre virtù.

 

La seconda obbiezione è che sembra che questa guida interiore dello Spirito Santo distrugga l’obbedienza dovuta ai Superiori. Contro questa difficoltà si può rispondere:

 

1)      Come l’ispirazione interna della grazia non distrugge la fede quando ci vengono proposti gli articoli da credere, ma anzi inclina con dolce influsso la nostra mente alla fede, come anche il lasciarsi guidare dai doni dello Spirito Santo, ben lungi dal distogliere dall’obbedienza, ne aiuta e facilita la pratica.

 

2)      Tutta questa direzione interna, come anche le rivelazioni che ci vengono dall’alto, devono essere sempre subordinate all’obbedienza e devono sempre essere interpretate alla luce della tacita condizione che l’obbedienza non imponga altro.

 

Nella nostra condizione di vita religiosa dobbiamo concedere un credito maggiore al comando del nostro Superiore che non a quello che Nostro Signore ci potrebbe imporre immediatamente per mezzo di una rivelazine, perché siam ben sicuri che Egli vuole che ci comportiamo nelle rivelazioni come hanno fatto i Santi, i quali, sottomettendosi all’obbedienza, meritarono di essere elevati ad una santità maggiore di quella che avrebbero raggiunto se si fossero attenuti alle loro rivelazioni.

 

La sola cosa che abbiamo da temere è che i Superiori qualche volta seguano troppo la prudenza umana e che condannino, come illusioni e fantasie, le illuminazini e le aspirazioni dello spirito Santo, rifiutandosi di applicare altri principi di discernimento, e riducendosi ad affidare alle cure di un dottore chi è invece favorito da queste comunicazini divine.

 

Ed anche in questo caso bisognerebbe obbedire: Dio poi saprà correggere l’errore di queste persone che agiscono temerariamente, insegnando loro a proprie spese a non condannare le grazie che Egli accorda, senza prima conoscerle e senza essere in grado di giudicarle.

 

Ciò che le rende incapaci ad acquistare il giusto discernimento è che esse vivono sempre assorbite dalle cose esteriori e nel trambusto, e che sono poco dedite alle cose dello spirito, non avendo superato i primi gradi dell’orazione. Mentre ciò che li spinge a trinciar giudzi è il non voler apparire ignorante in quelle cose, di cui tuttavia non posseggono né scienza né esperienza.

 

La terza obbiezione è che questa guida interna dello Spirto Santo sembra rendere inutile il consultare altri ed il prendere delle deliberazioni. Perché infatti domandare il parere degli uomini, quando ci dirige lo Spirito Santo? Si può rispondere che lo Spirito Santo stesso ci porta a consultare le persone assenante ed a seguire il parere degli altri. È stato Lui che ha mandato Paolo da Anania, affinché da questi venisse a conoscere ciò che doveva fare. Nelle consultazioni ordinarie poi nella nostra Compagnia, se il Superiore è un uomo interiore e di spirito arriverà a conoscere meglio la volontà di Dio e a distinguere ciò che è più opportuno nelle circostanze presenti dagli stessi pareri che verranno suggeriti.

 

La quarta obbiezione è mossa da alcuni che si lamentano di non essere favoriti da questa direzione dello Spirito Santo e di non poter arrivare a conoscerla. A costoro si può rispondere:

 

1)      Quelle illuminaizoni e ispirazioni dello Spirito Santo, che sono necessarie per fare il bene ed evitare il male, non mancano mai, specialmente quando si è in grazia di Dio.

 

2)      Vivendo dediti alle cose esteriori, come essi fanno, e non rientrando mai in se stessi, non applicandosi ai propri esami di coscienza che molto superficialmente, non curandosi che delle esteriorità e dei soli difetti che appaiono agli occhi del mondo, senza ricercarne le radici nascoste, le passioni, le abitudini dominanti, senza neppure esaminare lo stato, la disposizione e i movimenti del cuore, non possono far le proprie meraviglie di non conoscere la direzione dello Spirito Santo, che è una grazia interiore. Come potrebbero pretendere di conoscerla, mentre non conoscono neppure i peccati interni, che sono atti loro propri, compiuti con libertà? Essi invece arriveranno infallantemente a conoscerla se apporteranno le seguenti indispensabili disposizioni:

 

A.  Devono essere fedeli a seguire le illustrazioni che saranno concesse ad essi e che andranno sempre più crescendo.

 

B.   Diano un taglio netto ai peccati e alle imperfezioni che, come altrettante nubi, tolgono da essi queste illustrazioni; in tal modo guadagneranno una visione sempre più chiara.

 

C.   Non permettano affatto ai propri sensi esterni di smarrirsi o di macchairsi al contatto di sensi già rovinati; Dio in compenso aprirà loro i sensi interni.

 

D.  Non escano mai, se è loro possibile, dal proprio interno e vi ritornino quanto prima; prestino molta attenzione a quanto vi capita; arriveranno così a discernere gl’impulsi dei diversi spiriti che li portano ad agire.

 

E.   Scoprano con sincerità l’intimo del loro cuore al proprio Superiore o al proprio padre spirituale. Un’anima che ha questa candida semplicità, non può mancare di certo del grande favore della direzione dello Spirito Santo.

 

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Quarto principio: Docilità alla direzione dello Spirito Santo

 

Capitolo 02: Motivi che inducono a questa docilità

 

Art. 01: La perfezione e la stessa salvezza dipendono dalla docilità alla grazia

 

§ 1.      I due elementi costitutivi della vita spirituale sono la purificazione del cuore e la direzione dello Spirito Santo. Sono questi i due poli della spiritualità cristiana. È attraverso queste due vie che si arriva alla perfezione in proporzione al grado di purezza acquistata e della fedeltà con cui si è cooperato agli impulsi dello Spirito Santo e si è assecondata la sua direzione.

 

Tutta la nostra perfezione dipende da questa fedeltà, e si può affermare che il compendio di tutta la vita spirituale sta nello studiare nell’anima nostra i criteri e gli impulsi dello Spirito di Dio e nel fortificare la nostra volontà nella risoluzione di esservi fedeli, servendoci a questo scopo delle pratiche di pietà, della lettura spirituale, dei santi Sacramenti, dell’esercizio delle virtù e delle opere buone.

 

§ 2.      Alcuni arrivano a molte belle pratiche e compiono un gran numero di atti esterni di virtù. Costoro sono assorbiti dalla pratica materiale della virtù. Ciò può riuscire utile agli inizi della vita spirituale; ma la più sublime perfezione sta nel seguire le attrattive interne dello Spirito Santo e nel regolarsi sul suo impulso. È vero che si trova minor soddisfazione sensibile in questo ultimo modo di agire; ma vi è invece maggior virtù ed interiorità.

 

§ 3.      Lo scopo a cui dobbiamo tendere, quando ormai da tempo ci saremo esercitati alla purificazione del cuore, è di essere posseduti e diretti dallo Spirito Santo in modo che Lui solo guidi tutte le nostre potenze e tutti i nostri sensi e regoli ogni nostro movimento interno ed esterno; a Lui solo noi ci affidiamo interamente con una rinuncia sincera ad ogni nostro volere e soddisfazione. Allora non vivremo più in noi stessi, ma in Gesù Cristo, per mezzo di una corrispondenza fedele all’operazione del suo divino Spirito e della perfetta sottomissione di tutte le nostre ribellioni al potere della sua grazia.

 

§ 4.      Pochi sono coloro che raggiugono le grazie assegnate ad essi da Dio o che arrivano in seguito, dopo averle perdute, a riparare un tale danno. La grande parte manca di coraggio per vincersi, e di fedeltà per usare con profitto dei doni di Dio.

 

Una volta che siamo entrati nella via della virtù, dopo i primi passi nel’oscurità, se continuiamo a seguire con fedeltà e costanza la grazia, arriveremo infallantemente ad una grande luce, a tutto vantaggio nostro e degli altri.

 

Vorremmo diventar santi in un giorno e manchiamo di pazienza nell’aspettare il corso ordinario della grazia. A base di ciò sta il nostro orgoglio e la nostra poltroneria. Restiamo fedeli invece a cooperare alle grazie che Dio ci offre, ed Egli non mancherà di guidarci alla realizzazione dei suoi disegni.

 

§ 5.      È certo che la nostra salvezza nella Compagnia, come del resto in ogni altra Religione [=famiglia religiosa], dipende assolutamente dalla nostra corrispondenza interiore alla direzione dello Spirito di Dio. Se non seguiamo con fedeltà Nostro Signore, siamo in grave pericolo di perderci e non possiamo comprendere il danno che arrechiamo alla Compagnia ed alla Chiesa. Ora, a quanti peccati veniali conserviamo piccoli attaccamenti! Quante imperfezioni abbiamo! Quanti disegni e desideri che non sono ispirati dagli impulsi della grazia! Come ogni giorno immergiamo il nostro spirito in pensieri inutili, senza contare poi i pensieri di affanno e di angoscia!

 

Ciò ritarda il trionfo del regno di Dio in noi più di quel che si possa credere, e torna di grande danno al prossimo, perché Nostro Signore ci ha scelti suoi Ministri, affidandoci il suo Sangue divino, i suoi meriti, la sua dottrina, i tesori della sua grazia: ministero questo che, elevandoci al di sopra della natura angelica, esige che l’esercitiamo con la fedeltà più perfetta di cui siamo capaci. Eppure, cosa sorprendente, con qual negligenza ed infedeltà ce ne occupiamo!

 

§ 6.      Il nostro maggior male è l’opposizione mossa da noi ai disegni di Dio e la resistenza che facciamo alle sue ispirazioni. Infatti o noi non le vogliamo ascoltare, oppure, dopo d’averle accolte, el respingiamo, oppure, una volta ricevute, le attutiamo o le contaminiamo con mille imperfezioni di affetti vili, di compiacenza in noi stessi e di personale soddisfazione.

 

Eppure il punto centrale della vita dello spirito consiste in disporsi alla grazia per mezzo della purificazione del cuore, in modo tale che, di due persone che si consacrano nello stesso tempo al servizio di Dio, delle quali l’una si dia alle opere buone e l’altra si applichi interamente a purificare il proprio cuore ed a togliere tutto ciò che si oppone in lei alla grazia, quest’ultima arriverà alla perfezione due volte più in fretta della prima.

 

Di conseguenza, la nostra precipua cura dev’essere, non tanto leggere opere spirituali, quanto piuttosto prestare molta attenzione alle ispirazioni divine, che sono sufficienti anche con limitate letture; ed anche essere fedelissimi a corrispondere alle grazie che ci sono elargite.

 

Dobbiamo inoltre domandare spesso al Signore che ci conceda di riparare, prima della morte, la perdita di tutte le grazie che abbiamo subito, e di arrivare all’altezza del merito, a cui voleva sollevarci, seguendo a sua primitiva intenzione, da noi continuamente frustrata con le nostre infedeltà; ed infine pregarlo che ci perdoni i peccati altrui di cui fummo causa e che si degni di riparare anche negli altri la perdita della grazia che essi hanno subito per colpa nostra.

 

§ 7.      Capita alle volte che, dopo aver ricevuto dal Signore una buona ispirazione, ci troviamo tosto assaliti da ripugnanze, da dubbi, da perplessità, da difficoltà, le quali nascono dal fondo della nostra natura corrotta e dalle passioni contrarie all’ispirazione divina. Se noi però accogliessimo queste ispirazioni con interiore sottomissione del cuore, questa ci riempirebbe della pace e della consolazione che lo spirito di Dio porta con sé e comunica alle anime in cui non trova resistenza.

 

§ 8.      I lumi della grazia penetrano a poco a poco in noi, in proporzione della nostra disposizione interna; allo stesso modo si estinguono, lasciandoci nelle tenebre. Proprio come succede nella natura, dove si alternano i giorno alla notte; per di più diventiamo simili a quei popoli che abitano le regioni polari, i quali godono della luce del sole più o meno a lungo, secondo che si trovino più o meno vicini al polo. Ora, noi dobbiamo aspirare al godimento di una luce eterna, che risplenderà nell’anima nostra quando, dopo averla accuratamente purificata, seguiremo sempre la guida dello Spirito Santo.

 

Art. 02: Sono poche le anime perfette, perché sono pochi coloro che seguono la guida             dello Spirito Santo

 

§ 1.      Il seguire quasi in tutto la natura e i criteri umani ci impedisce di raggiungere la perfezione od è la causa di arrivare molto tardi. Ci si lascia guidare troppo poco o niente del tutto dallo Spirito Santo, la cui proprietà è di portar luce, di dirigere, di infervorare.

 

La maggior parte dei religiosi, anche dei buoni e virtuosi, non seguono nella loro condotta personale e nella direzione degli altri che la ragione e il buon senso; ed in questo, anzi, eccellono. Tale criterio, pur essendo buono, nella perfezione cristiana è insufficiente.

 

Tali persone si regolano ordinariamente sul sentimento comune di quelli con cui vivono; e siccome costoro, per quanto la loro vita non sia sregolata, vivono ancor lontani dalla perfezione, essendo assai piccolo il gregge dei perfetti, non riescono perciò mai a toccare le sublimi altezze della vita spirituale; si conformano alla massa; imperfetta è pure la loro maniera di dirigere gli altri. Per qualche tempo lo Spirito Santo pazienta, affinché essi abbiano a rientrare nel loro interno e, discernendovi le diverse operazioni della grazia e della natura, si decidano a lasciarsi guidare da Lui; ma essi abusano del tempo e del favore concesso, alla fine li abbandona a se stessi, lasciandoli in quell’oscurità e in quell’ignoranza delle proprie condizioni interiori, della quale si resero colpevoli e in cui ormai vivono a grave rischio della propria salvezza.

 

§ 2.      Si può asserire con verità che assai poche sono le anime che abbiano costanza nel seguire le vie di Dio. Molti deviano incessantemente; è vero che lo Spirito Santo li richiama con le sue ispirazioni, ma siccome sono indocili, pieni di se stessi, attaccati ai propri sentimenti, inorgogliti del proprio senno, non si lasciano guidare con docilità, non entrano che raramente nella via tracciata da Dio, e vi stanno per poco, perché ritornano alle loro idee e ai loro disegni, che li ingannano grandemente. E in questo modo non fanno molti progressi, e sono sorpresi dalla morte quando hanno fatto pochi passi, mentre avrebbero potuto correre assai, se si fossero abbandonati alla direzione dello Spirito Santo.

 

Al contrario, le persone di vita interiore che si lasciano guidare dalla luce dello Spirito di Dio, alla quale sono ben disposte perché il loro cuore puro e di perfetta docilità, vanno a passo di gigante e volano, per così esprimerci, nelle vie della grazia.

 

Art. 03: Eccellenza della grazia e ingiusta resistenza che le opponiamo

 

§ 1.      Dobbiamo accogliere ogni ispirazione come fosse una parola del Signore, che procede dalla sua sapienza, misericordia e bontà infinita e che può produre in noi meravigliosi effetti, se non le opponiamo resistenza. Pensiamo a ciò che può operare la parola di Dio: essa creò il cielo e la terra, traendo le creature dal nulla alla partecipazione dell’essere di Dio nello stato di natura, perché non trovò resistenza nel nulla. Se non la resistessimo, opererebbe in noi cose anche maggiori. Ci trarrebbe dal nulla morale alla partecipazione soprannaturale della santità di Dio nello stato di grazia ed ala partecipazione della felicità divina nello stato di gloria. E noi ci sentiremmo il coraggio di ostacolare questi grandi effetti della parola del Signore, per un leggero punto di onore, per un incarico che possa soddisfare la nostra vanità, per il lieve piacere di un momento, per una sciocchezzuola qualsiasi? Al pensare a ciò, chi non riconosce che ha avuto ragione la Sapienza di dire che il numero dei pazzi è infinito (Qo 1,15).

 

§ 2.      Se noi potessimo controllare in qual modo sono ricevute le ispirazioni del Signore nella nostra anima, vedremmo che esse rimangono, per così dire, alla superficie, senza penetrare più addentro, poiché l’opposizione che trovano in noi impedisce ad esse di lasciarvi la propria impronta. Ciò è dovuto al fatto che non lavoriamo a sufficienza attorno all’anima nostra e non serviamo il Signore con perfetta dedizione di cuore. Ed allora, affinché le grazie conseguano nel cuore dei peccatori il proprio effetto, bisogna che vi entrino con rumore e violenza, poiché vi incontrano forti resistenze; esse invece penetrano senza strepito le anime possedute da Dio, riempiendole di quella soave pace che è inseparabile dallo Spirito del Signore.

 

Al contrario poi, le suggestioni del demonio non hanno presa sulle anime buone perché queste vi scoprono, come predominanti, dei principi opposti.

 

§ 3.      Una della peggiori nostre disgrazie è che noi siamo talmente sensuali ed ammaliati dalle cose esteriori, che non stimiamo, ammiriamo, gustiamo se non quanto è circondato da splendore capace di lusingare i nostri sensi; è tuttavia di fede, che la minima ispirazione di Dio è più preziosa ed eccellente del mondo intero, perché di ordiine soprannaturale ed è costata il sangue e la vita di un Dio.

 

Quanto è grande la nostra stupidità, essendo insensibili alle ispirazioni del Signore, che pur sono spirituali ed infintamente elevate sopra i nostri sensi! Non ne facciamo un gran caso, preferendo i talenti naturali, le cariche onorifiche, la stima degli uomini, le nostre piccole comodità e soddisfazioni. Incredibile è la nostra illusione, di cui parecchi non giungono a liberarsi che all’ora della morte.

 

§ 4.      Nei confronti di Dio commettiamo due gravi ingiustizie:

 

a)      Perché riconosciamo sì di aver bisogno dello Spirito Santo e della sua assistenza, ma poi non gli lasciamo la direzione dell’anima nostra e vogliamo usare delle sue grazie di nostra iniziativa, senza dipendere dalle sue sante direttive sul loro uso e nei nostri criteri interiori; e ciò equivale ad usurpare i diritti dello Spirito Santo ed arrogarsi l’ufficio che gli è proprio; a Lui solo infatti appartiene dirigere le anime.

 

b)      Perché riempiamo con le creature la parte più intima dell’anima nostra, che pure appartiene a Dio soltanto, a nostro proprio svantaggio; ed invece di dilatarla all’infinito con Dio, che le è presente, noi la restringiamo esageratamente con le meschine inezie del nulla. Ecco il grande impedimento alla perfezione.

 

Art. 04: Lo Spirito Santo divino Consolatore delle anime fedeli

 

S. Atanasio osserva che in tutto l’Antico Testamento non si ricorda mai lo Spirito Santo con il nome di Consolatore: Paraclitus.

 

La ragione è espressa in quelle parole di Nostro Signore: Se Io non me ne vado, il Consolatore non verrà a voi; ma se me ne vado, ve lo manderò (Gv 16,7). Bisognava che il Verbo Incarnato entrasse nella gloria, prima di mandare lo Spirito Santo come Consolatore.

 

La consolazione spirituale che lo Spirito Santo comunica è molto più vantaggiosa di quella che sarebbe stata la presenza corporale del Figlio di Dio. È per questo che Gesù diceva ai suoi discepoli: «È meglio per voi che Io me ne vada» (Gv 16,7).

 

In tre campi lo Spirito Santo diventa il nostro particolare consolatore:

 

1)      Nella incertezza della nostra salvezza, che è davvero terribile, perché tutti i nostri sensi, interni ed esterni, tutte le nostre potenze, tutte le nostre passioni e azioni sono principi di dannazione eterna.

 

È questa una verità di fede, perché senza la grazia, nello stato di natura corrotta in cui viviamo, tutto è vizioso in noi, e nella maggior parte le nostre azioni sono cattive e, spesso, meritevoli di dannazione. Inoltre tutti gli oggetti che si offrono dal di fuori sono occasioni di male: le ricchezze, gli onori, i piaceri, tutto è pieno di lacci.

 

Si aggiunga che non possiamo meritare la perseveranza finale; e se, come Salomone e Tertulliano, la guida e la protezione di Dio vengono a mancarci, noi pure, come essi, periremo. È questa l’incertezza che faceva i tremare i Santi; ma in questa pena ci consola lo Spirito Santo, perché è lo Spirito di adozione dei Figli di Dio, e, come dice S. Paolo, il pegno e l’assicurazione delle celesti eredità (Rm 7,15-16).

 

Quando si è ricevuto questo pegno e si è gustata una certa conoscenza sperimentale di Dio, è molto raro che ci si danni. Lo Spirito Santo dà alle anime ferventi e fedeli l’interna testimonianza di essere di Dio e che Dio è in esse; questa testimonianza bandisce ogni loro timore e forma la loro consolazione.

 

2)      Lo Spirito Santo ci consola nelle tentazioni del demonio e nelle traversie ed afflizioni della vita. l’unzione che Egli diffonde nelle anime, le vivifica, le fortifica e porta aiuto per conseguire la vittoria; addolcisce le pene e fa sì che le anime cerchino nella croce le loro delizie.

 

3)      Lo Spirito Santo ci consola infine durante l’esilio in cui, lontani da Dio, ci troviamo quaggiù. E questo esilio produce nelle anime sante un’inconcepibile sofferenza, perché esse, sperimentandp in sé quel vuoto che scopriamo in noi e che tutte le creature non riescono a riempire non potendo essere appagato che dal godimento di Dio dal quale esse si sentono separate, languiscono soffrendo in un lungo martirio che sarebbe insopportabile se di quando in quando lo Spirito Santo non effondesse le sue consolazioni. Quelle invece che hanno la loro origine dalle creature non servono che ad aumentare il peso delle miserie. «Io oso affermare, dice Riccardo di S. Vittore, che una sola goccia delle divine consolazioni può produrre ciò ce non riuscirebbe a fare tutti i piaceri del mondo. Questi non possono appagare a sazietà il cuore; mentre una sola goccia che lo Spirito Santo versi in un’anima la rapisce fuori di sé e le causa una santa ebbrezza».

 

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Quarto principio: Docilità alla direzione dello Spirito Santo

 

Capitolo 03: I doni dello Spirito Santo in generale

 

Art. 01: Natura dei doni dello Spirito Santo

 

§ 1.      La grazia santificante richiede numerose altre qualità per conservarsi e per agire. E queste sono le virtù teologali, i doni dello Spirito Santo, le beatitudini, le virtù morali naturali o acquisite.

 

Le virtù teologali occupano il primo posto, perché hanno come oggetto diretto il Signore e ci uniscono immediatamente a Lui. Vengono subito dopo i doni dello Spirito Santo, perché sono come il compimento delle virtù teologali e servono a farle agire con facilità.

 

Le virtù morali soprannaturali sono inferiori ai doni dello Spirito Santo, perché dispongono l’anima ad operare il bene in un modo comune, mentre i doni portano ad atti straordinari.

 

I frutti dello Spirito Santo non sono altro che le virtù infuse, quando si esercitano senza fatica e senza ripugnanza, ma con gioia e piacere.

 

Quando poi queste stesse virtù sono giunte ad una certa perfezione e producono deli atti pefetti, allora si chiamano beatitudini.

 

Le virtù morali naturali occupano l’ultimo posto, perché portano una perfezione all’anima nel campo naturale e non nel campo soprannaturale, e perché possono star separate dalla grazia santificante.

 

§ 2.      I doni dello Spirito Santo sono abiti o qualità permanenti, che Dio comunica all’anima con la grazia santificante e con le virtù infuse, per irrobustire le potenze naturali e renderle arrendevoli agli impulsi del suo divino Spirito e capaci di esercitare gli atti delle virtù più difficili e nobili, le virtù eroiche. Sono sette i doni dello Spirito Santo: Sapienza (il primo dono per dignità), Intelletto, Scienza, Consigli, Pietà, Fortezza, Timor di Dio.

 

I primi quattro illuminano e perfezionano la mente. Gli ulitmi tre perfezionano la volontà e l’appetito sensibile. Il dono dell’Intelletto ci è dato per penetrare più intimamente le verità della fede; il dono della Sapienza per vederne le cause e le conveninze; il dono della Scienza per un’esatta valutazione delle cose umane; il dono del Consiglio per dirigere con fede viva ogni azione; i doni della Pietà, della Fortezza e del Timor di Dio per fare arrivare il nostro appetito alla ragione illuminata da tanta luce: la Pietà per superare la nostra durezza con gli altri; la Fortezza per irrobustirci contro le nostre debolezze e la nostra viltà; il Timore per reprimere l’orgoglio ed i disordini della concupiscenza.

 

§ 3.      Isaia mette un’incalzante graduatoria tra i doni dello Spirito Santo (Is 9,2). Unisce assieme Sapienza ed Intelletto, perché l'una serve di disposizione all’altra. L’intelligenza infatti penetra le cose divine, per disporre l’anima a gustarle per mezzo della Sapienza. Congiunge il Consiglio e la Fortezza, perché il primo è necessario per dirigere la seconda che senza consiglio diventerebbe temerarietà. Accoppia Scienza e Pietà, perché la Scienza senza la Pietà è secca e arida; mette poi il Timor di Dio all’ultimo posto, essendo la base ed il fondamento di tutti gli altri doni.

 

§ 4.      In quanto all’eccelleza, la fede non è paragonabile ai doni dello Spirito Santo, perché questi contengono quella e ne sono la perfezione.

 

La fede si perfeziona con i doni della Scienza, dell’Intelletto e della Sapienza, che permettono di vedere più distintamente e con maggior commozione e piacere ciò che per la sola fede vedevano neìoscurità e con difficoltà. È in questo modo che si arriva alla visione di verità e di conoscenze straordinarie.

 

§ 5.      I doni non possono susstire in un’anima, se manca la carità, e crescono in proporzione con la grazia. Da ciò proviene che essi, senza una fervida e perfetta carità, sono assai rari e non raggiungono un alto grado di eccellenza, perché i peccati veniali, ed anche le minime imperfezioni, li tengono come legati e impediscono ad essi di agire. Perciò se si vuole raggiungere uno stato di orazione elevata, bisogna possedere con abbondanza i doni dello Spirito Santo; e la più sublime contemplazione non è cosa diversa dall’orazione di cui ora parliamo; il nostro spirito infatti si perde e vien meno nelle  conoscenze soprannaturali, quando vi penetra molto addentro.

 

Art. 02: Effetti dei doni dello Spirito Santo

 

§ 1.      Quattro sorgenti di luce possono guidarci nelle nostre azioni.

 

1)      La ragione, che è molto debole e da sola è insufficiente a condurci al nostro fine. Viene paragonata da alcuni ai fuochi fatui che di notte brillano e volteggiano poco elevati dal suolo, e conducono il viaggiatore direttamente negli acquitrini e nei precipizi; infatti, dopo tutto, la ragione umana, se non è rischiarata dalla fede, vola rasente terra e non può condurci che alla nostra rovina.

 

2)      La fede, che indirizzandoci alla prima verità, diventa per noi una guida sicura e non è soggetta ad errore.

 

3)      La prudenza soprannaturale, che essendo unita alla fede ci fa scegliere i mezzi soprannaturali più utili per raggiungere il fine soprannaturale.

 

4)      I doni dello Spirito Santo, senza ragionamento, senza alcuna incertezza, ci additano il meglio, che essi ci fanno contemplare nella luce di Dio con una evidenza proporzionata al grado in cui li possediamo.

 

§ 2.      Chi si lascia guidare dai doni dello Spirito Santo si può paragonare ad una nave che voga a piene vele, con il vento in poppa; chi invece si lascia guidare dalle sole virtù e non dai doni, ad una scialuppa che si fa avanzare a forza di remi, con più lentezza e molto maggior fatica e rumore.

 

§ 3.      Le grandi conversioni di alte personalità, che suscitano tante meraviglie, sono frutto dei doni dello Spirito Santo. Talora Dio comunica a queste anime impulsi tanto irresistibili, che esse sono portate ad abbandonare tutto, per consacrarsi alla croce. Bisogna che queste siano veramente così forti, da arrivare a rompere d’un colpo tanti attaccamenti. Ciò succede il più delle volte nei tempi di sventure o in altre particolari occasioni, disposte dalla Provvidenza del Signore per il loro maggior bene.

 

§ 4.      È per effetto dei doni dello Spirito Santo che i Santi riescono infine a liberarsi dalla schiavitù delle creature, perché la larga effusione di questi doni celesti cancella dal nostro spirito la stima, il ricordo, il pensiero delle cose terrestri, bandisce dal cuore ogni attaccamento e affetto per esse, così che i Santi quasi a pensare soltanto a ciò a cui vogliono pensare e nella misura in chui vogliono pensarci. Non percepiscono il disagio delle distrazioni, delle inquietudini ed ansie che in passato li turbavano; anzi, essendo le loro potenze sotto una perfetta disciplina, godono somma pace e la libertà dei figli di Dio.

 

§ 5.      Ed ora che ci scopriamo ancora sprovvisti dei doni dello Spirito Santo, dobbiamo lavorare e sudare nella pratica delle virtù. Siamo simili ai navigatori che avanzano a forza di remi contro vento e contro le onde; verrà giorno, a Dio piacendo, che dopo aver ricevuto i doni dello Spirito Santo, anche noi navigheremo a piene vele e con il vento in poppa, perché è lo Spirito Santo, che con i suoi doni dispone l’anima a lasciarsi docilmente guidare dalle sue divine ispirazioni. Con l’aiuto dei doni i Santi arrivano ad una sì sublime ispirazione, da compiere facilmente cose a cui non avrebbero neppure osarto pensare; lo Spirito Santo ha appianato ogni difficoltà e li ha resi vittoriosi di ogni ostacolo.

 

§ 6.      Grande è la differenza che c’è tra l’infanzia e l’età della ragione, tra la ragione e la fede, tra una fede comune e quella rischiarata dai doni dello Spirito Santo o favorita di una sublime contemplazione. Ancor maggiore è la differenza tra le conoscenze che si possono avere nella vita presente e quelle che si hanno nello stato di separazione dal corpo; queste ultime presentano una diversità incomparabilmente maggiore delle cognizioni di cui godono le anime beate del cielo o di quelle che hanno i dannati nell’inferno.

 

Nell’infanzia non conosciamo né Dio, né l’immortalità dell’anima, né l’etenrità delle ricompense e delle pene. Con la ragione arriviamo a scoprire delle porzioni di queste verità; con la fede ne possediamo una conoscenza certa; con i doni dello Spirito Santo ne abbiamo una esperienza ed un gusto particolare, ma sempre nell’oscurità. Nella condizione di anime separate, le scopriremo quasi senza veli. Nel cielo o nell’inferno ne avremo una chiara evidenza, un’esperienza piena per sempre. Come possiamo trovar diletto e cercar soddisfazioni solo nella cose della terra?

 

§ 7.      Bisognerebbe abituarci a studiare nel Vangelo i doni dello Spirito Santo e quelle azioni compiute da Nostro Signore, sulle quali essi hanno maggiormente influito. Nelle parabole ha esercitato un grande influsso il dono dell’intelletto; sul discorso che Gesù Cristo ha pronunciato davanti ai discepoli dopo l’Ultima Cena ha agito particolarmente il dono della Sapienza.

 

Un’anima, rischiarata dalla luce del Signore, riconoscerebbe facilmente nei racconti della Sacra Scrittura, nel Vangelo, negli Atti degli Apostoli, una sapienza somma nelle narrazioni; poiché lo Spirito Santo vi mette in risalto soltanto ciò che merita di essere notato, passando sotto silenzio ciò che è opportuno tacere, diffondendosi su ciò che merita considerazione, in modo che tutto riesce conforme alla sua intenzione. Al contrario, nei racconti profani è facile riconoscere l‘inganno di una mente o la corruzione di un cuore e la malignità dell’autore. Alla verità vi sono mescolate menzogne. Spesso è la passione che vi regna e si può dire che tai racconti sono simili ad acque torbide e infette, perché contaminate dai luoghi attraversati lungo il loro percorso. Solo nella Santa scrittura si può sempre trovare la verità tanto limpida e pura come alla propria sorgente.

 

Art. 03: Perché i doni dello Spirito Santo ottengono pochi frutti nelle anime

 

§ 1.      Ci si può chiedere perché gran parte dei religiosi e delle anime devote, che conducono una vita tiepida, sfruttino così poco i doni dello Spirito Santo, che pure posseggono, essendo in stato di grazia.

 

Si può rispondere che ciò dipende dal fatto che tengono questi doni come legati da abitudini e da affetti ad essi contrari; che i peccati veniali poi, da essi commessi quotdianamente in gran numero, escludono le grazie necessarie per produrre gli atti propri dei doni dello Spirito Santo. Dio infatti rifiuta l’aiuto della sua grazia, perché prevede che se lo concedesse nella disposizione in cui si trovano, non servirebbe a nulla, avendo la volontà impigliata in mille legami che impedirebbero la loro corrispondenza.

 

Dopo di essere vissuti a lungo in questa tiepidezza, senza aver tralasciato di compiere opere buone, il mezzo indispensabile per uscirne è di attendere alla purificazione del cuore: ecco la strada più sicura. Ed il demonio si guarderà bene di tendere le sue insidie su di essa, perché non può certo portare le anime alla purificazione.

 

Applichiamoci con serio impegno e senza riposo a questo santo esercizio, con la volontà decisa di non rifiutare a Dio nulla di ciò che da noi esige per condurci ad una maggior perfezione, e con questo mezzo ci libereremo più in fretta dai legami che rendono inefficaci i doni dello Spirito Santo e ci troveremo ricolmi della pienezza di questi stessi doni preziosi.

 

§ 2.      Ci meravigliamo nel vedere tanti religiosi che, dopo una vita passata in stato digrazia per quaranta o cinquant’anni, pur celebrando ogni giorno la Messa e praticando tutti gli esercizi della vita religiosa, e conseguentemente possedendo i doni dello Spirito Santo in un grado fisico molto elevato, che corrisponde a quella misura di perfezione della grazia che i teologi chiamano graduale o di accrescimento fisico; ci meravigliamo, dico, nel vedere che questi religiosi non danno nessuna pratica dimostrazione, nelle loro azioni e nella loro condotta, di possedere i doni dello Spirito Santo. La loro vita è tutta naturale; quando ricevono qualche biasimo o qualche torto, non mancano di manifestare il proprio risentimento; dimostrano tanta sollecitudine per le lodi, la stima, il plauso del mondo, dove trovano molto gusto; amano e ricevono i loro comodi e tutto ciò che lusinga il loro amor proprio.

 

Non c’è ragione di meravigliarci di tutto ciò: i peccati veniali che commettono continuamente, tengono legati i doni dello Spirito Santo, così che non ci dobbiamo stupire se non se ne vedono i frutti. È vero che questi doni, come la carità, crescono abitualmente nel loro essere fisico; ma non crescono attualmente ed in quella perfezione che corrisponde al fervore della carità e aumenta in noi il merito, perché, opponendosi i peccati veniali al fervore della carità, impediscono conseguentemente gli effetti dei doni dello Spirito Santo.

 

Se questi religiosi si applicassero a purificare il cuore, crescerebbe in essi il fervore della carità ed i doni dello Spirito Santo si esplicherebbero in tutte le loro azioni; ma non si vedranno mai per il modo con cui vivono, senza raccoglimento, senza cura per la loro vita interiore, abbandonandosi anzi alla corrente delle loro inclinazioni, non evitando che i peccati più gravi e trascurando le piccole cose.

 

È incredibile – dice S. Lorenzo Giustiniani – quanti peccati ci riempirebbero l’animo, se non avessimo cura di purificarlo incessantemente. È una sentina di brutture che bisogna svuotare ad ogni momento. Anche le persone più perfette e di vita più spirituale non sono esenti da questa triste condizione e le infermità e le ferite della natura corrotta, dalle quali non si può mai guarire interamente, si scoprono sempre anche in esse.

 

§ 3.      La ragione per cui ci lasciamo così poco influenzare dalla luce dello Spirito Santo e così poco dirigere dall’azione dei suoi doni, è che l’anima nostra è troppo sensuale e piena di una folla di pensieri, di desideri, di affetti terreni che spengono in noi lo Spirito di Dio. Sono pochi quelli che si abbandonano interamente a Dio ed alla guida dello Spirito Santo, così che Lui solo viva in essi e sia l’unico principio di tutte le loro azioni.

 

§ 4.      Siccome quelli che si trovano nello stato di grazia posseggono i doni dello Spirito Santo, tutti qualche volta ne compiono degli atti; ma, soltanto, per così dire, occasionalmente, e così istintivamente da non accorgersene quasi neppure. Ed allora riescono a vivere sempre nello stesso stato, senza partecipare alle effusioni dello Spirito Santo che in essi trova opposizione.

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Quarto principio: Docilità alla direzione dello Spirito Santo

 

Capitolo 04: I doni dello Spirito Santo in particolare

Art. 01: Il dono della Sapienza

 

Si definisce la Sapienza come una scienza acquisita per mezzo dei principi primi: poiché la radice del nome Sapienza viene dalla radice di sapore: come il senso del gusto serve a discernere il sapore dei cibi – dice S. Isidoro – così la sapienza, che è conoscenza delle creatrure per mezzo del principio primo e conoscenza delle cause seconde per mezzo della causa prima, è una regola sicura per ben valutare ogni cosa  (Etym., c. X).

 

Il dono della Sapienza è una saporosa conoscenza di Dio, dei suoi attributi e dei suoi misteri. L’azione dell’intelligenza è di conoscere e penetrare. La Sapienza invece apprezza e fa degli accostamenti, aiuta a scoprire le cause, le ragioni, le convenienze; rappresenta Dio, la sua grandezza, bellezza e le sue perfezioni come infinitamente adorabili ed amabili; e da questa conoscenza nasce in noi un gusto delizioso, che si propaga qualche volta anche nei sensi del corpo e che è più o meno grande, in proporzione dello stato di perfezione e di purezza raggiunto dall’anima.

 

S. Francesco era così penetrato da questo gusto della Sapienza che, pronunziando il nome di Dio o di Gesù, sentiva sulla bocca o sulle labbra un spaore mille volte più dolce del miele e dello zucchero. Così pure appartengono al dono della Sapienza le dolcezze e consolazioni spirituali ed anche quelle sensibili. Sono tutte effetto di questo dono; ma quando si trovano soltanto nella parte inferiore, possono venire dal demonio, particolarmente trattandosi di anime non ancora perfettamente purificate.

 

Tra i due doni della Sapienza e della Scienza vi è la seguente differenza: la Scienza non reca ordinariamente il gusto spirituale che la Sapienza fa sorgere nell’anima. La spiegazione sta nel fatto che il dono della Scienza riguarda soltanto le creature, per quanto in rapporto a Dio; mentre la Sapienza ha di mira Dio stesso, la cui conoscenza è piena di attrattiva e di dolcezza. A ciò contribuisce anche la carità, la cui perfezione e fervore sono la  salute dell’anima, perché quando l’anima si è liberata dalle infermità e debolezze, ossia quando è sana, gusta Dio e le cose divine come beni suoi propri, senza provare le ripugnanze, i disgusti, le difficoltà che antecedentemente sentiva per il suo stato di indisposizione. Questo gusto della Sapienza può raggiungere uno sviluppo tale che una persona, fornita del medesimo, dinanzi a du e proposizioni, l’una formata con il ragionamento e l’altra, ispirata dal Signore, ne farà tosto il discernimento, riconoscendo quella che viene da Dio per un certo rapporto quasi naturale che essa possiede con il suo oggetto: per quondam obiecti connaturaliratem, dice San Tommaso; come press’a poco uno abituato a mangiare zucchero, ne discerne tosto il gusto dagli altri sapori dolci; oppure come un malato conosce così bene per propria esperienza o per la sensazione che prova i sintomi del proprio male, quanto il medico li consoce per scienza.

 

Agli inizi le cose divine riescono insipide, e si stente ad acquistarne il gusto; ma in seguito diventano così dolci e così saporose che si gustano con piacere, fino al punto di provare ripugnanza per tutto il resto. Al contrario, le cose terrene, che allettano i sensi, agli inizi riescono gradevoli e deliziose, ma alla fine non vi si scopre che amarezza.

 

Un’anima che ha saputo con la mortificazione liberarsi dalle sue passioni e ha raggiunto, in seguito alla purificazione del cuore, una perfetta sanità, penetra nelle meravigliose cognizioni di Dio e scopre verità così sublimi che le impediscono di agire con i sensi. Da ciò nascono i rapimenti e le estasi, che tuttavia tradiscono una specie di imperfezione in quelli che le provano, per esempio di non essere interamente purificati o di non essere abituati alle grazie straordinarie. Infatti quanto più un’anima si va purificando, tanto più lo spirito diventa forte e capace di sopportare le operazioni divine, senza emozioni e sospensioni di sensi. Così avveniva in Nostro Signore, nella Madonna, negli Apostoli ed in altri Santi, che avevano semre lo spirito penetrato dalle sublimi contemplazioni con meravigliosi trasporti interiori, ma senza che nulla apparisse all’esterno per mezzo di rapimenti ed estasi.

 

Come vi sono persone così depravate che sembran avere soltanto il gusto per il male, compiendolo con gioia e per il solo motivo del piacere che provano, il che è il colmo dell’iniquità ed il vero carattere della pazzia, secondo S. Bernardo (Serm. 85 in Cant.); così vi sono anime tanto nobili da non agire ma per altra considerazione che non sia quella del bene. Il solo bene che gustano è l’attrattiva che li induce ad operare il bene; questo è l’effetto proprio della Sapienza, la quale riempie l’animaa con il gusto del bene e con l’amore della virtù, in modo tale da provare ripugnanza per tutti gli altri oggetti. Il gusto del bene le diventa come naturale. S. Bernardo esprime eccellentemente questa dottrina in uno dei suoi discorsi sul Cantico dei Cantici: La Sapienza – dice – è l’amore della virtù, non è altro che il gusto del bene; una volta entrata in un’anima, doma la malizia bandendo il gusto del male causato dalla malizia, riempiendo l’anima del gusto del bene che trascina sempre con sé. Dal momento che si è lasciato libero l’accesso, ammrotizza le tendenze della carne, purifica l’intelligenza, guarisce il gusto corrotto de cuore, e rende all’anima una perfetta sanità, che la mette in grado di provare il gusto del bene e della Sapienza stessa, che è il più eccellente di tutti i beni (Serm. 85 in Cant.).

 

Il vizio opposto alla Sapienza è la stoltezza, che va formandosi nell’anima press’a poco come la Sapienza, ma per principi opposti; poiché la Sapienza riferisce tutto all’ultimo fine, che nel campo morale si chiama altissima causa, la suprema e prima causa. Ecco ciò che da essa è cercato, seguito e gustato in tutto. Essa apprezza tutto in rapporto a questo fine sovrano. Allo stesso modo la stoltezza prende come fine e come primo principio, pro altissima causa, o l’onore o il piacere o qualche altro bene temporale, non gustando che questo e a quello tutto riferisce, non cercando e stimando che ciò e disprezzando tutto il resto.

 

Lo stolto ed il sapiente sono in opposizione tra loro – dice S. Isidoro –, in ciò che questi ha il sentimento ed il gusto della discrezione che manca a quello (Etym., c. XV

 

Ciò fa sì – osserva S. Tommaso –, che l’uno apprezzi giustamente le cose che si riferiscono alla propria vita, perché le valuta in rapporto al primo principio ed all’ultimo fine; l’altro invece le giudica male, perché non considera questa causa sovrana come regola dei suoi sentimenti e delle sue azioni.

 

Il mondo è pieno di questa forma di stoltezza e lo Spirito Santo ci assicura che il numero degli stolti è infinito (Qo 1,15).

 

Ed infatti la grande parte degli uomini ha il gusto depravato, e si possono, a buon diritto, chiamare stolti, perché agiscono con stoltezza, cercando, almeno in pratica, il loro ultimo fine non in Dio, ma nella creatura. Ciascuno ha sempre un qualche oggetto a cui si affeziona ed a cui tutto riferisce, in modo da non aver quasi attaccamenti o passioni che dipendentemente dall’oggetto stesso. E questa è vera stoltezza. Esaminando i nostri gusti o le nostre ripugnanze, sia nei confronti di Dio e delle cose divine, sia nei confronti delle creature e delle cose della terra comprenderemo se apparteniamo al nmero dei sapienti o degli stolti. Qual è la sorgene dei nostri piaceri e dei nostri turbamenti? In che cosa il nostro cuore trova il proprio riposo e la propria soddisfazione?

 

Questo esame diventa un indicatissimo mezzo per acquistare la purezza del cuore. Dovremmo rendercene familiare l’uso; indagando sovente lungo la giornata i nostri gusti e le nostre ripugnanze, sforzandoci poi di riferirle a poco a poco al Signore.

 

Tre sono le forme di sapienza riprovate dalla Sacra Scrittura (cf Gc 3,15), che si possono chiamare vere stoltezze: terrena, la sapienza materiale che consiste nel solo gusto della ricchezza;  animale, la sapienza animale, cioè il solo gusto dei piaceri del corpo; diabolica, la sapienza diabolica, propria di chi non gode che della propria eccellenza.

 

C’è poi una stoltezza, che è vera sapienza agli occhi del Signore. Amare la povertà, il disprezzo, le croci, le persecuzioni, è essere pazzo secondo il mondo. E tuttavia la Sapienza, che è dono dello Spirito Santo, non è altro che questa stoltezza, la quale non ama che ciò che è piaciuto a Nostro Signore ed ai Santi. Ora Gesù Cristo, in tutto ciò che ha praticato nella sua vita mortale, come nella povertà, nell’umiliazione, nelal croce ha lasciato un profumo soave, un sapore delizioso, che sono di un ordine soprannaturale. I Santi hanno seguito le attrattive di questo profumo, come un S. Ignazio che godeva nel vedersi burlato; S. Francesco che amò l’umiliazione con tanto ardore, da compiere azioni che lo rendessero ridicolo; S. Domenico che preferiva soggiornare a Carcassone, ove di solito era beffeggiato, che non a Tolosa, dove tutti lo veneravano.

 

Che stima avevano Nostro Signore, la Madonna, gli Apostoli delle grandezze del mondo e dei piaceri della vita? Il mio cibo – diceva Gesù – è di fare la volontà del Padre che mi ha mandato (Gv 4,34). Gli Apostoi uscivano dai tribunali contenti di essere stati giudicati degni di soffrire persecuzioni per il nome di Gesù Cristo (At 5,14). Io sono ripieno di gioia in mezzo alle mie soffernze dice S. Paolo (2Cor 7,4).

 

È una stoltezza, secondo la ragione umana, la nostra fede che ci insegna come Nostro Signore, che pure poteva redimerci senza soffrire nulla, che poteva ottenerci tutto quanto ci ha meritato senza morire di una morte infame coem quella della croce, abbia tuttavia scelto la morte di croce per la nostra salvezza. Ma ciò che in Dio sembra stoltezza,  più saggio della sapienza di tutti gli uomini (1Cor 1,25).

 

Come sono diversi i criteri di Dio dai criteri degli uomini! La Sapienza di Dio diventa follia, secondo il criterio deglio uomini, ma anche la sapienza degli uomini diventa follia, secondo il giudizio di Dio. spetta a noi scegliere a quale di questi due giudizi conformare il nostro. Dobbiamo eleggere o l’uno o l’altro come regola delle nostre azioni.

 

Se gustiamo le lodi e gli onori, diventiamo degli stolti in questo campo; e possiamo dirci tanto stolti quanto è il piacere che prendiamo ad essere onorati e stimati. Come al contrario, possiamo dire di avere tanta Sapienza, quanto è l’amore che proviamo per l’umiliazione e per la croce.

 

È una cosa mostruosa che anche tra religioi vi siano persone che si compiacciono soltanto per ciò che può procacciare credito agli occhi del mondo, che itnraprendono tutto ciò che fanno nei trenta a quarant’anni della loro vita religiosa solo per assecondare le mire umane a cui aspirano, provando gioia e tristezza solo in rapporto ad esse, od almeno mostrandosi più sensibili per esse che per ogni altra cosa. Tutto quanto si riferisce a Dio od alla perfezione è per essi insipido, non trovandovi gusto alcuno

 

È terribile questo stato e meriterebbe di essere compianto con lacrime di sangue. Di qual perfezione possono essere suscettibili simili religiosi? Ma anche quale confusione proveranno nell’ora della morte, quando sarà loro dimostrato che durante l’intero corso della vita non hanno cercato né gustato che lo splendore della vanità, come fanno i mondani! Vi capitasse di sorprendere queste persone nella tristezza, provate a dir loro una parola che insinui la speranza di qualche promozione, non importa se destituita di fondamento! Voi le vedrete tosto cambiare fisionomia, vi accorgerete che il loro cuore si apre alla gioia come all’arrivo della notizia di un grande successo.

 

Del resto, come non sanno coltivare il gusto della vita devota, così ne trattano le pratiche come inezie e manifestazioni di spirito debole; e costoro non soltanto regolano se stessi su questi principi errati di sapienza mondana e diabolica, ma arrivano a far partecipi anche altri dei loro sentimenti, insegnando massime affatto contrarie a quelle di Nostro Signore ed del Vangelo, di cui tentano di mitigare il rigore con interpretazioni forzate e conformi alle inclinazioni della natura corrotta, basandosi su passi della Santa Scrittura male intesi, sui quali costruiscono la propria rovina: come per esempio, abbiate cura della vostra reputazione (Qo 41,15), gli esercizi de corpo servono a poco (Tm 4,8); l’omaggio che voi rendete a Dio dev’essere ragionevole (Rm 12,1).

 

Ora il Signore, per un’ammirabile disposizione di Provvidenza, ha voluto che in S. Ignazio brillasse la grande sapienza che tutti gli riconoscono, e di cui lo lodano grandemente anceh quelli ai quali riferiamo, affinché, essendo stato uomo di tanta devozione, grande amante della povertà, del disprezzo, della croce ed avendo con forte insistenza raccomandato la carità ai suoi figli, abbia diritto di giudicarli un giorno e di condannare i colpevoli, mostrando loro quanto si siano scostati dal cammino della vera Sapienza.

 

La beatitudine che rispnde al dono della Sapienza è la settima: Beati i pacifici (Mt 5,9), sia perché la Sapienza ordina tutto a Dio e perché la pace consiste in questo buon ordine (Pax est tranquillitas ordinis – S. Ago., De civ. Dei, I, 19, c. 13,1); sia perché la Sapienza non permette più di venir influenzati da ciò che potrebbe turbare il cuore. se ad una persona che possiede questo dono si muovessero ingiurie, essa non vi farebbe neppur caso; come chi è colpito da pazzia naturale è insensibile alle ingiurie ed alle cose che più commuovono gli altri, perché privo della ragione e del giudizio; allo stesso modo che è saggio della Sapienza soprannaturale non percepisce neppure il cattivo trattamento che gli viene riservato e non è minimamente turbato da ogni impressione umana, e questo non per stupidità ma per il motivo superiore che, essendo abituato al godimento del bene sommo, non gli resta più alcun sentimento dei beni o dei mali temporali.

 

Il frutto dello Spirito Santo che corrisponde al dono della Sapienza è quello della fede, perché l’anima, gustando le cose divine, presta a queste un assenso sempre più fermo, e la conoscenza quasi sperimentale che riesce ad avere intorno ad esse le comunica una specie di evidenza.

 

Art. 02: Il dono dell’Intelletto

 

L’intelligenza è la conoscenza intima di un oggetto: intelligere est intus legere.

 

Il dono dell’Intelletto consiste in una luce che lo Spirito Santo comunica, per penetrare intimamente le verità oscure proposte dalla fede. Questa penetrazione, osserva S. Tommaso, deve darci un’idea esatta ed una giusta stima del fine ultimo e di tutto ciò che vi si riferisce, altrimenti non sarebbe un dono dello Spirito Santo

 

La fede considera tre gruppi di oggetti:

 

1)      Dio e i suoi misteri.

 

2)      Le creature in rapporto a Dio.

 

3)      Le nostre azioni per dirigerle al servizio di Dio..

 

Noi abbiamo una notevole grossolanità di fronte a tutte queste verità e per arrivare a ben consocerle dobbiamo essere illuminati dallo Spirito Santo per mezzo della fede e degli altri lumi che ci comunica.

 

Ciò che la fede ci propone come oggetto, è sempre più chiaramente penetrato dal dono dell’Intelletto ed in un modo tale che sembra render evidente ciò che la fede insegna, nonostante il permanere dell’oscurità della fede. Ecco perché alcune anime arrivano a meravigliarsi che ci siano persone le quali non vogliono accettare gli articoli della nostra fede, o a muovere dei dubbi a proposito di essi.

 

Coloro che per missione attendono all’istruzione degli altri, i predicatori e i direttori di spirito, devono essere ripieni di questo dono, che rifulse tra i Padri della Chiesa e i Dottori, ed è particolarmente necessario per ben capire il senso della Santa Scrittura, i suoi significati allegorici e i riti del culto divino. Difficile da penetrarsi è la Santa Scrittura perché Dio vi parla secondo i suoi sentimenti, che sono infinitamente superiori ai nostri; però Egli li sa temperare in modo che noi pure riusciamo, con la purezza di cuore, ad intenderli. S. Giovanni, per esempio, dice nella sua prima lettera: «È questa l’ultima ora» (1Gv 2,18). Questa espressione urta la nostra mente, non riuscendo a capire coem i santo Apostolo abbia potuto dire, parlando del suo tempo, di essere all’ultima ora. Eppure ciò, secondo il sentimento di Dio, era verissimo.

 

Un buon mezzo per ricevere luce dallo Spirito Santo e per essere guidati dalla sua direzione, è quello di leggere spesso la Santa Scrittura, mentre tutti gli altri libri spirituali sono in parte opera della grazia ed in parte opera della natura.

 

È un grave abuso leggere molto i libri spirituali e trascurare la lettura della Sacra Scrittura. S. Gregorio Nazianzeno e S. Basilio per molti anni non lessero che la Santa Scrittura. Bisogna preferirla anche alla lettura dei Padri, tanto più che, avendo purificato il cuore, a poco a poco si riesce a penetrare i diversi sensi che essa contiene; ed anche dopo averla letta cento volte se, avanzando nella purificazione dello spirito, si continua ancora a leggerla, si approfondiranno sempre più i suoi misteri.

 

Nella Santa Scrittura, oltre ai quattro sensi che lo Spirito Santo ha avuto di mira e cioè: il letterale, che il senso dato dalle parole prese nel loro significato proprio; il topologico o morale, che riguarda i costumi; l’allegorico, che riguarda Gesù Cristo e la Chiesa militante; l’analogico, che si riferisce alal Chiesa trionfante ed alla condizione degli eletti; nella S. Scrittura, oltre questi quattro sensi, ve n’è un quinto, che si chiama accomodatizio, che consiste ne servirsi di qualche espressione o paraola della Scrittura per esprimere ciò che certamente lo Spirito Santo non intendeva significare con quelle parole del sacro testo. S. Bernardo si serve spesso della Scrittura di questo senso; tutti quelli che hanno stima della parola di Dio, portano grande amore a tutta questa specie di significati. S. Girolamo ha avuto il dono dell’intelletto particolarmente per il senso letterale, S. Gregorio per il morale, S. Ambrogio e S. Agostino per l’allegorico.

 

Grande utilità del dono dell’Intelletto anche per gli avvenimenti politici, perché aiuta a scoprire i disegni di Dio per esempio, a riconoscere che la corono di Francia è stata conservata dal casato di S. Luigi, come ricompensa dello zelo del Santo nell’abbandonare il suoregno per diffondere quello di Gesù Cristo nell’Oriente. Si rinfacciava a S. Luigi che non era nel suo interesse metter pace, come era suo costume, tra i prìncipi confinanti, ma egli, dotato della penetrazione che gli dava il dono dell’Intelletto, comprendeva chiaramente che Dio, il quale tutto governa con la sua Provvidenza, gli avrebbe concesso la pace nei propri stati, se gli concedeva di promuoverla in quella degli altri principi. Ed infatti la Francia poté, come per miracolo, godere un periodo di pace, durante il tempo della prigionia del santo Re in Egitto e della sua morte avvenuta alle porte di Tunisi.

 

Quando Luigi XIII intraprese la guerra del Béarn contro gli eretici, i consiglieri politici la definirono una impresa svantaggiosa di fronte agli stranieri. Ma le persone guidate dal dono dell’Intelletto vedevano nel piano del Re quello di Dio, che voleva umiliare l’orgoglio degli eretici e ricondurre i ribelli all’obbedienza del loro Re.

 

Di solito si parla con grande leggerezza degli affari di Stato. Non bisognerebbe trattare né a favore né contro, senza possedere lumi soprannaturali. In proposito due sono i difetti da evitare: approvare e lodare certe iniziative per passione; condannarle o biasimarle con temerarietà.

 

Ciò vviene per esempio, quando i principi cattolici stringono alleanze con gli eretici, o si favorisce troppo la causa degli eretici alleati, presentando i loro successi con termini troppo lusinghieri, i lche è causa poi di molti scrupoli e di peccati; oppure quando si disapprovano nei governanti certi atteggiamenti benevoli verso il partito degli stessi alleati; il che si deve ascrivere a falso zelo, perché non si arriva a pensare che Dio da ciò può trarre molti beni che al presente a noi non appaiono. Né dobbiamo permettere affatto di criticare la condotta dei principi e dei loro ministri, ma lasciare agire il Signore e attendere con pazienza ed in silenzio gli eventi che la Provvidenza saprà ben suscitare a sua maggior gloria.

 

I vizio contrario al dono dell’Intelletto è la grossolanità nei riguardi delle cose spirituali. Si aggrava ancor più questo vizio con i peccati, con le passioni, con gli affetti disordinati. Ciò particolarmente accade alle persone che vivono in peccato mortale.

 

Davide aveva un cuore eccelletne per amare il Signore. Aveva ricevuto da Dio lumi particolari e nobili sentimenti. Eppure, dopo il suo adulterio, dopo aver fatto uccidere Uria, visse per nove mesi in una incomprensione del suo peccato, e non gli sarebbero forse cadute le bende dagli occhi se Dio non gli avesse mandato il profeta Natan per renderlo consapevole del suo male.

 

La beatitudine corrispondente a questo dono, è la sesta: Beati quello che hanno il cuore puro (Mt 5,8). Questa purezza, come insegna S. Tommaso, deve penetrare in tutte le potenze dell’anima, per bandirvi tutto ciò da cui può essere macchiata: le passioni, i moti disordinati dell’appetito, gli affetti peccaminosi della volontà, gli errori ed i falsi principi dell’intelligenza. Essa arriva pure a regolare l’immaginazione, così che questa non richiami nessun pensiero se non a tempo e luogo opportuno, e per la durata necessaria dell’azione intrapresa.

 

Perciò quando S. Bernardo voleva dedicarsi alla preghiera, congedava tutti i suoi pensieri procuratigli dalle varie occupazioni, per riprenderli poi dopo la preghiera. E ciò si verifica nelle anime molto pure, che hanno acqusitato questo perfetto dominio su se stesse con la loro purezza.

 

I frutto dello Spirito Santo in rapporto a questo ed anche agli altri doni che illuminano l’intelletto, è i frutto della fede. La fede precede i doni e ne è il fondamento; ma a lor volta i doni perfezionano la fede. È necessario innanzitutto, dice S. Agostino, credere, e ben consolidarsi i questa pai disposizione, che è così necessaria alla fede. Poi penseranno i doni dello Spirito Santo a render più penetrante, più viva e più perfetta la nostra fede.

 

Art. 03: Il dono della Scienza

 

La scienza è definita una conoscenza acquistata con il ragionamento; ma dio in essa è una semplice visione degli oggetti senza ragionamento alcuno.

 

Il dono della Scienza è una partecipazione della scienza divina, è una illuminazione dello Spirito Santo che getta luce nell’anima per far conoscere le cose umane e poi portarne un giudizi sicuro, sia in rapporto a Dio, sia in quanto sono oggetto di fede.

 

Il dono della Scienza è di aiuto a quello dell’Intelletto per scoprire e penetrare le verità oscure, come pure il dono della Sapienza per possederle. La Sapienza e la Scienza hanno qualche cosa in comune. Ambedue fanno conoscere Dio attraverso le creature. Ma quando si arriva alla conoscenza di Dio attraverso le creature, elevandoci dalla conoscenze delle cause seconde a quella della causa prima e universale, allora si ha un atto del dono della Scienza. Quando poi si arriva alla conoscenza delle cose umane attraverso il gusto che si ha di Dio, giudicando gli esseri creati dalle proprie conscoenze dell’Essere prima, allora si ha un atto del dono della Sapienza.

 

Il discernimento degli spiriti appartiene all’uno e all’altro dono; ma mentre la Sapienza lo possiede per esperienza e gusto, che sono fonti di una conoscenza superiore, la Scienza lo possiede solo per pura conoscenza.

 

Il dono della Scienza ci fa vedere con prontezza e con certezza tutto ciò che interessa la nostra condotta e quella degli altri; e cioè:

 

1) Quanto dobbiamo non dobbiamo credere; ciò che dobbiamo o non dobbiamo fare; il giusto mezzo da tenere tra i limiti estremi, se nella pratica della virtù non si vuol cadere in qualche esagerazione; il metodo da seguire nella necessaria ricerca delle virtù ed il tempo da consacrare a ciascuna di esse. Ma tutto ciò in linea di massima; poiché nei casi particolari, nelle diverse occasioni in cui ci si può trovare e quanco ci si decide ad agire spetta al dono del Consiglio prescrivere ciò che bisogna fare.

 

2) Lo stato dell’anima nostra, gli atti interni, i movimenti segreti del cuore, la loro qualità, la loro bontà o malizia, i loro principi, motivi, fini, gli effetti e le cosneguenze, il loro merito e demerito.

 

3) L’apprezzamento che dobbiamo portare alle creature e l’uso che di queste dobbiamo fare per la vita interiore e soprannaturale; quanto siano fragili, vane, transitorie, incapaci di renderci felici, come pure nocive e pericolose per nostra salvezza.

 

4) Il modo di vivere e trattare i prossimo, in rapporto al fine soprannaturale del creato. Un predicatore arriva a conoscere, per mezzo di questo dono, ciò che deve dire e come deve insistere presso i suoi ascoltatori; un direttore consosce lo stato delle anime affidate alle sue cure; i loro bisogni e i rimedi ai loro difetti; gli ostacoli che oppongono alla propria perfezione; la via più breve e più sicura per ben dirigerle, come consolarle o sgridarle; ciò che Dio opera in esse e ciò che esse per conto proprio devono fare per cooperare con Dio, attuando i suoi disegni. Un superiore, per il dono della Sciena, viene a comprendere come guidare i propri sudditi.

 

Godono di una maggior partecipazione a questo dono quelli che posseggono una miglior conoscenza di tutti questi problemi. Essi infatti vi scoprono diversi gradi di perfezione, he rimangono sconosciuti agli altri; rintracciano gli eroismi nella pratica delle virtù; con un semplice sguardo hanno la chiara percezione se le azioni sono ispirate da Dio e conformi ai suoi disegni e avvertono subito quando si scostano, o poco o tanto, dalle vie del Signore. Vedono inoltre imperfezioni anche dove gli altri non le scorgono, e non succede ad essi di lasciarsi ingannare nei loro sentimenti o di lasciarsi sorprendere dalle illusioni, così diffuse nel mondo. Se avviene che un’anima scrupolosa si rivolga ad essi, tosto sanno trovare la parola appropriata per guarirla dagli scrupoli. Dovessero rivolgere un’esortazione a religiosi o a religiose, troverebbero sempre pensieri conformi ai bisogni spirituali di questi ceti ed allo spirito del loro Ordine. Se si propongono ad essi casi difficili di coscienza, li sanno subito risolvere in modo eccellente. Chiedete loro la ragione di simili risposte e non vi sapranno rispondere nulla, perché conoscono tutto ciò senza una particolare ragione, ma per una luce superiore ad ogni ragione.

 

Era per questo sigolare dono che S. Vincenzo Ferreri otteneva nelal predicazione i successi he rileviamo nelal sua biografia. Si affidava allo Spirito Santo nella preparazione delle sue prediche e nella recitazione, e tutti ne rimanevano commossi. Così un giorno, dovendo predicare alla presenza di un principe, credette opportuno un maggior studio e una diligenza umana nel preparare la sua predica, a cui si applicò con impegno straordinario: ma né il principe, né l’uditorio furono così soddisfatti di quel discorso, come invee lo furon quando udirono il discorso che egli, come di solito, tenne il giorno seguente, animato unicamente dallo Spirito di Dio. Ed a chi gli faceva notare il diverso rendimento dei due discorsi: «Gli è che ieri, rispose, era padre Vincenzo che predicava; oggi è stato lo Spirito Santo».

 

Ogni predicatore deve mettersi in stretta dipendenza dallo Spirito di Dio. La principale preparazione per il pulpito è la preghiera e la purezza del cuore. Dio qualche volta si fa desiderare un po per provarci; ma non stancatevi. Per conto vostro fate tutto il vostro dovere; per il resto confidate in Lui. Verrà in fine e non mancherà di diffondere in voi la sua luce. Voi stessi ne gusterete gli effetti e constaterete anche qualche volta he con un sol pensiero vi farà annunciare cose utilissime per il bene degli ascoltatori.

 

Un religioso potrà talvolta sentirsi turbato da scrupoli o da tentazioni contro la propria vocazione. Gli sfuggirà la vera causa di questa prova: forse qualche segreto peccato, di cui trascura la correzione. Per quanto Dio lo inviti, presentandogli la sua grazia, egli persiste nella cattiva abitudine, di modo che la sua tentazione e il suo trambusto continuano a sconvolgerlo. Sarà per mezzo del dono della Sciena che egl arriverà a rendersi conto di ciò.

 

Alla luce di questo dono arriva pure a conoscere ciò che le creature hanno da sé e ciò che hanno da dio. Era alla luce di questo dono che san Paolo stimava tutte le cose come rifiuti (cf Fil 3,9). Comunemente gli uomini non fanno un simile apprezzamento, perché considerano solo ciò che lusinga i sensi. Perciò quasi tutti si lasciano affascinare dalle apparenze che le creature promettono.

 

Ciascuno ne vuol godere e pochi arrivano a riconoscere il proprio torto prima di morire. I Santi stessi, in gran parte si sono lasciati ingannare.

 

Siamo così pieni di illusioni e così poco premuniti contro i lfascino delle creature, ceh ci illudiamo incessantemente. Anche i demonio mlto spesso ci inganna. La sua tattica per sedurre i più perfetti, è quella di far prendere abbagli ad essi nella scelta dei mezzi di perfezione, in modo da legarli ai meno opportuni, trascurando i più efficaci; o tiepidi e gli imperfetti sono da lui ingannati in quanto ad essi fa presenti, esagerandole, le difficoltà, mostrando loro le attrattive del piacere ed il falso splendore degli onori. La Scienza dello Spirito Santo opportunatamente insegna a premunirsi contro simili seduzioni.

 

Felici quelli che da Dio sono favoriti di questo raro dono, come Giacobbe, dei quali lo Spirito dice che Dio diede loro la scienza dei Santi (Sap 10,10). Ne abbiamo soprattutto bisogno noi che per dovere di vocazione siamo obbligati a trattare con il mondo. Questo dono della Scienza è più necessario a noi che non ai solitari ed agli altri religiosi, la cui vita è più ritirata e puramente cotemplativa. Affinché i contatti con gli uomini non ci tornino nocivi nei ministeri che esercitiamo a loro favore per guadagnarli a Dio, bisogna aver cura che la nostra vita sia un’armonica fusione di azione e di contemplazione, che la prima sia animata, diretta, ordinata dalla seconda, e che tra gli impegni esterni della vita attiva, noi possiamo sempre praticare il raccoglimento interno della vita contemplativa; come pure i nostri ministeri non ci impediscono l’unione con Dio, ma servono piuttosto a stringerci con Lui più forti ed amorosi legami, permettendoci così di abbracciarLo in Sé con la contemplazione e nel prossimo con l’azione.

 

Proveremo questi effetti, se avremo i doni dello Spirito Santo in tal proporzione da esserne, epr così dire, più che a metà ripieni. Ma intanto il meglio per noi, una volta che abbiamo compiuto i doveri dell’obbedienza e delal carità, è di vivere nel raccoglimento e di attendere alla preghiera, alla lettura spirituale ed agli esercizi della vita contemplativa.

 

Proponendoci come modell Gesù Cristo che ha impiegato trent’anni per la vita contemplativa, consacrandone solo tre o quattro a quella che è un insiem diazione e di contemplazione; come pure ricordiamo sempre l’esempio di Dio stess, la cui vita, prima della creazione è stata puramente contemplativa, di conoscenza e di amore di Se Stesso. Nel tempo, la sua azione è anche esteriore nei suoi effetti, ma in modo tale che in confronto della contemplazione quasi scompare; e dopo il tempo, nell’eternità, concederà ancor meno all’azione, poiché allora non vi saranno più nuove creature.

 

Per un notevole progresso nella perfezione due condizioni, l’una per il maestro e l’altra per i discepolo, sono assolutamente richieste. Il maestro deve essere largamente dotato del dono della Scienza, com’era per esempio, S. Ignazio; il discepolo deve possedere una volontà pienamente sottomessa alla grazia ed un grande coraggio, come vediamo in S. Francesco Saverio.

 

Per un’anima su cui Dio ha grandi disegni è una grave sventura imbattersi in un direttore spirituale che si regoli sulla prudenza umana, più dotato di politica che di unzione. Mezzo eccellente per conseguire i ldono della Scienza è di avere una somma cura di purificare il cuore, di vegliare diligentemente sul proprio interno, di conoscere le proprie sregolatezze e tenerr nota delle principali mancanze.

 

Questa esattezza attirerà le benedizioni di Dio, che non mancherà di rischiarare l’anima, comunicandole a poco a poco la conoscenza di se stessa, che è la più utile cognizione che il Signore possa concedere dopo quella della sua divina maestà.

 

Ecco il primo studio da farsi nel campo della perfezione. Dopo di esserci applicati ad esso con costanza per qualche tempo, cominciamo a veder chiaro nel nostroo interno; e ciò avviene senza fatica, perché Dio comunica improvvisi lumi all’anima sul proprio stato e sulle disposizioni attuali. A questo punto, essa non è lontana dalla contemplazione, ed ha come delle prove sicure dei grandi doni che Dio le comunicherà, qualora essa sia fedele a corrispondere ai suoi disegni. È un metodo del Signore di gettare le fondamenta prima di costruire l’edificio; e questo fondamento è la conoscenza di noi stessi e delle nostre miserie, peché non succeda che in noi si insinui l’orgoglio per i doni di Dio. Ora è troppo poco limitarsi a credere di riconoscere che da noi stessi on siamo niente e non possiamo niente. Dio invece vuoe chèe noi abbiamo una conoscenza sperimentale e sensibile di noi stessi e perciò ci dà un forte sentimento delle nostre msierie. Troverete qualche volta alcuni che vogliono credere di darsi all’orazione di semplice visione o di prendere come argomento della loro emditaione le perfezioni divine; cionostante vedere che essi sono pieni di errori e di gravi imperfezioni, perché hanno avuto la pretesa di salire troppo in alto, senza la previa purificazione del cuore; se voi doveste manifestare questo vostro apprezzamento, si adonterebbero, ritenendosi già molto progrediti nella vita spirituale e giudicandovi poco competenti delle vie mistiche. Converrebbe in ultima analisi ricondurre costoro alle prime pratiche della vita spirituale, cioè alla custodia del cuore, come agli inizi., se si vuole ottenere qualche progresso.

 

È inutile darsi alla lettura di tante opere per acquistare la scienza della vita interiore; è dall’alto che discende la luce e l’unzione, co cui possiamo impararla. Un’anima pura ne acquisterà di più in un mese per influsso della grazia, che altri in parecchi anni con la fatica dello studio.

 

Così pure se ne impara sempre più nella pratica delle virtù, che in tutti i libri spirituali e in tutte le speculazioni dell’Intelletto. Per persuaderci di questa verità, Nostro Signore prefeerì dare al mondo esempi di virtù, prima di dare insegnamenti e comandi: Incominciò a fare e a insegnare (At 1,1,). Per questa stessa ragione Davide dice al Signore: Ho superato nel senso anche gli anziani, epché mi sono dato alal pratica dei tuoi comandamenti (Sal 118,100). Fu questo codice, su cui studiò S. Antonio per imparare la scienza dei Santi e superare l’orgogliosa dottrina dei filosofi. È ancora in questo codice che tante anima semplici, senza cultura, acqusitano cognizioni che sfuggono ai sapienti del mondo.

 

Per tutto i lcorso della vita dobbiamo poi aprire la nostra coscienza al Signore ed al Padre spirituale con grande schiettezza e semplicità, non nascondendo nulla ad esi dei moti del nostro cuore; in maniera che noi vorremmo quasi, se ci fosse possibile, aver tra le mani il nostro interno per spiegarlo davanti ai loro occhi. Il merito che ci fa guadagnare questa pratica dell’umiltà, ci otterrà dal Signore il dono del discernimento degli spiriti, che ci servirà per regolare no istessi e diriger gli altri.

 

Il vizio contrario al dono della Scienza è l’ignoranza o mancanza di cognizioni, che possiamo e dobbiamo aver per ben dirigere noi stessi e gli altri.

 

Sono tre le forem di ignoraza in cui viviamo ed alle quali sono soggette, come osserva S. Lorenzo Giustiniani, le persone che si danno alla vita spirituale. Di esse abiamo già trattato nel capitolo IV del terzo principio, parlando della purificazione del cuore.

 

La beatitudine che corrisponde al dono della Scienza, è la terza: «Beati coloro che piangono» (Mt 5,5), perché la Scienza comunicataci dallo Spirito Santo insegna a conoscere i propri difetti e la vanità delle cose terrene, persuadendoci che dalle creature non possiamo aspettarci che miseria e dolore.

 

Il frutto dello Spirito Santo che corrisponde a questo dono è la fede, inquantoché questo dono perfeziona la conoscenza acquistata con la luce della fede intorno alle azioni umane ed alle creature.

 

Art. 04: Il dono del Consiglio

 

Il consiglio è un atto della virtù della prudenza, il quale prescrive la scelta dei mezzi per arrivare ad un determinato fine.

 

Perciò il dono del Consiglio riguarda la direzione delle azioni particolari. È un raggio di luce con cui lo Spirito Santo ci mostra quanto dobbiamo fare nelle nostre particolari circostanze di tempo e di luogo. Ciò che la Fede, la Sapienza, la Scienza insegnano in generale, viene applicato ai casi particolari dal dono del Consiglio. Se ne comprende da ciò la grande necessità, poiché non basta sapere che una cosa è buona in sé, bisogna anche giudicare se essa è buona nelle circostanze presneti, oppure se è migliore di un’altra e più indicata allo scopo, cui si mira; si arriva a conoscere tutto ciò mediante il dono del Consiglio.

 

Capiterà qualche volta che, volendo prendere delle decisioni su ciò che stiamo compiendo, una determinata cosa ci sembrerà, anche alla luce soprannaturale, migliore e più perfetta; e lo potrà anche essere in sé. Tuttavia compiendola, seguiranno gravi inconvenienti, pericoli, mancanze, che non si sarebbero verificati se noi avessimo scelto un’altra cosa che, per quanto meno perfetta in sé, sarebbe stata la migliore per noi, perché non avrebbe avuto le cattive conseguenze dell’altra che ci sembrava più eccellente.

 

Alla luce di questo principio comprendiamo che la guida più sicura è quella che si riceve dallo Spirito Santo per mezzo del dono del Consiglio; dobbiamo quindi interdirci di seguire ogni altra guida:

 

a)      perché, seguendola, siamo sicuri di camminare nella via del Signore e della su adivina Provvidenza;

 

b)      perché è il mezzo di non sbaglairsi mai, essendo lo Spirito Santo una regola infallibile nelle nostre azioni e nelle nostre consocenze;

 

c)       perché il lasciarsi dirigere dallo Spirito Santo ci fa vivere in una soave pace, senza inquietudine ed affanno, come figli di un principe, che non si danno mai pensiero né del vitto, né del loro mantenimento, né di ci che riguarda il loro decoro, essendo tale preoccupazione a carico del principe loro padre.

 

Lo Spirito Santo comunica più o meno questo dono, in proporzione della fedeltà a corrispondervi. Chi ne ricve in misura limitata, se fa buon uso del poco che ha, può ritenersi sicuro di riceverne di più, finché ne sarà ripieno secondo la misura della sua capacità, cioè finché ne avrà quanta gliene occorre per compiere i disegni di Dio e per disimpegnare i compiti assegnatigli dalla propria vocazione. Poiché si ha ragione di ritenere che un persona è ripiena dello Spirito di Dio, quando ne ha a sufficienza per tutti gli impegni de proprio stato.

 

Per noi chiamati in un Ordine votato all’apostolato, dove si devono saper fondere armonicamente l’azione e la contemplazione, senza presunzione possiamo prefiggerci il più alto ideale di vita attiva e di vita contemplativa. Non si può parlare di presunzione, quando si tratta di aspirazione legittima alla perfezione del proprio stato ed al compimento dei disegni di Dio nell’ambito della propria vocazione.

 

A questo scopo ci occorre l’eccellente dono del Consiglio, dovendo vivere molto dediti all’azione: per cui mantenendoci questo santo dono dello Spirito Santo, non faremo nulla se non con molti difetti e il nostro modo di agire rimarrà sempre un operare puramente umano: agiremo cioè spinti solo da un principio di iniziativa umana o di prudenza acquisita; né seguiremo se non i trovati del nostro io, che sono di solito in opposizione con lo Spirito di Dio.

 

Quindi anzittutto, ogni mattina chiedere allo Spirito Santo il suo aiuto per tutte le azioni della giornata, riconoscendo con umiltà la nostra ignoranza e debolezza e protestando di seguire la sua guida con una piena ed intera sottomissione di mente e di cuore. Poi, all’inizio di ogni azione, si chiederà ancora la grazia dallo Spirito Santo per compierla bene e infine, domandare perdono delle mancanze che si saranno commesse. In questo modo per tutta la giornata si vivrà sotto la dipendenza di Dio, che solo prevede le circostanze particolari in cui verremo a trovarci e che solo per conseguenza può guidarci in ogni occasione per mezzo del suo Consiglio e ciò con maggiore sicurezza, che on con gli altri mezzi della fede e degli altri suoi doni i quali tuttavia non discendono ai casi particolari. La purezza del cuore come avviene per tutti gli altri doni precedenti, è eccellente mezzo per impetrare il dono del Consiglio.

 

Un uomo intelligente e di retto giudizio, che si applicasse con costanza a purificare il suo cuore, acquisterebbe una grande prudenza soprannaturale ed un’abilità divina per trattare ogni specie di affari, sarebbe abbondantemente illuminato, avrebbe delle cognizioni infuse per dirigere le anime, troverebbe mille sante industrie per eseguire le imprese che promuovono la gloria di Dio. In questo campo la prudenza umana con tutti i suoi calcoli e con tutta la sua bravura, commette delle mancanze e spesso è anche impotente. S. Ignazio e S. Francesco Saverio acquistarono quel raro dono della prudenza, che ha destato la generale ammirazione, per mezzo della purificazione del cuore e per una fedele docilità alla guida dello Spirito Santo.

 

I Direttori di spirito ed i Superiori devono attingere nella preghiera la luce che li deve dirigere nel disimpegno delle loro cariche.

 

È un errore il credere che i più abili alle cariche ed alla direzione delle anime siano i più dotti. Servono poco nella direzione spirituale i talenti della natura, la prudenza e la scienza umana, in confronto dei beni soprannaturali comunicati dallo Spirito Santo, i cui doni superano l’efficacia della ragione.

 

Le persone più abili nella direzione degli altri e nel dar consiglio in ciò che ha rapporto con Dio sono coloro che, pur sufficientemente dotati di scienza e di talenti naturali,  anche senza possederli in un grado eminente, vivono in grande unione con Dio per mezzo della preghiera, docilissimi agli impulsi dello Spirito, avendo la propria coscienza pura e l’anima esente da passioni e sciolta da ogni legame di interesse umano. Così pensava S. Ignazio e fu per questo principio che nominò rettore del Collegio romano il P. Sebastiano Romano, che non era uno dei più distinti per i talenti umani, ma un uomo ripieno di Spirito di Dio.

 

I Superiori subalterni hanno un grande bisogno del dono del Consiglio, in talune particolari circostanze in cui devono praticare gli ordini ricevuti. Un inferiore che non abbia persone da governare, trova minori difficoltà nella pratica dell’obbedienza di un inferiore che, a sua volta, è i superiore di altri, come un rettore, un provinciale, un assistente. Per esempio costui può trovarsi talvolta in grave imbarazzo, se non è illuminato dalal grazia dello Spirito Santo, di concedere troppo all’obbedienza, anche contro il dovere della propria carica; può incorrere in diverse esagerazioni, come il lasciar far tutto ai provinciali o di a ccondiscendere eccessivamente ai voleri dei singoli, che hanno saputo prevenire e guadagnarsi il Padre Generale. Di modo che tra i due doveri: quello dell’obbedienza e quello degli uffici delal propria carica, è nell’alternativa o di concedere troppo al primo a scapito del suo ufficio, oppure di cadere nel difetto di una parziale obbedienza. In queste circostanze solo coloro che si lasciano guidare dai doni dello Spirito riescono ad evitare lo sbaglio; ma noi abbiamo la disgrazia di conoscere troppo poco in pratica questi doni eccellenti, che sono le norme direttive della vita dei Santi, per il motivo che in noi manca il serio proposito di attendere alla perfezione.

 

I dotti devono guardarsi bene da una certa boria delle proprie capacità, delal fiducia del proprio sapere e dall’attacco ai propri sensi.

 

Chi nel governo dello stato o di società ecclesiastiche e religiose si lascia guidare dallo Spirito Santo, non può riuscire sempre gradito a coloro che seguono i criteri della prudenza umana.

 

Sono anzi riprovati spesso da costoro, che non sanno arrivare oltre i confini della ragione e del buon senso, loro uniche norma di condotta e che hanno così precluso l’accesso alle norme soprannaturali dello Spirito Santo, infinitamente superiori ad ogni ragionamento umano e ad ogni considerazione politica.

 

È impossibile che nel governo dei Superiori, o meglio nel governo di Dio per bocca dei Superiori, non abbiano importanza e siano senza spiacevoli conseguenze i difetti che commettono. I Superiori non devono soltanto essere zelanti nel punire le mancanze dei loro inferiori, ma devono praticare la squisita carità di prevenire, con buoni suggerimenti, i difetti in cui potrebbero incorrere: spesso torna opportuno limitarsi ed accontentarsi di un paterno e privato ammonimento senza nessun’altra punizione, per costringere con la dolcezza alla correzione chi ha commesso qualche mancanza, e per impedire le altre imperfezioni che l’asprezza di una pena potrebbero provocare.

 

Un buon Superiore ritiene di avere a sua disposizione la potenza dell’autorità per il bene dei propri inferiori e per essere loro di sollievo, ma non già per nuocere ad essi o per contristarli.

 

Una direttiva importante per il governo, che fu insistentemente raccomandata nell’ultima Congregazione generale, è quella di evitare la molteplicità di piccole disposizioni inutili, che non servono che a gravare sugli inferiori, rendendo più pesante la vita religiosa, che bisogna sempre piuttosto alleggerire. Si curi di preferenza l’osservanza delle regole e delle disposizioni già impartite.

 

Le colpe dei santi stanno nell’aver rifiutato di seguire i chiari inviti dello Spirito Santo, nell’aver omesso certe pratiche di perfezione, come quando, per esempio, dopo aver conosciuto per una illustrazione soprannaturale i diversi gradi di una virtù, si sono appigliati per fiacchezza o per dissipazione al meno nobile e generoso.

 

Tre circostanze devono concorrere di solito per permetterci di agire con sicurezza e senza pericolo nel procedere:

 

1)      quando si vede che non c’è nessun male a fare o a dire una cosa accorgendoci di non essere spinti da nessuna inclinazione od affetto naturale, da un motivo di compiacenza, dal cattivo esempio degli altri, o da qualche abitudine;

 

2)      quando si è disposti a seguire un’altra via, se lo Spirito Santo dovesse suggerirla;

 

3)      quando si è ugualemente pronti a determinarsi per il pro o per il contro, secondo l’impulso dello Spirito Santo.

 

In diversi brani della Sacra Scrittura si possono scorgere manifestazioni mirabili del dono del Consiglio, come nel silenzio di Nostro Signore davanti ad Erode e nelle risposte date per salvare l’adultera, o per confondere coloro che lo avevano interrogato sul dovere del tributo a Cesare; nel giudizio di Salomone, nell’impresa di Giuditta per liberare il popolo di Dio dall’esercito di Oloferne; nella condotta di Daniele per giustificare Susanna dalla calunnia dei due vecchi; in quella di S. Paolo quando seppe mettere nell’imbarazzo i Farisei e i Sadducei, appellando dal tribunale di Festo a quello di Cesare.

 

Il vizio contrario al dono del Consiglio è la precipitazione che consite nell’agire con troppa fretta, senza aver ben ponderato tutto precedentemente, nel seguire l’impulso della propria attività naturale e nel non darsi pensiero di consultare lo Spirito Santo.

 

Questo difetto, come altri contrari ai precendenti doni, e cioè la stoltezza, la grossolanità, l’ignoranza, diventano peccati quando sono dovuti alla negligenza nel disporsi a ricevere i suggerimenti dello Spirito Santo; o quando non si prende il tempo necessario per domandargli consiglio prima di agire; o quando durante l’azione ci lasciamo condurre da una tal precipitazione da non essere in condizioni di ricevere il suo aiuto; oppure quando ci si lascia travolgere dall’impeto di una passione che acceca.

 

La furia è in forte contrasto con il dono del Consiglio. S. Francesco di Sales combatte frequentemente nei suoi scritti questo difetto. Lo si deve evitare ad ogni costo, perché diffonde tenebre nell’animo, porta turbamento, rammarico ed impazienza nel cuore, favorisce l’amor proprio, spingendoci ad un esagerato assegnamento sulle nostre proprie forze; mentre invece il dono del Consiglio, rischiarando l’intelligenza, diffonde nel cuore una unzione e una pace in aperto contrasto con la furia ed i suoi difetti.

 

Anche la temerarietà è opposta a questo dono. Essa è una mancanza di attenzione ai lumi ed ai consigli della ragione e della grazia, causata da un’eccessiva fiducia in sé. Questo vizio è diffusissimo, tanto più data la poca prudenza e maturità nostra, e per l’abitudine ad una condotta puerile e la troppo alta stima di noi stessi.

 

Un terzo difetto contrario al dono del Consiglio è la lentezza. Dobbiamo fare in modo che una riflessione matura preceda le nostre decisoni; ma nuna volta che una risoluzione è stata rpesa con l’assistenza dello Spirito Santo, bisogna subito mettere mano all’esecuzione, sempre sotto la guida dello Spirito Santo; perché se si differisce, cambiando le circostanze, ci può sfuggire l’occasione buona.

 

La beatitudine corrispondente al dono del Consiglio è la quinta: Beati i misericordiosi perché saranno trattati con la misericordia (Mt 5,7). E la ragione portata da S. Agostino  che Dio non manca di aiutare con la sua grazia coloro che assistono con carità gli altri nei loro bisogni. Est autem iustum consilium, dice il Santo, ut qui se a potentiori adiuvari vult, adiuvet infirmiorem in quo est ipse potentior. Itaque beati misericordes, quia ipsorum miserebitur Deus.

 

Non si può indicare un frutto dello Spirito Santo che abbia un immediato rapporto col dono del Consiglio, essendo questo una conoscenza pratica che, a dire il vero, non ha altro frutto oltre l’operazione da lei diretta ed a cui finire.

 

Tuttavia, siccome questo dono presiede specialmente alle opere di misericordia, si può dire che in qualche modo gli corrispondono i frutti di bontà e di benignità

 

Art. 05: Il dono della Pietà

 

La pietà è quella tenera ed amorosa disposizione del cuore, che ci prota ad onorare ed a servire i genitori ed il prossimo.

 

Il dono della Pietà è una disposizione abituale che lo Spirito Santo mette nell’anima per eccitarla ad un affetto filiale verso Dio.

 

La Religione e la Pietà ci protano ambedue al culto ed al servizio di Dio; ma la religione lo considera come Cretore, mentre la Pietà come Padre, ed in ciò questa ultima è più eccellente della prima.

 

Vastissimo è il campo del dono della pietà nella pratica delle virtù cristiane; esso abbraccia non soltanto Dio, ma anche tutto ciò che ha qualche rapporto con Lui, come la Santa Scrittura che contiene la sua parola, i Beati che lo posseggono nella gloria, le anime soffernti del purgatorio, gli uomini che vivono sulla terra.

 

Il dono della Pietà, dice S. Agostino, comunica a coloro che lo possiedono un amoroso rispetto per la Santa Scrittura, sia che ne comprendano i senso oppure no.

 

Infonde inoltre uno spirito filiale verso i Superiori, una tnerezza paterna verso gli inferiori, un amore fraterno per gli uguali, sentimenti di compassione per coloro che si trovano nel bisogno e nella sofferenza, ed una tenera premura per soccorrerli.

 

Questo dono risiede nelle regioni superiori e inferiori dell’anima; nella parte superiore, comunicandole una unzione e una soavità spirituale che provengono dai doni della Sapienza e dell’Intelletto; nell’inferiore, provocando sentimenti di una devozione dolce e sensibile. È da questa sorgente che scaturiscono le lagrime dei Santi e delle persone pie. Ecco il principio di quell’atitvità che le solleva a Dio e di quella prontezza che li fa solleciti nel servizio del Signore. È ciò che li rende tristi con coloro che si trovano nella tristezza, che li fa piangere con coloro che piangono, gioire con coloro che sono nel gaudio, che li induce a sopportare, sena asprezza, le debolezze degli infermi, i difetti degli imperfetti ed a farsi tutto a tutti.bisogna ricordare che farsi tutto a tutti, sull’esempio di S. Paolo, non vuol dire, per esempio, rompere il silenzio con coloro che non lo sanno osservare; poiché è indispensabile essere persevanti nella apatia della virtù e nell’osservanza delle regole occorre invece essere seri e contenuti con coloro che lo sono, pronti e fervidi on le anime pronte e fervide, allegri con le persone di carattere gioviale; senza mai tuttavia oltrepassare i confini della virtù, prendendo, epr esempio, la prontezza come sanno prenderla le persone perfette, che sono di natura pronte e fervide, oppure esercitando la virtù con riguardo e condiscendenza, in armonia con il carattere e con il gusto della persona con cui si ha a che fare., e in quanto lo può permettere la stessa virtù.

 

Alcuni non vogliono riconoscere certe devozioni fondate su opinioni teologiche, che esi non condividono, ma sostenute da altri. Costoro hanno torto, perché in fatto di devozioni ogni opinione probabile è un sufficiente principio e fondamento. Perciò è ingiusta questa posizione.

 

Tra i doni dello Spirito Santo, questo della Pietà sembra un retaggio dei Francesi, i quali ne godono con più abbondanza degli altri popoli. Il cardinale Bellarmino, venuto in Francia, si meravigliò della devozione che notava dovunque; e diceva poi che gli Italiani, messi a confronto coni Francesi nella pieta, gli sembravano a stent un popolo di sentimenti cattolici.

 

Il vizio contrario al dono della Pietà è la durezza di cuore, che nasce dall’amore sregolato di noi stessi, il quale tende naturalmente ad assorbirci nei nostri propri interessi ed a lasciarci commuovere solo da ciò che ci riguarda; che ci fa vedere l’offesa di Dio senza compassione; per colpa del quale non ci lasciamo incomodare per fare dei piaceri agli altri, dei quali ci permette di sopportare i difetti; che ci provoca contro di essi per futili motivi; che ci fa conservare nel cuore sentimenti di asprezza, di vendetta, di odio e di antipatia.

 

Invece, quanto più un’anima è inondata dalla carità e dall’amore di Dio, tanto più è sensibile agli interessi del Signore ed a quelli del prossimo.

 

Questa durezza è massima nei grandi de mondo, nei ricchi avari, nelle persone sensuali, in tutti coloro insomma che non vogliono nutrire in cuore teneri sentimenti, perché non praticano la vita della pietà e non tengono il contatto con le cose spirituali.

 

Capita di trovarla spesso anche nei dotti, che non vogliono unire la devozione con la scienza e che tentano di mascherare questo difetto, considerandolo come una manifestazione di fortezza di carattere; ma i veri dotti furono anche molto pii, come un S. Agostino, un S. Tommaso, un S. Bonaventura, un S. Bernardo, e nella Compagnia, il P. Lyanez, il Suarez, il Bellarmino, il Lessio.

 

Un’anima che non può piangere, almeno con le lacrime del cuore, i propri peccati, è infetta o di empietà o di impurità o dell’una e dell’altra, come succede di solito a coloro che hanno i lcuroe indurito.

 

È una vera disgrazia quando nelle anime consacrate a Dio si ha una magiore stima dei talenti naturali od acquisiti che non della Pietà. Vedrete alle volte dei semplici religiosi ed anche dei Superiori, che ci proclameranno di tener in maggior considerazione uno più portato agli affari materiali che non alle piccole devozioni,le quali servono, vi diranno costoro, al più per le donnicciuole, ma non per un’anima solida, confondendo così la durezza del cuore, assai opposta alla pietà, con la fortezza di spirito. Dovrebbero costoro ricordarsi che la devozione è un atto di religione, o frutto della religione e della carità, e perciò preferibile a tutte le virtù morali, perché, in ordine di dignità, la religione segue immediatamente le virtù teologali.

 

Quando un padre anziano e di grande autorità per l’età e le cariche ricoperte proclama davanti a giovani religiosi di stimare le belle doti e le cariche onorifiche, oppure di preferire quelli che hanno doti eccellenti di spirito e di scienza ad altri che, non avendone, sono però di maggior virtù e pietà, sappia che egli nuoce grandemente a qeui poveri giovani. È un veleno che insinua in cuore ad essi e di cui forse non guariranno mai. Può bastare alle volte anche una parola, detta in confidenza ad una persona, epr gettarla nel disagio, nel turbamento.

 

È incalcolabile il male che hanno commesso negli Ordini religiosi coloro che, per primi, hanno introdotto la stima dei talenti naturali e delle cariche onorifiche. È un latte avvelenato, inoculato ai giovanissimi subito dopo il noviziato, e che lascia un’impronta sull’anima loro che non si cancellerà mai.

 

La beatitudine corrispondente al dono della Pietà è la seconda: Beati i miti (Mt 5,4), e la ragione è che la dolcezza, rimuovendo gli impedimenti degli atti di pietà, aiuta perciò stesso nella pratica della pietà.

 

I frutti dello Spirito Santo che corrispondono a questo dono, sono quelli di bontà e benignità.

 

Art. 06: Il dono della Fortezza

 

La fortezza è una virtù che ci infonde vigore di fronte alla paura ed allo sgomento dei pericoli, delle difficoltà, delle fatiche che si possono incontrare nell’eseguire le nostre imprese.

 

Ora, il dono della Fortezza raggiunge tutti questi eccellenti effetti, poiché esso è una disposizione abituale che lo Spirito Santo mette nell’anima e nel corpo per affrontare e sopportare eventi straordinari, intraprendere le azioni più difficili, per esporsi ai pericoli più terribili, per superare le fatiche più rudi, per sopportare le pene che più affliggono: e tutto ciò con costanza e in una maniera eroica.

 

Questo è un dono assolutamente necessario in erte occasioni, in cui dobbiamo lottare contro tentazioni violente, per resistere alle quali, dobbiamo saperci decidere a perdere i beni, gli onori e anche la vita. È allora che lo Spirito Santo assiste assai potentemente con i ldono del Consiglio e della sua Fortezza l’anima fedele, che, diffidando di se stessa e convinta della propria debolezza e del proprio nulla, implora il suo soccorso e mette in Lui ogni sua fiducia.

 

In queste circostanze non bastano le grazie comuni, ma occorrono suggerimenti e soccorsi straordinari; ecco perché il Profeta unisce assieme il dono del Consiglio e quello della Fortezza, l’uno per illuminare la mente, l’altro per rischiarare il cuore.

 

Nella Compagnia grande è il bisogno di questo dono, per le difficoltà inerenti a certe cariche a cui può obbligarci l’obbedienza, come quando un religioso è mandato nelle missioni estere oppure quando si è lasciati a lungo nella vita della scuola, o trattenuti in un certo luogo che noi, per esperienza, sappiamo nocivo alla nostra salute, oppure quando ci troviamo esposti ad una calunnia o ad una persecuzione, mentre attendiamo alle cariche di zelo e di carità.

 

L’occasione di una bella morte è così preziosa che nessun uomo saggio deve lasciarla sfuggire quando si presenta.

 

Bisogna persuaderci che con questo solo atto di generosità cristiana si merita davanti agli occhi di Dio quanto si potrebbe meritare per il resto della vita, se si vivesse ancora a lungo. Se infatti uno, abbracciando la vita religiosa, distribuisse in una sol volta tutti i suoi beni ai poveri, acquisterebbe i medesimi meriti che otterrebbe se, rimanendo nel mondo, facesse molte elemosine in tempi successivi. E che sappiamo noi quanto potremo vivere in seguito, ed in quale stato moriremo un’altra volta? Che sarebbero ora Origene e Tertulliano, se prima di defezionare avessero trovato un’occasione di morire per Gesù Cristo, a cui fossero stati fedeli?

 

Ora, tre sono le forme di morte invidiabile:

 

1)      morire al servizio degli appestati;

 

2)      morire nelle missioni all’estero, sia per mano degli infedeli, sia per le estenuanti fatiche dell’apostolato, oppure per qualche disgrazia incontrata nelle opere di ministero;

 

3)      dare la vita per i lproprio gregge, come possono fare i prelati, i parroci, i superiori.

 

Non si arriva ad immaginare quante grazie attiri sugli altri membri della Compagnia la virtù di quelli tra noi che si espongono a queste eventualità!

 

Il dono della Fortezza riguardo al corpo partecipa a coloro a cui Dio lo impartisce la capacità di operare effetti di una straordinaria forza, come fecero Davide, Sansone ed altri nellAntico Testamento. Anche nella vita di alcuni Santi, come S. Domenico, S. Caterina da Siena, di P. Gonzales da Sylveira si legge che per questo dono riuscirono ad abbracciare mortificazioni prodigiose, superiori alle forze della natura.

 

Ma la principale efficacia del dono della Fortezza si esercita sullo spirito, dal quale bandisce ogni timore umano, infondendo nella volontà e nell’appetito una fermezza divina che rende intrepido il nostro spirito.

 

Fu per questo spirito di Fortezza che Nostro Signore nell’agonia dell’Orto degli Ulivi superò lo spavento della sua passione e morte, dicendo, infiammato di zelo, ai suoi Apostoli dopo aver pregato: Alzatevi, andiamo, colui che mi deve tradire si avvicina (Mt 26,46).

 

era per questo dono che i santi non temevano pericolo alcuno, quando si trattava di eseguire i disegni di Dio e di procurare la sua gloria. Un S. Giovanni Crisostomo non temeva che il peccato. E l’imperatrice Eudossia gli fece chiedere che cosa gli incutesse timore, per poi servirsi del suo lato debole per obbligarlo a cedere in quello che essa bramava. Ma si trovò che il santo Vescovo non temeva né le catene, né l’esilio, né la morte. Una cosa sola gli incuteva timore: l’offesa di Dio.

 

S. Francesco Saverio, animato da questo medesimo spirito, sfidava gli eserciti degli infedeli, le tempeste, i naufragi, la morte come si poté vedere nel suo viaggio verso il Giappone, che egli compì a bordo di una barcaccia, che era di un pirata idolatra, sulla quale il demonio era adorato e talvolta gli compariva dinanzi per intimidirlo, minacciandolo di fargli sentire gli effetti della sua vendetta; ma i lSanto disprezzava le mue minacce, perché aveva messo ogni fiducia nel Signore. Scrive in una sua lettera che il rimedio più efficace in simile circostanze è di non aver timore alcuno confidando solo nel Signore e che il maggior male che ci possa capitare è quello di aver paura dei nemici di Dio quando noi combattiamo per la sua causa.

 

Dobbiamo perciò essere magnanimi ed intrepidi nel servizio di Dio per progredire nella perfezione e per essere in grado di compeire grandi imprese.

 

Senza il dono della Fortezza non si possono fare progressi notevoli nella vita spirituale. La mortificazione e la preghiera, che ne costituiscono le principali pratiche, esigono la generosa decisione di superare tutte le difficoltà che si incontrano nelle vie dello spirito, così contrarie alle nostre naturali tendenze. S. Teresa diceva che un’anima, la quale si sia data alla pratica della preghiera con la forte risoluzione di non abbandonarla mai, ha già percorso la metà del suo cammino (Autobiografia, c. VIII).

 

I Martiri sono stati i più sublimi eroi del Cristianesimo, perché si dà maggiore prova di fortezza patendo che non operando nell’aione la natura trova uno sfogo delle proprie energie ed è sempre dominatrice; ma il patire non ha nulla che non sia contrario alla natura. Perciò p più difficile ed eroico dell’agire. È ai Martiri che la Chiesa è debitrice della propria diffusione su tutta la terra e della conversione dell’impero romano alla fede. E come emblema della fortezza e vittoria loro si mette ad essi nella mani la palma.

 

Alcuni si ingannano attribuendo a questo dono anche la forza che Dio qualche volta concede alle parole del Santi per persuadere le menti e convertire i cuori. Questo invece è un dono particolare, chiamato gratia sermonis, grazia della parola: dono gratuito, dato non per il vantaggio di coloro che lo ricevono, ma unicamente per il bene del prossimo. Gli operai evangelici, a cui è concessa questa grazia, nonostante le prediche semplicissime e disadorne, lasciano meravigliose impressioni sulle anime, come avveniva agli Apostoli, a S. Vincenzo Ferreri, a S. Ignazio, a S. Francesco Saverio.

 

Il vizio contrario al dono della Fortezza è la timidità o timore umano ed una certa naturale viltà, frutto dell’amore della propria eccellenza e dei propri comodi, che ci sono di ostacolo nelle imprese e ci spingono alla fuga di fronte alle umiliazioni ed alle pene.

 

Non c’è nulla che riesca di così grande danno nella vita spirituale, quanto i timori che il demonio provoca con i molti rispetti umani, contro i quali dobbiamo generosamente resistere. È così che ha provocato la rovina di nuemrosi alti personaggi e che ha rovesciato, epr così dire, le colonne della Chiesa, come il famoso Osio, vescovo di Cordova, che pure in nime del Papa aveva presieduto il Concilio di Nicea, combattendo contro gli Ariani a lungo e con zelo; il quale, dopo tante gloriose vittore riportate contro questi eretici, nemici giurati del Figlio di Dio, infine, per timore, si lasciò indurre a firmare la condanna di S. Atanasio.

 

È incredibile il danno che il rispetto umano produce in noi.

 

Qualcuno può aver fatto il proposito di tenere conversazioni spirituali, di osservare la regola del silenzio o qualche altra regola determinata, di fare degli atti di mortificazione; tuttavia se viene a trovarsi con questa o con quella persona, non ha più il coraggio di mantenere il suo buon proposito, epr quanto preveda che proverà poi un vivo rammarico della trasgressione. Mettiamo da una pare la santa regola e l’interesse di Dio, dal’altra la compiacenza di una persona ed il timore di essere ritenuti da lei meno piacevoli: mettiamo sulla bilancia queste opposte considerazioni e lasciamo che prevalga la natura. Che infedeltà. Che debolezza! Eppure è cosa di tutti i giorni. C’è forse qualche altra cosa che meglio dimostri la nostra poca virtù e il grande dominio che su di noi esercita il rispetto umano? Ecco perché Dio ci volta le spalle, ritira da noi le sue grazie, per cui insensibilmente poi andiamo a cadere in una grande miseria.

 

Come il dono del Consiglio accompagna e guida quello della Fortezza spingendoci a grandi imprese, così vanno di pari passo la prudenza umana e la timidità, appoggiandosi l’una sull’altra e suggerendosi a vicenda ragioni per giustificarsi.

 

Chi si lascia dirigere dalla prudenza umana finisce con l’essere molto timido, è questo un difetto di uso tra i Superiori che temendo di incorrere in imprudenze, non fanno la metà del bene che potrebbero fare.

 

Mille paure ci ostacolano in ogni momento e ci impediscono di progredire nella via del Signore, e di compiere molte opere buone che non mancheremmo di fare, se ci lasciassimo guidare dal dono del Consiglio e se avessimo il coraggio comunicato dal dono della Fortezza; ma ci lasciamo troppo vincere dalle mire umane e tutto ci fa paura. Si teme che un incarico, che l’obbedienza ci vuol affidare, non ci debba riuscire; ed i timore ci induce a rifiutarlo. Si vive in apprensione per la salute, e perciò ci si limita a piccole, comode incombenze, senza che lo zelo o l’obbedienza possano poi impegnarci in altre più serie. Abbaimo paura di scomodarci e questo timore ci allontana dalle penitenze corporali oppure ci persuade a risparmiarci troppo nella loro pratica. Questo timore diventa anche la causa di molte omissioni. Sono pochissime le persone che facciano esclusivamente per Dio e per il prossimo tutto ciò che possono fare. Bisognerebbe, ad imitazione dei Santi, non temere che il peccato, come S. Giovanni Crisostomo; affrontare ogni pericolo, come S. Francesco Saverio; desiderare gli affronti e le persecuzioni, come S. Ignazio.

 

La beatitudine corrispondente al dono della Fortezza è la quarta: Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia (Mt 5,6), perché una persona animata dalla Fortezza dello Spirito Santo ha un’insaziabile desiderio di fare e di soffrire grandi cose.

 

I frutti che corrispondono a questo dono sono la longanimità e la pazienza. La prima, affinché non ci incolga noia e stanchezza nell’attesa o nella pratica del bene; la seconda, affinché non ci annoiamo o stanchiamo sotto la pressione del male.

 

Art. 07: Il dono del Santo Timor di Dio

 

Il dono del Santo Timore è una disposizione abituale che lo Spirito Santo infonde nell’anima per tenerla nel dovuto rispetto davanti alla Maestà del Signore, e nella dipendenza e sottomissione ai suoi voleri, allontanandola da tutto ciò che può dispiacere a Dio.

 

Questo dono è fondamento e base di tutti gli altri, perché il primo passo nella via del Signore è la fuga dal male, la quale il suo primo effetto precipuo.

 

È pure per il Santo Timore di Dio che si arriva al sublime dono della Sapienza. Si incomincia a gustare Dio, quando si comincia a temerlo; la Sapienza poi perfeziona a sua volta il Santo Timore: il gusto che si prova per le cose divine rende il Timore del Signore, affettuoso, puro, libero da ogni interesse.

 

Effetti di questo dono sono infondere nell’anima:

 

1)      un’abituale discrezione, un santo tremore, un profondo annientamento di fronte a Dio;

 

2)      un orrore estremo delle più piccole offese al Signore ed un proposito costante di evitarne qualsiasi occasione;

 

3)      un’umile confusione, quando si sbaglia e si cade in qualche difetto;

 

4)      un’attenta vigilanza per frenare l einclinazioni disordinate dell’appetito sensibile, ed inoltre il rientrare frequentemente in sé per controllare il proprio stato interno e vedere ciò che vi succede contro la fedeltà del perfetto servizio di Dio.

 

È grande illusione il pensare , come fanno alcuni, che dopo una buona confessione generale non sia più necessario essere guardinghi per evitare anche i più piccoli peccati, le più lievi imperfezioni, le minime deviazioni del cuore, i moti primi. Il male è che chi segue questa opinione per una segreta sfiducia di arrivare ad una maggior perfezione, ispira di solito agli altri gli stessi sentimenti e segue questo largo criterio anche con le anime che dirige; ed in ciò si inganna assai. È sempre necessaria una delicatezza tale di coscienza, una così grande precisione, da essere inflessibili anche dinanzi alla minima mancanza, combattendo e sradicando perfino i più piccoli disordini del cuore. Dio ha tutto il diritto di essere servito con questa perfetta fedeltà e perciò Egli ci offre le sue grazie, a cui abbiamo il dovere di cooperare.

 

Non arriveremo mai ad una perfetta purezza di cuore, se non eserciteremo una tale vigilanza su tutti i moti del cuore e su tutti i nostri pensieri, da non lasciarci più sfuggire se non ciò di cui possiamo rendere conto a Dio e che torni a Lui di gloria; così che nello spazio di una settimana, epr esempio, non si abbia a compiere che poche azioni esterne od atti interni che non abbiano la grazia come loro principio. Che se ci sfuggisse qualche atto che non avesse la grazia per principio, ciò dovrebbe avvenire per sorpresa ed a certi intervalli, poiché la nostra volontà dovrebbe essere così unita a Dio, da sapere di solito reprimere tali atti fin dal loro sorgere.

 

È raro conseguire una pinea vittoria sui nostri moti sregolati; non abbiamo ancor finito di superarne uno, che un altro subito ci sfugge, oppure il primo lascia in noi qualche traccia, per mancanza di attenzione o perché non si è opposta una resistenza, sufficientemente vigorosa.

 

Perciò una delle maggiori grazie che Dio possa concederci nello stato presnete e che noi dobbiamo insistentemente chiedere, è quella di essere così vigilanti nella custodia del nostro cuore, da non lasciarvi insinuare neppure il minimo moto disordinato, senza che ne accorgiamo e senza una correzione; mentre purtroppo ce ne sfugge una infinità, che non avvertiamo neppure.

 

E non appena ci si accorge di aver commesso un peccato, bisogna subito pentirsene con atto di contrizione, per timore che questo peccato diventi ostacolo alle grazie che il Signore tiene preparate per noi; ciò che succederà infallibilmente, se si manca al dovere del pentimento.

 

Ad alcuni non accorre affatto l’esame particolare perché, camminando sempre nella luce dello Spirito Santo che li guida, subito dopo la minima caduta, se ne accorgono e si riprendono. Ma queste anime, che fanno, per così dire, un continuo esame particolare su tutto, sono assai rare.

 

Il dono del Santo Timore può toccare qualche esagerazione, ma allora diventa di danno all’anima, ostacolando le comunicazione e gli effetti che l’amroe divino produrrebbe in lei, se non la trovasse impacciata e raffreddata dal timore.

 

Il vizio contrario al dono del Timore, è uno spirito di orgoglio, di indipendenza, di spavalderia, per cui non si vuol sottostare ad alcuna soggezione, peccando senza scrupolo e non tenendo conto delle piccole mancanze; comparendo alla presenza di Dio con poco rispetto e commettendovi numerose irriverenze; disprezzando le sue ispirazioni, trascurando le occasioni che si presentano di praticare la virtù e passando la propria vita nella tiepidezza e nella dissipazione.

 

Si pretende che sia cosa da poco un pensiero inutile, una parola detta alla leggera, un’azione compiuta senza che precedentemente sia stata santificata dalla retta intenzione. Ciò sarebbe vero nello stato di pura natura; ma dopo l’elevazione nostra all ostato soprannaturale, che ci è stata meritata dal sacrificio prezioso del Figlio di Dio, siccome ad ogni momento della nostra vita di prova corrisponde tutta l’eternità e la più piccola nostra azione merita il possesso o la privazione di una gloria che si può dire in qualche modo infinita perché eterna nella durata, così bisogna riconoscere che per nostra negligenza e viltà andiamo incontro a perdite incalcolabili, perché manchiamo di una ininterrotta adesione di cuore a Dio. Persuadiamoci quindi una buona volta che le azioni esterne sono soltanto la parte sensibile, il corpo; mentre l’intenzione e l’interno ne sono la parte viva e l’anima.

 

La via della tiepidezza è cosparsa di gravi pericoli; non ci si accorge mai del molto danno che ci si incontra. Ricordiamoci sempre che Dio per un po’ sopporta i peccati che commettiamo senza ritegno. Ma se in questi perseveriamo, può capitare, per una giusta punizione del Signore, di cadere in un peccato indubbiamente mortale, oppure di trovarsi in qualche fastidioso imbroglio, come per esempio, l’essere vittime di qualche nera calunnia, che, se pur priva di fondamento, è però da Dio permessa per punire qualche nostro trascorso, a cui più non pensavamo.

 

S. Efrem era stato chiuso in prigione nella sua giovinezza per un delitto, di cui era falsamente ritenuto colpevole. Si lamentava con il Signore e, reclamando la propria innocenza, sembrava accusare la divina Provvidenza di averlo dimenticato. Senonché gli apparve un Angelo e così gli parlò: «Ti ricordi ancora del danno che hai recato quel tal giorno ad un povero contadino, ammazzandogli la mucca a sassate? Che pentimento e che riparazione hai fatto per questo peccato? Dio ti lebererà dalla prigionia tra quindici giorni; del resto non sei il solo innocente rinchiuso qua dentro. Anche il tal ed il tal altro dei detenuti sono innocenti del delitto di cui furono accusati, ma essi ne hanno commessi altri che, sebbene ignorati dalla giustizia umana, tuttavia sono puniti dalla giustizia di Dio. I giudici li condanneranno per colpe falsamente ad essi attribuite; ma Dio permetterà che si eseguisca tale sentenza in punizione di certe colpe segrete che Lui solo conosce».

 

Terribili sono i giudizi del Signore: avendoci dato la vocazione ad una più alta perfezione e vedendo che dopo una lunga attesa noi continuiamo a resistergli, ci priva delle grazie già a noi destinate e ci toglie anche quelle già elargite, e talora con una morte immatura può strapaprci da questa terra, perché non abbiamo ad incorrere in disgrazie peggiori. Il che capita spesso ai religiosi che vivono nella tiepidezza e nella negligenza.

 

La beatitudine corrispondente al dono del Santo Timore è la prima: Beati i poveri in spirito (Mt 5,3), poiché la nudità dello spirito, che implica lo spogliamento degli affetti per gli onori e i beni temporali, è una necessaria conseguenza del perfetto Timor di Dio, il quale è il medesimo spirito che ci prota a una piena soggezione al Signore e ad avere una grande stima solo di Dio, disprezzando tutto il resto; spirito che ci impedisce non solo di insuperbire nel nostro interno, cercando la propria eccellenza, ma anche di elevarci sopra gli altri, ercando gli agi e le ricchezze terrene.

 

I frutti dello Spirito Santo, propri di questo dono, sono la modestia, la temperanza e la carità. Nulla infatti contribuisce alla modestia, quanto l’amoroso rispetto per Dio, ispiratoci dal timore filiale: e inoltre la temperanza e la castità, che togliendo o disciplinando l’uso delle comodità della vita e dei piaceri del corpo, contribuiscono, con il dono del Timore, a tenere a freno la concupiscenza.

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 LOUIS LALLEMANT  –  La dottrina spirituale

 

Quarto principio: Docilità alla direzione dello Spirito Santo

 

Capitolo 05: I frutti dello Spirito Santo

 

Art. 01: Natura dei frutti dello Spirito Santo

 

Con un costante e fervoroso esercizio nella pratica delle virtù si acquista la facilità di produrne gli atti e non si provano più le ripugnanze che si incontravano agli inizi, né si richiede un duro combattimento od una vivace violenza. Anzi si pratica con piacere quanto prima riusciva penoso. Succede anche nel campo delle virtù ciò che capita agli alberi. Come questi portano frutti, che al tempo della maturità perdono ogni gusto acre, diventano dolci e di gradevole sapore; così gli atti della virtù, una volta arrivati ad una certa maturità, presetnano un gusto delizioso e si compiono con piacere. Perciò questi atti di virtù ispirati dallo Spirito Santo si chiamano frutti dello Spirito Santo; certe virtù poi ne presentano di così perfetti e soavi, che vengono chiamati beatitudini, perché per essi Dio prende pieno possesso dell’anima. Ora, quanto più Dio possiede un’anima, tanto più la santifica. E quanto più questa diventa santa, tanto più si avvicina alla felice condizione in cui le virtù diventano come naturali, perché la natura è stata guarita dalla sua corruzione.

 

Chi tende alla perfezione, seguendo pratiche e atti metodici, senza abbandonarsi interamente alla direzione dello Spirito Santo, non ha mia questa dolcezza e questa specie di maturità della virtù; prova perciò non poche difficoltà e ripugnanze; ha sempre una lotta da sostenere, in cui spesso è vinto e manca di giusta tattica; invece colui, sotto la guida dello Spirito Santo, progredisce nel raccoglimento, può praticare il bene con un fervore e una gioia degni dello Spirito Santo e senza fatica riporta gloriose vittorie, oppure, se occorre combattere, ciò avviene senza tristezze, anzi con gioia.

 

Da ciò appunto dipende che le anime tiepide incontrano nella pratica della virtù una fatica doppia delle fervorose, le quali vi si impegnano nella serietà e senza riserve, gustando il gaudio dello Spirito Santo, che rende tutto facile, mentre le tiepide devono ancora combattere le loro passioni e sentono purtroppo la debolezza e le infermità della natura, che impediscono la soavità della virtù e ne rendono difficili e imperfetti gli atti.

 

La Comunione frequente è un mezzo eccellente per perfezionare in noi le virtù e per acquistare i frutti dello Spirito Santo, poiché Nostro Signore, unendo Se Stesso a noi, brucia e consuma i germi dei vizi, mentre a poco a poco ci comunica le sue disposizioni e perfezioni divine in proporzione delle nostre disposizioni e della nostra docilità. Se trova n noi, per esempio, il ricordo di qualche dolore che, per quanto ormai lontano, ha lasciato nel cuore un disagio interno, solito a farsi sentire nelle diverse occasioni, Nostro Signore cancella il ricordo e l’immagine di questo fastidio, distruggendone l’impressione rimasta nelle nostre potenze e soffoca interamente i germi del male, mettendo al loro posto i frutti di carità, di gioia, di pace, di pazienza. Allo stesso modo strappa le radici della collera, comunicandoci le virtù ed i loro frutti

 

Art. 02: I frutti di carità, di gioia, di pace

 

I primi tre frutti dello Spirito Santo sono la carità, la gioia, la pace ed essi appartengono in modo particolare a Luài: la carità, perché Egli è l’amore del Padre e del Figlio; la gioia, perché presente al Padre e al Figlio, è come il compimento della loro felicità; la pace, perché Egli è il legame ossia il vincolo che unisce insieme il Padre e il Figlio.

 

Questi tre frutti stanno sempre assieme e si seguono naturalmente l’un l’altro. La carità, chiamata anche amore fervente, ci porta al possesso di Dio; la gioia, non essendo altro che il riposo e la contentezza che si trovano nel godimento del bene posseduto, nasce dal possesso della gioia contro ogni forza avversa. Mentre la carità esclude ogni altra gioia terrena, la pace allontana ogni turbamento del cuore.

 

Nella graduatoria dei frutti dello Spirito Santo la carità occupa il primo posto, perché essa ha una forte somiglianza con Lui, che è l’Amore personale e, conseguentemente, perché avvicina maggiormente alla vera ed eterna felicità; come anche perché ci comunica una gioia più solida e una pace più profonda.

 

Date pure ad un uomo il dominio dell’universo, con la più assoluta autorità possibile; possegga pure tutte le ricchezze, gli onori, i piaceri che possa bramare; dategli la sapienza più completa che si possa immaginare, sia un altro Salomone e più di Salomone, non ignorando nulla di ciò che uno spirito può sapere; aggiungete il potere dei miracoli o di fermare il sole, di dividere i mari, di risuscitare i morti; partecipi anche alla potenza di Dio nel grado che voi gli augurate; abbia perfino il dono della profezia, i discernimento degli spiriti, la conoscenza del segreto dei cuori, tuttavia vi dico che il minimo grado di santità che quest’uomo possa aver raggiunto e il più piccolo atti di carità ch’egli faccia valgono assai più di tutto ciò, lo avvicinano maggiormente al sommo bene e gli partecipano sempre un essere più nobile di quello che potrebbero conferirgli gli altri vantaggi e li possedesse tutti. E ciò per due motivi:

 

a)      perché partecipare alla santità di Dio è partecipare a ciò che vi è, per così esprimerci, più essenziale in Lui; gli altri attributi, infatti, come la scienza, la potenza, possono essere comunicati agli uomini in modo da essere solo naturali; mentre a loro la sola santità non sarà mai naturale;

 

b)      perché la santità e la felicità sono come due sorelle inseparabili, e Dio non si dà e non si unisce che alle anime sante, ma non a quelle che, senza santità, hanno la scienza, la potenza e tutte le altre perfezioni immaginabili.

 

Così il più piccolo grado di santità e il minimo atto che possa aumentare la santità sono preferibili agli scettri ed alle corone. Da ciò segue che se ogni giorno si perdono le molte occasioni di emettere atti soprannaturali, veniamo a subire perdite incalcolabili di felicità, che saranno irreparabili.

 

Per due motivi non possiamo trovare nelle creature la gioia e la pace, che sono frutti dello Spirito Santo:

 

1)      Perché è solo il possesso di Dio che ci può preservare da ogni turbamento e timore, mentre quello delle creature produce ogni mille apprensioni e inquietudini. Chi possiede Dio non è turbato da nessuna cosa, perché per lui Dio è tutto e il resto è nulla.

 

2)      Perché nessun bene creato basta ad accontentarci pienamente. Vuotate il mare delle sue acque: pretendereste riempire poi con una sola goccia di acqua tutto questo immenso spazio? Anche se Dio producesse all’infinito creature sempre più perfette, non riuscirebbero queste tutte insieme a riempire la nostr anima; essa ha un vuoto che non può essere colmato che da Dio.

 

È la pace che fa regnare Dio nel nostro cuore, costituendovelo assoluto Signore. Essa soltanto tiene l’anima nella perfetta soggezione dovuta a Dio.

 

La grazia santificante prepara nell’anima nostra come una fortezza, dove Dio sta trincerato; mediante la pace essa fa da essa una sortita, impadronendosi di tutte le facoltà spirituali, fortificandole così potentemente, che le creature non possono più provocarle delle agitazioni. Dioi solo ne occupa tutto l’interno. Perciò i Santi conservano l’unione con Dio sia nel’azione, che nella preghiera, non lasciandosi sconvolgere neppure dagli avvenimenti più dolorosi.

 

Art. 03: I frutti di pazienza e di mitezza

 

I frutti precedenti dispongono l’anima a quelli della pazienza e della mitezza o moderazione.

 

La nota caratteristica della virtù della pazienza è di moderare gli eccessi della tristezza, mentre la virtù della mitezza modera i bollori della collera, che si levano con impetuosità per respingere un male presente.

 

Queste due virtù combattono senza conseguire vittoria se non con sforzi di violenza e non senza dolore; ma la pazienza e la mitezza, frutti dello Spirito Santo, assoggettano i propri nemici senza lotta, o se devono combatterli, lo fanno senza difficoltà ma anzi con piacere.

 

La pazienza vede con gioia gli oggetti capaci di recare tristezza; e per questo i Martiri gioivano all’annuncio delle persecuzioni e alla vista dei supplizi. Con la pace profondamente radicata nel cuore, la mitezza non trova maggiore difficoltà a regolare le agitazioni della collera, l’anima conserva sempre l ostesso atteggiamento e non perde mai il proprio equilibrio. Tutto ciò è dovuto allo Spirito Santo che vi abita e ne domina tutte le facoltà, allontanandone ogni oggetto di tristezza o non permettendo che esercitino impressioni motleste. Il demonio stesso teme una simile anima, a cui non osa avvicinarsi.

 

Art. 04: I frutti di bontà e di benignità

 

Questi due frutti riguardano il bene che si fa al prossimo.

 

La bontà è l’inclinazione che porta a fare dei piaceri agli altri e a mettere in comune con essi ciò che  si possiede. Non abbiamo nella nostra lingua una parola che esprime esattamente il termine latino di benignitas, perché la parola benignità nell’uso abituale ha per lo più il significato di accondiscendenza, dolcezza. E questa forma di mitezza consiste nel fare volentieri, cordialmente, con gioia i piaceri agli altri, senza provare quella ritrosia che deve invece superare chi ha la benignità solamente come virtù e non come frutto dello Spirito Santo.

 

Art. 05: Il frutto della longanimità

 

La longanimità, o perseveranza, impedisce la noisa e l’impazienza che derivano precisamente dalla speranza di un bene oppure dal prolungato disagio che si può provare nel compiere il bene o nel sopportare un male; non deriva però dalla grandezza dee nostre imprese e dalle loro particolari circostanze. La longanimità, per esempio, alla fine del terzo anno di noviziato, ha come effetto di farci trovare più fervorosi che agli inizi.

 

Art. 06: Il frutto della fede

 

La fede, come frutto dello Spirito Santo, è una certa facilità a credere ciò che devono credere tutti i fedeli; è una ferma adesione a queste verità, una sicurezza intorno ad esse, senza provare quelle ripugnanze, quei dubbi, quelle tenebre e quella rozzezza, che noi naturalmente possiamo avere in materia di fede.

 

A questo fine è necessario che ci sia nella volontà un pio affetto, che inclini la mente ad accettare senza esitazione le verità che le vengono proposte.

 

Mancando di questo pio affetto, i Giudei, per quanto convinti dai miracoli di Nostro Signore, non vollero credere in Lui, perché il loro intelletto era oscurato ed accecato dalla malizia della loro volontà.

 

Ora, ciò che capitò agli Ebrei per la sostanza della fede, può succedere anche a noi per ciò che si riferisce alla perfezione della fede, cioè riguardo a quelle verità che possono perfezionare la nostra fede e che sono precisamente le conseguenze di ciò che crediamo: per esempio, ci viene insegnato, e noi lo crediamo, che Nostro Signore è insieme Dio e uomo. Se da questa premessa, poi non si arriva a conchiudere che lo dobbiamo amare sopra ogni cosa, visitarlo spesso nella Santa Eucaristia, prepararci a riceverlo e riconoscere in tutto ciò il principale nostro dovere e nostro bisogno, alora non siamo coerenti, e la pratica della nostra volontà non è in accordo con la fede della nostra mente. Se invece ci fosse questa armonia, ogni giorno cresceremmo nella fede dei misteri di Nostro Signore. Purtroppo però i nostri vizi tendoo a soffocare questo pio affetto, che è così necessario per arrivare alla perfezione della fede. Se noi avessimo una buona volontà, veramente devota a Dio, avremmo una fede penetrante e perfetta.

 

Qualcuno prende in questo campo la parola fides nel valore di fedeltà, di costanza a mantenere le promesse fatte a Dio; altri pensano invece alla facilità di prestar fede alle cose umane, senza abbandonarsi a malfondate diffidenze, a sospetti, a giudizi temerari.

 

Art. 07: I frutti della modestia, della temperaza, della castità

 

Abbastanza conosciuto è il concetto della modestia, in quanto è virtù. Essa regola tutti i movimenti del corpo, i gesti e le parole. In quanto essa è frutto dello Spirito Santo, produce questi effetti senza fatica e quasi con naturalezza; ed inoltre a tutti i moti interni dello spirito dà compostezza consona alla presenza di Dio.

 

Il nostro spirito è leggero e inquieto, sempre in agitazione, pronto a piegarsi dovunque, e ad aderire a ogni sorta di oggetti, divagandosi incessantemente. La modestia lo frena, lo modera, mette l’anima in una pace profonda, condizione indispensabile per essere la dimora e il regno di Dio; da ciò appare che il dono della presenza del Signore tien dietro immediatamente al frutto della modestia. La quale di fronte alla presenza divina è ciò che la rugiada era per la manna, la presenza di Dio è una sublime luce in cui l’anima vede se stessa di fronte a Dio, arriva a scoprire tutti i vuoti interni e tutto ciò che avviene in lei con una chiarezza maggiore di quella con cui vediamo i colori nel pomeriggio.

 

La modestia è per noi sommamente necessaria, perché anche un solo atto di immodestia, per quanto in sé possa sembrare cosa da poco, è tuttavia rilevante nelle sue conseguenze ed è una notevole dimostrazione di poco spirito religioso.

 

Le virtù della temperanza e della astità riguardano i piaceri del corpo, reprimendo gli illeciti e moderando quelli permessi.

 

La prima frena la tendenza disordinata al bere e al mangiare, ed impedisce gli eccessi che si potrebbero commettere.

 

La castità invece modera o toglie affatto l’uso dei piaceri carnali.

 

Invee queste due virtù, in quanto sono frutto dello Spirito Santo, arrivano a liberare talmente l’anima dall’amore del corpo, che essa non ne sente più le ribellioni, perché lo sa contenere senza difficoltà nella dovuta sottomissione. 

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Quarto principio: Docilità alla direzione dello Spirito Santo

 

Capitolo 06: Ostacoli opposti dal demonio alla pratica della docilità alla direzione dello Spirito Santo

 

Art. 01: Come il demonio impedisce il nostro progresso spirituale

 

È incredibile come il demonio cerchi di ostacolare ogni nostro progresso spirituale. Già dagli inizi di questo terz’anno egli ha ingannato alcuni con qualche sofferenza, con qualche disgusto o scrupolo, oppure con qualche altra cattiva disposizione. Quando vede che gli riescono i primi attacchi, ne tenta altri col destare in noi nuove speranze, desideri, progetti e così dissiparci e distoglierci dalle vie di Dio e dalla cura della nostra perfezione.

 

A questo scopo si serve della varie occasioni che si presentano, del ricordo del nostro passato, delle notizie che si ascoltano, degli oggetti che colpiscono i sensi, del nostro umore e delle nostre passioni, approfittando or dell’una ora dell’altra di queste risorse per tenere il nostro cuore e il nostro spirito, sempre occupati da queste inezie che ci attirano o da pensieri e riflessioni inutili, da vari desideri e timori, o da qualche altro impulso di passione non domata.

 

Quando, usciti di qui, occuperemo le varie cariche nei collegi, egli farà di tutto perché noi abbiamo ad andar soggetti a simili o peggiori attacchi, a simili o più pericolosi ostacoli; così che, se non stiamo in guardia, ci renderà schiavi per tutta la vita di qualche cosa che non è Dio.

 

Intanto la morte ci sorprenderà, e morremo imperfetti come saremo vissuti e il nostro nemico avrà ottenuto ciò che ha sempre di mira: confonderci davanti al tribunale di Gesù Cristo. E purtropo ciò capita frequentemente.

 

Per ovviare a qusta disgrazia, esaminiamoci con gra cura e vediamo a quali oggetti conserviamo un attacco disordinato, quale cosa più occupi il nostro cuore, quali passioni turbino di più la nostra pace interiore. E dopo esserci resi consapevoli di ciò, cominciamo una pronta lotta per liberarcene, essendo tutto una manifesta invenzione del nemico, che vuole la nostra rovina.

 

E vediamo anche se il nostro più ardente desiderio e la nostra maggior cura sia proprio quella di progredire nella perfezione del nostro stato; e se ciò non è, facciamo ogni sforzo per metterci in questa disposizione di spirito.

 

Art. 02: Diversi artefici del demonio per illuderci

 

§ 1.      Il metodo che il demonio tiene coi principianti è quello di impedire e diminuire il bene, tentando di cambiarlo con un altro meno perfetto, o solo apparente, o perfino dannoso, o comunque superiore alle nostre forze e troppo elevato per le presenti disposizioni del nostro spirito.

 

Con le anime già arrivate a perfezione, la sua arte è di molestarle, non concedendo ad esse riposo alcuno per distoglierle, dopo di averle stancate ed affaticate, dalla unione con Dio, e gliù fosse possibile, per rattristarle ed abbaterne l’animo, per allentarle nella pratica del bene e portarle a tiepidezza.

 

§ 2.      Ci sono persone, alle quali il demonio si guarda bene dall’impedire che compaino le opere buone, perché il ebne che fanno gli serve ottimamente per ingananarle.

 

I primi assalti tendono sempre a far cadere nel peccato mortale; ma se vede di non riuscire in questo suo scopo, cambia tattica, inducendo a commettere parecchi peccati veniali col bene che si fa. Una volta che le anime furono da lui indebolite con questo mezzo, riesce poi senza grande stento a farle cadere in fine nel peccato mortale.

 

§ 3.      Di fronte ad un nostro buon disegno, il demonio si comporta con noi, come fece il Faraone con gli Israeliti, quando vollero recarsi nel deserto per offrire un sacrificio a Dio. Non potendo rifiutare ad essi il permesso, il re lo limitò quanto più gli fosse possibile. Avrebbero dovuto prima lasciare in Egitto le donne e i figli, poi non condurre con sé il bestiame. Quando noi abbiamo preso una santa decisione, se non riesce ad impedire tutto il bene che noi vogliamo fare, lo impedisce più che può. Egli è sempre contento se può menomare in qualche cosa la gloria di Dio, di modo che non sia piena ed intera.

 

§ 4.      Senza dubbio ci siamo proposti nel passato di fare talvolta qualche opera buona in un determinato tempo; ma il demonio ci piomba addosso mentre ci accingiamo a mandarla ad effetto e tenta di intralciarla, o rappresentandoci le difficoltà, o suscitando delle contrarietà da parte degli uomini, o provocando in noi ripugnanze, per obbligarci ad abbandonare in parte la nostra impresa, oppure a cambiare completametne il nostro primitivo progetto, perché ci manca la forza d’animo e la costanza.

 

Se egli vede di non poterci convincere che certamente ci capiteranno avvenimenti capaci di sconvolgerci, ce li presenta almeno come dubbi o incerti, in ogni modo come assai temibili, per scoraggiarci con la paura dei pericoli e delle sofferenze.

 

Perciò si serve molto delle nostre cattive disposizioni; e mentre noi ci troviamo ancora in uno stato che non è di completa soggezione alla grazia, gli diamo occasione di distoglierci dal bene; e ciò è per noi causa di incredibili perdite di grazia e di meriti.

 

§ 5.      Può capitare spesso che, mentre lo Spirito Santo ci insinua un buon pensiero, il diaolo ce lo toglie, infondendocene con uno scambio un altro che, per quanto non cattivo, riesce a farci del male, perché ci fa perdere quella spinta al bene e la pace, frutti del precedente pensiero che veniva dal Signore. Dobbiamo perciò stare guardinghi per tenerci saldi nella buona ispirazione, senza lasciarci trascinare nell’altra; dobbiamo anche saper vigilare con la massima attenzione sui nostri pensieri, esaminandoli diligentemente nel loro nascere, nel loro progredire e nella loro fine.

 

Art. 03: Come distinguere le operazioni di Dio da quelle del demonio

 

§ 1.      Tutto ciò che ci toglie la pace e la tranquillità interna viene dal demonio. Dio ha voluto che fossero unite la felicità e la santità, di maniera che le sue grazie non soltanto santificano l’anima, ma la consolano, riempiendola di pace e dolcezza.

 

Le insinuazioni diaboliche producono effetti  contrari già dagli inizi od almeno alla fine; ed il serpente si può facilmente riconoscere dalla coda, cioè dagli effetti delle sue azioni e dal termine a cui conduce.

 

§ 2.      Pure dal demonio vengono tutte le proposizioni ipotetiche e condizionali, che riescono solo a seminare turbamento, per esempio: Che dovrei io fare, se Dio mi abbandonasse in tale circostanza? Non dobbiamo assolutamente dare alcuna risposta a simili proposizioni, e neppure fermarci su questi pensieri che il nemico ci suggerise per toglierci la confidenza in Dio e gettarci nell’inquietudine e nello scoraggiamento. Abbiamo fiducia in Dio, che è fedele e che non manca mai di venire in aiuto a coloro che, una volta datisi a Lui, cercano in tutto il suo divin beneplacito.

 

Art. 04: Illusioni segrete

 

§ 1.      Succede abbastanza frequentemente che, sentendo qualche impulso sregolato che nasce nel cuore, pur non volendo acconsentire al male, non vogliamo neppure scacciare con decisa fermezza il cattivo sentimento. Mentre saremmo pronti a respingere quel male che fosse palese anche agli occhi degli uomini, sopportiamo le deviazioni interne che dio solo vede e che gli dispiacciono; così, per esempio, provando un sentimento di rancore contro qualcuno, pur avendo la volontà di non acconsentire alla manifestazione di questo sentimento, lasciamo tuttavia che esso si diffonda nel nostro cuore, e non sappiamo liberarcene con prontezza. È questa una delle più segrete e dannosi illusioni.

 

§ 2.      Quando proviamo la brama di una cosa, tosto mille ragioni ci si presentano per giustificare la nostra passione. Così pure un grave inganno ci illude quando, trasportati da una tendenza naturale a ideare qualche progetto, tentiamo di cercare delle ragioni di ordine soprannaturale per appoggiarlo. Ho proprio una gran voglia di fare una visita al signor X ed intanto gli potrò consigliare di partecipare ad un corso di santi esercizi. Quell’intanto viene da un principio cattivo, perché è un ritrovato dell’amor proprio, che è ingegnosissimo a scovar simili ragioni.

 

§ 3.      Può pure succedere qualche volta che il Signore i conceda la luce e le ispirazioni della sua grazia per correggerci da qualche nostro difetto, mentre noi occupiamo in altro la mente; ci applichiamo a qualche azione virtuosa, per sfuggire al Signore e mettere a tacere i chiari suggerimenti e i rimproveri giusti della coscienza, per sottrarci alla confusione che produrrebbe inevitabilmente la vista del difetto e per procurarci un dolce inganno, persuadendoci della nostra virtù. Non arriveremo mai a quella santa libertà di spirito a cui aspiriamo, se non correggeremo i difetti che il Signore ci fa conoscere.

 

§ 4.      Talora non facciamo attenzione che, mentre occupiamo la mente dei migliori pensieri, o ci lasciamo assorbire dalle più sante occupazioni, il nostro animo non è così applicato da non pensare nello stesso tempo ad altre cose inutili; anche in questo caso va sciupata parte della nostra attività che tutta dovrebbe essere consacrata a Dio.

 

Art. 05: Prove evidenti di un’anima illusa

 

§ 1.      Parlare continuamente di grazie straordinarie, di visioni, di rivelazioni, non aver che questo nell’anima; curarsi poco di conoscere e di dominare i moti del proprio cuore; mancar di semplicità e di candore con i Superiori e Direttori di spirito; non voler occuparsi nell’orazione che della divinità e non mai della santa umanità di Nostro Signore; avere una condotta e nutrire sentimenti contrari alla dottrina ed alle pratiche della Santa Chiesa, sono tutti i contrassegni di un’anima illusa.

 

§ 2.      Talvolta il demonio solleva le anime a sublimi pensieri sulla divinità, per riuscire a distogliere dalla meditazione di Gesù Cristo, che è la vera sorgente di ogni nostro bene ed il grande oggetto di odio dei demoni.

 

Art. 06: Ciò che dobbiamo sempre ricercare negli impulsi che ci portano al bene

 

Ogni spinta che ci porta al bene merita di essere attentamente valutata.

 

Ciò che dobbiamo ricercare è:

 

1)      Se siamo stati pronti nell’assecondarla, impiegandovi tutte le energie dello spirito e del corpo.

 

2)      Qual è il motivo che ci spinge ad agire e lo scopo che vogliamo conseguire.

 

3)       Se nello svolgersi dell’azione abbiamo saputo conservare il fervore e la purità d’intenzione che avevamo all’inizio.

 

Succede spesso di intraprendere un’opera buona per un fine meno elevato, ma non appena qusta azione è incominciata, o si perde completamente di vista il fine, o lo si tiene presente solo in parte. La vanità, l’interesse, qualche manifestazione di amor proprio vanno insensibilmente insinuandosi nel cuore. A poco a poco ci si lascia andare, ci si stanca, si finisce coll’abbandonarsi all’incostanza che ci è naturale; così che raramente si arriva alla fine con lo stesso ardore e con la purità di intenzione, che ci avevano guidato agli inizi.

 

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Quinto principio: Il Raccoglimento della Vita Interiore

 

Capitolo 01: Natura e causa della vita interiore

 

Art. 01: In che cosa consiste la vita interiore

 

§ 1.      Sono due le specie di atti che entrano a costituire la vita interiore: i pensieri e gli affetti. Ed esclusivamente su essi si fonda la differenza tra perfetti e imperfetti, tra i Beati comprensori e gli uomini che vivono ancora nello stato di prova quaggiù.

 

Dobbiamo curare, dice S. Bernardo, che i nostri pensieri tendano alla ricerca della verità e i nostri affetti al fervore della carità. Quando la nostra mente ed il nostro cuore si trovano applicati a Dio in questa maniera, interamente posseduti da Lui, non perdono più di vista il Signore anche in mezzo alle occupazioni esterne e permettono di vivere continuamente nella pratica del suo amore.

 

§ 2.      Ciò che distingue un buono da un cattivo religioso, un Angelo da un demonio, è appunto la qualità dei suoi pensieri, dei suoi apprezzamenti, dei suoi affetti, per cui gli uni sono santi e beati, gli altri cattivi e infelici. Vigiliamo perciò con somma cura sul nostro interno; prestiamo un’attenzione continua per regolare i giudizi secondo verità e per subordinare gli affetti alla carità.

 

§ 3.      Due sono gli elementi costitutivi della vita spirituale ed interiore: da una parte le operazioni di Dio nell’anima, le sue illustrazioni che rischiarono la mente, le sue ispirazioni che muovono la volontà; dall’altra parte, la cooperazione dell’anima ai suggerimenti e agli impulsi della grazia. In maniera che, per trattare con Dio e per disporci a ricevere da Lui più profonde e più frequenti comunicazioni, bisogna possedere una grande purezza del cuore, una costante forza di spirito, una inviolabile fedeltà a cooperare con Dio ed a seguire il suo Spirito, in qualunque direzione ci guidi.

 

§ 4.      Una delle occupazioni a cui deve attendere chi vive una vita interiore è quella di esaminare e di riconoscere con sicurezza dentro di noi tre specie di impulsi:

 

1)      Cio che viene dal nostro proprio fondo come i nostri peccati, le passioni ed abitudini cattive, le inclinazioni, gli affetti, i desideri, i nostri pensieri, giudizi e setnimenti.

 

2)      Ciò che viene dal demonio: le sue tentazioni e suggestioni, gli artifici e le illusioni con cui tenta di sedurci, se non siamo vigilanti.

 

3)      Ciò che viene da Dio, cioè le ispirazioni e i suoi suggerimenti, gli impulsi della sua grazia, i suoi disegni a nostro riguardo, le vie attraverso le quali intende guidarci. Dobbiamo studiare come ci comportiamo in tutto ciò ed è necessario conformare la nostra condotta secondo lo Spirito di Dio.

 

Dobbiamo attentamente investigare ciò a cui più ci porta lo Spirito Santo ed in che cosa maggiormente gli resistiamo. All’inizio di ogni azione bisogna domandargli la grazia di agire bene e spiare fino nei minimi particolari i moti del cuore.

 

Non dobbiamo poi consacrare tutto il tempo del nostro raccoglimento soltanto alla preghiera ed alla lettura. Una parte dovrà invece essere impiegata a esaminare ciò che succede nel nostro cuore e le sue disposizioni e a discernere ciò che viene da noi o dal demonio o da Dio; come pure uniformarci ai dettami dello Spirito Santo e a consolidarci nella determinazione di fare e di patire ogni cosa per il Signore.

 

Art. 02: Come imitare la vita interiore di Dio

 

Dobbiamo imitare Dio nella sua vita interiore, la quale in Lui  infinita sia per l’attività della sua mente, per cui Egli è il principio della Persona del Verbo, sia per l’attività della volontà, per cui è il principio della persona dello Spirito Santo. Lo dobbiamo imitare anche in quanto agisce esteriormente nella creazione e nel governo dell’universo, senza che questa sua  azione esteriore produca né diminuizione né variazione nella sua vita interiore, così che agli effetti di quest’ultima l’azione sua esteriore è come se non ci fosse.

 

Dio in ciò diventa nostro modello: dobbiamo dapprima dentro di noi e per noi stessi condurre una vita molto perfetta con la continua applicazione della mente e della volontà a Dio. Soltanto dopo ciò possiamo effonderci nella vita attiva a servizio del prossimo, senza pregiudizio della nostra vita interiore, perché allora non ci lasciamo assorbire interamente dagli altri e ci applichiamo alle occupazioni esteriori come fossero diversivi, quasi attività secondarie nella nostra vita, mentre la vita interiore resta sempre la nostra principale occupazione. Tuus esto ubique, scrive S. Bernardo a Papa Eugenio, concha esto, non canalis.

 

Non consacratevi al prossimo in maniera tale da non appartenere più a voi stessi; conservate sempre il possesso di voi; sappiate diventare ripieni di grazia come un bacino; e dopo soltanto diventerete utili per comunicarla agli altri. Non vogliate assomigliare ad un canale, dove l’acqua scorre senza fermarvisi.

 

Questo suggerimento di S. Bernardo dovrebbe diventare la direttiva di tutti gli operai evangelici, che spesso, purtroppo, fanno il contrario, perché si effondono all’esterno; si esauriscono per gli altri e rimangono disseccati in se stessi. Tutto il midollo della loro anima, per così dire, tutta l’energia del loro spirito, passa nelle azioni esterne; no nresta quasi nulla per il loro interno.

 

Da ciò segue che, se non stanno più attenti, hanno un giusto motivo di temere che, invece di venir elevati in cielo al grado di gloria che comporterebbe la loro sublime vocazione, non siano piuttosto del numero di coloro che verranno più a lungo trattenuti nel purgatorio, venendo a trovarsi poi nei bassi gradi di gloria.

 

Art. 03: Perché progrediamo così poco nella vita interiore

 

Tre sono le cause di questo fenomeno:

 

1)      Gli oggetti materiali ci attirano a sé, con l’apparenza di qualche bene che lusinga l’orgoglio o la sensualità. E questo capita in particolare alle persone dalle passioni forti che facilmente prendono fuoco.

 

2)      Il demonio, agitando i fantasmi dell’immaginazione, ridestando il ricordo e il pensiero del passato, alterando e mescolando gli umori del corpo secondo le occasioni che si presentano, provoca in noi turbamenti, scrupoli e passioni diverse. E ciò ottiene principalmente nelle anime che, non avendo ancor purificato perfettamente il proprio cuore, gli offrono più comodo appiglio e più spesso soggiacciono al suo potere.

 

3)      Soltanto a stento l’anima nostra rientra in sé, perché non vi scopre che peccati, miserie, confusioni. Per evitare questa importuna ed umiliante visione, si effonde all’esterno e va a cercare la propria consolazione nelle creature, se non abbiamo la cura di contenerla nel proprio dovere

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Quinto principio: Il Raccoglimento della Vita Interiore

 

Capitolo 02: I motivi che ci portano alla vita interiore

 

Art. 01: Non si progredisce nella perfezione se non si abbraccia la vita interiore

 

La vita esteriore dei religiosi che attendono al servizio del prossimo è assai imperfetta e perfin dannosa, se non è accompagnata dalla vita interiore, e quelli che si trovano in questi ministeri di carità e di zelo non faranno alcun notevole progresso nella perfezione se non esercitano la pratica del raccoglimento interno.

 

In primo luogo, non arriveranno mai alla perfezione della vita purgativa. Potranno averne talora qualche buon sentimento. Faranno alcune cose che il mondo giudicherà grandi. Predicheranno, faticheranno nelle missioni, attraverseranno i mari, si esporranno ai pericoli di morte, alle fatiche dei più lunghi viaggi per la salvezza del prossimo. Ma con tutto ciò non realizzeranno mai grandi progressi nella vita purgativa. Le loro azioni virtuose saranno in parte effetto della grazia ed in parte effetto della natura. Ma non faranno mai azioni puramente soprannaturali, e con speciosi pretesti l’amor proprio li spingerà sempre a seguire le proprie inclinazioni naturali ed a compiere la propria volontà. Vivacchieranno sempre così nei loro difetti e nelle loro imperfezioni solite, ritrovandosi in grande pericolo di dannazione, poiché, siccome si occupano di tutt’altro che di conoscere i traviamenti del proprio cuore, non pensano affatto a purificarlo; e questo va riempiendosi incessantemente di peccati e di miserie che indeboliscono a poco a poco le forze dell’anima, e arrivano infine a soffocare interamente la devozione e lo Spirito del Signore.

 

In secondo luogo, non arriveranno mai neppure alla perfezione della vita illuminativa, che consiste nel riconoscere in tutto la volontà di Dio, poiché solo gli uomini di vita interiore la potranno riconoscere in tutto. I Superiori, le regole, i doveri del proprio stato possono spingerci alle forme di attività esterna e fissarci la volontà di Dio in un determinato tempo o luogo; ma non riusciranno ad insegnarci il modo con cui Dio vuole che esplichiamo le nostre attività. So che Dio vuole che io, per esempio, preghi, quando, secondo la santa regola, la campana mi chiama all’orazione, ma la regola non dice in qual modo io mi devo comportare allora. Così il Superiore mi indicherà in concreto ciò a cui Dio vuole che io mi applichi, ma non mi dirà come io mi debba applicare a ciò. Per ben adempiere la volontà di Dio non basta sapere, per esempio, che il Signore vuole che io in questo momento scopi la mia cameretta, ma bisogna anche sapere quale pensiero mi deve occupare la mente mentre sto compiendo quest’atto esterno di umiltà impostomi dalla regola; il Signore infatti vuole regolare sia l’interno dei nostri atti, come la loro esteriorità. Io devo compiere la sua santa volontà nel mio modo di agire e nella sostanza dell’atto. Anzi Dio vuole governare anche le minime circostanze e la sua Provvidenza si estende alla direzione di tutte le potenze e dei moti del mio cuore; e se io non mi curo di tutto ciò, vi sarà del vuoto nelle mie azioni in quanto non saranno ripiene della volontà di Dio e non farò ciò ch’Egli vuole da me se non in parte, per metà; vi mancherà la parte migliore, che è l’interiore dell’azione. Così subirò grandi perdite di grazia e di gloria e, per di più, perdite irreparabili, anzi sarò causa che altri, di cui io per missione devo procurare la salvezza e la perfezione, subiranno le medesime perdite.

 

Dove potrò dunque conoscere la volontà di Dio riguardo al modo di compiere bene le azioni ch’Egli vuole ch’io faccia? È nell’interno e nel fondo del cuore, dove Dio fa risplendere la sua grazia per rischiarare la mia condotta. Se so rientrare in me stesso, prestare attenzione a Dio e conversare familiarmente con Lui, allora camminerò nella sua luce, che mi farà vedere ciò che desidera da me ed i mezzi per compierlo e inoltre la perfezione interna che in ciò mi deve accompagnare.

 

In terzo luogo, è evidente che costoro non arriveranno mai alla perfezione della vita unitiva, poiché questa consiste esclusivamente nell’unione interiore dell’anima con Dio.

 

Del resto, chiunque si propone di condurre una vita interiore e di attendere con sodezza alla vita spirituale ed alla preghiera, deve aspettarsi che gli altri abbiano da dire qualche cosa contro di lui, poiché ha raggiunto un certo grado, come pure deve attendersi di avere avversari ed altre difficoltà; ma Dio alla fine gli concederà pace e farà riuscire tutto a suo vantaggio ed al progresso della sua naima.

 

Art. 02: Senza la preghiera non si possono compiere i doveri del proprio stato

né produrre frutti nei propri ministeri

 

§ 1.      Senza una solida devozione e senza un’intima familiarità con Dio non possiamo comportarci convenientemente nei nostri ministeri né eseguirli bene. I Profeti, gli Apostoli, gli altri Santi hanno operato meraviglie, perché erano ispirati dal Signore e vivevano in intima unione con Lui.

 

Ai Santi tutto riesce, perché con le loro preghiere ottengono una benedizione ed una virtù che rendono efficaci tutte le loro fatiche. Anche se deboli e spesso ammalati, come S. Gregorio e S, Bernardo, essi sanno compiere prodigi di bene.

 

Possiamo pure affaticarci a far progetti sopra progetti per la gloria di Dio e per il bene delle anime, ma senza preghiera non c’è nulla da sperare nelle nostre fatiche e nel nostro lavoro; con il dono della preghiera invece possiamo compiere dei prodigi, pur operando con prudenza anche nel campo degli affari materiali.

 

Dobbiamo saper condire la preghiera con il raccogliemento e con l’umiltà ogni nostra attività nei confronti del prossimo; così Dio si servirà di noi per grandi cose, anche se non abbiamo particoalri risorse.

 

Non dobbiamo mai intraprende nulla, in qualsiasi ufficio, senza prima esserci preparati con la preghiera.

 

§ 2.      È dal Signore che noi dobbiamo aspettarci ogni successo nei nostri ministeri. Noi siamo strumenti a sua disposizione, e lavoriamo sotto di Lui come costruttori sotto l’architetto, il quale, dopo aver tracciato da solo il piano della costruzione, assegna a ciascuno un compito, secondo lo scopo che si propone e secondo l’idea che si è formato. Così produrremo maggiori frutti quanto più saremo uniti a Dio, dientando docili strumenti sotto la sua guida, purché dotati dei talenti richiesti e della capacità indispensabile per servire il prossimo. Ora, è la preghiera che ci unisce a Dio. È per questo santo esercizio che noi ci prepariamo a ricevere l’influsso e la spinta della grazia, come strumenti che devono agire in conformità ai propri scopi.

 

§ 3.      S. Gregorio Taumaturgo, spiegando l’espressione dello Spirito Santo: Tutto non è che vanità (Qo 1,2), dice che il demonio presentagli onori, i piaceri, le ricchezze e tutte le creature dell’universo agli occhi dei mondani come tante marionette che egli si incarica di far ballare, muovendole, volgendole, dando ad esse diverse facce e diversi colori, con fascino e con bellezza appariscenti; ma in fondo tutto si riduce a un gioco infantile e a un vano diletto; nulla vi è di solido; ma tuto solo piacevole illusione. Lo stesso artificio è usato dal demonio per coloro che si interessano del piccolo mondo che si può creare anche nella vita religiosa, i cui elementi sono la stima delle doti umane, degli uffici, delle cariche, dei luoghi di una certa importanza; come pure l’amore della gloria e la ricerca del plauso, delle comodità di una vita tranquilla. I demonio fa di tutto ciò come un gioco di marionette per divertirci ed illuderci. Egli sa presentare tutto questo ai nostri occhi in modo tale da assorbire la nostra attenzione e da lasciarci sedurre, preferendo apparenze vane ai beni veri e solidi.

 

§ 4.      Non c’è che la preghiera che possa preservarci da questa illusione. Essa ci insegna a formulare sani giudizi su ogni cosa, che ci viene da lei preservata in quella luce di verità che dissipa i falsi splendori e gli ingannevoli fascini.

 

Perciò S. Ignazio vuole che i professi e quelli che hanno fatto già gli ultimi voti, consacrino alla preghiera tutto il tempo che rimane a loro disposizione, dopo aver adempiuti i doveri imposti dall’obbedienza. Questo dev’essere l’impiego a cui attendono nei collegi coloro che non sono continuamente occupati nell’insegnamento in una classe, ma che devono solo attendere alle Confessioni od a qualche altra occupazione che lascia loro del tempo libero. Devono costoro essere uomini di orazione, i quali con l’aiuto delle loro preghiere, diventano il sostegno della casa, della Compagnia, e perfino della Santa Chiesa; ciò vuol dire essere veramente Gesuita, essere figlio di quei grandi Santi che bramavano interi mondi da convertire.

 

Ecco il vero mezzo di passare tranquillamente la vita nella beatitudine della pace, nella sicurezza di una coscienza pura ed in un riposo pieno di sante ricchezze (Is 32,18). Invece di perdersi in sciocchezze indegne di un operaio del Vangelo, bisogna fare frequenti visite al SS. Sacramento; poi consacrarsi alla lettura spirituale e da ultimo ritornare alla preghiera, recitare il santo rosario ed ordinare tutta alla preghiera.

 

§ 5.      La Compagnia promuove molte opere di bene; tuttavia ne potrebbe fare assai di più. Ci sono anime che Dio ha deciso di aiutare soltanto per mezzo nostro e dei nostri ministeri. Se noi manchiamo loro oppure se non disimpegniamo bene i nostri ministeri, queste anime rimarranno senza aiuto e ne soffrirà la Chiesa. A ciò dovrebbero riflettere seriamente quelli che non abbastanza interiori o abbastanza uniti a Dio; ed invece non si pensa quasi affatto a queste specie di mancanze che tuttavia sono terribili; Dio solo sa che conto gliene dovremo rendere un giorno.

 

§ 6.      Come ci sono certi umori che possono procurare la morte del corpo, quando predominano e sono in troppo grande abbondanza, così nella vita religiosa, l’azione quando ha una eccessiva prevalenza, senza essere temperata dall’orazione e dal raccogliemento, soffoca inevitabilmente lo spirito. Si potranno però trovae talvolta delle persone che, occupate per giornate ed anni interi nello studio e nel trambusto degli impieghi esteriori, stenteranno a consacrare un quarto d’ora al giorno alla lettura spirituale. Come si può avere allora la pretesa di essere anime interiori?

 

Ecco perché portiamo pochi frutti: tutte le nostre attività non sono affatto animate dallo Spirito di Dio, senza il Quale, con tutte le nostre buone qualità, non possiamo giungere alla meta cui tendiamo, assomigliando a un bronzo risuonante o a un cembalo squillante (1Cor 13,1)

 

Un uomo interiore inciderà più profondamente sui cuori con una sola parola animata dallo Spirito di Dio, di qualunque altro con un discorso intero, che avrà richiesto molto lavoro e dove avrà speso tutte le risorse della sua mente.

 

Art. 03: La pace non si trova che nella vita interiore, a cui mancanza è causa di ogni abuso

 

§ 1.      Non potremo mai aver pace se non nella vita interiore e nell’unione con Dio. Il riposo dello spirito, la gioia, il vero contento non si trovano che nel mondo interiore, nel regno di Dio che portiamo in noi stessi.

 

Quanto più vi penetreremo, tanto più saremo felici. Senza vita interiore saremo sempre nell’agitazione, nel dolore, sempre malcontenti, nel lamento e nella mormorazione; e se qualche tentazione o una rude prova ci sorprende, non riusciremo a superarla.

 

§ 2.      Agostino paragona quelli che non tengono bene regolato il loro interno a certi mariti disgraziati che hanno spose bisbetiche e di cattivo umore. Costoro escono di casa di buon mattino e vi ritornano quanto più tardi possono, perché sperano così di sfuggire alla persecuzione che hanno in casa. Alla stessa maniera, coloro di cui trattiamo, non godendo pace nel loro interno e non trovandovi che i rimorsi ed i rimproveri della loro coscienza, evitano, quanto possono, di rientrare in sé.

 

§ 3.      La più grande disgrazia che possa capitare ad un’anima religiosa è quella di lasciarsi assorbire ogni attività ed ogni sentimento dalla vita esteriore, non conoscendone altra. Infatti, siccome questa vita è limitata, erciò un ufficio desiderato ed ottenuto da uno non può più toccare ad un altro che ugualmente lo brama e quest’ultimo resta scontento. Mentre invece se non avesse alcun attacco ad una meschina porzione di vita esteriore, e se si consacrasse decisamente alla vita interiore che non conosce limitazioni, vi scoprirebbe come degli orizzonti infiniti di grazie e di virtù, di perfezione, dove l’anima sua si sentirebbe sazia.

 

Non succederà mai che una persona si consacri alla vita interiore nella sua vecchiaia se non l’ha fatto nella sua giovinezza, così che se non riporteremo dal nostro terzo anno di noviziato una volontà decisamente risoluta di cotivare a qualsiasi prezzo la vita interiore ricadremo nell’antico stato ed il nostro presente sarà peggiore del passato: e la sua fine sarà peggiore della precedente (Mt 12,45).

 

§ 4.      Se nelle nostre cariche pratichiamo l’esterno della virtù senza l’interno siamo davvero disgraziati, portando il peso della fatica senza gustare l’unzione e la dolcezza interiore; il che ci fa cadere frequentemente in mancanze gravi, mentre con il raccoglimento e la preghiera in ogni ufficio raggiungeremmo vantaggi con minor fatica, noia e pericolo ed anche una maggiore perfezione per noi, un maggior profitto per il prossimo e la maggior gloria di Dio. È ciò, aggiunge P. Rigoleuc nella sua redazione, che il nostro P. Direttore ci ha presentato con molto vigore ed è uno dei punti più che raccomandati.

 

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Quinto principio: Il Raccoglimento della Vita Interiore

 

Capitolo 03: Occupazioni della vita interiore

 

Art. 01: Vigilanza sul nostro interno

 

§ 1.      La principale preoccupazione per noi dev’essere quella di vigilare sul nostro interno, per riconoscerne lo stato e per correggerne i difetti. A questo scopo ci serviranno potentemente le osservazioni seguenti:

 

1.      Ci sentiamo impigliati e come sepolti cotto un’infinità di mancanze e di imperfezioni che non vediamo mai e che non scopriremo che nell’ora della morte, se non ci abituiamo al discernimento dei moti del nostro interno, dove il demonio e la natura rappresentano la parte di personaggi strani, mentre noi siamo completamente assorbiti dal trambusto e dall’incalzare delle occupazioni esteriori.

 

2.      La rovina delle anime sulla via della perfezione nasce dalla moltiplicazione dei peccati veniali, la quale è casua della diminuizione dei lumi e delle ispirazioni divine, come anche delle consolazioni spirituali e degli altri aiuti della grazia. Dal moltiplicarsi delle mancanze veniali consegue pure una grande debolezza nel resistere agli attacchi del nemico e finalmente la caduta in qualche grave peccato che ci obbliga ad aprire gli occhi e ad accorgerci che mentre pensavamo ad altro, il cuore ci tradiva, perché non eravamo vigilanti a custodirlo e non vi rientravamo spesso a controllare ciò che vi succedeva.

 

3.      Questa mancanza di permanenza interiore in noi stessi e di trascuranza nel custodire il nostro interno è la causa per cui i Doni dello Spirito Santo rimangono quasi senza effetto e per cui restano inefficaci le grazie sacramentali che il Signore ci accorda quando riceviamo i santi sacramenti.

 

La grazia sacramentale è il diritto che ogni sacramento ricevuto ci conferisce presso i lSignore a determinati aiuti per conservarse in noi l’effetto operato dal sacramento nel’anima nostra.

 

Così la grazia sacramentale del battesimo è un diritto, comunicatoci dal sacramento, a ricevere lumi ed ispirazioni per condurre una vita soprannaturale, come membri di Gesù Cristo, animati dallo Spirito Santo.

 

La grazia sacramentale della cresima è un diritto a ricevere la fortezza e la costanza per combattere contro i nostri nemici, riportando su di essi gloriose vittorie come buoni soldati di Cristo.

 

La grazia sacramentale della confessione è un diritto a ricevere un aumento di purezza di cuore.

 

Quella della s. Comunione è un diritto a ricevere aiuti più abbondanti ed efficaci per unirci a Dio per mezzo del fervore del suo amore.

 

Quando ci confessiamo e comunichiamo con le dovute condizioni, queste grazie sacramentali e Doni dello Spirito Santo che pure crescono in noi non lasciamo vedere i loro effetti nel tenore della nostra vita.

 

Come mai avviene ciò? È per le nostre passioni non mortificate, per gli attacchi e le affezioni sregolate, epr i nostri soliti difetti; lasciamo maggior libertà in noi a questi principi di male che non e grazie sacramentali e ai doni dello Spirito Santo; questi ultimi sono come tenuti legati e prigionieri dai primi, senza potere produrre i loro effetti propri. E perché permettere questo tirannico dominio al peccato ed ai viziosi principi della nostra corrotta natura sui divini principi della grazia e dello Spirito Santo? Perché non ci raccogliamo spesso in noi stessi. Se lo facessimo, avremmo coscienza del nostro interno e così potremmo correggerne i disordini.

 

§ 2.      1) Vigilando sul nostro interno, acquisteremo a poco a poco una conoscenza profonda di noi stessi, giungendo così a lasciarci guidare dallo Spirito Santo. Il Signore poi alle volte ci presenta in un istante la situazione di tutto il nostro passato, quale la vedremo nel giorno del giudizio. Egli ci concede di vedere tutti i nostri peccati, di ripensare ai trascorsi della nostra giovinezza, altre volte ci manifesta tutta l’economia del governo del mondo, e ciò porta alla completa sudditanza dell’anima a Dio.

 

2) Chi per tre o quattro anni ha saputo vegliare sul proprio interno, progredendo in questo esercizio di santità, riesce già a trattare con abilità molti affari e, senza temerità alcuna, può penetrare, quasi per naturale intuito, il cuore degli altri, indovinandone ogni moto per mezzo della conoscenza acquistatasi del proprio interno e dei moti naturali del proprio cuore.

 

3) Anche senza la pratica di straordinarie mortificazioni, come pure senza azioni esterne che potrebbero essere occasione di vanità, ma con la sola cura di vigilare sul nostro interno, noi compiamo atti eccellenti di virtù, progredendo meravigliosamente nella perfezione; come al contrario, se trascuriamo il nostro interno, ci esponiamo a perdite rilevanti.

 

4) Questo esercizio può essere praticato in ogni età, in qualsiasi tempo e luogo, nei nostri uffici e nelle malattie; non c’è incarico così scomodo che non ci permetta di raccoglierci ad intervalli in noi stessi, per controllare i moti del nostro cuore.

 

5) Hanno forse promosso grandi opere esterne un S. Paolo eremita, e molti altri solitari, e numerose sante Vergini? Fu il solo merito della loro vita interiore che li ha elevati ai più sublimi gradi di santità. Ma noi, pur troppo, siamo così poco illuminati, o così affascinati da quanto vi è di abbagliante nelel opere esterne, da non riuscire a comprendere né l’eccellenza, né la necessità, né il merito della vita nascosta agli occhi degli uomini e che è conosciuta soltanto da Dio.

 

§ 3.      Nulla è così dannoso come il non aver cura alcuna del proprio interno ed il non darsi pensiero di conoscere quanto vi succede. Sono molti i peccati veniali che nascono da questa negligenza e da questa ignoranza, in modo che essi ci portano insensibilmente a qualche mancanza grave oppure a forti tentazioni, che poi provocano funeste cadute.

 

Qui va spesso a finire la vita tutta esteriore di coloro fra noi che vivono nel continuo trambusto dell’azione con il pretesto dello zelo e della carità, perché lavorano per servire il prossimo, trascurando il proprio interno.

 

Anche senza arrivare a questo eccesso, è sempre certo che nell’esercizio delle proprie funzioni dedicandosi troppo all’attività esterna, non dandosi quasi pensiero di regolare la vita interiore, subiscono perdite incalcolabili di grazie e di meriti. Le loro fatiche sono coronate da un piccolo frutto, perché non animate dalla forza e dal vigore che viene dallo spirito interiore e perché non fecondate dalle benedizioni che Dio elargisce alle anime che pregano e sono dedite alla vita raccolta. Essi non fanno mai nulla esclusivamente e puramente per Dio, mentre cercano se stessi e ogni cosa, e perfino nelle loro migliori imprese tendono a fondere sempre segretamente i propri interessi con la gloria di Dio.

 

Trascorrono così la vita in un miscuglio di natura e di grazia, senza mai un serio tentativo di progredire nella perfezione per venti o trent’anni, con una tal distrazione di spirito e una tale durezza di cuore nelle pratiche di pietà e nella vita religiosa, come se non avessero ricevuto gli aiuti necessari. E da ultimo arriva la morte; allora si aprono gli occhi, si riconosce la propria cecità e si trema all’avvicinarsi del severo tribunale di Dio.

 

Il mezzo per evitare tutti questi mali è di regolare in modo tale il nostro interno e di vigilare alla custodia del cuore con così grande cura, da arrivare al desiderio, invece che alla paura, di comparire davanti al Giudice supremo. Nostro Signore ci ha raccomandato tanto nel Vangelo questa vigilanza, ripetendo frequentemente: Vigilate.

 

Il nostro Direttore, nota il P. Rigoleuc, non ci domanda altro che questa continua attenzione al nostro interno.

 

Art. 02: Quanto sia importante per noi saper unire la vita interiore con le nostre occupazioni esterne

 

§ 1.      Le nostre occupazioni, pur essendo spesso indifferenti in sé, possono recare una grande gloria a Dio, anzi una gloria maggiore che non le altre azioni, che siano in sé soprannaturali. Lo studiare e il far scuola, per esempio, possono giovare alla salvezza delle anime e promuovere la gloria di Dio più che il presenziare al coro o i cantare l’ufficio divino, se così comportasse l’uso della Compagnia di Gesù, come del resto si fa negli altri Ordini. Ma se nelle fatiche di scuola e di studio non ci lasciassimo condurre da un principio di vita interiore, non avremmo nulla di religioso nella nostra condotta e spesso non ci guadagneremmo che castighi nell’altra vita.

 

§ 2.      Dobbiamo saper contemperare l’azione e la contemplazione in modo che, senza concedere più alluna che all’altra, abbiamo a sforzarci di riuscire eccellenti in ambedue. Se invece dovessimo perderci nell’esteriorità, concedendo troppo all’azione, rimarremmo indubbiamente agli ultimi gradfi della contemplazione, che sono una forma scialba di orazione ed una pratica ordinaria ed imperfetta degli altri esercizi di pietà.

 

§ 3.      Bisogna saper fonder l’azione e la vita esteriore con la contemplazione e la vita interiore in modo tale, da consacrarsi alla prima in proporzione del nostro progresso nella seconda. Se saremo uomini di molta preghiera, potremo occuparci molto della vita attiva; ma se non avremo raggiunto che un grado mediocre nella vita interiore,dovremo limitarci anche nelle nostre attività esterne; se poi ci troviamo quasi privi di raccoglimento interno, ci dobbiamo astenere affatto dalle forme esterne di apostolato, a meno che di esservi costretti dall’obbedienza; diversamente non gioveremmo in nulla al prossimo e lavoreremo alla rovina di noi stessi.

 

§ 4.      Cercheremo di assomigliare all’aquila, la quale, non appena ha ghermito la sua preda, si libra a volo nell’aria. Così noi, dopo di aver compiuto i nostri ministeri presso il prossimo, cercheremo il nostro rifugio nella preghiera, senza più intrattenerci oltre in attività, a meno di esservi obbligati dall’obbedienza.

 

§ 5.      Un buon religioso della Compagnia di Gesù deve far sue le parole di Nostro Signore: «Non sono venuto per essere servito, ma per servire e per dare la mia vita in redenzione di molti» (Mt 20,28). Deve servire Dio e il prossimo, occuparsi di Dio per mezzo della vita interiore e spendere le proprie fatiche ed energie, fino all’ultimo respiro, per promuovere la salvezza e la perfezione del prossimo. Persuadiamoci che nelel nostre occupazioni non porteremo frutto che in proporzione della nostra unione con Dio e del nostro distacco da ogni interesse personale. Possono lusingarsi i raccogliere frutti copiosi il predicatore, quando si vede cercato e frequentato; il missionario, che fa molto strepito; il confessore, allorquando un grande numero di penitenti assiepano il suo confessionale; un direttore di grido ed un’anima interamente consacrata alle opere di bene. E le apparenze sono tutte a favore di costoro; vengono da tutti lodati ed il plauso generale provoca nella loro mente la conferma sulla bontà dei loro successi.

 

Ma essi sono uniti a Dio con la preghiera? Hanno saputo liberarsi del proprio egoismo? Sanno agire esclusivamente con retta intenzione oppure manifestano mire umane, che si sono insinuate nelle loro intenzioni? Sappiano vigilare per non ingannare se stessi, specialmente in questo campo, dove l’inganno è tanto facile. Si cerca, è vero, il Signore; ma non si cerca forse anche se stessi? Si vul promuovere la gloria di Dio ed il bene delle anime; ma si riesce veramente a dimenticare la propria gloria ed i propri piccoli interessi? Si affrontano sacrifici nelle opere di zelo e di carità, ma si agisce proprio sempre per un puro motivo di zelo e di carità? Non si cerca forse anche la propria soddisfazione e non si tenta di sfuggire così al sacrificio che importa la preghiera, lo studio, il raccogliemento nella propria camera?

 

Esaminiamoci attentamente, forse riusciremo a scoprire che l’anima nostra è povera di unione con Dio e ricca invece di amor proprio nelle attività a favore del prossimo, così che dovremmo legittimamente dubitare di fare in realtà agli altri tutto il bene che noi immaginiamo, convincendoci di fare a noi stessi un male maggiore di quanto pensiamo. Soltanto dopo i grandi progressi nella perfezione si può utilmente lavorare a vantaggio del prossimo. Ed allora non dobbiamo consacrarci molto alle opere esteriori finché non abbiamo raggiunto una virtù perfetta. Qualora siano i Superiori ad imporci un eccessivo lavoro esterno, il Signore, nella sua Provvidenza, saprà disporre le cose in modo tale che l’icnarico ci verrà limitato e tutto riuscirà al maggior bene degli infermi, se sono anime virtuose.

 

§ 6.      Dobbiamo anzitutto attendere all’acquisto delle virtù in grado eminente e soltanto in seguito consacrarci a promuovere il bene delle anime allora anche l’attività esterna sarà un aiuto per la vita interiore. Ma finché non avremo raggiunto una sodezza di virtù e di unione con il Signore, le occupazioni esterne nuoceranno indubbiamente all’anima nostra.

 

Art. 03: Non dobbiamo consacrarci di nostra iniziativa alle attività esteriori

 

Non tocca a noi cegliere le nostre occupazioni. Da parte nostra dobbiamo pensare solo a noi, a meno che l’obbedienza non ci applichi ad incarichi che riguardano il prossimo. È da lei che deve venire l’iniziativa per ogni attività esterna, che tende al vantaggio degli altri. E finché essa ci lascia in disparte, restiamo tranquilli al nostro posto. Il Signore saprà Lui trovarci, quando vorrà servirsi di noi per la sua gloria. Sarebbe temerarietà grave offrirci da noi stessi al governo delle anime che i maggiori Santi, quali S. Ambrogio e S. Gregorio, hanno sfuggito e temuto. Luigi Gonzaga provò scrupolo per essersi indugiato un istante a pensare che a che cosa lo avrebbero destinato i Superiori.

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Quinto principio: Il Raccoglimento della Vita Interiore

 

Capitolo 04: Consigli per la vita interiore

 

Art. 01: Dover di coltivare la volontà più che l’intelletto

 

L’applicazione allo studio è veramente degna di un religioso, soprattutto quando la sua vocazione lo impegna nei ministeri apostolici; vi sono però dei religiosi che vi attendono più per inclinazione e curiosità che per zelo. Talora infatti si pensa solo ad arricchire la mente di cognizioni, che poi servono piuttosto a raffreddare e a indurire il cuore che a muoverlo con la vera devozione e ad infiammarlo con il fervore. È la volontà quindi che bisognerebbe coltivare con cura particolare. Di solito abbiamo la scienza richiesta, mentre invece manchiamo di una sufficiente unione con Dio. Lo sforzo nostro precipuo deve mirare al conseguimento dello spirito di preghiera e di un grande amor di Dio.

 

Il card. Du Perron sul letto di morte attestò di pentirsi di aver atteso nella sua vita, più ornare la sua mente con la scienza che la sua volontà con gli esercizi della vita interiore. In quell’estremo momento alcuni di noi proveremo lo stesso rincrescimento. Diffidiamo in modo particolare di quella scienza che non ci rende più umili e più virtuosi.

 

Art. 02: Il miglior modo di praticare le virtù

 

§ 1. Alcuni nel loro agire badano troppo ai motivi razionali che rendono virtuosi i loro atti, agli oggetti formali delle virtù; ma questi sono principi che ci porti direttamente a Dio, come sa fare l’amore verso il Signore. È vero che anche i motivi propri di ogni virtù ci conducono al Signore, ma ciò avviene sempre con maggior lentezza e minor perfezione.

 

§ 2.      Ci sono alcuni che tengono la mente tesa alla ricerca di parecchi motivi di virtù, che impreziosiscano le loro azioni, pensando così di renderle più gradite al Signore. Basta invece cercare soltanto di conoscere quae è la virtù che il Signore vuoe che pratichiamo in ogni singola azione, e poi eseguire questa stessa azione alla presenza di Dio, con l’intenzione che Egli ci ispira e per imitare Nostro Signore Geù Cristo.

 

Ecco perché troviamo spesso raccomandato l’amore a Nostro Signore, il cui pensiero riesce pieno di soavità, accessibile ed alla portata di tutti. Ed il bene che riusciamo a compiere, mossi da questo principio, l’atto di temperanza, per esempio, che compiamo per imitare Nostro Signore e per piacergli, è molto più eccellente di quello che possiamo compiere, spinti dalla moderazione, che è l’oggetto formale della virtù della temperanza.

 

Art. 03: La via della fede è la più sicura per la perfezione di quella delle grazie sensibili

 

Nel guidare le anime il Signore segue due metodi: con gli uni si serve dei lumi, delle consolazioni e dei sentimenti di devozione. Questo è il metodo che presenta maggior pericolo, peché offre un’occasione all’amor proprio di pascersi di questo genere di grazie, come anche per il gusto che proviamo e per la stima eccessiva di noi stessi che andiamo formandoci per questa strada possiamo imbatterci nel precipizio che travolse gli Angeli cattivi, il cui peccato fu l’orgoglio, del quale si sentirono gonfiati di fronte ai beni spirituali ricevuti da Dio.

 

Con gli altri Dio si serve della ragione e della fede, sorrette dagli aiuti ordinari della grazie attuali, ma senza o con rarissime consolazioni sensibili. Questa è la via sicura che conduce direttamente alla perfezione, perché su di essa si procede in una maggiore povertà spirituale e nell’umiltà. Dobbiamo insomma tendere incessantemente al Signore, senza fermarci ai suoi doni ed alle sue grazie.

 

Art. 04: Consigli alle anime [che Dio conduce per le vie comuni della grazia]

 

Vi sono persone che servono il Signore fedelmente, senza che Egli operi in esse nulla di straordinario. La loro vita si svolge come quella di tutti gli altri e la loro preghiera è fatta nel modo con cui agisce chi è sostenuto dal soccorso ordinario della grazia. Soltanto qualche volta capita ad esse di vivere in un maggior raccogliemento, non riuscendo a darsi alla meditazione perché si sentono portate più agli affetti che alle considerazioni.

 

Ci si può trovare in questo stato in tre maniere differenti:

 

1)                  Parecchi vi si trovano per loro colpa, perché il Signore si è ritirato da essi e li ha privati delle grazie e delle, operazioni straordinarie, in punizione della loro infedeltà. Costoro devono saper superare ciò che ostacola il loro progresso. Per conoscere se si è del numero di costoro, non c’è nulla di meglio di un corso di esercizi ben fatti.

 

2)                   Alcuni si trovano in questo stato, perché è da poco tempo che sono stati attratti da Dio al suo servizio. Ed allora è come una prova attraverso la quale è necessario che essi pure passino. Vi sono solo per un certo tempo, durante il quale si devono preparare alle comunicazioni intime di Dio, che Egli non mancherà di concedere a costoro, se sapranno cooperare con fedeltà alle grazie che vanno ricevendo.

 

3)                  Altri vi si trovano, perché il Signore per essi non ha che grazie comuni, avendo deciso di guidarli per la via ordinaria, per ragioni che non vediamo, ma che sono ordinate alla gloria di Dio e al bene delle anime. Ecco i consigli che io vorrei dare a costoro:

 

A)                 Siano persuasi che è questo lo stato in cui Dio li vuole, che Egli giudica migliore per essi, e che con deliberazione adorabile della sua sapienza ha scelto per essi, e che perciò la prima prova d’amore della loro fedeltà a Dio è di sottomettere a questa eterna disposizione della sua provvidenza tutti i sentimenti e i desideri pii e tutto il loro essere, senza angustiarsi per ciò che fanno e per ciò che diventeranno; se sono veramente di Dio e compiono la sua santa volontà, devono sentirsi contenti di questo stato in cui Dio li vuole, stimandolo e preferendolo ad ogni altro perché da Dio scelto per essi.

 

B)                  Non invidino quelli che Dio guida per vie straordinarie e siano persuasi che, per quanto esse presentino grandi vantaggi e siano state batture dai Santi onorati dalla Chiesa, pure il loro non è uno stato scevro di pericoli; espone infatti alla compiacenza, alla vanità, alla sensualità spirituali; se non si sta più che in guardia, nutre l’amor proprio, affascina e seduce l’anima, la porta a poco a poco al rilassamento e qualche volta anche in fondo al precipizio; il demonio poi sa insinuarsi senza che noi ce ne accorgiamo; ogni giorno si vedono le cadute funeste di motle anime elevate a questo stato; nell’inferno poi si trovano molti a cui queste grzie sublimi sono state occasione della dannazione e che invece si sarebbero salvate nelal mediocrità dele grazie comuni; da ultimo, la privazione di queste grazie straordinarie, quando si accetta con uno spirito di rassegnazione e di umiltà, porta l’anima più vicina a Dio di quello che possano queste medesime grazie, quando vengono ricevute con una certa pretesa.

 

C)                  Sappiano che il loro stato comune ha il grande vantaggio sull’altro, di essere più sicuro e meno esposto agli inganni del demonio e alle illusioni a cui possiamo andar soggetti nella vita spirituale. Esso è più solidamente fondato sulla fede; in esso è possibile il distacco e il vuoto che Dio esige per comunicarsi; vi si serve il Signore con maggior purezza e minor interesse e soddisfazione propria; il servizio che vi si presta a Dio è tanto più meritorio, quanto maggiore è la difficoltà che possiamo incontrare procedendo in una vita rigida, senza le dolcezze e le consolazioni dlelo spirito, le straordinarie illustrazioni non sono poi così necessarie al progresso della perfezione, che senza di esse non si possa arrivare anche con il soccorso delle grazie ordinarie; ed in realtà ogni giorno si vedono anime che, per quanto non siano troppo favorite dalle larghezze di Dio, gli corrispondono tuttavia assai con la loro fedeltà, poiché nel compiere i loro doveri sono fervorosi e puntuali quanto gli altri, che ricevono da Dio maggiori comunicazioni e dai quali Egli conseguentemente esige maggiro fedeltà; dopo tutto, vi sono parecchi Santi in cielo che, pur seguendo sempre la via comune, sono riusciti ad arrivare alla perfezione, al quale non è affatto legata a forme elevate di orazione o a grazie straordinarie.

 

D)                 Stiano sicuri che nell’umile stato in Dio li vuole non lascerà mancar nulla ad essi da parte sua di ciò che riterrà necessario per condurli alal perfezione che esige da essi; così che, se essi non riescono a raggiungerla, potranno solo prendersela con se stessi.

 

E)                  Scaccino dal cuore ogni brama di eccellere, scegliendosi gli esercizi più umili e ordinari, una vita comune e una condotta dalla quale esuli ogni singolarità.

 

F)                   Si esercito particolarmente nella fede, lasciandosi guidare dalla sua luce, che traccia sempre la via più breve e più sicura per arrivare all’unione con Dio.

 

G)                 Sappiano usare bene le grazie che ricevono, ed agiscano con purità d’intenzione, seguendo la luce che Dio fa brillare ad essi, abituandosi a seguire il Signore con la purezza della grazia e in una completa abnegazione e distacco di spirito, senza ricercare il gusto, i lpaicere e gli interessi sottili dell’amor proprio.

 

H)                 Cerchino di camminare lungo la loro via con lo stesso fervore, con la stessa cura e fedeltà, come se tutto il loro progresso e tutta la loro perfezione dipendessero esclusivamente da essi; d’altra parte, pensando che dipendono da Dio in modo tale, che senza di Lui non possono nulla aggiungere alla propria perfezione né nell’ordine naturale né in quello della grazia, si mantengano umilmente in questa soggezione da Dio con una rispettosa ed amorosa dipendenza, baciando le catene della schiavitù che li unisce intimamente a quella infinita bontà ed a quell’adorabile maestà che per il potere del suo supremo dominio eleva o abbassa le creature com’Egli vuole.

 

I)                    Infine, il principale esercizio dev’essere una sincera ed attuale volontà di accontentare Dio, cercando ed aspirando a piacere a Lui, esclusivamente per amore suo, in ongi nostra forma di vita, di essere, di azione, volendo essere soltanto come Dio vuole che noi siamo e prendendo gusto a rimane quali ci vuole sia nel tempo che nell’eternità.

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Sesto principio: l’unione con nostro Signore si raggiunge con la conoscenza,                             con l’amore e con l’imitazione

Parte prima: la conoscenza di nostro Signore

 

Capitolo 01: Il mistero dell’Uomo-Dio

 

Art. 01: Eccellenza dell’Incarnazione

 

§ 1.      Dio ha voluto onorare, quanto gli fu possibile, la natura umana, comunicando ad un uomo la persona divina del Verbo, e ad una donna la maternità divina. Dio stesso non può far nulla di più grande di un Uomo-Dio e di una Madre di Dio. Queste due grandiose opere, ciascuna nel proprio genere, circoscrivono l’onnipotenza divina. Qui sta il punto culminante della grandezza a cui Dio può elevare le proprie creature. La grazia e la gloria ci nobilitano, e l’umanità santa di Gesù Cristo deifica la grazia e la gloria.

 

§ 2.      È nel mistero dell’Incarnazione che Dio opera le più singolari meraviglie della sua potenza.

 

La prima è l’unione della divinità con l’umanità. Unione sostanziale ed in una medesima persona; ed è questo il significato del termine che si usa di unione ipostatica, per cui due nature sostanziali, la divinità e l’umanità, rimangono sempre distinte e sono unite tra loro nella persona del Verbo e non formano che una sola personalità; è questa poi la più intima e la pià grande delle unioni possibili e per essa Dio è uomo ed un uomo è Dio

 

La seconda meraviglia è l’abbassamento dell’Essere a nulla. Non stupisce, dice S. Gregorio Nisseno, che Dio dal nulla abbia saputo creare l’universo; abbia diffuso l’aria e cammini sulle ali dei venti; ma è invece un prodigio incomprensibile he Egli si sia ridotto ad una condizione, in cui si può dire si è annientato.

 

La terza meraviglia è l’elevazione dell’uomo fino al torno di Dio. No ndeve stupire il fatto che l’uomo è debole, soggetto all’errore, al peccato, alle miserie, alla morte, ma egli sia onnipotente, infinitamente sapiente e santo e impeccabile ed immortale, è un prodigio della potenza di Dio.

 

Nostro Signore ci dà una nuova prova della sua onnipotenza nella S. Eucaristia, facendo ciò che gli piace del suo corpo; riducendolo allo stato sacramentale, unendolo alle specie miracolosamente separate dalla loro sostanza, ed anche fedeli che lo ricevono per la santificazione delle loro anime.

 

§ 3.      Dopo il grande fatto dell’Incarnazione non ci dev’essere più nulla che attiri la nostra ammirazione. È pericoloso darla alle creature. Non c’è che un Dio Incarnato che la meriti. Ammirare ancora qualche cosa nel creato è tradire la nostra poca virtù.

 

§ 4.      Noi stentiamo a credere a certi avvenimenti straordinari, che leggiamo nelle vie dei Santi. Ma chi ha fede nel favore di Dio ha accordato gli uomini, facendosi uomo, non deve più trovare nulla d’incredibile e di sorprendente. Ogni altr comunicazione di Dio, dopo quella dell’Incarnazione, è un nulla. Il Signore non puà più rifiutare niente agli uomini dopo di essersi dato ad essi in quel modo. È per accordare loro tutto il resto, che ha dato Se Stesso nell’Incarnazione. A noi non resta che disporci ai doni di Dio con la purezza del cuore, come fece la Madonna.

 

§ 5.      Tutto ciò che in Nostro Signore Gesù Cristo ci appartiene in un modo particolarissimo. La sua anima santa non è stata creata che per amore nostro; il suo sacro corpo non è stato formato che per noi; la sua santa umanità non è stata unita alla persona divina del Verbo che per gli uomini.

 

Art. 02: La persona del Verbo

 

§ 1. Tre proprietà personali si devono considerare nell’Uomo-Dio, che sono come la sorgente ed il fondamento di tutte le sue grandezze. Egli è Figlio di Dio; è l’immagine del Padre; Egli è il suo Verbo.

 

1)      Egli è Figlio di Dio in un senso proprio e vero, perché procede da Dio Padre per generazione e perché è della stessa natura del suo principio, il Padre. È Figlio di Dio nel modo più perfetto possibile. Lo è necessariamente, perché è necessariamente generato; Egli non ha soltanto una porzione della sostanza del Padre, come avviene nei figli degli uomini, ma uguaglia tutta la sostanza di Dio Padre e tutta la pienezza della divinità.

 

2)      Egli è l’immagine di Dio Padre, perché di Dio Padre è la rappresentazione; ed è la sua perfetta immagine perché gli è somigliante in tutto, e perché in tutto ha la natura e la sostanza del suo originale. Ora ciò non si riscontra in nessuna immagine creata.

 

3)      Egli è il Verbo di Dio. Si chiama Verbo la nozione o raffigurazione spirituale che la mente si forma di un oggetto, quando essa si applica a conoscerlo. Ora Dio, conoscendo Se Stesso e tutte le creature possibili, ha come termnine di questa conoscenza il suo Verbo, che è un immagine e suo Figlio.

 

E siccome l’intelligenza è la facoltà più pura e più libera dalla materia, non è possibile concepire una purezza più perfetta di quella della generazione del Verbo, che ha la sua origine nell’intelligenza di Dio Padre; così il Verbo, unendosi alla nostra natura, unisce la sua incerata purezza alla carne. Prodigio questo che sarà oggetto dell’eterna ammirazione degli Angeli.

 

§ 2.      Noi partecipiamo a queste tre qualità di Gesù Cristo; e ciò costituisce la nostra vera grandezza ed è il fondamento della perfezione a ui dobbiamo tendere.

 

1)      Gesù Cristo è il Figlio di Dio; anche ciascuno di noi lo è. Egli lo è per natura; noi lo siamo per adozione. Perciò è nostro dovere vivere la vita di Dio come Lui, perché proprio a questo scopo Egli, a sua somiglianza, ci ha resi partecipi della natura divina.

 

2)      Geù Cristo è l’immagine di Dio Padre. Noi dobbiamo essere le copie di questa immagine, che per noi diventa modello. Dobbiam saper riprodurre in noi i lineamenti che ci rassomigliano a Lui, le sue virtù, il suo spirito, la sua vita interiore ed esteriore.

 

3)      Gesù Cristo è il Verbo di Dio. Noi abbiamo il dovere di essere l’eco fedele di Lui, corrispondendo a tutte le sue grazie. Bisognerà che noi siamo l’eco della sua dottrina, dei suoi sentimenti, di tutta la sua condotta.

 

Art. 03: Perché si doveva incarnare il Figlio di Dio e non il Padre o lo Spirito Santo

 

Dalle tre precedenti proprietà del figlio si può concludere che Lui, e non le altre due Persone della SSma Trinità, doveva incarnarsi.

 

1)      Dio voleva diventar uomo perché gli uomini diventassero figli di Dio. Perciò era il Figlio che doveva assumere la natura umana per associarla alla filiazione divina, rendendola partecipe della sua eredità.

 

2)      Dio voleva farsi uomo per presentare agli uomini in un Uomo-Dio un modello visibile di vita santa e divina. Doveva essere perciò la Seconda Persona a rivestirsi di un corpo umano per servire come modello di perfezione agli uomini, perché è proprietà dell’a Seconda Persona di essere l’immagine di Dio Padre.

 

Dio voleva farsi uomo per insegnare agli uomini le verità necessarie alla salute. Spettava dunque al Verbo, cioè alla Parola di Dio, di venire al mondo ad istruire gli uomini.

 

 Art. 04: Perché il Figlio di Dio si è incarnato per generazione

 

Dio poteva farsi uomo senza nascere da una donna: come aveva formato un corpo per Adamo, così poteva preparsene uno per Sé. Ma era conveniente che non solo fosse il Figlio di Dio che si incarnasse, ma anche che l’Incarnazione avvenisse per via di generazione.

 

1)      Anche come Dio, procede dal Padre per via di generazione; bisognava che la sua generazione temporale alla vita umana rispondesse alal sua divina generazione eterna.

 

2)      Perché ci fosse una Madre di Dio: ottenendo la massima delel dignità che possono essere comunicate ad una creatura.

 

3)      Perché l’Incarnazione mira principalmente a liberarci dal peccato originale, da noi contratto appartenendo per generazione alla razza di Adamo, ed a renderci figli di Dio per mezzo della generazione spirituale del battesimo.

 

4)      Perché la santa e purissima generazione di Cristo santificasse quella degli uomini. Tutto quello infatti che Egli ha preso da noi, è stao da Lui assunto, con lo scopo di santificare ciò in noi: ha unito a Sé un’anima per santificare le nostre anime, un corpo per santificare i nostri corpi, dei sensi interni ed esterni, perché i nostri fossero santificati, le nostre fatiche e pene, tutte le miserie, eccetto il peccato, perché tutto ciò venisse santificato nella sua Persona adorabile.

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Parte prima: la conoscenza di nostro Signore

 

Capitolo 02: Proprietà dell’Uomo-Dio

 

Art. 01: I suoi annientamenti

 

§ 1.      Il Verbo ha annichilito Se Stesso. Si può dire che la divinità si è, per così dire, annientata nel mistero dell’Incarnazione, unendosi personalmente ad una natura che deriva dal nulla.

 

Tre annientamenti notiamo nel Verbo Incarnato.

 

Il primo è nell’essersi fatto uomo. Supposto che non poteva unirsi ipostaticamente che alla natura angelica o a quella umana, sole capaci di essere unite ad una Persona divina, essendo le sole nature ragionevoli, non poteva il Verbo, sembra almeno, discendere più in basso. Certo che si sarebbe sempre infinitamente umiliato anche assumendo la natura del primo Serafino o d’ogni altra creatura possibile, anche della più eccellente. Che si deve dire allora, essendosi fatto uomo?

 

Il secondo annientamento è di essersi fatto bambino e figlio di una figlia di Adao, che fu il capostipite dei peccatori. Chi, fra gli uomini cheragionano, vorrebbe ritornare in quello stato in cui si trovava durante la gravidanza di sua madre? Ed il Figlio di Dio poteva crearsi un corpo modellato nella pienezza dell’età ed unerselo; ma volle invece rimanere nove mesi nel seno di suo di sua Madre.

 

Il terzo annientamento fu nell’aver privato il suo corpo delle qualità che posseggono i corpi gloriosi, come anche di una infinità di mirabili effetti che gli erano dovuti per la sua unione con la Persona divina del Verbo e per il suo stato di gloria: come la chiarezza, la sottigliezza, l’impassibiità, l’immortalità, l’esercizio del suo potere di compiere continuamente dei miracoli.

 

Chi fra i beati comprensori (=i beati del cielo) si sentirebbe la volontà di ritornare alla vita mortale? Gesù Cristo ha fatto ancor di più, rendendo con un miracolo il suo corpo passibile e mortale. Sembra che Egli lo abbia assunto per immolarlo per noi sulla croce; poi per lasciarcelo nell’Eucaristia , a santificazione delle nostre anime, santificazione da Lui operata con l’applicazione dei suoi meriti.

 

L’anima santa del Verbo Incarnato, contemplando un tale annientamente della divinità, ha voluto essa pure annientarsi per parte sua quanto ha potuto, e si è abbassata nei misteri del presepio e della croce, dell’infanzia, della vita di povertà, di lavoro e di nascondimento, nei misteri delle persecuzioni che volle abbracciare, e della morte, divinizzando, in qualche modo tutto ciò.

 

A sua imitazione anche noi dobbiamo annientare noi stessi.

 

§ 2.      Gesù Cristo, in conseguenza dell’unione ipostatica avrebbe dovuto aver un corpo esente dalle bassezze dell’infanzia, e dotto invece dei vantaggi di un’età perfetta e delle qualità dello stato di gloria. Ma per amore nostro si è privato di tutto ciò. E noi, che facciamo per amore di Lui’

 

Non lo amiamo che per il nostro meschino interesse! Ci consacriamo alla vita devota per assecondare il nostro gusto. Non desideriamo la perfezione che per motivo della nostra eccellenza, come ognuno cerca di eccellere nella propria professione: ad esempio un soldato nel servizio militare od un artigiano nel suo mestiere. Sono pochissime le anime che amano e servono il Signore per Se Stesso anziché per vantaggio proprio. Le nostre opere sono ripiene di interesse personale e di una grande quantità di menzogne, che mirano a mascherare a noi stessi lo stato in cui ci troviamo e ad illuderci. Forse a stento riusciamo ain un anno a compiere un solo atto di puro amore di Dio.

 

Bisogna evadere questa misera schiavitù dei nostri egoistici interessi, e servire invece Nostro Signore per puro amore verso di Lui. Come Egli si è dato a noi, per la gloria del Padre e per l’amore che ci portava, così noi dobbiamo darci a Lui per puro amore e prestargli con disinteresse i nostri omaggi, per il solo desiderio di piacergli.

 

Art. 02: Rapporti della santa umanità di Gesù Cristo con le tre Divien Persone

 

Nel mistero dell’Incarnazione la santa umanità di Gesù Cristo contrae rapporti cammirevoli con le Persone della Ssma Trinità.

 

1)      Con il Figlio: non è possibile concepire un’unione più stretta di questa. Non esiste nulla che partecipa a qualche cosa d’altro quanto l’umanità partecipa alla Persona del Figlio, e quanto a sua volta la Persona del Figlio partecipa alla santa umanità. L’unione stessa tra l’anima e il corpo e la comuniazione che si stabilisce tra queste due parti dell’uomo non è così grande. La natura umana è la natura del Verbo, quanto la natura, che io ho, è mia, per quanto le due nature, la divina e l’umana, rimangono sempre distinte.

 

2)      Con il Padre: perché il composto divino del Verbo e della santa umanità è Figlio naturale di Dio e perché la filiazione è il primo grado di parentela. Erede del padre è il figlio, il quale ha diritto su quanto possiede il padre. Così Gesù Cristo, in quantouomo è erede di tutti i beni di Dio; Egli è re ed è giudice sovrano. Noi abbiamo i dovere di offrire le nostre adorazioni alla sua Persona, alla sua anima, al suo corpo ed ala suo sangue.

 

3)      Con lo Spirito Santo: perché, siccome lo Spirito Santo procede dal Figlio e dal Padre, così ha rapporto con il Figlio,come il Figlio con il Padre, per quanto il rapporto sia differente. Si può dire che Gesù Cristo è il principio dello Spirito Santo; ed è per questo che la pienezza dello Spirito Santo è stata comunicata alla Chiesa sopo la venuta di Gesù Cristo al mondo.

 

Art. 03: Le tre corone che Gesù Cristo ha ricevuto da Maria nell’Incarnazione

 

Uscite figlie di Sion, ed accorrete a contemplare il re Salomone coronato dal diadema che sua madre gli ha posto in capo il giorno degli sponsali, giorno di grande letizia per il suo cuore (Ct 3,11). E questo fu il giorno dell’Incarnazione quando la Madonna pose sul capo del suo divin Figlio tre corone mirabili.

 

La prima è quella della vita divinamente umana, che fu chiamata per questo teandrica e che consiste nell’unione dell’essenza divina e della Persona del Verbo con la natura umana, avendo la Madonna cooperato anche attivamente, come pensano S. Giovanni Damasceno ed altri Dottori della Chiesa, con lo Spirito Santo all’Incarnazione del Verbo.

 

La seconda è quella della vita gloriosa che consiste nella visione beatifica, della quale la santa umanità di Cristo godette fin dal primo istante del suo concepimento.

 

Siccome la vita gloriosa è una conseguenza necessaria della vita umano-divina, avendo il Figlio di Dio ricevuto la prima dalla Madonna, non si può negare che da Lei abbia ricevuto anche la seconda, in base al principio filosofico che chi dà l’essere, comunica pure tutto ciò che segue necessariamente l’essere stesso.

 

La terza è quella della vita d’influsso sulle sue mistiche membra, per opera della quale ad esse, come Capo, comunica la grazia; ed è appunto per l’Incarnazione che Egli è costituito capo degli uomini e sorgente di ogni santità per essi, avendo meritato tante grazie quante Dio ne può creare, e tanta santità quanta ve ne è nel Signore, e da ultimo il potere di comunicarla.

 

Art. 04: La regalità di Gesù Cristo

 

La regalità di Gesù Cristo è descritta nel Salmo 71.

 

1)      Gesù Cristo ha ogni specie di titoli per essere re: Egli è tale per diritto di natura e di eredità, epr diritto di eccellenza e di merito, per diritto di conquista, per diritto di elezione. Non ci fu mai nessuno che fosse re per tutti questi titoli. A stento i re della terra posseggono un sol legittimo titolo per regnare.

 

2)      Gesù Cristo è re di tutto il mondo e di tutti gli esseri. Il suo regno non ha limiti sulal terra e si estende tanto al disotto della terra, nel purgatorio e nell’inferno, che sono le prigioni della sua giustizia, come anche al di sopra della terra, nel cielo, che è il centro del suo impero ed il teatro della sua gloria. I più grandi monarchi di quaggiù, per quanto esteso possa essere il loro regno, non hanno che una porzione del suo regno terrestre.

 

3)      Egli è il re dei secoli, il re immortale (1Tm 1,17) e il suo regno non avrà mai fine. Gli altri re sono soggetti alla morte, non regnano che nel breve giro di pochi anni; poi la loro potenza va estinguendosi nel nulla. Ma Gesù Cristo regna eternametne: il suo regno non avrà mai fine. S. Teresa non poteva mai sentire queste parole del simbolo niceno, senza essere trasportata dalla gioia. Noi proveremmo i medesimi sentimenti della grande santa, se avessimo il medesimo suo amore per nostro Signore.

 

4)      Egli è il re dei re, il dominatore di coloro che dminano (Ap 19,16). Tutti i re della terra l’adoreranno e tutti i popoli lo serviranno (Sal 71,11). Gli sarà dato un giorno di contemplare l’orgoglio dei monarchi annientato ai suoi piedi e tutti i popoli, o per amore o per forza, serviranno alla sua gloria.

 

5)      Egli è il re dei cuori ed anche della vita interiore. Gli altri non hanno poteri che sui beni e sui corpi dei loro sudditi; non possono governare l’interno che per mezzo dell’esterno. Il loro impero non può affatto estendersi sui cuori. Dio se ne è esclusivamente riservato il dominio; e ne è così geloso che non vuole assolutamente che delle creature lo condividano con Lui. Ogni nostro affetto deve essere sottomesso alle sue leggi, e noi gli dobbiamo il tributo di ogni palpito del nostro cuore.

 

6)      Egli sempre esercita attualmente la sua regalità. I re della terra non possono essere continuamente applicati a governarte i loro stati, perché hanno una capacità troppo limitata e perché le proprie esigenze personali non permettono ad essi di consacrare ininterrottamente le proprie cure ai sudditi. Gesù Cristo invece in ogni momento, nell’universo intero, esercita tutte le funzioni della sua regalità, ed inoltre le eserciterà per tutta l’eternità in cielo e nell’inferno.

 

7)      E non è dai sudditi che Egli riceve ricchezze e potenza come invece avviene per tutti gli altri re, i quali in se stessi non avrebbero nulla di superiore agli altri uomini. Da loro stessi sono indigenti e deboli ed è per questa ragione che i sudditi debbono pagare loro i tributi e prendere le armi per difenderli e per sostenerne gli interessi. Ma Gesù Cristo invece ha da Sé la propria grandezza, ricchezza e potenza, senza che a noi sia possibile aggiungere null’altro, se non un po’ di gloria accidentale.

 

8)      I suoi sudditi vivono felici sotto il suo impero, perché Egli è infinitamente ricco e generoso e perché i beni da Lui distribuiti sono i soli veri e durevoli, mentre i sudditi degli altri re sono spesso disgraziati, perché sovraccaricati di imposte e di contribuzioni. Se i loro sovrani sono essi stessi poveri, non possono fare elargizioni ai sudditi, se anche sono generosi, per quanto ricchi, la loro munificenza può dar fondo alle finanze. Del resto, i beni che essi posseggono non sono che fango in confronto con quelli di Gesù Cristo, che ha un tesoro regale di meriti, di soddisfazioni e di grazie veramente inesauribili ed è tanta la sua liberalità da offrire a tutti incessantemente i suoi beni, più disposto Lui a concederli che noi a riceverli. Venite, dice, comprate senza denaro e senza alcun cambio (Is 55,1). Ed i suoi doni sono i soli beni spirituali ed eterni che pienamente accontentino i cuori, ed il cui possesso ci possa rendere perfettamente felici.

 

9)      I re della terra poi hanno il triste privilegio di togliere ad altri quello che vogliono conedere ad uno. E spesso è con le spoglie del povero popolo che arricchiscono i loro favoriti. Ma ciò che invece Gesù Cristo concede agli uni non è sttratto alla porzione degli altri, anzi l’aumenta, perché ciascuno dei suoi sudditi può ricavar vantaggio dall’abbondanza del suo prossimo.

 

10)  Il favore dei re della terra è incostante e di breve durata. È esposto a troppe vicende e spesso seguito da una spiacevole disgrazia o da qualche tragico avvenimento. Ma quello di Gesù Cristo è sicuro e costante quanto il suo regno, a meno che ce ne rendiamo indegni per nostra colpa. Chi gode delal sua benevolenza, può, volendolo, ritenersi sicuro di goderne per tutta l’eternità. I suoi sudditi fedeli diventano altrettanti re, e quanto più gli sono soggetti, tanto più acquistano in grandezza. Quale sarà il tributo che noi pagheremo a questo supremo monarca ch ci ricolma di beni? Presentiamogli l’omaggio di un cuore fedel, di un cuore puro che arde di carità, pieno di zelo per la sua gloria e di un ardente desiderio di immolare al suo amore ed al suo servizio mille vite, se le potessimo avere.

 

Art. 04: I tre principi delle aioni di Gesù

 

§ 1.      Tre sono i principi delle azioni di Nostro Signore:

 

1)      Le facoltà della sua anima, arricchita dalla pienezza della grazia; ed i sensi e le membra del suo corpo, con l’ornamento di tutte le qualità convenienti alla maestà di un Uomo-Dio. Per questo le sue azioni non andarono soggette ad imperfezione, ma furono infinitamente sante, perché provenienti da una santità infinita, e per conseguenza anche infinitamente nobili ed infinitamente preziose.

 

2)      La Persona del Verbo, che rendeva divine tutte le azioni della santa umanità, alo stesso modo che sono angeliche tutte quelle degli Angeli e sono umane tutte quelle degli uomini. Per questo le azioni di Gesù Cristo sono degne di adorazione per il loro principio e per i soggetto in cui sono ricevute, che è una natura come deificata. Da ciò possiamo giudicare quanto vale l’uomo e ciò che è costato a Dio, possiamo persuaderci che il prezzo del suo riscatto è infinito, che incalcolabile è il suo valore perché è stato riscattato dal sangue di un Uomo-Dio, e che per la stessa ragione noi abbiamo infiniti obblighi verso Gesù Cristo. Infatti, per quanto non siano infinite la grazia e la gloria da Lui meritatacim tuttavia le azioni, con le quali Gesù Cristo ha meritato per noi questa grazia e questa gloria, sono infinite. Sarebbe come se una persona infinitamente ricca avesse dato tutti i suoi beni per riscattare un prigioniero; costui dovrebbe sentirsi infinitamente obbligato, per quanto la libertà che gli è stata resa non sia un bene infinito.

 

3)      Il terzo principio è lo Spirito Santo, che ha disposto tutto i lsuccedersi delle azioni di GEs Cristo nel loro insieme, ed anche ogni azione in particolare. Era per questo principio che la santa umanità compiva le medesime cose che vedeva operare dalla divinità: per esempio, le stesse manifestazioni di misericordia, di giustizia, di dolcezza, di rigore, di amore, di odio. Perciò essa, per quanto le fu possibile, diventò come il sigillo della divinità, sul quale il prototipo ha impresso i propri lineamenti. Il che si è operato sotto la direzione dello Spirito Santo, il quale, nella vita e nelle azioni di Nostro Signore, ha voluto tracciare per noi una via per guidarci con sicurezza alla gloria ed alla perfetta beatitudine dell’eternità.

 

§ 2.      Nostro Signore, che è stato concepito nel seno della Vergine er opera dello Spirito Santo, ha voluto essere diretto in ogni sua azione non solo dalla persona del Verbo, ma anche da quello dello Spirito Santo, per insegnarci che questo Spirito divino, come fu il principio della nostra rigenerazione spirituale nel battesimo, deve essere pure il principio direttivo di tutta la vita, che Efgli deve governarci in tutto e che noi dobbiamo dipendere interamente dalla sua direzione, perché le membra devono essere sempre animate dal medesimo spirito del Capo.

 

Non è dunque precisamente né dai sensi né dalle passioni o dalla ragione che noi dobbiamo ricevere la nostra guida, ma unicamente dallo Spirito Santo. Esaminiamoci se è proprio da Lui che ci lasciamo guidare e se non sia invece lo spirito della carne ed del mondo che ci governa. Se è lo Spirito Santo, godremo allora della libertà dei figlio di Dio; ma se lo spirito è un altro, noi diventeremo gli schiavi di quest’ultimo perché ne seguiamo gli impulsi e la direzione.

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Parte prima: la conoscenza di nostro Signore

 

Capitolo 03: I diversi stati della vita di Gesù Cristo

 

Nella vita del Verbo incarnato si considerano sei diversi stati, che devono essere argomento delle nostre meditazioni.

 

Il primo è la dimora di nove mesi nel seno della Vergine.

 

Il secondo, la sua infanzia fino ai dodici anni.

 

Il terzo, la vita nascosta dai dodici ai trant’anni.

 

Il quarto, la vita pubblica di zelo, difatiche, di persecuzioni, dai trent’anni alla passione.

 

Il quinto, il periodo di vita della passione, dal Cenacolo fino al Calvario, che fu una continua sofferenza.

 

Il sesto è il tempo che stette sulla croce, periodo di agonia e di morte.

 

A questi stati si può aggiungere quello della sua vita gloriosa e quella della sua permanenza nel sacramento dell’Eucaristia.

 

Art. 01: L’infanzia di Gesù Cristo

 

§ 1.      Pochi sono quelli che hanno devozione alla santa infanzia di Gesù Cristo. Ci si lascia alquanto commuovere dai dolori e dagli obbrobri della sua passione, ma non si pensa invece gran che agli altri misteri della sua vita: è questa una mancanza di vera e viva fede.

 

L’infanzia di Gesù Cristo è uno stato infinitamente adorabile ed amabile, e merita che noi ci applichiamo ad onorarlo e a imitarlo. Possiamo studiare le virtù che Gesù Cristo ha esercitato durante questo periodo della sua vita: l’umiltà nel sopportare l’abbiezione di questo stato; la pazienza nel soffrire le persecuzioni e la fuga in un paese straniero; la sua povertà ed il disprezzo del mondo. Noi possiamo, è vero, umiliarci per suo amore, amare la povertà, disprezzare il mondo, soffrire contraddizioni, ma è soltanto spiritualmente che potremo diventare piccoli come Lui, esprimendo in noi le qualità proprie dell’infanzia: la purezza, l’innocenza la semplicità, la dolcezza, la docilità, l’obbedienza.

 

L’amore alla purezza è la prima virtù di cui ha voluto darci esempio, venendo al mondo; uscendo dal puro seno della sua santa Madre, senza lederne la verginità, come senza offenderne la verginità era stato concepito; nutrendosi del latte di una Vergine, Lui solo fra tutti gli uomini essendo di origine verginale, dimostrando che l’ultima e più intima preparazione per la sua Incarnazione era la purezz, non operando altro miracolo per la sua santa umanità in trent’anni che quello di nascere da una madre vergine, essendosi d’altronde reso simile agli altri fanciulli in tutto il resto.

 

§ 2.      L’innocenza è la cosa più necessaria quaggiù e che maggiormente obbliga Dio ad amarci. Non v’è nulla che più ci avvicini a Lui. Del resto, ad Adamo non aveva dato che il comando di conservare l’innocenza in cui era stato creato. La salvezza de genere umano dipendeva dall’obbedienza a questo solo comando. Innocenza e purezza sono la grande disposizione alle grazie di Dio.

 

Art. 02: La vita nascosta di Gesù Cristo

 

È incredibile coem Nostro Signore abbia amato la vita nascosta. Ha sempre cercato il nascondimento in ogni stato di vita. Si è nascosto nel seno del divin Padre, nel seno della Madonna, nella sua nascit