P. Jean Laplace sj

​​

 P. JEAN LAPLACE SJ

 

   • La libertà nello Spirito.
    La guida spirituale

   • Un'esperienza della vita nello Spirito

 

 

 

P. JEAN LAPLACE SJ
La libertà nello Spirito. La guida spirituale.

 

INDICE

 

Introduzione    Invito ad essere

Capitolo 1    Il dialogo

Capitolo 2    La Relazione

Capitolo 3    Lo Sguardo

Capitolo 4    La Libertà

Capitolo 5    Il Tempo

Capitolo 6    La Prova

Capitolo 7    La Preghiera

Capitolo 8    Lo Spirito

Capitolo 9    La testimonianza

Capitolo 10    «Ridirsi le cose»

 

 

 

INTRODUZIONE. Invito ad essere.

Dopo più di cinquanta anni di ministero di accompagnamento spirituale, sento il desiderio di dire ciò che mi sembra essenziale. «Un’autobiografia», mi ha detto qualcuno a cui ho fatto partecipe del progetto. «Un testamento spirituale», ha aggiunto un altro. Io solo spero di evitare ciò che potrebbe essere una sgradevole mostra di me stesso.

Questo libro si indirizza prima di tutto a coloro che – preti o laici – sono impegnati in questo ministero. La sua lettura, io spero, comunque possa essere utile a coloro che si interrogano sulla realtà nascosta sotto questa parola. Non è che costoro possono trovare in queste pagine l’esposizione di una dottrina o la soluzione di casi di coscienza. Io vorrei parlare delle realtà nelle quali il direttore è implicato e quale vita spirituale esse reclamano da lui.

L’impegno nell’accompagnamento spirituale richiede un atto di fede nella libertà eh Dio dona all’uomo per aprirsi allo Spirito. La guida è il testimone del gioco fra la libertà e lo Spirito, di ciò che i Greci chiamavano «sinergia». La libertà non si desta che per aprirsi allo Spirito; lo Spirito non si comunica che per condurre l’uomo alla perfetta libertà. In questa avventura che è quella stessa della vita spirituale, vi sono dei rischi. Ma questi rischi, i «pericoli dell’anima», come diceva s. Gregorio di Nissa, costituiscono la possibilità per l’uomo di divenire partecipe della vita di Dio. Essa gli offre «il potere di diventare figlio di Dio» (Gv 1,12). Essa è la condizione di ogni vera educazione spirituale. La guida ha per missione aiutare l’incontro della libertà e dello Spirito.

Ecco l’incatenamento delle nostre riflessioni sul soggetto. L’aiuto spirituale suppone un dialogo (cap. 1). Siccome non c’è un dialogo senza mettere in moto l’affettività, noi parleremo della qualità della relazione che essa suppone (cap. 2). A cui si aggiunge la qualità dello sguardo che penetra questo mondo illuminato dallo Spirito (cap. 3). Viene adesso la grande questione: la libertà condiziona l’apertura alla grazia? Per rispondervi, occorre accettare di sottometterci a delle tensioni contrarie (cap. 4), in particolare alla doppia legge del tempo (cap. 5) e della prova (cap. 6). Resterà da dire in quale clima si realizza questa educazione, quello della preghiera  (cap. 7) e dell’azione dello Spirito (cap. 8). La conclusione verrà da se stessa: l’ideale per la guida è quello di diventare un testimone dello Spirito (cap. 9). In un ultimo capitolo riprenderemo, sotto forma di aforismi, l’essenziale di questo libro. Questo cammino attraverso le realtà fondamentali dell’esistenza conduce colui che lo segue a realizzare l’unità del suo essere nella pace dello Spirito. Questa è la  condizione di tutti i ragionamenti spirituali, tutti gli accompagnamenti sono sempre un invito ad essere. Colui che l’esercita deve aver realizzato per primo la propria unità interiore.

Questo ideale può essere mai raggiunto? Come la libertà esso è in perpetuo divenire. Noi non cessiamo di diventare liberi, senza mai essere sicuri di esserlo. Chi può assicurarci che in questa vita dello Spirito abbiamo raggiunto il traguardo? Non è tuttavia inutile porre all’inizio del cammino questo invito all’essere, pur se esso sarà ancora da capire nelle più alte sommità delle ascensioni. Tali propositi rimangono utili a tutti gli stadi del percorso dove conviene sempre ridire verso tutti e contro tutti che senza questa preoccupazione della libertà, niente di buono si farà nella vita spirituale.

Noi viviamo nei tempi in cui è stata riscoperta, secondo il pensiero di Olierei Clement, che non è «necessario essere meno per essere pienamente cristiano». Questo libro non si indirizza agli specialisti della spiritualità, ma a tutti i cristiani coscienti della grazia incomparabile dello Spirito che hanno ricevuto nel battesimo. Da là scorre tutto il resto.

Le Bernerie en Retz, 24 giugno 1994 Solennità di S. Giovanni Battista

      Torna all'indice       

 

 

Capitolo 1: Il Dialogo

Ogni educazione si realizza in primo luogo nel dialogo, l’educazione spirituale come ogni altra. Questa fu l’intuizione di s. Ignazio di proporre i suoi Esercizi Spirituali, non da leggere, ma da fare in compagnia di qualcuno. Il libro è utile, ma viene dopo. Prima di tutto ci sono due esseri: uno propone l’altro reagisce. E, secondo le reazioni di quest’ultimo, il dialogo prosegue.

Conviene sapere ancora ciò che l’uno e l’altro si attendono e come intendono condurlo.

 

L’oggetto del dialogo

Questo dialogo ha un preciso oggetto. Esso mette davanti due battezzati che hanno questo in comune: essi credono alla vita in loro stessi dello Spirivto Santo e desiderano rendersi docili alla sua azione. La loro intenzione non è di istruirsi su tale oggetto della loro fede né di intrattenersi in questioni che pone loro l’intelligenza della Parola di Dio. «Lei mi fa un’omelia», dissi un giorno ad un prete che stava facendo con me i suo colloquio quotidiano in un ritiro spirituale. Né discussioni di idee, né condivisione del vangelo, ma comunicazioni delle reazioni intime davanti alla Parola o alla vita per verificarne la rettitudine. 

Noi qui siamo non nell’ordine della pura intelligenza, anche se applicate a delle verità di fede, ma in quello del «cuore», là dove lo Spirito ci fa penetrare la parola ricevuta per mezzo dell’unzione e la fa passare nel nostro essere più profondo per mezzo del gusto che ci dona. In questo campo intimo dove l’illusione è possibile, ho bisogno di confrontarmi con qualcuno che abbia esperienza di queste cose. Ho bisogno di lui per sviluppare in me questo «soffio interiore» di cui parla s. Paolo e che «permette di discernere il meglio». Prima di preoccuparsi dell’accoglienza da fare a coloro che desiderano un aiuto di questa natura, conviene chiedersi se colui che è scelto come direttore ha un’idea giusta del dialogo spirituale. È bene evitare delle delusioni. È un grave affare affidare la propria anima a qualcuno, diceva il vecchio Scorate. È tra mille che occorre scegliere un direttore, diceva s. Teresa d’Avila. In effetti di direttori ve ne sono di diversi tipi. Surin, nei suoi Dialoghi spirituali ne distingue tre: i direttori mondani, quelli spirituali e quelli divini. Lo scopo dei primi sarà, si potrebbe dire, di portare i loro visitatori a fare una buona confessione e a custodire un comportamento religioso. Dopo di che, essi si intrattengono con loro sulle novità del giorno, della famiglia, dei loro progetti. Su questo si chiude l’incontro. La preoccupazione del direttore spirituale è ben differente. Egli vorrebbe risvegliare ciò che si chiama vita interiore. Egli si sforza di aprire il suo diretto alla preghiera e l’impegno totale per l’ascesi e la pratica delle virtù. Per giungere a ciò, propone dei metodi, degli esercizi che controlla poi lui stesso. Di visita in visita, egli chiede che progressi si sono fati. Egli sa, all’occasione, porre delle esigenze. Quale differenza c’è tra questi direttori e quelli che Surin chiama divini? La differenza potrebbe sembrare di primo colpo sottile; essa è tuttavia essenziale per definire il piano dove si situa – o meglio tende – il vero accompagnamento. Presso il direttore divino, l’attività spirituale che, presso i secondo, rimaneva nell’opera dell’uomo, si esercita nei movimenti della grazia. Presso i direttori della seconda categoria, dimora una certa rigidità, la preoccupazione di non mancare all’osservanza dei programmi. Fedeltà che non è senza importanza, soprattutto agli inizi, ma dove ancora non questione di libertà nello Spirito. Questa è la preoccupazione dominante dei divini. Senza negligere gli esercizi, essi li mettono al loro posto di mezzi, il fine è quello di renderli docili agli appelli dello Spirito. In questo campo essi non conoscono che un solo cammino. Ciascuno deve scoprire, nell’immensità dei doni di Dio, la maniera particolare in cui lo Spirito lo conduce. A questo terzo livello, l’ideale è ciò che gli orientali chiamano la sinergia, questa azione comune della grazia e della libertà, nella quale l’uomo diviene collaboratore dell’azione di Dio nell’universo.

Questa divisione di Surin, espressa in un linguaggio del XVII° secolo, può illuminare la situazione di oggi di coloro che si impegnano in questo ministero di accompagnamento. A che livello situare il dialogo? Ci sono quelli che confondono la confessione e la direzione, si contentano di dare qualche consiglio al momento del Sacramento della penitenza. Essi dimenticano che l’accompagnamento spirituale non è appannaggio del sacerdozio. Il suo esercizio è mansione del campo spirituale proprio del direttore e del suo carisma. E tra coloro che sorpassano il livello delle bune parole e delle pie esortazioni, quanti hanno scoperto il livello dove il Surin pone i «divini», quelli della docilità allo Spirito Santo? Quanti rimangono incatenati della loro maniera di vivere la propria fedeltà a Dio, legati da pratiche che soffocano coloro che si affidano allo loro direzione? Questo è il danno di coloro che troppo in fretta si slanciano nell’accompagnamento: sono malati dei loro metodi, buoni per loro e per dei principianti e che danneggiano gli altri che, a dir poco, sono aiutati male e non avanzano nella loro via.

Quello che possiamo concludere è ci sono bene diverse vie su cui accompagnare le persone spiritualmente. L’accompagnatore prima di accettare colui che chiede il suo aiuto, deve avere coscienza di questa diversità e non fare passare tutti per lo stesso cammino. Egli deve, per lo meno, farsi un’idea della varietà dell’essere e delle vie per cui lo Spirito li conduce. Senza dubbio basterà vedere nel Vangelo le diverse maniere che ha Gesù di intrattenersi con le persone per aprirle al Regno. Si vede sfilare gli esseri più vari nelle situazioni più diverse, dalla chiamata degli apostoli al modo di formarli, l’incontro con Nicodemo o con la Samaritana, l’accoglienza che fa alle donne, ai peccatori, ai farisei. Ciascun è accolto per se stesso, e accostato come se fosse l’unico.

 

L’ascolto nel dialogo

Surin distingue tre categorie di direttori spirituali. Come avrebbe risposto a chi gli avesse posto la questione delle categorie di coloro che chiedono aiuto spirituale? Una esperienza anche minime permette di dire che ve ne sono tante. Essa ci farà evocare immediatamente gli affanni di tanti visi, le voci di tanti esseri che vengono per porre la questione del mistero dell’uomo davanti all’universo e davanti a Dio. Immensa sfilata di gente che fanno sentire le risposte le più diverse alla domanda: Che vi attendete voi dall’incontro?

Ci sono quelli che non sanno come iniziare, un po’ irritati che noi non prendiamo le mosse, senza rendersi conto che sono loro che non sanno cosa dire. Altri che sono presi a capire tutte le questioni e a sottomettersi a tutte le esigenze, talmente sono desiderosi di essere liberati da se stessi e di essere risvegliati alla vita. Certuni al contrario, iniziano volentieri il dialogo, ma rimangono in superficie. La cultura religiosa o profana li ha abituati a parlare di tutto con disinvoltura, ma come leggendo dei libri. Questi ignorano la loro personalità profonda, ma la loro superficialità rischia essere ricambiata da chi li ascolta. Di certi altri si può dire che hanno sbagliato indirizzo. Soffrono dei loro squilibri interiori, si indirizzano a noi come a dei psicologi. Confondono tutte le domande. In particolare la loro immaturità affettiva ci fa pensare che essi cercano in noi un padre o una madre, il congiunto che è venuto loro a mancare. Ci sono poi altri casi contrari ai precedenti. Essi sono equilibrati e hanno del temperamento, ma l’educazione non ha insegnato loro ad esprimersi, soprattutto intorno a ciò che passa nel più intimo di loro stessi. Davanti al dialogo che desiderano portare avanti, essi rimangono molto goffi.

La tavola è infinita, come quella degli uomini. Davanti a tutti questi casi, i consigliere spirituale deve far prova tutte le volte di lucidità, di un’esperienza sufficiente, di bontà profonda e di senso spirituale. Non deve lui, come il Cristo dei Vangeli, condurre tutti questi visitatori tra gli umili di cuore ai quali è aperto il regno di Dio?

Simile maniera di fare favorirà la chiarezza del dialogo e permetterà di raggiungere al punto di giusto una libertà che, anche se riconosciuta debole e fragile, accetterà di aprirsi alla grazia.

Sfortunatamente, non si possono accogliere tutti. Ma questo è desiderabile? La questione si pone presto al direttore spirituale. Una divisione è necessaria. Chi può essere sicuro di farlo con esattezza e nello spirito evangelico? I soli principi non sono sufficienti a rispondere al problema. Occorre il rodaggio dell’esperienza e molto spesso…, quello dell’errore.

Sarà giusto applicare in questo campo la regola posta da s. Ignazio per l’ammissione agli Esercizi Spirituali? Ci sono persone alle quali, secondo lui, è sufficiente proporre qualche esercizio semplice, qualche maniera di pregare, di ricevere i sacramenti, di richiamare i comandamenti. Questo non è un rifiuto, ma un discernimento su ciò che ognuno può portare. Ci sono altri nei quali la natura e la grazia fanno sperare più grandi frutti. Con loro i dialogo può andare più avanti e raggiungere il suo vero obiettivo, la libertà spirituale in vista di un più grande servizio.

L’applicazione di una tale regola richiede una grande delicatezza. Presa alla lettera non rischia di condurre ad un certo elitario? Non avremo che del tempo per persone la cui apparenza è «promettente». Ci sono persone silenziose, piene di saggezza e di forte buon senso e, ciò che conta di più, di sensibilità spirituale, ma che la vita non li ha rivelati a loro stessi. Messi in confidenza, essi si risveglierebbero a ciò che sono e offrirebbero alla grazia una natura sana, giusta e vigorosa. In questo campo, il maestro spirituale deve essere indipendente da tutti i pregiudizi mondani, religiosi o ecclesiastici. Dio conosce i suoi e li sceglie dai luoghi più diversi.

Per favorire questa «divisione», il ricorso ad un «esperimento», per usare una volta di più il linguaggio Ignazio, è prezioso. Si prova ciò di cui ognuno è capace. Un ritiro, più o meno lungo e ben condotto, può essere questo esperimento rivelatore. Ma, soprattutto, la vita concreta è il miglior esperimento possibile. Il maestro segua il suo discepolo al naturale, senza che questi se ne accorga. Nello svolgersi del colloquio appaiono le reazioni, i desideri profondi, le ripugnanze. Altrettanti elementi, nella preghiera e nel quotidiano, che fanno scoprire le attitudini positive o negative che ciascuno apporta all’invasione della grazia.

Il principio da seguire nello svolgersi del colloquio è sempre lo stesso, sotto le applicazioni le più diverse: apprezzare in colui che viene a noi la capacità umana d’esistere e il grado di libertà che offre alla grazia.. La libertà reale, al di là delle pretese di ciascuno, si giudica dal modo di consegnarsi, nelle traversie dell’esistenza, ad un servizio o ad una relazione. Più particolarmente, qualcuno ha più facilità di slanciare le sue potenze affettive, al di là delle sue paure e delle sue infatuazioni? È diffidente di sé? Si preoccupa dell’impressione che fa sugli altri? Il giudizio degli altri l’accetta senza complessi e nella consapevolezza della propria unicità? In questo caso egli ha delle possibilità che accetti il rischio della sua libertà.

Il dialogo potrà allora svilupparsi nella verità. Esso stabilisce tra le due parti una grande mutua confidenza. Ciascuno a faccia a faccia dell’altro il «pregiudizio favorevole» (cf Es. Sp. n. 22). Tra i due c’è riconoscenza, accettazione, simpatia, connivenza necessaria a tutte le relazioni vere. Come il maestro accetta il discepolo, il discepolo a sua volta sceglie di confidarsi al maestro. Nessuna costrizione nel loro scambio. Essi si incontrano su quella zona segreta della fede, dove «nulla è impossibile a Dio», anche quando l’uomo è incatenato da tutta una serie di condizionamenti. In ciascuno dei due, il cuore si apre liberamente alla vita dello Spirito.

 

La conduzione del dialogo

Non si sente mai tanto la difficoltà di dare consigli sul modo di condurre un dialogo, quando si è in presenza di un novizio inesperto che vi chiede cosa fare. Egli crede che voi avete la scienza perché avete l’età e l’esperienza. Ora, più tu avanzi nella vita, più tu percepisci la complessità di tante situazioni diverse. Occorre la «destrezza», il fiuto. È sempre possibile trattare il soggetto, a condizione con non lo si rinchiuda in una cornice troppo rigida. Anche per abbordarlo, noi andremo di qui e di là, in tutte le specie di pensieri diversi e per toccate successive, la realtà in questione si schiarirà a poco a poco. L’essenziale, applicando questi principi, è di trovare ciò che corre realmente nella vita.

In primo luogo non ci si improvvisa accompagnatore, ma si scopre in se stessi la grazia. Evidentemente c’è anche la possibilità di una pretesa di credersi fatti per questo compito. Si rischia di rimanere nell’illusione di coloro che cercano di occuparsi dei problemi degli altri per risolvere i propri o per dare libero corso al proprio temperamento possessivo, oppure che non cedano alla curiosità verso un mondo che li attrae. È meglio lasciar agli altri scoprire in noi questo carisma. Colui che lo possiede realmente è il primo a stupirsi di possederlo e non ha mai finito di crederci di possederlo veramente.

L’accompagnatore è più che un insegnante, più che un predicatore o un propagandista. Egli è testimone di una vita che trascende, quella dello Spirito, vita dell’uomo totale, quella della vita presente e quella dell’al di là nella loro unità profonda. Questo ruolo, se è compreso, esclude ogni pretesa, ogni autoritarismo. Colui che l’esercita non si considera diverso dagli altri, ma cerca di far capire la sua propria connotazione. Egli vive per primo questa libertà di cuore alla quale si sforza di formare coloro che si indirizzano a lui.

La sua preoccupazione principale è la fedeltà allo Spirito, prima di tutto in lui e quindi nel suo discepolo. Egli è persuaso con s. Agostino che non è l’insegnamento che fa entrare nella verità, ma è il Maestro interiore che rende personale e saporosa la parola intesa dalle orecchie. La sua cura è quella di risvegliare l’attenzione del cuore e di esserne lui stesso il primo ad essere sensibile a questo. Tutti e due sono discepoli di questo Maestro interiore. Essi si situano l’uno e l’altro in una libertà che non si sviluppa che per aprirsi alla grazia dove, detto in altre parole, essi passano continuamente dal fare al ricevere, dall’agire all’essere.

È per questo che egli dimora nella pace, affatto ansioso della parola da dire o già detta. Sia attento, ma non impaziente. L’attenzione amorosa non è mai inutile, anche quando produsse effetti solo ultime ore della vita.

Fonda sulla fede l’ottimismo di cui tu fai prova. Sii persuaso che dalle situazioni le più oscure può liberarsi un punto luminoso che permette di ripartire nell’esperienza. Il peccato stesso serve quando è riconosciuto nell’amore. «Tu sei nato dalla polvere» possiamo dire a colui che, a torto o a ragione, si vergogna per l’atto che ha commesso. «È la possibilità della vostra vita. Gesù Cristo che ti raggiunge nelle profondità del tuo male, diventerà qualcuno per te».

Soprattutto, vi è un senso molto vivo della libertà nella quale si sviluppa la vita della fede. Che colui che ti interroga ti senta libero di quella libertà che ci ha portato Cristo: «La verità farà di voi degli uomini liberi». Che la tua libertà lo risvegli alla sua propria libertà e gli dia confidenza del meglio di se stesso.

Non sostituirti allo sforzo dell’altro. Aiutalo a scoprire lui stesso quello che lui deve fare. Tu in seguito l’aiuterai anche a farlo. Non dare soluzioni belle fatte, anche quando tu sei sicuro che siano quelle giuste. Le stesse soluzioni imperfette che l’altro scopre da solo valgono più di quelle che tu imporrai con una autorità mal compresa. L’importante è che, nella sua ricerca, tu rimani in pace. Tu lo confermerai di più con il tuo essere che con le tue parole. Tu non avrai detto nulla, ma gli avrai comunicato il gusto di vivere e di lottare.

Questo rispetto e questo silenzio tranquillo s’ispira al consiglio di s. Ignazio: «È proprio del Creatore entrare nell'anima, uscire, agire in essa, attirandola tutta all'amore della sua divina Maestà» (Es. Sp. n. 330). Come aveva anche detto in altro luogo: « È più opportuno e molto meglio lasci il Creatore agire senza intermediari nella sua creatura…» (Es. Sp. n. 15). È questo che prepara una persona a ricevere dallo Spirito quando Egli viene, l’indicazione della strada che deve prendere. Inoltre, una simile condotta dona a tutte le pratiche religiose o alle altre opere intraprese, pace, gioia, agilità che conducono al più profondo di sé.

È in se stessi che occorre ricercare la soluzione che vorremmo trovare nel consiglio di un altro. Tu vieni a chiedermi che fare. Io posso solo aiutarti a scoprirlo. Occorrerà parlare molto di ascolto. Per mezzo del silenzio tu raggiungi lo Spirito che vi conduce entrambi. Lascia venire tranquillamente la parola al di là di te stesso. Spesso ti rincrescerai di aver parlato troppo in fretta. Raramente ti pentirai del tuo silenzio. Il silenzio permette di ricevere l’altro, riascoltarlo, di guardarlo, di scoprire al di là delle sue tenebre, la luce che lotta nel suo cuore. L’importante che questo silenzio non nasca dalla tua paura, dalla tua inquietudine e dalla tua indifferenza. Sviluppa la certezza che qualche cosa dovrà passare, senza sapere né quando né come. Lascia venire il momento in cui la parola breve, semplice e tonificante ti sarà donata, parola che farà fiorire gioia e luce in colui che la riceve.

Ricevi i dubbi degli altri, i suoi attacchi, la sua aggressività. Non ti confondere per le confessioni che ricevi. Non ti indisporre per i lunghi giri di parole usati per dirti una confidenza che pesa. Il tuo tranquillo silenzio è spesso la migliore risposta che porta l’altro oltre la logica dei suoi ragionamenti. Quando siamo infastiditi per quanto l’altro ci dice, occorre rimanere in pace, senza paura di rimanere in silenzio. Una parola detta troppo in fretta, rischia di impedire all’altro di uscir fuori quella problematica che lo travaglia o di fermare la manifestazione di parti insospettabili del suo essere. Volendo intrattenere la conversazione, tu la fai deviare in un modo che ferma le confidenze più profonde. Tu fermi così l’attività spirituale che si risvegliava o tu la fai deviare dentro i tuoi propositi buoni, ma inutili.

Sii liberale con il tempo. Occorreranno forse degli anni perché la parola uscita da te porti il suo frutto in colui che l’ha ricevuta. Accade per la parola quello che accade per il seme. Esso cresce da solo senza che il contadino vi pensi. Non essere ansioso di sentire l’effetto prodotto dal tuo consiglio. Questo non ti riguarda. Tu l’hai lasciato venire dal di là di te stesso. Colui che te lo ha ispirato lo farà ricordare al momento voluto a colui che lo ha memorizzato senza comprenderlo. In questa lunga attesa, accetta di passare per delle notti, non solamente quelle del tuo interlocutore, ma anche le tue. Non cercare di sapere come uscirne. Il momento verrà, senza che tu te ne renda conto, in cui tu sarai passato con lui all’altra riva. Peraltro, è possibile che il tuo silenzio impotente, portato nella pace, sarà per tutti e due l’occasione di sentire la poca importanza della questione posta e di cercare più lontano la radice del male che siete tutti e due impotenti a riconoscere.

Non ti preoccupare troppo di evitare le ore difficili a chi si confida a te. Non è bene circondare di protezioni che non conosce i rischi della sua libertà.

È da questa parte che si accede alla maturità: «Vedi tu stesso», mi diceva sessanta anni fa il mio vecchio Maestro. Io non ho mai dimenticato la lezione.

Gli incontri di un giorno o di qualche mese, avranno un seguito? Non te ne preoccupare. Non appropriarti di colui di cui hai incrociato la rotta. Lascia allo Spirito la cura dei nuovi incontri. La relazione di un giorno come quella di tutta una vita non ti appartiene. Essa si riceve da Dio e non può crescere che rimettendosi al suo buon volere.

Ci sono giorni in cui la parola deve essere audace. Nelle diverse situazioni, conviene talvolta lanciare la parola incisiva che fora un ascesso, che rivela un male segreto, che mette davanti una chiamata che l’altro si rifiuta di sentire. Che la tua parola sia franca e netta, potrà forse essere sconcertante per l’interlocutore, ma giammai dura e costrittiva. La freccia scoccata sarà liberatrice. Non ti preoccupare del seguito. Esso non ti appartiene. Tu non devi possedere la luce che Dio ti domanda di trasmettere. O piuttosto, attraverso essa, raggiungi Dio che si serve di te. La tua azione diventa preghiera e presenza feconda.

In questi casi non sarà pretesa fidarsi del proprio intuito. La pretesa sarà di giudicare con severità coloro che non crescono o che vanno meno veloci di te. Ricordati solamente che il segno che Dio è con te è la pace che tu provi, la dolcezza del cuore, l’indifferenza al risultato. Rimetti l’altro al suo Creatore che è il solo giudice e giudica nell’amore.

Peraltro non credere che la tua perspicacia ti obbliga a comunicare subito la verità di uhi tu hai evidenza. È possibile che il tuo interlocutore non sia maturo per portarne il peso. In un amore crescente attendi il momento favorevole. Se l’occasione non si presentasse, non fartene un rimprovero. Un altro farà meglio di te l’opera di cui ti credevi incaricato. Custodisci il tuo cuore libero, gioioso e distaccato. Le persone appartengono a Dio.

Una grande ascesi è necessaria a chi vuole essere fedele a questi principi. Una ascesi che nasce dalla verità stessa dell’opera che si compie. Essa non rivela tanto una prudenza che poggia sulla repressione degli eccessi dei sentimenti che si provano. La tua sicurezza non sarà tale da non provocarti, in certi giorni, sofferenza, solitudine e incomprensione. Più che mai come in quei momenti tu avrai bisogno di rifugiarti in Colui che è la Verità. Non cercare di giustificarti. È in questa incessante purificazione del cuore che tu dimori fedele al carisma che hai ricevuto. Dimorando tranquillo, tu non portarti, dopo un incontro difficile, ansietà o amarezza. Accoglierai senza pena il nuovo visitatore, egli appartiene a Dio e da Lui tu lo ricevi.

Che cosa può pretendere arrivando a questo? Più uno si avvicina all’ideale, più sente tutto quello che gli manca, tuttavia egli vive in una sicurezza che lo stupisce. Egli passa attraverso il rimettere in questione le approssimazioni. In una fede sempre più grande, affronta con meraviglia un mondo che altri hanno lavorato prima di lui e che altri lavoreranno dopo di lui. Tutta la luce ricevuta è per lui una chiamata. Egli conosce una forza che non parte da lui e che lo fa ripartire nella gratitudine. In ciascun incontro personale, egli sente in lui e nell’altro la chiamata dello Spirito che vuole riunire tutti nell’invisibile. Egli raggiunge ciò che ciascuno porta in sé di divino. È la sua maniera di vivere la presenza sempre più invasiva di Gesù Cristo che ci diventa intimo e che, per condurci a Dio, espone al «pericolo della libertà», secondo l’espressione di Gregorio di Nissa.

  Torna all'indice       

 

 

Capitolo 2: La Relazione

Necessariamente, tra accompagnatore e accompagnato, si stabilisce un relazione. Così succede ogni volta che noi facciamo delle confidenze tra persone. A più forte ragione, quando le confidenze vertono su cose molto intime, quale la nostra vita di relazione con Dio. Occorre parlare di questa relazione che si istaura.

Il padre spirituale è talvolta preso alla sprovvista davanti ad essa. Egli è preparato a tutto tranne che a subirne lo choc. Le confidenze rivelano in lui zone segrete della sua affettività. O si spaventa o si lancia all’avventura: due attitudini contrarie che non sono fatte per mettere in confidenza colui che vorrebbe trovare qualcuno che riceva in pace le sue confidenze.

Un grande equilibrio affettivo è necessario a colui che assume un compito di guida spirituale. Egli deve poter donarsi tutt’intero senza lasciarsi prendere dalle attrazioni che sente e da tutto ciò che ci portiamo in noi: dall’amore che si risveglia, dal narcisismo o dalla ricerca di sé. Entra in un campo in cui non deve né cedere alla paura né lasciarsi andare.

Per ottenere questo dominio di sé, deve rassicurarsi per l’educazione ricevuta, la maturità acquisita nell’esperienza, il consiglio di amici o, se necessario, gli avvisi di un psicologo. Ma ciò che in definita gli permette di intraprendere una attitudine che non è semplicemente dominio di sé, ma apertura del cuore, è il soffio dello Spirito ch riprende la natura, non per sopprimerla, ma per portarla alla sua massima perfezione. Lo Spirito in noi trasforma in agape le forze di eros, ci fa passare dall’amore passionale dove rimane molta ricerca di sé, a un amore gratuito, aperto e disinteressato. Il padre spirituale manifesta nella relazione che instaura una natura trasfigurata per la grazia. È in questa presenza dello Spirito che trova la sua grande sicurezza e che assicura colui che a a lui si rivolge.

Questa sicurezza deve trasparire tanto nelle visite passeggere che nelle relazioni che si prolungano, paternità spirituale o amicizia.

 

Visite brevi

La stessa visita passeggera, una visita di cui ignoriamo se sarà seguita da un’altra, non può lasciarci indifferenti. Essa non è una semplice consultazione di un professionista. Essa chiede attenzione del cuore. Una persona si consegna con i suoi dubbi, e sue sofferenze le sue esitazioni. Non si è mai esperti dei segreti che qualcun altro ti confida.

L’ascolto, in questo primo contatto può essere determinante. Ascolto timido, freddo, imbarazzato; o, al contrario, semplice e diretto. Rivela l’essere tutto intero  e mette gli interlocutori sul livello in cui possono incontrarsi. Ci sono ascolti affrettati che mancano di spontaneità e sono faticosi. Prima di tutto essi devono manifestare la libertà del cuore di colui che accoglie, anche con riserva o quando si sviluppano. Essi devono dare l’impressione che non si ha altro da fare che ascoltare.

Il visitatore sente di solito in colui che incontra l’equilibrio dove la grazia lo ha stabilito. Per prima cosa egli è bloccato o si sente accolto. Simpatia naturale che proviene dall’al di là della natura. Una vita profonda si rivela e lascia presentire che tutto si potrà dire, senza provocare irritazione o reticenza. Il silenzio di cui si attornia il direttore spirituale non manifesta la sua superiorità in rapporto all’altro; costui è suo fratello.

Questi primi momenti di incontro, segnati da una certa simpatia, permettono di superare le prime reazioni di favore o di rifiuto o di diffidenza che si formano nell’altro. C’è stato più di un visitatore che, poco abituato a questa semplicità, rimane come un bambino a cui i primi segni di affetto provocano un senso di smarrimento. Occorre vedere e passare oltre, senza darvi importanza. Che un desiderio di efficacia immediata o di rigore nell’intenzione e nei propositi non impedisca alla corrente di fluire. Non è questo il modo con cui Gesù accoglieva i piccoli e i poveri, anche se li incontrava una volta sola. Il vero accompagnatore leva, su colui che bussa alla sua porta, uno sguardo dell’al di là che passa sopra le apparenze, riflesso dell’amore del Padre. Egli dona certezza a colui che forse non rivedrà mai più, di aver incontrato, almeno una volta nella sua vita l‘amore. Questo è più importante di dare le risposte alle questioni che è venuto a porre.

Come legare semplicità e riservatezza? Perché questa è necessaria affinché la conversazione si svolga su un terreno di vero incontro. Essa nasce da un curioso miscuglio di fermezza e dolcezza, in una persona contemporaneamente senza difese e libero. Una presenza di tutta la persona che non ha nulla di solo voluto. Colui che riceve sa di essere lo strumento necessario e inutile di un’opera divina che lo sorpassa. Qualità umane e vita profonda dello Spirito, uniti in lui per ispirargli il modo giusto che mette a proprio agio. Raro equilibrio di attenzione e di oblio di sé, presenza all’altro che è presenza a Dio, questo è il segreto dell’irradiamento di certe persone. Pierre Favre, compagno di Ignazio, mentre percorreva l’Europa, contemplava gli angeli degli uomini che incontrava. Candore di un cuore che rende presente a colui che attraversa sul cammino e fa vivere dentro un mondo divino. Questo fa dissipare l’inquietudine di sapere come si svilupperà l’incontro. Qualcuno è lì in nome di Dio. Ricevilo come il cristo. Se lui ritorna, ricevilo con gioia. Se tu non lo rivedrai mai più, rimani nella pace. Non ricordarlo se non per affidarlo a Dio.

A fianco delle visite passeggere, ci sono quelle che si rinnovano, in particolare quelle il cui oggetto è rendere conto, a intervalli regolari, dell’esperienza di ciascuno. Voglio ora parlarvi dell’accompagnamento durante un ritiro. Ci sono diverse maniere di concepirlo: in un centro spirituale, in un monastero o, semplicemente, nella vita corrente. In tuti i casi, più che l’insegnamento, importa l’incontro durante il quale il ritirante espone ad un accompagnatore i propri movimenti interiori, le reazioni prodotte in lui dalle meditazioni della Parola o l’insegnamento ricevuto.

Questi incontri suppongono, da parte di colui che riceve, una presenza più profonda e più curata che in una visita passeggera. Incontri quotidiani, se possibile, che non domandano di essere lunghi, ma di andare subito al fatto con qualche parola precisa, riprendendo, se occorre, ciò che si era detto il giorno prima per assicurare l’unità del cammino tra ieri e oggi. L’intelligenza del cuore – o, se voi preferite, la memoria del cuore -, fa passare velocemente sui dettagli inutili, evita le lunghe mostre di sé, va subito a ciò che rimette l’altro sulla linea che lo Spirito gli fa seguire. Compito delicato che richiede l’arte o la tecnica del dialogo, ma più ancora l’apertura del cuore che non si stupisce di nulla, che sa tanto aspettare quanto interrompere al punto giusto. Ci sono dei giorni in cui, una parola incisiva, ma pronunciata tranquillamente, sconcerta colui che la riceve. Occorre saperla dire nella certezza che essa apporterà la luce per i giorni che verranno.

Può accadere che delle visite frequenti producano un effetto contrario a quello atteso. Esse creano nel ritirante l’ansia di ciò che dovrà dire, egli pensa a questo sempre anche durante i tempi di orazione. Al posto di liberarlo, esse lo ripiegano su se stesso in un’analisi che l’ossessiona. È il caso tipico dove il metodo rischia di diventare un fine in se stesso. L’accompagnatore troppo inesperto potrebbe non essere ancora capace di dare a ciascuno ciò che gli conviene, preoccupato com’è della fedeltà al metodo che alla docilità dello Spirito.

In tutti i modi, l’amore che è nel cuore risale continuamente alla sua Sorgente per verificare il percorso, dona la libertà della parola o il silenzio e ispira il tono giusto. L’opera che si sta compiendo non mi appartiene, essa è dello Spirito. Questo amore è al di là dei sentimenti provati, della contentezza suscitata da uno o un altro dei programmi eseguiti. Conoscendosi fallibile, misurando i propri errori e i suoi passi falsi, l’accompagnatore non teme di rimettersi in questione. Egli lo fa, senza legiferare in assoluto, rimettendosi continuamente allo Spirito e ricevendo se stesso da Lui in questa breve e quotidiana visita.

 

La parentela spirituale

La relazione di cui stiamo per parlare e di un’altra specie. Essa crea tra due persone un legame indistruttibile, simile a quella che lega la parentela dentro la stessa famiglia. Al posto di essere dell’ordine della natura, è dell’ordine della vita dello Spirito. Gesù consacra questa parentela nel Vangelo: «Chi è mia madre? Chi sono i miei fratelli?», domanda. «Sono coloro che ascoltano la Parola di Dio e la fanno». Non è cosa indifferente per due persone incontrarsi nella loro comune ricerca della Sapienza e della Parola. S. Paolo, come Gesù, parla di coloro che ha generato come una madre, comunicando loro la Parola del Vangelo. Tutto il suo essere, meravigliosamente sensibile, vibra al pensiero di costoro che ha educato. Giovanni aveva una sensibilità più discreta, ma non meno profonda, non cessa di chiamare «suoi piccoli figli» coloro a cui indirizza la Parola. Questa relazione nell’ordine dello Spirito, è una generazione. Questo modo di dire si è trasmesso nella tradizione spirituale della Chiesa. Si è parlato di volta in volta di maestri spirituali, di padri spirituali, e non solo nei monasteri o nella solitudine del deserto. Sviluppandosi nel mondo, la vita spirituale ha dato origine a tali relazioni.

Ai nostri giorni, questa maniera di parlare ci mette a disagio. Tanti sono stai i modi sbagliati, gli equivoci o le deviazioni che hanno affossato il concetto di paternità spirituale. Gli psicologici, infatti, hanno avuto modo di denunciare tante compensazioni più o meno sane che sono state mascherate con questa paternità. Dal compiacimento di questo ruolo, Gesù stesso mise in guardia i suoi apostoli: «Non fatevi chiamare padre. Non avete che un solo Padre, Dio. Voi non avete che un solo maestro, il Cristo». S. Paolo, i cui sentimenti paterni si espandevano con calore, dice, al seguito del discorso di Gesù: «Non c’è che una paternità, quella che viene dal Padre della luce». Per essere giusta la relazione di cui stima parlando, deve essere riconosciuta come una partecipazione. Generare nello Spirito, significa lasciare passare ad un altro una vita che viene da oltre, senza ritenere nulla per sé, in questo modo si continua la generazione divina in mezzo agli uomini.

Come in tutte le relazioni, occorre avere lo spirito sveglio sui pericoli che si corrono in questo campo. A qualunque grado si situi una relazione, essa è compromessa per l’appropriazione che ciascuno ne fa. Questo pericolo reale è un motivo per diffidare di questa relazione? Non è forse talmente rischiosa da preferire di non intraprenderla per non viverla nella menzogna? È il rischio della libertà di fronte all’amore. È anche una chance.

Accettare questo ordine di partenti, è accettare d’entrare, da una parte e dall’altra, in ciò che permette a una persona di esistere. Riconoscere la paternità, riconoscere una vita che ci è donata, una vita che non da noi e che puro dono d’amore. Noi tutti abbiamo incontrato persone percosse dall’esistenza che non sapevano né da dove venivano né dove andavano, senza sapere che cosa sia l’amore né essere amati. Il riconoscimento di questo ordine di generazione è per l’essere umano un fattore primordiale di equilibrio. L’ordine spirituale non sfugge a questa legge. La paternità per la quale un battezzato aiuta un altro a vivere la vita che gli ha donato Dio, costituisce una relazione unica tra tutte, «una immagine straordinaria e splendida della paternità di Dio» (André Louf). Noi veniamo coinvolti in questo meraviglioso scendere di Dio a noi e nella risalita di noi a Lui. È come il fiorire di tutte le cose nel mistero trinitario comunicato all’umanità per mezzo di Gesù Cristo nella Chiesa.

Questa risalita fino al mistero di Dio vale più di tutte le cautele per levare le incertezze e le ambiguità che minacciano la dipendenza affettiva che la vita pone in mezzo agli uomini. La gratuità in cui si sviluppa impedisce di appropriarsene e di guardarla come un diritto. Come tutto ciò che viene da Dio, essa è ricevuta nella riconoscenza e ci apre ad un amore sempre più universale.

Nella misura che questa trasmissione di vita si opera nella verità, essa dona a chi ne è oggetto la facoltà di conoscere qualche cosa della gioia divina che esiste dovunque lo Spirito si comunica. Io potrei dire, pensando alle parole del Cristo nel Discorso dopo l’Ultima Cena, che vedo la relazione umana in ciò che più ha di elevato, riflettendo in se stessa la relazione che c’è tra le Persone Divine dove tutto è centrato sull’altro. Nati da Dio, nessuno vive per sé. Nessuno genera per sé. Nessuno è generato per sé. La vita che si sviluppa è gioia, perché relazione pura tra colui che dona e colui che riceve.

È su questo solido fondamento che la relazione trova forza di superare le crisi che attentano inevitabilmente alla sua crescita. Vengono dei giorni dove, come nell’ordine della filiazione naturale, ciascuno deve affrontare la solitudine della sua persona davanti all’altra. Distanza dove ciascuno prende coscienza di se stesso, non per opporsi, ma per prendere il suo posto unico. Ogni educazione passa le sue ore difficili. Questa solitudine è la condizione della vera comunicazione. Ciascuno scopre che non è lui che può permettere all’altro di diventare ciò che è. Questa relazione, nata nella libertà, non cessa di svilupparsi in essa. All’inizio essa è una possibilità. Tu diventi figlio di colui al quale tu hai deciso di rassomigliare. Immagine dell’atto del battesimo dove ciascuno, riconoscendo Dio come padre, riceve da Lui il potere di diventare figlio suo. Crescendo, a partire da questo atto iniziale, le persone prendono ulteriore coscienza di ciò che sono l’uno per l’altro e trovano la loro consistenza. Il padre si rivela come padre, il figlio vi riconosce la relazione che lo fa essere. La libertà si nutre di questo dono che essa stessa fa alla grazia della paternità o a quella della filiazione.

Un tale sviluppo fa scomparire i sentimenti di ineguaglianza o di dipendenza che ci fanno ricordare la nostra infanzia. Il Padre e il Figlio non si riconosco affatto inferiori l’Uno all’Altro. Tuttavia, l’Uno non sarà mai l’Altro. Così tra il padre e il figlio spirituale. Perché io? Perché tu? È Dio che ci ha donato l’uno all’altro in una relazione unica. Io riconosco nel padre colui attraverso cui Dio mi comunica la vita dello Spirito. È una sorgente in cui la vita ha inizio. Riconosco nel figlio la vita che si riversa e se ne va lontano da lui per essere nuovamente comunicata. La vita non è catturata né dall’uno né dall’altro. Essa si spande. Così si risolvono le crisi passeggere dell’adolescenza – normali se sono passeggere, sterilizzanti quando esse si prolungano – per mezzo delle quali si giunge ad essere persone che, crescendo, sono capaci di rivoltarsi contro coloro che, dapprima, erano assoggettati.

Questa esperienza di libertà che si fa nella mutua  riconoscenza aiuta a comprendere come la libertà è vissuta nella Chiesa. Lil padre è colui dal quale ciascuno prende coscienza di aver ricevuto una vita. Egli è anche colui che dona la libertà di ricevere il dono di Dio. I figlio è colui nel quale la relazione con il padre è invitato a diventare se stesso e ad agire secondo i propri talenti ricevuti. Legami segreti di vita che non asservono, ma che donano alle persone la loro stessa consistenza. Qualche cosa di definitivo si  stabilisce tra le persone, un punto di ancoraggio dove si ritrovano al di là degli errori e dei sbagli. Si parla di legami della natura e della rane, occorre parlare di legami della comunione nello Spirito. Le purificazioni necessarie per scacciare le ambiguità sempre possibili  non vanno nel senso della limitazione e della paura. La fede conduce le persone a conoscersi nel movimento d’amore del Padre e del Figlio all’interno della Trinità.

Relazione feconda, gratificante, costituente un equilibrio di grazia e di libertà, sorgente del più per irradiamento. Essa si realizza sempre tale e quale noi l’avevamo prevista? Senza dubbio essa è anche rara che quei «direttori introvabili» di cui parlava Teresa d’Avila e che occorre scegliere tra mille. Essa è una meta verso la quale, se la grazia è donata, ciascuno può sforzarsi di tendere. Essa manifesta che, lontano da annullare la natura, la vita spirituale la conduce al di là di ciò che essa aspira. Ciascuno, in questa ricerca, lascia sgorgare le risorse più feconde di questa vita, nello stesso tempo che si forma in lui un’immensa riserva di amore, immagine della grande tenerezza di Dio. Quando un simile ideale è stato una volta incontrato o intuito, esso apre alla vita e alla libertà. Che si allontani o sparisca colui nel quale si è incarnata una volta, malgrado la pena della separazione, la sua grazia dimora viva in noi. Come i discepoli dopo l’ascensione, al di là della relazione visibile, noi viviamo del suo Spirito.

 

L’amicizia

Ci sono relazioni passeggere che si evolgono in parentela spirituale, ce ne sono di altre che si evolgono in amicizia. L’accento non è sulla trasmissione della vita, ma sulla reciprocità in una vita ricevuta e condivisa. Benché si fonda su una rassomiglianza di natura e su una scelta del cuore, come tutte le amicizie, essa se ne differenzia per il suo principio che è il riconoscimento, presso l’uno e l’altro, di uno stesso desiderio spirituale.

Come quella della parentela, questa relazione di amicizia spirituale si è sempre riscontrata nella tradizione. Occorre ricordare la relazione privilegiata che univa Gesù al «discepolo che Lui amava?». Un delizioso scritto del XIV° secolo, del beato Aelredo di Rivaux – il Trattato dell’amicizia spirituale – che vuol essere una replica al libro di Cicerone sull’amicizia, descrive queste intime relazioni stabilite per mezzo di una comune vita spirituale tra due persone che la comunanza di gusti o del temperamento avvicina l’un l’altro. Essa è, nella carità che ci unisce tutti, lo sbocciare di questa realtà naturale che è l’amicizia. Succede che tali relazioni si riscontrano anche tra persone di sesso diverso. Si cita l’amicizia che univa Giovanna de Chatal e Francesco di Sales, e qualche secolo prima, Francesco d’Assisi e Chiara.

Si ha premura poi di aggiungere che questo tipo di relazioni sono eccezionali, talmente esse sembrano pericolose ai più. Esse comportano dei rischi reali, nessuno ne dubita. Ma i pericoli più reali non sono quelli che si immaginano. Certamente molte pie illusioni possono introdursi tra due persone che sono rimaste ancora adolescenti. Ma, ugualmente, anche quando la relazione sembra essere solida, essa domanda sempre riservatezza e prudenza. Ciò che vorrei affermare è che i rischi non sono meno, quantunque meno apparenti, tra due persone dello stesso sesso. L sviluppo di una relazione può allora fare apparire, in uno e nell’altro caso, dei ripiegamenti su di sé, delle gelosie, dei comportamenti infantili che manifestano, sotto arie innocenti, una mancanza di maturità affettiva. Il valore personale – cultura, intelligenza, qualità operative e gli stessi impegni spirituali –, può ingannare. In qualche caso, una revisione seria è necessaria per eliminare gli equivochi.

Ma più che nel caso della parentela spirituale, i rischi non devono condurre alla paura e gettare il discrediti su ciò che porta il marchio di un dono di Dio. Esistono veramente relazioni di questo genere che evitano altrettanto la piaga della facile attrazione che quella di un manicheismo inquieto che vede il male dappertutto dove c’è di mezzo il sesso e la carne. Diciamo piuttosto che ciò che dona autenticità a tali incontri. All’inizio essi non sono che frutto d’una ricerca o di una attrazione. Ma a questa attrazione, sempre possibile, si aggiunge, come determinante, il riconoscimento della gratuità del dono di Dio. Non sono io che ti ho voluto, è Dio che ci ha messo sulla rotta l’uno dell’altro e ci ha fatto incontrare. Inoltre, il suo sviluppo non è sempre accettato subito. Più la relazione cresce, più cresce il mutuo rispetto. Due libertà si accolgono da Dio riconoscendo di non avere l’uno sull’altro nessun diritto, in tal modo che la loro intimità li lascia aperti agli altri. Essa dona, a coloro che ne beneficano, di espandersi sugli altri la gioia che è loro. Per tutto il loro essere, più che dalle parole o dalle analisi, lasciano trasparire in loro la presenza di un amore che viene da Dio. Senza paura né puritanesimo, senza compromessi né repressioni, la vita zampilla dal meglio di loro stessi. Come noi spesso abbiamo affermato, la presenza di Dio si riconosce dagli effetti della sua azione. Questo principio si applica a questa relazione. Essa è giudicata buona e venete da Dio per la chiarezza, la vitalità, la semplicità, la fioritura di vita che produce.

In effetti, la riuscita di una tale relazione dipende dalla qualità della vita spirituale in una natura sana. È la penetrazione del mistero di Dio che le dona la sua sicurezza. Il desiderio di Dio racchiuso nella preghiera e fatto passare attraverso le contrarietà, sempre possibili, di ogni giorno. In costoro matura l’umiltà, senza che pertanto si insinui il dubbio sulla relazione stessa. Questa, sì, attraverserà i suoi tentennamenti, le sue purificazioni, i suoi progressi, diventando inesperienza di vita spirituale.

Insomma, tutte le relazioni, la paternità come l’amicizia, dato che attingono dalla profondità dell’essere, portano il segno di un comandamento unico e universale. L’incontro particolare diventa segno, simbolo dell’amore con cui Dio avvolge tutte le creature. Esso ne è una partecipazione. Non si può giudicare l’amore che abbiamo per Dio senza tener conto delle intime relazioni con coloro che ci circondano. L’amore per Dio non esclude l’amore per l’uomo, ma manifesta la sua varietà e la sua profondità. Ciò che custodisce tutta la relazione nella verità, è il modo con cui essa si realizza verso qualcuno guardato continuamente. Risalendo verso Dio in una volontà radicale, essa diventa una presenza di Dio nel cuore della Chiesa, per coloro che ne sono testimoni diventa un pegno della luce che attendiamo tutti dal cuore di Dio.

 

L’amore casto

Questa maniera di vivere una relazione manifesta ciò che è in tutti i contesti umani, la vera castità. Essa, essendo nel cuore prima di essere nel corpo, è la condizione di ogni amore vero vissuto nel corpo. Essa fa di questo uno strumento di una libertà che cresce nell’amore. Nel caso di incontri spirituali, passeggeri o stabili, essa è una garanzia della loro autenticità e ne assicura la fecondità.

In questa ricerca di un’autentica castità, un punto che il padre spirituale non deve dimenticare, è il suo fondamento ultimo, la fede nella risurrezione di Cristo, pegno della vita che aspettiamo, la sua. Senza dubbio gli conviene mettere in pratica ciò che la psicologia gli insegna sulla vita sessuale e le relazioni che segna con la sua impronta; egli non deve lasciare da parte ciò che l’ascesi ci insegna per pervenire al dominio di sé, dei sensi, dei desideri. Ma l’uno e l’altro rischiano di lasciarci nella nostra impotenza di fronte ad uno sforzo pesante e duro, se noi non lasciamo che il Cristo risuscitato, manifesti per mezzo del contatto della sua carne, la maniera divina di amare gli uomini. Non solamente noi impariamo in questa vita terrena con quale cuore libero Egli ci guarda e ama coloro che lo avvicinano, ma noi contempliamo nel suo corpo trasfigurato dallo Spirito la meta di tutta la castità: aprire il nostro corpo totalmente ad un amore personale ed eterno, concreto ed eterno. Io vedo in Lui l’uomo pervenuto infine alla sua pienezza, dove la morte è distrutta e le opposizioni annullate. È nell’esperienza di questo nuovo e definitivo stato che è vissuta nella Chiesa la verginità, anticipazione, dicevano nei primi secoli, della vita eterna. È questa stessa esperienza che dona a tutti gli amori vissuti dai battezzati di diventare sacramenti o simboli della vita eterna.

Ciò che vizia questo ideale dell’amore, qualunque ne sia l’oggetto, è ogni ripiegamento su di sé, nei quali l’uomo arriva ad utilizzare gli altri come  dei puri oggetti. Che questo amore sia vissuto nel matrimonio o nella verginità, esso è più compromesso nella verità da questa ricerca di sé che ogni altro incidente di percorso. Cadute che umiliano, ma che, nella fede del Cristo risuscitato, diventano mezzo per risalire alla sorgente di ogni purezza nell’amore. È questa incessante risalita che rende il cuore casto. Essa ci fa salire verso l’unità nella quale Gesù vive con suo padre e dove Egli trascina tutta la creazione. Tutte le relazioni umane, trasfigurate dalla fede del nostro battesimo, diventano così una manifestazione dell’amore del Padre che ci unisce nel suo Figlio per mezzo del suo Spirito. La vita nella castità, più che un dominio di sé, diventa una trasparenza della vita di Dio in tutto amore.

Vivi dunque ciascun avvenimento, ciascun incontro, in questo passaggio dalla carne allo Spirito. Gli uomini, testimoni della tua maniera di essere, si accorgeranno che questo passaggio che tu non cessi di vivere, lontano da mutilare o arrestare in te la vitalità delle tue potenze affettive, ti conduce al pieno compimento del tuo essere. Ciò che appariva all’inizio rottura è apertura alla vita totale: «Noi abbiamo lasciato tutto per seguirti», disse Pietro. Rispose Gesù: «Non ci sarà nessuno che avrà lasciato casa, moglie, fratello, parenti e figli a causa del Regno di Dio, che non riceverà molto di più in questa vita, e nel mondo che deve venire, la vita eterna» (Lc 18,29-30). Questa rottura permette alla natura di compiersi nel superamento, facendo passare dalla morte con il Cristo, essa ci stabilisce, per mezzo della sua risurrezione, in uno stato definitivo. Così colui che vive un amore casto può far sembrare che nella sua maniera di vivere ha perso tutto, ma in realtà ha guadagnato tutto.

La relazione di accompagnamento può sembrare in certi giorni una avventura azzardata. Essa ci lancia, talvolta senza preparazione, nell’universo dell’affettività. Per avanzarvi, è bene mettere in opera i mezzi umani, psicologia, ascesi, ma prima di tutto lasciamo passare su di noi il soffio dello Spirito creatore. La profondità del cuore casto permette all’accompagnatore di manifestare a ciascuno l’amore con cui egli è amato da Dio e che gli permette di avanzare nella vita dello Spirito. Una affettività sana, solida e aperta, che non si spaventa dei movimenti che sente in sé, e che attinge dall’amore che riceve dallo Spirito la pazienza di passare attraverso i cammini in lei della natura e della grazia.

  Torna all'indice       

 

Capitolo 3: Lo Sguardo

Questo dialogo che si sviluppa nella confidenza e nell’amore ha un oggetto: formare uno sguardo sul mondo così come ce lo dona la fede. Questo sguardo che l’uomo pone su di sé, sull’universo, sui suoi simili, la fede lo rischiara di una luce nuova, quello dello Spirito che si espande attraverso i sensi spirituali donati nel battesimo che si sviluppano con l’esercizio.

Il dialogo spirituale si propone di render familiare la conoscenza che l’esercizio dei sensi spirituali sviluppano nel cuore del cristiano. Esso vuole soprattutto risvegliare lo sguardo del cuore, quello della fede che, attraverso questo mondo visibile, scopre l’invisibile. La Scrittura aiuta alla formazione de questo sguardo che fa camminare nella luce: «La luce del tuo corpo è l’occhio. Se il tuo occhio è sano, tutto il tuo corpo sarà nella luce». La frequenza della Parola di Dio custodisce all’occhio la sua limpidezza e gli fa ricevere nella trasparenza del cuore una luce che sorpassa quella del nostro corpo e della nostra ragione. Attraverso la contemplazione di questa Parola, il credente è introdotto nella visione che Dio ha delle cose, dell’uomo, della nostra storia. La preoccupazione primaria del maestro spirituale è di iniziare il suo discepolo a questa lettura spirituale della Scrittura per educare in lui questo sguardo contemplativo che guarda al di là del mondo e che, senza negarne la realtà concreta, impara a vederlo nella sua realtà globale, essendo questo mondo visibile, agli occhi del credente, il simbolo o il sacramento di quell’altro mondo che deve venire.

 

Lo sguardo del credente

Questo sguardo, formato dalla Scrittura, è uno sguardo totale. Esso si situa al di là delle nostre categorie o delle nostre opposizioni abituali. Esso abbraccia l’universo visibile e invisibile, e ne vede tutta la realtà attraversata dal desiderio dello Spirito.

Lo Spirito, che insegna a leggere la Scrittura dalla Genesi all’Apocalisse, lo introduce nel disegno di Dio. «Dio vide che ciò era buono», dice la genesi. Sguardo di meraviglia che non si arresta là. La vita nella quale si impegna gli fa capire che il mondo nella sua bellezza è chiamato alla trasfigurazione e gli fa vedere la creazione in divenire: «Il cielo e la terra passeranno» dice l’Apocalisse e conclude: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».

È la prima lezione che gli dà questa lettura: questo mondo così bello che non se ne faccia un oggetto da idolatrare. Il suo destino lo chiama a qualcosa di più alto e diverso. Secondo l’espressione misteriosa della Genesi, egli è creato a immagine di Dio. Egli porta in se stesso la rassomiglianza con Dio che lo ha fatto. Egli è chiamato a divenire partecipe della sua stessa vita. Che egli dunque cerchi in Dio la vera bellezza per trasmetterla all’universo, dato che tutto il creato attende da lui la sua propria bellezza. Lo scultore De Chartres ha magnificamente espresso nella pietra questo insegnamento della Scrittura: l’uomo, di cui il corpo ancora non è formato, riposa sulle ginocchia del Creatore: gesto di uno che ama o di un artista, gesto di entrambi. Visione di fede in cui, dai primi passi del suo cammino spirituale, apprende ad amare se stesso. «Tu lo hai coronato di gloria e di splendore», dice un Salmo. «Che prodigio che sono io, che sono le tue opere», dice un altro. E Isaia fa eco: Il tuo Sposo, è il tuo Creatore».

Questa visione di speranza, educa il nostro cuore al destino dell’uomo. Immagine di Dio, egli non può essere che nella libertà. È per questo che Dio corre questo «pericolo». Lei si espone al consenso dell’uomo, Egli «lo lascia nella man del suo consiglio». Non potrebbe essere altrimenti, non c’è vita nell’amore che nel mutuo consenso. L’uomo lasciato a se stesso è invitato a ricevere da un cuore libero la felicità – la gloria –, che è destinata a lui. Che egli guardi l’universo che gli è stato donato, ma non si asserva ad esso come se dovesse trovare in esso la sua ragione di essere. Che se ne serva per rendere gloria a Dio, fissando il suo sguardo sul Creatore dal Quale le cose traggono la loro bellezza. Riconoscendo Dio in tutte le cose, egli diventa partecipe della sua vita, creatore con il Creatore.

È importante che la partenza di una vita spirituale sia preso sul fondamento della fede. Diverse deviazioni e difficoltà rischiano di affossare la nostra visione delle cose. «Dalla fede noi sappiamo che il mondo è stato organizzato dalla Parola di Dio», dice l’autore della Lettera agli Ebrei all’inizio del suo grande capitolo sulla fede dei Patriarchi. E aggiunge: «Ne segue che il mondo visibile non ha preso origine dalle sue apparenze». La fede è un invito ad oltrepassare questo mondo di apparenze e a non lasciarsi trainare in tutto ciò che gli uomini, lasciati alla loro sola ragione, hanno inventato per spiegare le loro origini. Qualunque sia la nostra esperienza nella vita presente, il disegno di Dio appare al credente come un disegno di vita, di bellezza e di amore. La libertà data all’uomo non è una trappola, ma il segno della sua grandezza.

Questa visione ottimista del destino dell’uomo nell’universo va di pari passo con un’altra visione che sembra andare in senso contrario: quella di un mondo di disordine, di odio e di morte. Essa percorre tutta la Scrittura, congiuntamente alla prima, dall’espulsione dall’Eden fino alla caduta di Babilonia: storia dell’uomo nel male e nel peccato. In questo sguardo che la fede vorrebbe donarci sull’uomo, non è omesso nulla, né grandezza né miseria. Da una parte, ciò che l’uomo diviene rispondendo al desiderio dello Spirito; dall’altra ciò che egli è quando la concupiscenza lo blocca su se stesso e sul mondo.

La visione che la Scrittura ci dona dell’uomo nel male è altrettanto luminosa di quella dell’uomo nel bene. L’uomo diventa il fine di se stesso e perdendo, per questa deviazione della sua libertà, il senso delle cose, guasta l’universo. Come dice s. Giovanni nella sua lettera, egli diviene il giocattolo della concupiscenza, «concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi, confidenza orgogliosa dei suoi beni» (1Gv 2,16). Diremmo in termini moderni: concupiscenza del denaro, del sesso, del potere. Di colpo l’uomo viene consegnato al livello delle sue concupiscenze (Rm 1). E non gli è concesso più di «permanere», ma passa «con il mondo e la sua concupiscenza avendo perduto il senso della volontà di Dio» (1Gv 2,17). Mantenendo nel cuore il desiderio di infinito, cerca di soddisfarlo orientandolo verso le cose transitorie come se fossero assolute. Se stesso si fa il centro. Tutta la nostra storia nel male parte da questa deviazione.

Ciò che è da rimarcare è il giusto sguardo della Scrittura sul male. Esso non è nelle cose o negli esseri, ma nello sguardo che li vuole possedere per sé. Il desiderio è buono, in quanto si porta su queste cose che dio ha fatto per la gioia delle sue creature. Ciò che falsa tutto è lo sguardo divenuto concupiscenza: «Chi guarda una donna con desiderio, disse Gesù, commette adulterio nel suo cuore» (Mt 5,27). Il desiderio cattura le persone per farne degli oggetti da possedere o da dominare. Lo scambio d’amore tra Dio e l’universo non è più possibile.

L’uomo è diventato un dio per se stesso. Sempre la libertà, è un «pericolo» e una «chance» di una persona che non può attendere alla sua vocazione che nella consegna all’amore.

Non è da temere che questo sguardo penetrante sul male conduca alla rivolta, al senso di colpa, alla disperazione, turbamenti generati in chi si apre da solo alla riflessione. Perché leggendo questa storia nella luce dello Spirito, la misericordia cammina di pari con la giustizia. Vai al fondo di te, sembra dire la Parola, ma non disperare mai. La libertà che devia, ma che conosce il suo male, è chiamata alla scoperta di un amore di cui non aveva idea. Anche prima della venuta di Cristo, l’AT ci fornisce molti esempi. Il più celebre è quello di Davide: «Io ho peccato contro Dio», disse Davide. Ed ecco che egli diventa il prototipo dell’uomo che viene esaudito al di là dei suoi sbagli. A più forte ragione quando appare Gesù. Egli compie in Sé tutta la Scritture che ci fa conoscere quanto Dio ama l’uomo, senza volere mai perderlo, senza attentare alla sua libertà. Sguardo penetrante che interdice il giudizio, ma rimette l’uomo a Dio e al suo segreto: «O Dio, tu mi scruti e mi conosci».

È a questa visione che il maestro spirituale deve continuamente riferirsi per accogliere le situazioni le più opposte. Essa ci inserisce nel movimento dell’amore senza mai dare occasione all’orgoglio o alla disperazione. È per questo che, nella sua esigenza, essa rimane tonificante. Questa visione conduce la persona a situarsi in tutta verità davanti a Dio. Nei casi più estremi, l’uomo è rimesso alla sua libertà per sempre riconoscere Dio nella sua giustizia e nella sua misericordia insieme. Pascal ha delle pagine ammirabili su questa conoscenza esatta di Dio che la Parola dona all’uomo che esperimenta in se stesso a volte l’infinità dell’amore e la profondità del peccato: «La conoscenza di Dio senza quella della propria miseria conduce all’orgoglio. La conoscenza di Dio della propria miseria senza quella di Dio conduce alla disperazione. La conoscenza di Gesù Cristo è il mezzo con cui noi troviamo e Dio e la nostra miseria… Gesù Cristo è un Dio a cui ci si avvicina senza orgoglio e sotto il quale ci si abbassa senza disperarsi» (Pensieri, 527-528).

 

La visione di Gesù Cristo

È, in effetti, in Gesù Cristo, come ci invita Pascal, che conviene guardare questo mondo dove vive l’uomo, la sua grandezza e la sua miseria insieme. Gesù apre davanti a noi un  cammino di luce che ci conduce fino al segreto delle cose. Non solo ci insegna a guardare e a giudicare nella verità la creazione, ma è Lui stesso, in questo mondo diviso, il Nuovo-Adamo, l’uomo perfetto che, vedendo tutto nello Spirito Creatore, imprime alle cose quel movimento che ebbero alla loro origine. Niente di meglio per formare in noi lo sguardo che nulla arresta, che di contemplare nel Vangelo e in tutta la Scrittura, Gesù Cristo che guarda il mondo con il suo sguardo del cuore per il quale dirà più tardi che egli vede Dio e in dio, tutte le cose.

È l’opera di tutta la vita e della nostra preghiera quotidiana quella di analizzare questo sguardo di Gesù sugli avvenimenti, le cose e gli uomini. Niente in esso è opaco, dai gigli del campo la cui bellezza lo fa risalire al Padre fino al segreto di quella donna che, depositando nel tesoro due spiccioli, ha donato più di tutte i ricchi insieme. Sguardo del cuore che fa riprendere vita a coloro sui quali cade perché esso è lo sguardo dell’amore. La tenerezza che Egli ha per gli uomini è quella del Creatore: «Non impedite ai piccoli di venire a Me. I loro angeli vedono la faccia del Padre». Egli si trova a suo agio con il peccatore che tutti emarginano, perché Egli è preso dalla misericordia del Padre che lo ha inviato per riconciliare e per guarire. Lo Spirito è in Lui per rivelare il segreto dei poveri ai quali appartiene il Regno.  Altrettante categorie divine attraverso le quali si conosce che il Regno del Padre è arrivato: i bambini, i piccoli, i poveri, coloro i quali occorre spingerli per entrare.

Il suo sguardo è quello del Profeta che vede il di dentro delle cose e per il quale il futuro è presente. Egli contempla tutto, sia la rovina di Gerusalemme di cui i discepoli ammirano la bellezza, sia la sorte di coloro che accettano di soffrire per la giustizia. Egli ha conosciuto come presente la gioia delle Beatitudini e pertanto Lui stesso si sottomette alla successione dei giorni e alla sorte che gli uomini gli riservano, gelosi di Lui e senza comprenderlo. Egli conosce l’amarezza e la solitudine dell’agonia fino alla lacerazione della croce. Egli Giuseppe abbandonato dai fratelli, Giobbe divenuto per i suoi oggetto di repulsione, il Servo su cui peserà la perversità di tutti. Egli passa in questa sofferenza e in questa morte, che Dio non ha fatto, e diventa nella potenza dello Spirito, l’uomo vero che riporta la vittoria su tutto il male e manifesta nella sua carne la gloria alla quale l’universo è destinato.

Questo universo visibile dove Egli si immerso, questa carne mortale che ha preso, Egli le vede attraverso il rinnovamento che Egli opera nella bellezza della creazione di Dio. Nei suoi apostoli, in questi uomini che credono in Lui, Egli vede la primizia dell’umanità nuova, quella del ritrovato Paradiso. Presenza nuova nello Spirito dove le persone non si oppongono né si dividono. Egli le vede nell’unità dello Spirito che trionfa in loro come ha trionfato in Lui. Ormai per Lui non c’è che un universo, senza distinzione di quaggiù e lassù, questa creazione che il Padre gli ha donato per farne la sua Sposa e comunicarle così la sua gioia divina.

In questo mondo dove Satana esercita la sua impresa, Egli vede già l’espulsione dell’Avversario: «Io vedo Satana cadere come una folgore. Non abbiate paura, i vostri nomi sono scritti nel cielo. Egli non può nulla su di voi, malgrado i suoi attacchi…». Se Egli guariva da tutte le malattie, non era come un guaritore. Il miracolo che la folla ammira è per Lui la manifestazione dello Spirito che, per il contatto della sua carne divina, rende all’uomo il suo senso autentico e il suo vero essere. Quello sguardo che Egli porta sulla Samaritana è lo sguardo d’eternità di Colui la cui ora è arrivata aprendo il tempio ai veri adoratori in spirito e verità. Questi miracoli e questi incontri, Egli vede in essi il segno che «i campi biondeggiano per la mietitura». «Alzate gli occhi e guardate», disse agli apostoli stupiti di vederlo discutere con una donna. Per Lui essi diventano i testimoni di ciò che «molti profeti hanno sperato vedere e che voi vedete». Di quale veduta si tratta? Di quella che si staglia su tutta la realtà per vederla nella verità della sua creazione. Il suo sguardo creatore che comunica la vita a coloro sui quali si posa. Egli comunica la vita e penetra nel più profondo del loro cuore, Lui, a cui nulla sfugge. Gesù «fissò il suo sguardo» su Pietro per donargli il suo nome e la sua missione, come nel giorno del rinnegamento lo guarderà ancora per rendergli la fede la speranza… Dal Padre con il Quale Egli vive sempre, può ottenere la grazia che nel suo nome domandano i suoi discepoli. Egli conosce in ciascuno i segreto del Padre. È per questo che li invita a vivere «nel segreto». È là che il Padre vede la verità delle sue opere, elemosina, preghiera, digiuno. L’apparenza non gli si impone mai.

È penetrando nello sguardo di Gesù che il credente apprende cosa sia la vera contemplazione. Lontano da essere una fuga nella solitudine, essa è l’unione con lo sguardo penetrante di Gesù che è quello del Creatore, dell’artista, dell’amante che non disprezza nulla, perché ne vede il riflesso dell’eterna bellezza.

 

La conversione dello sguardo

È questo sguardo del cuore che Gesù invita a sviluppare per vedere le cose come Egli le vede. Come tutti i sensi esso si sviluppa con l’esercizio che è una conversione per mezzo della quale l’occhio retto e purificato si sforza di vedere le cose e se stesso nella luce di Dio. Questa conversione è quella della fede. Essa conduce a «fare la verità», a «agire secondo verità» per questo «conduce alla luce» (Gv 3), perché le nostre opere vengano illuminate e «riconosciute come di Dio». S. Giovanni la descrive nel corso del suo Vangelo. Essa conduce alla conversione di Giovanni davanti alla tomba vuota: «Egli vide e credette». È ad essa che Gesù vorrà condurre i suoi ascoltatori di Caraffa che non vedevano in uhi che la carne visibile e rimanevano bloccati all’attrazione del Padre per scoprire lo Spirito nella carne.

Per prima cosa colui che si converte a Gesù Cristo riconosce che non ha in sé la verità, ma che è da desiderare e da ricevere: lo Spirito viene «dall’alto», disse Gesù a Nicodemo, ed occorre diventare bambini per riceverlo. È il Padre che dona agli uomini il suo Figlio, disse ancora, perché essi ne vedano abbino in Lui la vita. Questa luce che Egli ci invita a chiedere, occorre che noi la chiediamo, ma senza ansietà, perché noi sappiamo che la volontà del Padre è di comunicarcela. Riconosci questa volontà e non cessare di desiderare che essa si realizzi. Domandate e voi riceverete. A coloro che gliela domandano perché la desiderano, Egli non manca di donare il suo Santo Spirito.

Perché questa volontà non cessa di realizzarsi, è necessario che il credente cresca nella attenzione, la rettitudine e l’umiltà. In tutto il Vangelo, Gesù denuncia gli ostacoli che rendono ciechi alla luce: cuori distratti, superficiali e ingolfati; cuori preoccupati dei loro soli piaceri; cuori orgogliosi e sprezzanti. La grande preghiera dei Salmi, prima della lettera dell’Evangelista, ci rimette costantemente davanti questi ostacoli che chiudono lo sguardo alla luce. «Fino a quando o uomini, sarete duri di cuore. Perché amate cose vane e cercate la menzogna?» (Sal 4,3). La recita quotidiana dei Salmi ci fa entrare, poco a poco, in questa ricerca della luce e delle disposizioni che ci conducono ad essa. Nulla in questo dell’austera sorveglianza su se stessi che si ingaggia tanto contro l’orgoglio, tanto verso la disperazione. Noi sappiamo che questa consegna di noi stessi si fa a Dio a cui nulla è nascosto, ma che è bontà. In essa non c’è neanche nulla di teso. Essa è simile a quella di Maria che riconosce in Lei i doni dello Spirito. Il suo Magnificat, che sgorga della profondità del suo cuore, mostra ciò che fa questa conversione: essa ci mette davanti a tutta la storia umana vista dalla parte di Dio. È una storia di salvezza e la misericordia di Dio è donata ai piccoli e agli umili e rifiutata ai saggi e ai sapienti, cioè coloro che vogliono tenersi una visione personale del mondo e delle cose. Lontano dai farisei malati della loro saggezza e delle loro virtù, lo sguardo degli umili si apre sulle meraviglie di Dio e non si crede mai in possesso di ciò che desidera. «Ho deplorato che si ignori la sapienza» (Sri 51,19). Solo lo Spirito leva, in chi glielo domanda, il velo che lo separa dalla sapienza.

Questa incessante purificazione dello sguardo esige una certa qualità ascetica che non è una esibizione esteriore. Il suo scopo è di aprirsi all’invisibile, di rendere il nostro cuore permeabile agli appelli dello Spirito e di affinare il nostro sguardo secondo il messaggio delle Beatitudini. Beati i cuori puri, essi vedranno Dio! Le pratiche ascetiche non hanno valore in se stesse. Si ricordi l’episodio del Vangelo dove i discepoli di Giovanni domandano a quelli di Gesù perché essi non digiunano come fanno loro e così pure i farisei. La risposta di Gesù è chiara: «Gli amici dello Sposo non digiunano quando lo Sposo è con loro. Quando lo Sposo sarà loro tolto, essi digiuneranno». È dare il senso a tutta la penitenza: essa ravviva il desiderio di Colui che già a toccato il nostro cuore, di cui ora soffriamo l’assenza. La penitenza impedisce di insabbiarsi nel piacere immediato, rende lo spirito più disponibile, il corpo più agile, lo sguardo più limpido. Ma, soprattutto, essa ha un carattere pasquale e si sviluppa nella luce del Cristo risorto.

Potremo tenere lo stesso linguaggio a proposito di altri esercizi che la tradizione ci ha lasciato: esame dei pensieri, ricordo frequente del Signore Gesù, purificazione della memoria e, in termini più moderni, esame di coscienza e revisione di vita. Altrettanti esercizi che vogliono combattere in noi le radici tutta la concupiscenza e della ricerca di sé nello sviluppo delle nostre facoltà e delle nostre forze di vita. Al di fuori di questo scopo, questi esercizi presi per se stessi, fanno diventare la vita pesante, rattristano il cuore, quando pure non conducano al compiacimento di sé. Essi non servono che per intrattenere in noi il desiderio del Regno e la volontà di amare Dio con tutto il proprio cuore, con tutta la propria mente, con tutta la propria forza e di amare il proprio prossimo come se stessi», volontà che «vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici» secondo l’osservazione di quello scriba che Gesù trovò «giudizioso» (Mc 12,28-34).

Il dialogo spirituale diviene così una educazione allo sguardo contemplativo, non in una fuga dal mondo, ma imparando a portare sulle cose e gli avvenimenti così come sulle persone, uno sguardo di verità, quello del Cristo risorto che vede il mondo nella trasparenza dello Spirito. Questa maniera di vedere è l’opera di un senso, il «senso spirituale» ricevuto al battesimo e che ci fa cogliere la luce di Dio come il senso corporale ci fa cogliere la luce di questo mondo. Esso si sviluppa nell’immersione quotidiana nella Sacra Scrittura e nella grazia dei sacramenti. Questo senso si esercita con la spontaneità di un senso corporale che non ha bisogno di riflessione per dire ciò che vede. Esso è il «sensu fidelium» che nella Chiesa, al di là di tutti gli studi e di tutte le ricerche, accorda al cuore dei fedeli tutto ciò che la Rivelazione ci dona a conoscere.

Prima di chiudere questo capitolo, ricordo un attimo il Fondamento di s. Ignazio, agli inizi degli Esercizi. Esso sarà il legame tra questo capitolo sullo sguardo e quello sulla libertà. Questo testo è una visione della fede sull’uomo e sul suo destino. L’uomo è presentato nel suo rapporto con Dio, da Lui creato per il suo servizio, l’adorazione e la lode. Per attendere a questo fine, è invitato a portare sul mondo uno sguardo che penetri l’opacità delle cose. Sesse hanno un valore nella misura in cui esse sono un cammino verso Dio. Da qui parte la condizione di tutta l’avventura spirituale: un libertà che si lascia portare da un unico e radicale desiderio, quello che avvenga in noi il regno. I lucore si ordina con tutte le sue intenzioni in questa libertà che si riceve da Dio purificando continuamente questo sguardo e i suoi desideri.

Qual è questa libertà alla quale è sospesa tutta la vita dello Spirito e l’accesso al Regno? È ben questa la questione più importante da porre: quella del «pericolo della libertà».

  Torna all'indice       

 

Capitolo 4: La Libertà

L’esperienza insegna al maestro spirituale che nulla si compie nell’uomo senza la conoscenza della sua libertà, anche se questa conoscenza gli fa misurare la propria impotenza e debolezza. Che cosa vuol dire conoscersi? Da questa problematica siamo messi in presenza del mistero di Dio. Tutto nella realizzazione del disegno di Dio sull’umanità è condizionato a questa conoscenza e a questa acquisizione.

Come mettere qualcuno sulla rotta della libertà se noi stessi non ne abbiamo l’esperienza. La libertà non si apprenda nei libri o nei corsi di filosofia. La vita chiama la vita, la libertà suscita la libertà. Ora «molti vivono e muoiono senza aver mai conosciuto la libertà» (Bergson).

Coloro eh cercano di risvegliare una vita spirituale si occupano molto della libertà? Quale legame tra lo Spirito e la libertà? Un prete, ricordando davanti a me il profitto ricavato da in un ritiro spirituale, mi diceva di aver trovato il fondamento della sua vita spirituale. In particolare parlava del senso della libertà che lì aveva acquisito. Niente mi sembra più essenziale. La vita spirituale non può armoniosamente in una persona che nella misura in cui in lui la natura e in essa, la libertà, si aprono agli impulsi della grazia. Ma per quali tentennamenti la libertà fa il suo cammino nel cuore dell’uomo per diventare un campo di esperienza nello Spirito, questo bisogna cercare di spiegare.

 

Libertà e amore

Occorre partire dall’idea che ciascuno si fa della libertà. Ora, ci sono due modi simili di concepire o sperimentare la realtà. Situiamoci entro due situazioni estreme. L’uno ha una paura: non osa decide. Lui sa ciò eh ora vuole, ma come assicurarsi di ciò che sarà tra dieci o venti anni? Molti per questo motivo recalcitrano davanti ad un impegno definitivo. Essi non sono sicuri della loro libertà. Un altro non si pone affatto tali questioni, al contrario, si dice ibero dai condizionamenti del suo ambiente, della sua educazione, delle influenze subite e fa ciò che piace a lui. Ma in questo progetto di libertà egli non pensa che a se stesso. Presso il primo, la libertà è vissuta come dono di sé, ma essa sente la propria fragilità. Presso il secondo essa fugge la paura, ma si ferma su di sé. L’uno vorrebbe uscire fuori di sé, ma non lo può fare; l’altro si sente pronto all’azione, ma per se stesso.

Sono due realtà attualmente legate l’una all’altra: la libertà e l’amore. Ma noi facciamo fatica ad accordarle. Quale deve primeggiare sull’altra? Il possesso di sé per amare o l’amore di sé per essere libero? È dentro questa confusione che io vivo queste due realtà fondamentali di tutta la vita umana. No libertà senza amore, no amore senza libertà. Ma dov’è l’equilibrio tra questi due fondamenti di tutta la vita personale? Dei due, quale è il primo? Un uomo attende alla sua maturità quando la libertà non è una rivendicazione e quando l’amore non è più per lui occasione di semplice piacere.

È da questi due lati reciproci che l’uomo deve apprendere a essere libero e ad amare, perché l’uno senza l’altro conduce alla morte. La dissociazione dei due fa il malessere dell’uomo. Dai due lati, egli ha bisogno di essere liberato o di uscire dalla schiavitù dell’«io». Chi mi renderà capace e libero di amare? Un grande passo in avanti è fatto quando io comincio a rendermi conto non posso rispondere da solo a tali questioni. Io credo all’inizio di capire di cosa si tratti e allora sono condotto dall’istinto o dalla volontà di un «io» che non vuole che se stesso. Occorra che io apprenda dai miei sbagli che io non faccio ciò che voglio, e che invece faccio ciò che non voglio e mi scontro così con un mio limite. È umiltà conoscerlo e scoprire che occorre supplicare un altro per realizzare ciò che io sono. Una supplica sgorga dal mio cuore, quella della preghiera: Signore, Tu hai messo in me un immenso desiderio. Tu mi hai donato la libertà e il bisogno di amare e d’essere amato. Ecco che, dall’inizio, io mi sento povero e malato. Liberami. Insegnami ad amare. (cf Rm 7,14-25).

Questo equilibrio tra libertà e amore, di cui sente il bisogno chi si impegna nella vita dello Spirito, ma di cui confida la realizzazione dalla sua preghiera, è precisamente ciò che Cristo offre a coloro che mettono in Lui la loro fede: «Se il Figlio vi libera, voi sarete degli uomini veramente liberi» (Gv 8,36). Lui solo può levarci il peso che il peccato, in tutte le sue forme, fa pesare su di noi. Da un altro lato, egli dice ancora: «Come il Padre mio mi ama, anch'io ho amato voi, dimorate nel mio amore» (Gv 15,8). Incorporati al suo Corpo, quelli che diventano suoi discepoli, ricevendo la sua Parola, Gesù permette loro di ritrovare in Lui l’equilibrio fondamentale compromesso dal peccato, quello della libertà che si apre all’amore e si lascia trasfigurare da esso. Poiché la condizione della vita umana dobbiamo accettare di riceverla da un altro, da questo Dio che ci ha fatto e che ci ha ristabilito nel suo Figlio nello splendore del nostro essere divino. È in Gesù che tu diventi libero. È in Gesù che tu sei introdotto nell’amore.

La maniera di parlare del Cristo della libertà e dell’amore deve ispirare quella del padre spirituale. Non più che il Cristo, Egli non ha avuto paura di mettere l’uomo davanti alla libertà. Egli non deve diffidare dei progressi che il discepolo compie e dell’indipendenza che raggiunge e deve aiutarlo a non rimanere un perpetuo minorenne. Viene un giorno in cui, come Gesù rientrando nel Tempio all’insaputa dei suoi genitori, tutti i discepoli devono prendere la loro autonomia davanti agli uomini. Quando viene l’ora delle grandi decisioni, quella dell’orientamento della propria vita, è normale chiedere il consiglio dei suoi parenti o amici. Questo manifesta la sua maturità che rimane attenta a ciò che pensano gli altri pensano di lui, ma non per esserne schiavo. Davanti ad una vocazione, davanti ad un matrimonio, il padre spirituale deve, al momento dovuto, sapersi ritirare per «lasciare il Creatore agire con la sua creatura senza intermediario», come dice s. Ignazio. «Tu sospetti da quale parte io pendo, nel mentre che stai prendendo la tua decisione?», ho chiesto una volta ad una persona che aveva facendo con me un ritiro di elezione [=discernimento vocazione]. «In nessuna maniera», mi fu risposto. «Eppure, io avevo la mia idea», io ho aggiunto. Il momento è venuto per me di ritirarmi e di mettermi davanti al ritirante come l’ago della bilancia che solamente l’incontro della libertà con lo Spirito fa pendere d’un lato o da un altro.

Questo ritirarsi, questa «indifferenza», se si vuole, non significa che il maestro si distacca dal suo discepolo. Ma l’amore che gli porta si adegua con l’evoluzione della libertà di questi. Esso diventa l’amore di quei genitori che, conducendo il loro figlio all’età adulta, lasciano a lui stesso il potere di decidere della s au vita. La più bella espressione dell’amore di Dio per la persona alla quale dona l’esistenza, è il rimetterla alla scelta della sua libertà, come quella del figliol prodigo che domanda al padre «la parte che gli spetta». L’accoglienza del padre al ritorno del figlio, manifesta che il suo amore non si è affievolito con l’attesa, ma, come quello di Dio, faccia a faccia dell’umanità, è pronto a tutte le ri-creazioni, nell’oblio del passato. Ci sono dei momenti in cui anche il padre spirituale dovrà ricordarsi del padre della parabola. Nell’allontanamento e nell’attesa dolorosa, l’amore non fa che crescere.

Occorre anche dire come l’esperienza personale che il padre spirituale ha fatto di questo gioco della libertà e dell’amore lo preserva dalla durezza alla quale lo espone una preoccupazione troppo forte di una fedeltà ad una regola. La vita gli ha insegnato ad essere buono: «Ora che io sono passato attraverso le difficoltà che lei sa, non tratterò più i casi che si presenteranno come l’avrei fatto in passato», mi diceva un giorno quel prete che prima non aveva per regola che ciò che aveva appreso in seminario. L’esperienza apre gli occhi del cuore.

Accettazione e superamento

In questa educazione alla libertà, conviene osservare quella che io chiamo a legge delle tensioni. Da una parte, rispetto della natura, tenendo conto del grado di libertà al quale ciascuno è pervenuto; dall’altra parte, custodire sempre il cuore aperto ai nuovi appelli dell’amore. Accettazione e superamento. Questa legge di equilibrio tra questi due fattori si congiunge molte altre che segnano il corso di uno sviluppo spirituale: da una parte nera in te per essere te stesso; dall’altra, esci da te stesso per non cessare di diventare ciò che sei. Così fermezza e dolcezza; amore di sé e oblio di sé; attività e passività; fare o ricevere; sforzo e rilassamento. «Tutte le cose vanno a due a due, opposte le une alle altre» dice il Siracide (33,14 e 42,24).

Non conviene parlare di rinuncia e di sacrificio a chi non sa che cosa sia esistere. Gesù chiama il giovane. Costui non è quel giovane di buona famiglia e ben educato che spesso noi vediamo in lui. Gli evangelisti sinottici lo chiamano «un uomo, qualcuno, un notabile». Due volte sole Matteo lo chiama «giovane uomo». Egli conosce il valore di quei beni che Gesù chiede di lasciare. Egli sa che sono cose buone, a riguardo di esse non aveva mai concepito del male: egli aveva sempre osservato la legge che davanti agli altri afferma di volere. Così Pietro che, malgrado vede quell’uomo andarsene a causa delle sue grandi ricchezze, dichiara di aver lasciato tutto: relazioni familiari, beni materiali. Modesti o non, sono dei beni che conviene stimare. Dio li ha rimessi all’uomo perché ne usi e ne gioisca. Tutta la Scrittura ci insegna a stimare questi beni della terra e i talenti che il Creatore ha ha dato all’uomo perché li sfrutti. Nessun lavoro è riprovevole. Gesù ha passato diversi anni a Nazareth «crescendo e fortificandosi, pieno di Sapienza». Il Verbo, facendosi uomo, ci invita ad amare l’uomo e tutto ciò che è tratto dall’uomo.

La preghiera dei Salmi insegna a «compiere il lavoro delle nostre mani» e «a portare frutto», quando «l’uomo esce per la sua opera», «per il suo lavoro, fino a sera» [Sal 89(90) e 103(104)].

Il direttore che riceve le confidenze sugli appelli a più grandi ideali deve assicurarsi della maniera in cui il discepolo percepisce la natura e la vita. Troppe cause rischiano, davanti all’esistenza, di farci prendere una attitudine di rifiuto e di paura. A chi potrebbe essere, generoso, ma poco illuminato, la libertà rischia di essere percepita come una trappola. Occorre scoprire queste tracce di paura o di cattiva coscienza che un’educazione troppo rigida ha depositato in lui e che hanno sviluppato la paura di far fronte alla realtà. La fede rigetta i tabù. A più forte ragione, essa non esclude nulla di ciò che Dio ha fatto: «Dio vide che ciò era buono». Il male non è nelle cose, ma nella maniera di servirsene. Non è onorare Dio costruire la propria vita sulla fuga, l’ignoranza o il rigetto delle cose. È rendere gloria a Lui amare se stessi e accettare la natura che ci è stata donata.

È nella misura che questa accettazione è reale che si può parlare di superamento. Il danno della deviazione scivola nel cuore dell’uomo il giorno in cui, avendo affermato che tutte queste cose erano, come il frutto del giardino dell’Eden, «buoni, belli e utile per dare intelligenza», egli sente la voce seduttrice: «Tutto questo è per te. Prendete, mangiate, servitevi a vostra fantasia» Allora, al posto di servirsi di questo grande mondo come di un mezzo di comunione con Dio e con tutti gli altri esseri, egli se ne appropria come se ne fosse l’unico padrone. «Tutti fanno da dio nel giudizio: questo è buono e questo è cattivo, affliggendosi o rallegrandosi troppo di questo» (Pascal). È la tentazione universale, la stessa che ha conosciuto il nuovo Adamo. Cedendo ad essa, l’uomo si ferma su di sé, non accettando niente che lo superi: egli diventa la regola della sua felicità. Resistendovi, egli libera con Cristo tutta la creazione e la rende capace di lasciare trasparire la bellezza del suo Creatore.

Tutta la libertà che cresce deve trovare questa «cruna di ago» che apre al Regno. «Miei piccoli figli, guardatevi dagli idoli», disse Giovanni alla fine della sua prima lettera. Pure dei doni migliori, gli stessi doni spirituali, possono da noi essere trasformati in idoli. Si giunge così a negare Dio per mettersi al suo posto. Prendendo per guida il desiderio di sé, l’uomo lo cambia in concupiscenza. Egli vuole servirsene senza riconoscere il Donatore. È questo il peccato fondamentale. Come dice Ignazio, l’uomo «non vuole servirsi della libertà che Dio gli ha donato per rendere omaggio al suo Creatore». Mentre, avanzando nel cammino, noi sentiamo l’invito a vivere e a creare – appello che Dio ci fa sentire nel profondo del nostro cuore –, noi abbiamo da scoprire, mischiato a questo, la voce satanica: «Decidi tu stesso della tua felicità. Sopprimi attorno a te ciò che ti impedisce di esistere». Questa voce, da una parte o dall’altra, tutti la sentono. Secondo che una la respinga o che l’ascolti, diventa un figlio di Dio o un figlio del diavolo «uccisore e mentitore», come dice Gesù in Giovanni.

Tutta la vera direzione spirituale deve destarci da questa tentazione suprema, ingannatrice perché essa fa confondere il bene e il male. Per questo conviene dare a chi si riconosce peccatore, una fede assoluta nella riconciliazione che gli ha portato il Sangue di Gesù, fosse pure il suo peccato quello di Davide, di prostitute o dei pescatori del Vangelo –, oppure fosse un peccato che non potrebbe essere rimesso, perché compiuto contro lo Spirito Santo, come quello quello di coloro che, sotto l’incitamento di Satana che confonde tutto per affermare se stesso principe di questo mondo, accusavano Gesù di liberare gli indemoniati nel nome dello spirito del male. Suprema confusione, ultima iniquità che, secondo Giovanni nella sua lettera, colui che appartiene a Dio non può commettere.

Più che moltiplicare le messe in guardia che turbano le coscienze ancora fragili, il consigliere spirituale deve rischiarare l’intelligenza del discepolo del vero pericolo. Tutte le specie di spiriti malvagi sono sparsi per il mondo, riprendendo i linguaggio di Paolo, al  fine di tutto confondere, di mettere tutto sullo stesso piano, di far passare il bene per male, il male per bene. Per uscire dal questa confusione occorre ascoltare la voce di Colui che calma le tempeste, rende la vista ai ciechi, mentre rimangono ciechi chi pretende avere la luce e tirano dalla loro parte la giustizia.

Così si risolvono le contraddizioni della libertà. Accetta quello che sei, ma supera la tentazione di fermarti a quello che sei. Da una parte perché tu cerchi Dio, sii uomo, dall’altra parte riconosci il Donatore. Non ti appropriare delle cose, altrimenti introduci il disordine nella tua vita. Per uscirne, apprendi la maniera evangelica di vivere, quella delle Beatitudini. Essa ti insegna, in qualunque stato tu sia, nel mondo o lontano da esso, a custodire in tutto l’orientamento del cuore che ebbe Gesù sulla terra. In tutto, Egli visse nella dipendenza dal Padre e non ha cerato che la sua gloria. È per questo, avendo tutto ordinato nei pensieri del suo cuore, ha la libertà di amare fino al punto estremo della morte. Nella vita come nella morte, Egli ha conosciuto questa libertà di testimoniare l’amore. Per non fermarti nelle tue opere, custodisci al seguito di Gesù, lo spirito delle Beatitudini che, in tutto ciò che fai, ti apre all’amore.

 

Grazia e libertà

Rimane, in questa educazione alla libertà, da conoscere una ultima tensione, la più vitale per chi vuole essere fedele allo Spirito, quella della grazia e della libertà. Essa fa passare su tutta la nostra attività il dinamismo dello Spirito che, andando a riprendere l’uomo fino alle sue profondità, fa ritornare la sua libertà verso Colui che gliela ha donata per ricevere da Lui la sua perfezione.

La grazia e la libertà, noi arriviamo ad opporle l’una all’altra, come ciò che giova ad una fosse di detrimento per l’altra. Una giusta esperienza spirituale ci mette, al contrario, nel cuore di quella che la tradizione orientale chiama sinergia, lavoro comune di Dio e della sua creatura. Essa permette all’uomo di scoprire in se stesso una permanente relazione, come ne lucore della Trinità nella Quale le Persone non vanno mai l’una senza l’altra, essendo ciascuna essenzialmente relazione.

In queste condizioni, il direttore deve usare simultaneamente la forza e la dolcezza, a imitazione dello Spirito Santo che certifica la sua presenza nell’unione di queste due qualità opposte. Da un lato, egli moltiplica i consigli di comportamento e di rispetto della natura: prendi confidenza di te stesso, conosci i tuoi limiti e le tue capacità, cerca di riuscire. Dall’altra parte, nello stesso movimento della fede, egli dice: ciò che tu sei, non lo devi essere per te. Riconosci il dono di Dio che si consegna a te per renderti fecondo in Lui, in tutto, passa oltre. Doppia esigenza di tutta la condotta spirituale che è quella della vita stessa e la cui ignoranza è la causa di tante vite zoppicanti dove non si irradia la presenza dello Spirito. La libertà non si è aperta alla grazia. Nella accettazione di questa tensione e del suo dinamismo, io faccio la scoperta sempre più personale di Qualcuno che vive in me e che non cessa di farmi crescere in Lui, Gesù Cristo che «vive nei nostri cuori per mezzo della fede». Egli è all’inizio, nel mezzo e al termine di questo sforzo vitale. Nel sentimento sempre maggiore della mia fragilità e nella coscienza sempre più viva del dono di Dio. Egli mi spinge in avanti, mi fa dimenticare ciò che è dietro di me, «afferrato sempre più» da Lui. Il Cristo che è nel cuore dell’accompagnatore spirituale, fa sì che i due patners – discepolo e maestro –, uniti dalla loro comune ricerca dello Spirito, siano sempre più liberi l’uno in rapporto dell’altro. È lo Spirito che realizza la loro unione. È da Lui che l’uno e l’altro attendono tutto.

Questa presenza riconosciuta della grazia al cuore della crescita nella libertà comunica alle due persone una presenza di pace che permane o una confidenza beata. Essa è quella di cui parla il Cristo nel suo discorso di addio. Essa fa attraversare senza sorprese le agitazioni e le inquietudini della vita. Essa è una pace di una presenza, presenza attiva e creatrice della grazia.

Ho voglia di aggiungere: non aspettarti tutto perfetto in te e cammina tranquillo lasciandoti prendere da questo dinamismo. Vivilo nella fede. Essa ti porterà come un fiume. Tu ti stupirai di passare attraverso condizioni di vita dove tutto la contraddice.

Questo ritorno che si opera in colui nel quale la libertà si lascia lavorare dalla grazia fa sì che ciò che sembrava ostacolo diventi mezzo. Tutto ciò che c’è nell’uomo di passione, di sogno, di gloria, di amore, d’aspirazioni indistinte, che conducono al meglio o al peggio, tutto ciò che porta in sé l’ambiguità del primo peccato, diventa l’offerta che la libertà fa di se stessa alla grazia. Guarda ciò che è avvenuto nei più grandi santi. È la loro stessa natura che è diventata il campo dell’esperienza dello Spirito. Saul, divenuto Paolo, non ha perduto l’ardore che gli faceva perseguitare i cristiani, ma quest’ardore, purificato dall’orgoglio che l’animava si trasforma in quella umiltà che, nella consapevolezza della propria debolezza, gli permette di manifestare la potenza di Dio. I santi del IV° secolo della Chiesa d’Oriente, Basilio e due Gregorio, e tanti altri…, non hanno nulla perso della loro intelligenza e della loro cultura, ma la loro stessa intelligenza è divenuta trasparente alla luce della fede. Di Agostino si dirà la stessa cosa. E potremmo anche ricordare i santi del XVI° secolo, Ignazio o Teresa, l’uno e l’altra figli della terra di Spagna e preoccupati del loro onore. Sono divenuti, afferrati da Cristo, i cavalieri del Regno di Dio. Ciò deve incitare il vero direttore a sfumare quella lotta impetuosa che alcuni vogliono intraprendere contro la natura. Questa lotta, mal compresa, rischia di condurre ad una perfezione aspra e irascibile che, in quanto tale, non è la santità dello Spirito Santo. Presso nei veri santi, la grazia non annienta la natura, ma la trasfigura e la rivolge verso il Regno. In loro, la libertà non cessa di convertirsi in amore.

Man mano che la libertà è assimilata nel dinamismo della grazia, essa si semplifica e cambia di natura. Quando è all’inizio, essa sembrava essere la capacità di scegliere tra più oggetti che si presentassero a lei, essa poi diviene sempre più una capacità di adesione all’unico amore che la cattura e l’unifica. Non si tratta più che di, come dice Paolo (Fil 3,10), «conoscere, Lui, il Cristo, nella potenza della sua risurrezione e nella comunione alle sue sofferenze». Tutto il resto diventa «una perdita», «in riguardo di questo bene supremo che è la conoscenza di Gesù Cristo Nostro Signore» (Fil 3,8). La libertà, che ha spezzato le sue catene, non vuole altro che lasciare esistere in lei l’amore, è l’amore che è diventato la necessità della sua vita. Nuovo stadio della libertà, che è quello di Cristo, libero nel compimento della volontà del Padre nel Quale trova la sua gioia. Così il discepolo, non conosce più che Gesù Cristo, fa di tutto, della sua vita e della sua morte, un atto di libertà. Della necessità ineluttabile della sua morte, conseguenza in lui di una natura limitata in seguito al peccato, secondo la concezione che se ne è fatta, egli ne fa l’atto supremo della sua libertà, la vive con Cristo nel Quale «la morte fu un atto» (Newman) per passare alla vita. 

  Torna all'indice       

 

Capitolo 5: il Tempo

Il grande pericolo corso dal padre spirituale è l’impazienza. Egli vorrebbe che tutto si realizzasse subito. Egli è come quando gli apostoli chiedevano che scendesse un fuoco dal cielo cui cittadini che non li avevano ricevuti. «Voi non sapete ciò che chiedete», disse loro Gesù. Voi non sapete che Dio ha il tempo, Lui l’Eterno, e che Egli dona agli uomini, anche ai più cattivi, il tempo del pentimento e della conversione. Il padre spirituale, se vuole fare il suo lavoro, il lavoro dello Spirito che egli reclama di fare, deve prendere il suo tempo. Deve credere al tempo perché possa germogliare ciò che ha seminato. È la lezione che riceve sia dalla natura che dalla Scrittura. È la lezione che gli dà anche la liturgia della Chiesa e dei sacramenti. Per mezzo di questa pazienza, colui che confida in essa imparerà a prendere il suo tempo, a stimare quel tempo nel quale il Cristo si è inserito e nel quale ha voluto che noi lo raggiungessimo. Una tale maniera di fare eviterà al padre spirituale di diventare quello che potremmo chiamare uno spirituale puro, disincantano, ignorante delle cose umane e del tempo che occorre per fare un uomo, una nazione, una umanità. Così tutto, noi diventiamo la Chiesa di Gesù Cristo, imparando a non essere pressati. È il diavolo che ha fretta. Dio non ne ha, Lui che nel tempo ci dona per mezzo dei sacramenti di vivere l’eternità nel presente.

La germinazione

Per prendere il suo tempo, al padre spirituale dovrebbe bastare meditare la Parola di Dio. Lì riceverà la lezione della semente. «Il Seminatore uscì per seminare»: egli la getta a tutto il vento, rischiando di farla cader sulle pietre o sui rovi. Lui conosce il suo dinamismo è sa che farà germinare il grano al tempo suo. Ma non coglie frutti dal fico quando ancora non è il tempo suo. Occorre rispettare i ritmi della natura.

Questa medesima lezione, la riceve anche in altri luoghi della storia umana. Che si segua lo sbocciare di un amore o di una amicizia, lì si apprende il senso del tempo che richiede di non improvvisare. L’amore scivola lentamente nel cuore, come la semente che prende il suo tempo per germinare. Tutta la realtà umana dice all’uomo che nella creazione, Dio non improvvisa nulla. Simbolicamente viene rappresentato accompagnando la sua opera in sei giorni per pervenire solo all’ultimo alla creazione di colui a cui egli l’ha destinata: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza. Maschio e femmina li fece».

Un vero spirituale sviluppa in sé un senso della natura e della storia degli uomini. In tutti ci sono delle età nella vita spirituale. La storia di ciascuno si dispiega a imitazione della grande storia che va dalla creazione fino al suo compimento ultimo nell’Apocalisse. «Viene il giorno del Signore», dice Pietro ai cristiani scandalizzati di vedere tanto male diffondersi sulla terra malgrado la venuta di Cristo. Non bruciate le tappe che il Padre ha fissato nella sua Saggezza. Lo stesso Gesù ha ridato questa lezione ai discepoli impazienti di vedere il Regno realizzarsi sulla terra: «Voi per adesso non siete capaci di portarne il peso» (Gv 16,12), disse loro all’Ultima Cena. Il cristiano di oggi è altrettanto bisognoso di sentire queste parole quanto i contemporanei di Gesù. A chi si indigna di fronte a fatti sconvolgenti e al silenzio di Dio, si risponderà, come ai martiri dell’Apocalisse: occorre che sia così «fino a quando sarà completo il numero dei vostri fratelli». 

Simile lezione non può essere ricevuta che da una fede crescente, chi dimora alla superficie delle cose non potrà trovarvi soddisfazione. Il grido che segue allo scandalo esige una salvezza immediata. Il padre spirituale deve lungamente – e non solo per la lettura di testi, ma anche nella realtà quotidiana – essere penetrato da questa visione delle cose. Perché deve prepararsi all’attacco molteplice del suo discepolo. Perché, lui gli dice, io non ci riesco? Io non riesco a pregare; io non riesco ad amare; io mi ritrovo ogni giorno con gli stessi difetti, le stesse tentazioni. Questa pazienza che cerca di vivere il maestro passa a poco a poco nel discepolo.

L’uno e l’altro devono vivere a partire dal loro comune battesimo. «Ritornate a ciò che avete ricevuto dagli inizi», dice Giovanni ai suoi cristiani. Per mezzo del battesimo e la fede che esso suppone, tu hai già ricevuto tutto. Il battesimo è un seme. Nel seme tutto è contenuto: l’erba, la pannocchia e il grano. Sin dall’inizio la messe è presente, ma in germe e in speranza. Rimane da lasciare sviluppare ciò è contenuto nel germe. Ritornandoci continuamente tu capirai ciascuna volta un po’ di più di ciò che tu hai ricevuto «dagli inizi».

Questa ripresa quotidiana fa verificare al cristiano la realtà di quella accettazione e di quel superamento di cui abbiamo detto che è una delle leggi fondamentali della vita spirituale. Questo ritorno agli inizi non è una stagnazione. È un invito ad andare di «inizio in inizio fino all’eterno inizio» secondo l’espressione di Gregorio di Nissa ripresa da tanti altri. A qualunque età della vita spirituale noi fossimo pervenuti, potremo sempre intendere quella parola di Gesù a Natanaele mentre questi affermava la sua fede in Lui: «Tu non sei che all’inizio delle meraviglie».

Pazienza per non cessare di avanzare. La legge della semente è una legge di incessante progresso. È per questo che, pur essendo nello stesso tempo un linguaggio di fedeltà a ciò che si è ricevuto alla partenza, il linguaggio spirituale è sempre stato un linguaggio di pellegrinaggio nel tempo, di scoperta, di ascensione. Abramo parte alla chiamata di Dio per un paese sconosciuto. Egli se ne va, di accampamento in accampamento, come più tardi Mosse e il suo popolo nel deserto. Il segno del battesimo assicura al credente del godimento dei beni di Dio, gli rimane poi tutta una vita per scoprire poco a poco i tesoro nascosto che gli è stato donato all’inizio. La grazia appare sempre pi un dinamismo di vita. Noi non cessiamo di ritornarvi per affrontare più arditamente le tappe sconosciute che si presenteranno a noi. «Ricordatevi», dicevano i profeti, non per ripresentare il passato, ma per ritrovarvi la garanzia del mondo che viene e che non è ancora stato rivelato.

La forza del padre spirituale gli viene da questa doppia lezione del germe in cui tutto è contenuto e del progresso che gli si accompagna. Non è sufficiente solo applicare qualche principio divenuto familiare, egli deve cercare di entrare nel granello che ciascuno porta in sé, ma che deve ancora scoprire. Dio non crea in serie. Quel nuovo venuto, egli lo riceve nella sua singolarità e tutti e due devono impegnarsi sul cammino della fede, sempre vecchia e sempre nuova. Là dove il maestro deve superare il discepolo, è nella speranza. È ciò di cui più ha bisogno quest’ultimo. Ancora ai suoi primi tentativi, egli esperimenta spesso la propria debolezza. Egli ricerca una forza esteriore, la parola di un altro che l’assicura che Dio è là e che la sua opera si sta compiendo, anche al di là della consapevolezza che ne ha, «che dorma o che vegli», come dice il Salmo. L’accompagnatore deve tenere ferma la sua attenzione su questo punto segreto che Egli scopre nell’altro e al quale egli riconduce per dargli speranza. Le circostanze sono l’occasione per rivelare questo centro che rimane sempre presente, ma nascosto.

Insomma, in una fede vissuta nel quotidiano, noi dobbiamo mantenere la speranza di ciò che viene. Dio lancia le persone nell’esistenza perché diventino nel tempo quello che esse sono in Lui dall’eternità. Noi dobbiamo solo continuamente sforzarci, fino alla fine. Man mano cambierà l’oggetto dei nostri sforzi e dei nuovi paesaggi s’imporranno al nostro sguardo. In questi cammini avviene come nelle ascensioni in montagna. Più noi ci eleviamo, più il paesaggio si scopre e si ampia, ma esso è sempre lo stesso, lo stesso che ci era stato donato alla partenza. Il padre Mollat, per descrivere la struttura del Vangelo di Giovanni, dice che è una «spirale ascensionale». Attraverso tutti questi ritorni, è sempre la stessa linea che continua e, alla fine, è l’unione tra il mondo e Dio che viene realizzata.

In questa salita, chi è conduce l’altro? Essi salgono entrambi, progrediscono da una parte e dall’altra nella stessa fede. Essi fanno insieme l’esperienza dei perpetui ritorni di Dio. Il padre incoraggia il figlio, ma arriva il tempo che il padre, anche lui affaticato dal cammino o esitante sul cammino da seguire, trova nella sicurezza che deve comunicare al figlio quella di cui lui stesso ha bisogno. Essi vivono così questa compagnia divenuta fraterna dove «noi portiamo i pesi gli uni degli altri».

 

La crescita in Gesù Cristo

Questa germinazione, seme e promessa della messe, noi la viviamo in Gesù Cristo. È vivendo il suo mistero che noi possiamo dare al tempo il senso che esso ha in Dio: una entrata progressiva nell’eternità. Gli spirituali hanno parlato, per descrivere questo progresso, di tre vie: la purgativa, l’illuminativa, l’unitiva. Essi hanno preso questo linguaggio dai filosofi e da Platone. L’uomo, nella sua salita verso Dio, cerca di purificare il suo cuore prima di ricevere la luce con la quale si slancerà verso l’unione. Ma solo Gesù Cristo, vivendo in mezzo a noi e facendoci vivere della sua vita per mezzo dei sacramenti, realizza la perfezione di questa crescita.

All’inizio c’è lo stadio della purificazione dal peccato – la via purificativa. «riconosciamo che siamo peccatori», diciamo all’inizio di ogni celebrazione liturgica. L’uomo non può aspirare alla comunione con Dio e con i suoi fratelli che riconoscendo in sé questo pesa che lo rende incapace di amare. Questa vista che dovrebbe condurlo alla disperazione diviene un mezzo di scoprire in sé l’azione dei Gesù Cristo. «Se qualcuno di dice senza peccato, è un mentitore», dice Giovanni all’inizio della sua lettera. Ecco cosa ci spinge in alto con coraggio. Ma, aggiunge egli subito, davanti a questo peccato inevitabile, noi abbiamo per uscirne fuori, «Gesù Cristo il Giusto che è vittima d’espiazione per i nostri peccati e non solo per quelli nostri, ma anche per quelli del nodo intero». Davanti al mio peccato e la confessione che ne faccio, io conosco il Salvatore universale.

Ecco una assicurazione che la meditazione di Giovanni, di Paolo e di tutta la Scrittura deve fare radicare nel cuore del maestro spirituale per rassicurare il suo discepolo in quel necessario passaggio della conoscenza di sé e del proprio peccato. C’è una buona e una cattiva tristezza, dice s. Paolo. Davanti allo spettacolo del male, è la seconda che rischia di invaderci. Ora, a noi viene detto: conosci il tuo peccato e non disperarti. Riconosci in Gesù Cristo Colui che ti salva. Il consenso che tu doni a questa rivelazione ti porta al di là di tutto per mezzo della grazia che ti giustifica in Gesù Cristo. I dinamismo del tuo battesimo lavora in te, da questo primo stadio, perché dalla conoscenza acuta che tu hai del male, tu prenda coscienza in quali acque salutari sei stato immerso. Ogni volta che ridico con più verità: «Allontanati da me, Signore, perché io sono un povero peccatore», è per aggiungere con più forza: «Da chi andremo, Signore, Tu hai parole di di vita eterna».

Viene il secondo stadio, quello della via illuminativa. L’«allontanati da me, peccatore», non può che essere seguito dall’invito di Gesù: «Vieni e seguimi». A partire dall’abisso dal quale Io ti salvo, tu mi seguirai fino alle profondità dell’amore. Entra nella via illuminativa. Colui che rimane in Lui, come dice Giovanni, dopo che ha confessato il peccato, occorre che cammini nella via dove Lui stesso ha camminato (1Gv 3,6). I discepolo entra nella via della rassomiglianza: «Come Io ho osservato i comandamenti del Padre mio, osservate i comandamenti che io vi dò e sarete miei discepoli e dimorerete nel mio amore». Tutto si realizza nella nostra crescita in Gesù Cristo: noi passiamo dalle tenebre alla luce.

Questo cammino nella rassomiglianza non consiste nel riprodurre un modello, fosse anche quello del Cristo di cui noi raccogliamo le azioni nel Vangelo. Essa ci fa entrare in una perfezione nuova, quella del Padre celeste, che è manifestata in Gesù Cristo, e «che fa alzare il suo sole sui giusti e sugli ingiusti». Essa sorpassa le capacità dell’uomo. Essa è, al di là della fedeltà alla Legge, la trasformazione interiore del cuore operata dallo Spirito Santo e la perfezione dell’amore a cui noi possiamo tendere solamente rinunciando a noi stessi. Noi cerchiamo non la gloria che viene dagli uomini per l’idea che essi si fanno di noi, ma la sola gloria che viene da Dio. La condizione è una nuova maniera di esistere, quella delle Beatitudini: poveri per amare.

L’ideale del direttore, a questo stadio, è di vigilare sulla giustizia della virtù. La sola virtù che conviene è quella che porta il marchio di Gesù Cristo, dolce e umile, virtù che è possibile ottenere solo chiedendola a Dio. «Io chiedo di essere ricevuto sotto la bandiera di Cristo», fa domandare s. Ignazio all’esercitante che contempla i due campi, quello di Satana e quello di Cristo. La virtù cristiana non è tale se non è marchiata dallo spirito delle Beatitudini, quello del Povero che si apre all’amore.

Resta la terza via. Noi la chiamiamo unitiva. Essa è la trasformazione in amore. «non sono più io che vivo, è il Cristo che vive in me» «Dimorate nel mio amore, come Io dimoro nell’amore del Padre». Questo invito impedisce ogni arresto nella compiacenza del termine a cui si desidera giungere. «L trasformazione in amore non è mai finita, perché Dio, che è Amore, è infinito» «L’amore del Signore ci pressa». Esso spinge in avanti. Sull’esempio di Gesù, esso conduce al completo oblio di sé. «Egli ci amò sino all’estremo», fino alla punta estrema dell’essere. Il più piccolo atto di amore compiuto nella grazia di Cristo ha un valore infinito. La via unitiva conduce il cristiano a lasciar irradiare ,nella Chiesa e nel mondo, l’amore che è in Gesù Cristo. L’esercizio della libertà diviene nella persona un incessante consenso alla grazia. E così di seguito «fino all’eterna ripresa».

In questo cammino dove la libertà è impegnata a consegnarsi alla grazia – nella vista del peccato, nello sforzo virtuoso – nell’unione d’amore –, è sempre meno questione di misurare le colpe, di calcolare i progressi, di gioire dell’amore. Il battezzato vive nell’irradiamento di una presenza che si fa sempre più forte, quella di Gesù Cristo. Maestro e discepolo sono tutti e due dipendenti dallo Spirito il cui dinamismo li spinge in avanti. Sei tu. Sono io. Poco importa. Solo Gesù Cristo conta. Tutti e due, ciascuno dal canto suo, prendiamo sempre più coscienza della grazia che ci salva e che ci trascina.

I tre aspetti del cammino spirituale, le «vie», come le si chiamano, non sono tre stadi successivi che percorriamo uno dopo l’altro, come se, passando il primo, noi non dovremmo mai più ritornarvi. Noi vi ritorniamo, man mano che avanziamo. Essi sono legati l’uno all’altro nell’unità della grazia del battesimo. Essi sono lo sviluppo del germe nel quale tutto è contenuto all’origine. Man mano che avanziamo, i movimento della spirale ci fa ritornare a ciascuno di essi, ma ogni volta ad una più grande profondità. Al termine, io dico ancora: «Signore Gesù, abbi pietà di me», ma lo dirò nell’estasi dell’amore.

Ciò che importa rimarcare è che in questa ascensione, la realtà del mistero del Cristo è afferrata in una maniera più o meno viva secondo l’età spirituale alla quale è pervenuto il credente. Un unico mistero, quello di Cristo, è la sorgente di tutta la vita spirituale, ma le età in cui è vissuto questo mistero sono differenti. «Allorquando io ero bambino, io parlavo come un bambino, ragionavo come un bambino. Divenuto uomo, ho smesso ciò che era proprio del bambino» (1Cor 13,11). È lo stesso mistero che è vissuto dal novizio chi inizia e dal mistico che perviene alla meta. La differenza tra l’uno e l’altro è nella maniera di viverlo. Diciamo in un’altra maniera, per tutti la sorgente è unica ed infinita. A tutti viene lanciato lo stesso appello: Venite. Bevete. Ristoratevi. Ma sono diverse le maniere di bere alla sorgente. È conosciuta l’immagine proposta da Teresa d’Avila, quella dei due bacini che si riempiono d’acqua per mezzi differenti: «Per uno, l’acqua è condotta artificialmente da lontano per mezzo di numerosi condotti, un altro è scavato alla sorgente stessa dell’acqua e si riempie senza fatica» (Castello interiore, IV, 2, 1-4). È la stessa acqua che bevono tutti i cristiani. È dallo stesso costato ferito del Salvatore che essi ricevono i sacramenti della vita. Ma che differenti maniere di attingere, secondo che il cristiano non ne usi che di tanto in tanto, o secondo che egli abbia già trovato la sua felicità in Gesù Cristo e ad ogni incontro sacramentale ne gusta sempre più la dolcezza. È lo stesso Spirito che agisce, ma come differentemente!

La guida spirituale, in queste diverse tappe, deve tener conto dell’età spirituale di colui che le percorre. S. Ignazio, dividendo il cammino che propose in quattro settimane, rimarca come ciascuna di esse domanderà più o meno tempo secondo i profitto che se ne trarrà. Alcuni, infatti, vanno più veloci, altri sono più lenti. Occorre adattarsi al ritmo dello Spirito Santo e non voler regolare la marcia una volta per tutte. «Quando più, quando meno», consiglia Ignazio in ciò che concerne gli atti di penitenza. In questi stadi diversi, egli spiega, «Dio, che conosce infinitamente meglio di noi la nostra natura, darà a ciascuno di sentire ciò che conviene a lui». La flessibilità e la discrezione sono la regola suprema. Essa evita la fretta e l’affanno.

Il rischio, nel corso di questa salita, è quello stato che gli spirituali chiamano «tiepidezza». La parola è mal scelta. Essa, infatti, fa pensare un essere senza consistenza né coraggio, un «rubinetto d’acqua tiepida». In realtà la tiepidezza è uno stato di qualcuno che si fissa in un bene che ha fatto, compiacendosene soddisfatto senza cercare più di avanzare. Essa è la negazione del tempo. Non è un pericolo conosciuto dai principianti, ma di chi ha acquisito dell’esperienza e non prova più il bisogno di lasciarsi consigliare. Per farsi un’idea della cosa, conviene rileggere la lettera di s. Giovanni all’Angelo della Chiesa di Laodicea (Ap 3,14-22). Il tiepido appare come chi non ha bisogno di nulla. A lui il giudizio di ogni cosa. Egli dice: io so, io vedo, io sono ricco, qualcosa di simile ai farisei del Vangelo. Egli ha già realizzato delle grandi opere, in qualche ordine che sia, apostolico o spirituale. Questo gli basta. Uomo generoso che è ammirato attorno. È il pericolo delle opere riuscite e delle virtù che si impongono. Come potrà un tale uomo sentire l’invito di chi bussa alla porta per prendere il suo riposo con lui e farlo sedere sul trono di suo Padre? Certuni, nella vita dello Spirito, dimorano come dei grandi adolescenti. Essi diventano per la Chiesa, causa di sclerosi. Essi non crescono più. Essi sono soddisfatti di loro stessi e di ciò che esiste. Al limite, essi diventano come il ricco del Salmo 72(73). Tutto il mondo lo ascolta e «levano la loro bocca fino al cielo».

Il maestro spirituale non deve lasciarsi imporre tali maniere di essere. Deve farlo dimorare nella riservatezza e al momento giusto, mostrare l’esigenza. Egli custodirà la sua silenziosa ammirazione per coloro che, nei progressi che hanno compiuto, rimangono sempre più dimentichi di loro stessi. Orami virtù e azione hanno fatto unità nella loro vita. Dio dimora loro presente, anche se questa presenza non si fa più sentire. Essi irradiano pace, ma loro stessi sono gli unici a ignorarlo. Per loro è ormai così evidente che Dio non può essere altro che Amore, anzi, Tenerezza. Essi tendono alla maturità attraverso il perfetto oblio di se stessi nella misericordia universale. Essi presentono la gioia che li attende, senza mai arretrarsi né fermarsi.

 

Il tempo e i sacramenti

È un aspetto sul quale insistiamo poco nell’accompagnamento spirituale e che, tuttavia, è di una ricchezza infinita, il ruolo dei sacramenti in quanto sono segni «dei tempi nuovi e del nuovo cielo» dove Gesù Cristo ci conduce. Per mezzo di essi, il nostro tempo umano, segnato dalla risurrezione di Cristo, s’apre all’eternità. Per mezzo della sua risurrezione «il terzo giorno», il Cristo ha rotto il ciclo fatale dei nostri giorni terreni che, si succedono gli uni agli altri, conducendoci alla morte. Nella sua carne, simile alla nostra, ma glorificata dallo Spirito, egli è entrato nel Giorno Eterno dove la morte non esiste più.

I sacramenti, per i quali il Cristo ci fa entrare nel suo mistero, sono tutt’altro che dei soccorsi dati alla nostra debolezza. Essi sono dei segni di questo mondo invisibile che Egli dona a chi crede in Lui. Per mezzo di essi, la realtà del mistero è già presente: «Questo è», come alla consacrazione del pane eucaristico; ma questo è donato in tale maniera che noi ne desideriamo il godimento. Per via del segno del sacramento, la nostra vita si situa ormai entro due mondi, il terreno che non dobbiamo fuggire né disprezzare, perché già porta il marchio dell’eternità, e il celeste già presente, al fine di non lasciarci rinchiudere nel terrestre.

Una educazione spirituale che si faccia fuori di questa prospettiva sacramentale sarà sempre incompleta. Essa deve, per essere vera, tenere insieme questi due aspetti del Verbo incarnato. Essa si vive nella carne, e apprende a rispettarla, poiché è la dimora dove risiede il Verbo; essa si vive nello Spirito, perché è lo Spirito che gli dona di partecipare alla trasfigurazione operata in quella del Cristo. Unità profonda che fa di no idei viventi che non hanno sulla terra la loro dimora permanente. Essa custodisce in noi questa fede, di cui l’autore della Lettera agli Ebrei dice che è una «maniera di possedere già quello che si spera, un mezzo per conoscere le realtà che non si vedono» (Eb 11,1).

Questa attitudine spirituale, inclusa nei sacramenti, noi la viviamo nello dispiegarsi della vita liturgica. È questo che fa dire che la liturgia è il luogo per eccellenza dell’educazione del cristiano. «Oggi», ripete essa davanti i misteri che si succedono nel suo ciclo annuale. Natale, l’Epifania, il Battesimo di Gesù, la sua morte e la sua risurrezione, non sono semplici ricordi evocati ad intervalli regolari. Facendo memoria, nei sacramenti, dei diversi misteri, noi entriamo nell’«oggi» di quel tempo nuovo inaugurato dalla Risurrezione di Cristo. In questo atto passato che la celebrazione evoca, io riconosco Gesù Cristo che rompe l’ostacolo della morte, passa al di là del tempo che passa e per mezzo della fede che io ripongo in Lui, mi trascina con Lui nel suo mistero d’eternità. I sacramenti  nel tempo mi fanno già uscire da questo tempo che passa per rendermi presente l’eterno presente. Essi mi fanno prendere la dimensione del mio essere eterno.

Nello stesso tempo in cui essi mi fanno passare attraverso la morte, i  sacramenti spezzano la reclusione in cui la vita presente ci fa permanere. La vittoria del Cristo risuscitato sulla morte è nello stesso tempo la vittoria dell’amore. Essa fa sì che gli uomini si riconoscano in Lui nell’unità del suo stesso corpo. Essa realizza quella interiorità reciproca che fa sì che il figlio è nel Padre e che noi siamo con Lui. Si dice che l’Eucaristia fa la Chiesa. Questo è vero di tutti i sacramenti. Noi viviamo nella speranza la possibilità di riconoscerci fratelli facendo cadere, nella sua carne, tutti i muri di separazione che dividono gli uomini.

All’inizio di questo capitolo, noi parlavamo di germe. È il germe che lo Spirito depose in noi nel battesimo. Ciascun sacramento – e tra essi, quello che lo riassume tutti e verso il quale tutto convergono, quello del Corpo di Cristo –,  ci fa vivere di questa vita dello Spirito, che la nostra cura spirituale cerca di conservare. Questo germe è un germe di eternità. Germe celeste, dove noi incominciamo ad amarci gli uni gli altri di quell’amore eterno in cui il Padre ama il Figlio e, per mezzo di Lui, tutti gli uomini che gli ha donato come fratelli. C’è da dire in qualche parola come la partecipazione ai sacramenti nella liturgia, e prima di tutto, a quello dell’Eucaristia, dona a tutta la vita spirituale la sua tonalità e la sua rettitudine. È certamente uno dei compiti del maestro spirituale mantenere nel suo discepolo questo senso dei sacramenti, senza il quale l’uomo, pur generoso che sia, è lasciato a se stesso in una libertà che non si esercita più nella grazia.

 

Strutture e spiritualità

Nella sua fretta di far avanzare quelli che si indirizzano a lui, il maestro spirituale crede bene spesso di studiare ciò che la tradizione chiama le spiritualità. Questa preoccupazione è necessaria, ma rimane secondaria in rapporto a qualcos'altro che mi appare come primario: assicurare le strutture dell’essere tanto nell’ordine della natura che in quello della grazia. Prima di costruire, dice Gesù, occorre sedersi per domandarsi se si porta con sé ciò che serve a portare avanti il proprio progetto.

Non avendo preso la preoccupazione di questo fondamento, molti rimangono infantili, attaccati a delle pratiche di cui fanno degli assoluti, o cadono in stati che richiedono più una cura psicologica che di un aiuto spirituale. Tali squilibri si riscontrano tanto nelle persone di valore che presso altre meno dotate. Essi non mancano di essere persone la cui la vita spirituale è autentica, ma restano marchiati da uno squilibrio di partenza di cui non hanno preso coscienza. Il caso non è raro nei candidati alla vita religiosa la cui maturità non è stata provata.

Per chiarire ciò di cui stiamo parlando, converrebbe rileggersi tutto quanto noi abbiamo detto riguardo al dialogo spirituale. Tutto si può riassumere in questi due punti: la conoscenza di sé e il superamento di sé, e, nell’uno e nell’altro caso, la libertà che si apre alla grazia. Nella mettere a punto questi diversi elementi, ciascuno è riportato alla sua infanzia e ai suoi primi anni raggiungere le radici naturali da cui hanno preso luogo in lui gli attuali blocchi e condizionamenti di cui una educazione mal diretta l’ha rivestito. È uno dei suoi essenziali di un educatore: aiutare ciascuno a scoprire ciò che porta in sé di promesse. Questa prese di coscienza dona ad una persona una unità profonda. Essa lo fa diventare se stesso, assumendo la sua continuità nel progresso evitando di perdersi nei sogni.

Guardando questa conoscenza, m sembra essenziale accettare le tensioni inerenti a tutta la vita che progredisce. È il superamento a fianco dell’accettazione: «Le cose di DIo vanno a due a due», abbiamo detto citando le parole del Siracide. Abbiamo già presentato alcune di queste tensioni: libertà grazia, sforzo e rilassamento. Potremmo continuare la lista: essere in sé e uscire da sé, essere e avere, fare e ricevere, ragione e ispirazione, e tante altre. Il maestro spirituale è colui che impara a tener conto di queste tensioni per farne un principio di progresso. Il loro equilibrio permette a colui che dirige di non fermarsi su di sé.

Simile equilibrio no è privilegio di nessuna categoria umana. La si ritrova in tutti gli ambienti qualunque siano le qualità delle persone che incontriamo. Ma occorrerebbe fornire un esempio, noi lo domandiamo a quei «piccoli» a cui è stata rivelata la Sapienza del Padre. Non che i sapienti e i dotti siano esclusi, a essi non possono pretendere di sviluppare le loro qualità della natura o della grazia se non nella misura in cui essi sviluppano in loro lo spirito dell’infanzia. Questa deve essere una delle preoccupazioni maggiori del padre spirituale, di non lasciarsi impressionare da tutto ciò che i discepolo porta in lui di promesse umane e divine. Egli deve riconoscerle, ma in tale modo che il loro sviluppo si compia in quello che s. Giovanni Clinico chiama «l’umiltà perfettissima». Questa è la struttura che dona a tutta la vita spirituale la sua consistenza. Essa non ha niente a che vedere con una diminuzione dell’uomo o una paura di vivere, ma essa stabilisce la persona nella verità, là dove le più belle idealizzazioni potrebbero sostituirsi alla realtà.

Quale posto occupa in questo lo studio delle spiritualità? Esso permette, come in tutte le culture, di proteggere lo sforzo dell’uomo evitandogli le illusioni o le ristrettezze dello spirito. Ma per non far cadere a sua volta nella tentazione di credersi nella realtà, solo perché noi l’abbiamo ben formulata nel nostro linguaggio, importa ritornare a ciò che è all’origine di tutte le sintesi: l’imitazione dei santi. Occorre guardare e riguardare i santi nella maniera giusta. Si tratta di compararci a loro, di voler imitare? «Occorre guardarsi bene dal fare delle comparazioni tra noi che siamo viventi e i santi dei tempi passati», rimarca Ignazio negli suoi Esercizi. Tutti fanno il contrario, Ignazio il primo agli inizi della sua vita a Marnosa: «Quello che ha fatto Domenico, quello che ha fatto Francesco, perché non lo posso fare?», pensava egli allora. Tutti i principianti fanno dei simili sogni. «Io ignoravo tutto ciò che era essenziale», continua Ignazio. L’importante non è il comportamento esteriore, le opere di penitenza, ma quella lenta maturazione dello Spirito che conduce ciascuno a realizzare il disegno particolare di Dio su di lui, «la discrezione che è regola di tutto», conclude Ignazio.

Mettersi alla scuola di un santo, è scoprire in lui l’azione imprevedibile di Dio, è scoprire le meraviglie che opera la gratuità del suo amore. Ammirandolo, io entro in un universo personale, dove ciascuno è segnato da un qualcosa di particolare, anche se si prende posto nella folla degli eletti dell’Apocalisse. Più che ad imitare, noi siamo invitati ad ammirare la risposta di ciascuno agli appelli dello Spirito.

Lo studio delle spiritualità diverse, cominciando con lo studio dei santi che furono alla loro origine, m immerge nella tradizione vivente della Chiesa e nell’azione che lo Spirito non cessa di esercitarvi. I santi sono per me la prova della varietà dei doni di Dio e essi mi assicurano circa la grazia che Dio non cessa di spandere in coloro che confidano nella sua azione.

Il danno sarebbe se la conoscenza di tale scuola particolare mi ferma ad essa, come se fosse l’unica. Tra tutte quelle esistenti, essa è per me quella nella quale Dio mi impegna per trovarvi il cammino della mia libertà che si apre alla grazia. Io vi trovo le strutture della persona di cui ho bisogno per non vagare a caso e non essere sconcertati per ciò che di inaspettato si trova nel cammino. Essa rappresenta, da questo punto di vista, qualcosa di unico e di necessario.

Ma ciascuna scuola non è che un mezzo. Uno non va sempre a scuola. Viene il momento di esercitare ciò a cui siamo stati formati, la libertà di incontrare Dio in tutte le cose. Essa è una via per condurci al di là di tutte le vie, là dove tutte le vie convergono verso l’unica via che è Gesù Cristo. Essa è una pedagogia della libertà che agisce per sottometterla alla grazia e aprirla nella Chiesa all’universalità dell’amore.

In ciascuna spiritualità io vedo il termine dove tutte si ricongiungono. La facilità che ho di considerarle le une dopo le altre, i gusto che ho di leggere la storia del loro sviluppo nella Chiesa, non mi conduce ad un eclettismo che mi le farebbe sorvolare senza attaccarmi a nessuna. Ciascuna spiritualità sveglia in me l’ammirazione davanti alle espressioni diverse del mistero indicibile. I metodi spariscono come le immagini e le rappresentazioni davanti alla rivelazione dell’unico amore. Solo la considerazione della mea fa superare gli ostacoli, «saltando per le colline», con lo sguardo lucido della gazzella e la leggerezza del giovane cerbiatto, per parlare alla Cantico dei Cantici.

Chi, nel campo dello Spirito, può considerarsi come arrivato? Chi lo pretenderebbe, mostrerebbe di non sapere di cosa si tratti. Chi è formato si considera sempre come non essendo mai arrivato, come avendo sempre qualcosa da scoprire. Ciascun giorno gli fa fare il guadagno dell’esperienza della sua povertà e della sua ignoranza, nella certezza sempre più invadente della meta verso la quale tende. La vera spiritualità non è quella le cui solide strutture mi permettono di andare al di là di lei stessa e di noi stessi? «Tu non sei che all’inizio delle meraviglie», dicevamo con Gesù all’inizio del capitolo. Parola che possiamo ripetere chiudendolo. 

 Torna all'indice       

 

 

Capitolo 6: La prova

La libertà, ideale di vita, si scopre solo a poco a poco ciò che essa veramente è: una capacità di donazione e di amore. Essa si sviluppa come un germe. Essa deve, per crescere, adattarsi al tempo e alle prove, al tempo che diviene prova.

Cosa è la prova in effetti? È l’avvenimento in cui la libertà si apre all’amore e lascia passare la grazia. L’avvenimento, secondo che sia vissuto nel dono o nella ribellione, manifesta l’intimo di ciascuno. Che sia felice o triste, piccolo o importante, l’uomo rifiuta di chiudersi lì, di rimanere incastrato nella prova. Egli cerca di superarla per trovarvi un senso. Da questo punto di vista, la ricchezza è altrettanto una prova come la povertà. Il giovane del Vangelo o il ricco della parabola fanno dei loro beni un assoluto. In loro la libertà si chiude all’amore. Il senso è perduto. Zaccheo vi trova la sua salvezza: «Io dò metà dei miei beni ai poveri», dice, e Matteo, lasciando il suo banchetto, si mette a seguire il Cristo. La libertà in loro si apre all’amore. Il senso è ritrovato. Sicuramente, quando noi parliamo di prova, noi pensiamo a degli avvenimenti dolorosi. Ma tanto in quelli che negli altri, ci si può chiudere. Non se ne cerca più il senso. Perché l’avvenimento diventi prova della libertà, chiede di essere superato per lasciarne emergere il senso. E il senso è l’amore. L’avvenimento, vissuto in una maniera o in un’altra, diventa i test – la «messa alla prova» – che manifesta l’intimo del cuore. L’uomo si apre ad una Presenza che lo coglie dove lui la rifiuta.

Così la ferita al cuore dell’uomo che provoca la prova gli pone una domanda, come a Giobbe: «Perché?». Accettata, questa ricerca della risposta diviene una condizione di purificazione e di crescita. Alla luce della Parola, la prova costituisce una educazione di tutto l’essere in vista della trasformazione. Essa non prende d’altronde il suo senso completo che quando raggiunge la prova che Cristo ha voluto conoscere, per essere con noi sulla terra e portarci con Lui nella grazia.

È per custodire il senso esatto della prova in una libertà crescente che l’aiuto dell’accompagnatore è particolarmente necessario. Essa ha il suo posto tanto nei dettagli della vita quotidiana che nel punto della morte per custodire nel cuore il desiderio e la speranza, come li sviluppa in noi la lettura della Parola. 

 

La messa alla prova

Stretta è la via che conduce alla cruna dell’ago dove, colui che è messo alla prova per un avvenimento scopre il Regno e non si lascia morire nell’esperienza. È la via della fede nella quale il Cristo ci ha preceduti. Nell’avvenimento inevitabile essa conduce a scoprire la libertà.

Come è facile prendere delle vie inverse che conducono a dei blocchi: la rassegnazione, la rivolta, la durezza. L’inevitabile è guardato come volontà  di Dio, come se Dio possa volere la sofferenza delle persone che ha fatto con amore. La sofferenza ci appare come un castigo per delle colpe a noi ignote. «Cosa ho fatto a Dio per essere trattato così?». È il ragionamento dell’amico di Giobbe: sottomettiti al giudizio di Dio. Egli è giusto, puro e forte. Nessun uomo può rivendicare giustizia davanti a Lui. Quanti credenti sono tentati da questa maniera di dire. Giobbe non può accettarla, il cristiano neppure. La ribellione, benché comprensibile, non conviene neppure. Giobbe è tentato da essa. Essa è normale nella bocca di colui che, senza comprendere, viene schiacciato dal dolore. Egli non si permette di accusare Dio e lo lascia al suo mistero. Questo non significa che egli cerchi di irrigidirsi nella disposizione eroica dell’uomo che vuole rimanere padrone di sé davanti alla fatalità. Altra tentazione che provano le persone forti e generose. Esse serrano i pugni. Soffrono da eroi. Giobbe rimane umano nella sua sofferenza.

La prova mette l’uomo davanti ad una situazione incomprensibile. Mistero che la sua mente non spiega. Ogni volta che egli è provato, viene fuorviato. Il Cristo non ha dato spiegazioni. Ma, essendosi messo nella situazione umana, egli è giunto fino a soffrire la morte. La morte è divenuta la prova – la sua prova – per la quale, all’interno della morte, Egli passa alla vita ed esplode nella gioia. Questo è tutto quello che Lui ci ha detto: «Occorre per il Cristo soffrire per entrare nella sua gloria». Vi è una meta della sofferenza che non può essere raggiunta se non passandola con Cristo e vivendola nella fede.

La questione posta con la prova, noi l’esprimiamo nelle situazioni estreme. In quelle che non ha scelto e che sono contrarie alle sue aspirazioni alla vita e alla felicità, l’uomo è lasciato a se stesso, alla sua fragilità e alla sua solitudine. Egli vive in mondo incomprensibile. Ma la vita quotidiana, senza metterlo subito in queste situazioni estreme delle quali l’ultima è la morte, diventa presto per lui una prova. Egli non può fare ciò che vuole. In sé e attorno a sé, egli riscontra ogni giorno il limite e l’ostacolo. Pertanto, il desiderio della vita cresce sotto il segno della morte. Egli tenta di evadere con la distrazione, ma non può scappare.

I mistici hanno parlato di «notti» della fede. Per loro, esse hanno questo doppio carattere: di essere dolorose e di condurre alla luce. Nella accettazione della vita di tutti i giorni, vissuta come una prova, posso ritrovare questo doppio carattere della notte dei mistici. I miei desideri vi sono contraddetti, mi scontro con la necessità, con l’inatteso. Questo cammino quotidiano doloroso può diventare, se io lo prendo bene, un cammino di luce. Come conoscere me stesso con le mie possibilità e le mie mancanze, e prendere i lposto che mi conviene, senza incontrare l’ostacolo? La prova è un test di ciò che io porto in me di miserie, ma anche di ricchezze. Che meraviglie di saggezza e di bontà comunicano all’uomo la sua sofferenza! Una lotta è necessaria. Vissuta nella tranquillità e nella pace, essa fa crescere colui che accetta di affrontarla. Attraverso la doppia tentazione della rivolta o della rassegnazione, l’uomo trova, come il popolo pellegrinante nel deserto, una terra che gli è promessa. La forza dello Spirito lo apre alla speranza. Essa gli fa dire in certi giorni la grande parola di Giobbe. «Io so che il mio redentore è vivo» o essa raggiunge già quella di Gesù: «Il Padre è sempre con Me». Come se la prova, nelle sue svariate forme, posando in noi le sue angustianti questioni ci risveglia ad un altro mondo.

 

Una educazione

È ben così che la Scrittura ci presenta la prova: una educazione. Si conoscono le parole con cui, nel Deuteronomio, Dio spiega al popolo i su cammino nel deserto: «Quarant'anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che l'uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant'anni. Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te» (Dt 8,2-5). È la parola della fede davanti alla prova: è una educazione a doppio fine: ti fa conoscere che Dio è sempre con te e ti fa dirigere il tuo sguardo verso un’altra terra, quella della Promessa. È il linguaggio che gli spirituali hanno ripreso a loro modo. Non è affatto quello della rassegnazione, ma quello della educazione: fare l’esperienza della grazia, nel passaggio tra le consolazioni e le desolazione; svegliare il desiderio mantenendo la persona nell’umiltà che non deprime, perché Dio è con noi. Come diceva un vecchio autore, Diadoco di Fatiche, questa desolazione educativa «porta nel cuore il timore di Dio, le lacrime e un grande desiderio del bel silenzio». Nello stesso tempo, aggiunge Diadoco, la nostra libertà vi trova un’occasione di affermarsi nel consenso che essa dona a Dio: «Dio le permette perché la nostra libertà non sia completamente incatenata dai legami della grazia». Ritroviamo il linguaggio della libertà: nella prova che Dio permette, Egli si indirizza all’uomo per fargli fare l’esperienza della sua libertà e invitarlo ad acconsentire alla grazia e a riconoscere la sua presenza.

In questo passaggio per il deserto, noi potremmo riprendere il linguaggio delle «notti». La libertà lì conosce le spoliazioni di tutte le sorti di cose possibili. Non resta davanti che il cammino unico e afoso avendo giusto quello che è necessario per sussistere. Avendo del pane da mangiare o il vestito da indossare, essa deve pertanto riconoscere che non manca del necessario. Solamente essa è invitata all’attenzione del «cuore» e ad ascoltare la parola di Dio che  la fa vivere. Educazione dove le cose si mettono al loro posto e si relativizzano, come nei consigli di Gesù sulla montagna: «Non affannatevi. Il Padre nutre gli uccelli e veste i gigli. Cercate dunque dapprima il Regno e la sua giustizia». Allora la scelta è possibile, la libertà è invitata ad acconsentire. È a qualcuno – a un Dio che l’ama e la conduce – che essa rimette la sua fede.  Qualcuno si staglia davanti a lei per invitarla all’amore. Le prove che passa si illuminano di questa comprensione. Essa è davanti a Qualcuno che si rivela come Padre e forma in noi la s au rassomiglianza.

Così il credente non schiva affatto la questione – o lo scandalo – posto dalla prova. Lei è invitato a guardarla in faccia e ad accettarla così come. Davanti a coloro che gli chiedono: «Dov’è il tuo Dio?», davanti i benessere dei ricchi senza scrupoli, egli non ha letteralmente nulla da dire. Per molto tempo «egli cerca di capire». Non è negato nulla della realtà: né il male in cui è immerso, né Dio che rimane l’Unico. «Se io avessi parlato come loro, avrei tradito la razza dei tuoi figli». Occorre attendere il giorno quando, entrando nella dimora di dio, egli comprenderà: «Io non capivo, ma io ero con Te… Io sono sempre con te… Tu mi hai condotto secondo i tuoi disegni» [Sal 72(73)]. La sua libertà cresce nella fede, straziato per la questione del male, egli giunge a  credere all’Amore. La prova di tutta la vita umana è divenuta per lui la prova della fede, una educazione all’unico Amore.

Una nuova purificazione – una nuova notte – attende la libertà in questo cammino della prova, l’entrata nell’imprevisto, in ciò che l’uomo non può immaginare, né attendere e che, tuttavia, gli è promesso: Ciò che l’occhio non ha mai visto, ciò che l’orecchio non ha mai ascoltato, ciò che mai è entrato nel cuore dell’uomo, tutto questo Dio ha preparato per coloro che lo amano». È il superamento di tutto ciò che la sapienza umana possa costruire e di ciò che la libertà possa intraprendere. Noi siamo davanti alla prova di Abramo e di tutti i credenti citati dalla lettera agli Ebrei, prova della «santità», proposta in Gesù, e che ci fa passare al di là del il mondo visibile per riposare, per esperienza, nella sola parola di Dio. Abramo è il tipo del credente che è passato per questa prova. Avendo ricevuto la promessa dell’impossibile – la nascita di Isacco fuori delle leggi della natura e la promessa dell’eredità delle nazioni –, egli ebbe «fede nel Signore e per questo il Signore lo considerò giusto». È allora che egli fu preso dal torpore e un terrore e una spessa tenebra caddero su di lui. È in questa notte oscura che il Signore conclude la sua alleanza con Abramo. È per questa prova della notte che il credente può scoprire l’eredità che Dio gli promette e la terra dove Dio vuole condurlo, «ciò che non è mai entrato nel cuore dell’uomo».

Maria si situa in questa linea ben al di là di tutti i credenti. Occorre parlare di «notte» a suo riguardo? Ella ha conosciuto, dall’Annuciazione fino ai piedi della croce, la prova suprema della fede che crede all’impossibile e nella notte scopre la vita. Ella è al cuore della vita spirituale dei credenti e della Chiesa, a causa del superamento di tutta l’intelligenza e di tutta la logica, e del suo acconsentimento alla Parola. Questo la conduce attraverso la perdita di Gesù al tempio e il suo passaggio a Cana, fino ai piedi della croce dove, stando in piedi, ella riceve la rivelazione della sua fecondità universale, attendendo la gloria della Risurrezione.

 

La prova di Gesù Cristo

Il passaggio in queste molteplice prove come altrettanti notti purificatrici non può avvenire senza un costante ricorso a Gesù Cristo come esempio e come via. Lui, il primo, è passato per questa consegna per entrare nella gloria. È guardandolo nel quotidiano della sua vita e nell’atto supremo della sua morte che noi comprendiamo cosa sia questo passaggio della libertà attraverso la prova per sboccare nella luce totale.

Lo posso contemplare nel suo stato ultimo, il combattimento dell’Agonia. Egli è l’uomo nella sua ultima prova. Solo nella sua sofferenza e solo davanti alla morte. I suoi amici dormono, non comprendono ciò che sta passando. Egli è solo davanti a suo Padre e suo Padre tace. Questa agonia – combattimento supremo – secondo l’etimologia della parola –, è il caso tipo di quelle situazioni nelle quali, un giorno o l’altro, ogni uomo è sottomesso, dove davanti all’incomprensibile egli è solo. «Sono le nostre sofferenze che porta su di sé», «i nostri dolori dai quali è schiacciato», dice di Lui Isaia nel ritratto del Servo sofferente.

Punto estremo di uno stato singolare, diciamo noi. Esso è, nello stesso tempo, una porta universale. Questa solitudine in una sofferenza che non è simile ad alcuna altra, raggiunge la solitudine di ogni uomo. Gesù è solo ed è con tutti. Ciò che nella mia prova, vivendola con Lui, mi permette di raggiungere tutti gli uomini.  Come è pericoloso isolarsi nella sofferenza. Rabbia, orgoglio, ripicca, io posso ritrovare questi sentimenti nelle prove più acute. Gesù vivendo la sua, spoglia la nostra di tale ripiegamento su se stessi. In questo abisso di solitudine, Egli è i fratello universale, essendo più che mai rivolto verso il Padre, proprio quando sembra abbandonato dal Padre. E mentre è nella notte della solitudine, non si rassegna, non si rivolta, non si indurisce. Gesù non ha nulla dell’eroe. È per questa ragione che chiede l’aiuto dei suoi più intimi, e, attraverso loro, il nostro. Egli ripete allora, instancabilmente, la stessa preghiera e fa di essa, ciò che essa era già in speranza, la preghiera di tutta l’umanità.

Gesù non ha nessuna risposta da dare alla nostra questione se non Lui stesso. Egli non spiega, agisce, si alza e va. Egli è il puro consenso, non è possibile per Lui scegliere altrimenti, impegnato com’è per tutti i suoi membri. Egli non ha più la libertà ed è supremamente libero. È l’uomo perfetto nella libertà che Dio gli dona per acconsentire all’Amore. E, di fatto, è all’Amore che Egli acconsente, deciso a viverlo fino all’estremo delle sue forze umane. È affinché questo suo atto unico non sia perduto per noi,  che «prima di entrare liberamente nella sua Passione», Egli istituì l’Eucaristia, memoriale permanente dell’atto supremo di libertà che fa passare l’uomo alla gloria, quando egli vi consente. Tutte le nostre Eucaristie rilanciano ciascuno di noi nella speranza della gloria, allorquando siamo feriti feriti dalla sofferenza.

Introdotti dal Battesimo nel mistero di Gesù, l’uomo non può chiudersi nella sua sofferenza. La fede gli rivela che in lui opera una misteriosa trasformazione, quella del passaggio dalla morte alla gloria. Impotente ad uscire da se stesso, egli vive la sua vita e la sua morte in Gesù, sapendo quello che lo Spirito opera in tutti coloro che reclamano dal Figlio unigenito: «Padre, glorifica il tuo Figlio». «Per mezzo del corpo di Cristo di cui egli è membro vivente, entra nel movimento della libertà di Cristo.

Non si può dunque parlare di prova con il Cristo, senza parlare della gloria dove egli ci fa passare con Lui. Se è necessario che egli porti la prova con noi e che muoia, è per essere con noi e farcene uscire. Parlare della croce senza parlare della gloria, è falsarne il senso. Gesù lo dice chiaramente, quando s. Giovanni  parla della sua morte. È per Lui l’ora della gloria, l’ora della fecondità, della vita. Ciò che è rimarchevole è che Gesù non insiste tanto sull’annientamento quanto sulla fecondità. Spesso, invece, noi non riteniamo che il primo, cioè l’invito a scomparire. Questo annientamento conduce a una rivelazione, a una esaltazione e un’attrazione su tutto l’universo. È tutto l’insieme delle parole di Gesù che bisogna prendere. Esse donano alla prova vissuta nella fede il suo giusto senso: l’entrata nella gloria. La croce è gloriosa. Il Cristo, quando si manifesta ai suoi dopo la Risurrezione, porta i segni della sua Passione come altrettanti trofei di vittoria. Così i martiri dei primi secoli vedevano nelle prove la continuazione della glorificazione di Gesù che diveniva la loro. «Non impeditemi di venire alla luce», dice Ignazio d’Antiochia ai cristiani che volevano sottrarlo al martirio. E aggiungeva: «È allora che diventerò un uomo».

È ben così che appare il Cristo: Egli è l’uomo perfetto, Colui che ha sperimentato tutto il male e tutte le prove, Egli non fa che precedervi: «Iniziatore della fede, Egli la conduce al suo compimento». Perché «rinunciando alla gioia che «in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l'ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio» (Eb 12,2). In tutti questi testi, non spiegazioni per soddisfare il nostro desiderio di comprendere, ma messa in presenza di Gesù Cristo che ci attira. Egli stesso è la spiegazione e deve bastarci. Guardandolo sulla croce, il costato trafitto, io ho compreso, sembra dire s. Giovanni. « Colui che ha visto vi rende testimonianza affinché voi crediate». E cita il passo di Zaccaria: «Volgeranno lo sguardo verso colui che hanno trafitto» (Gv 19,35-37).

Ormai è nel Cristo in cui egli vive che il cristiano attraversa la prova. Non si attacca ad essa per guadagnare dei meriti. Nella contraddizione che sperimenta, si eleva a Dio per essere condotto per mezzo di Lui alla gloria. È il rovesciamento completo delle nostre prospettive ordinarie, nella quale si produce una liberazione e una salita verso Dio. Se noi diciamo con Paolo che noi completiamo nella nostra carne ciò che manca alle sofferenza di Cristo, non è che per i nostri propri meriti possiamo fare di più e meglio per la salvezza degli uomini, ma è perché noi offriamo a Lui la nostra carne dove regna ancora il male e il peccato perché Egli manifesti la gloria della sua Risurrezione. La sua opera di liberazione iniziata in Lui si continua in noi che gli apparteniamo.

Negli eccessi dell’amore che avevano per il Cristo, alcuni santi hanno desiderato soffrire e morire per Lui. Desiderio che rischia di essere mal compreso, quando un amore simile non ha afferrato coloro che vorrebbero tenere un medesimo linguaggio. Il dolorismo che così si manifesta sarà il segno di un ripiegamento su di sé o di una sensibilità mal regolata. I segni che tali desideri vengono dallo Spirito sono la dolcezza, l’umiltà, l’apertura del cuore. La «tristezza», se essa è «di Dio», secondo la distinzione che ne fa Paolo, non ferma l’uomo su se stesso. Egli si dimentica di sé nella sofferenza e se conosce amarezza, ripicca o disgusto, supplica Dio di cambiare la sua amarezza in dolcezza e pace. Tali movimenti interiori manifestano, come dice il p. Lallemant non si possiede «ancora una virtù capace di resistere alla prova delle croci». Bisogna lavorare dapprima alla pace dell’anima che apre il cuore alla misericordia. È solo Dio che suscita tali desideri, così come ha condotto Cristo.

In questa salita, la morte il cui pensiero fa orrore al nostro essere di carne, si rischiara poco a poco. Essa diventa necessari, come per Paolo, per essere con Cristo. Il desiderio della morte sarebbe il segno di un deragliamento mentale, se corrispondesse ad una fuga dalla vita o ad una qualunque volontà di farla finita. Dei santi – Paolo,Teresa, Ignazio – l’hanno desiderata, ma essi hanno custodito fino alla fine la loro vitalità profonda. Le lettere scritte da Paolo nei tempi precedenti la sua morte sono sufficienti a convincerci di questo. Il suo desiderio lo porta verso l’incontro con Cristo, ma crede meglio rimanere sulla terra per il bene dei suoi. Ugualmente, Ignazio e Teresa, pronti a rimanere sulla terra fino alla fine del mondo, se la gloria di Dio fosse più grande per questo. Tuttavia « i tempo di vederci», dice Teresa. I tempo che cada questa tunica di pelle, per essere trasfigurati con il Cristo nella gloria. La farfallina esce dalla sua crisalide. E Ignazio, avendo parlato d’affari come se nulla fosse, passa in una notte, e solo, dalla morte alla vita, lui che non poteva parlare della morte senza piangere di gioia.

«Essere umiliati con il Cristo», «soffrire per Te» o «soffrire o morire», espressioni che sembrerebbero riprovevoli presso molti, mentre presso coloro che lo Spirito ha afferrato,  esse accompagnano un più grande desiderio di servizio e di amore. La fede, vissuta nella prova, li conduce alla gloria.

In questa maniera di vedere, occorre raccogliere tutto ciò che la Chiesa ci dice sotto il vocabolo di obbedienza. Essa non si comprende che nel desiderio di non più appartenere a se stessi e di lasciare che il Cristo possa prendere in Sé tutto ciò che Egli ha depositato in noi di intelligenza, di volontà, di capacità di essere e di amare. Essa non significa una fuga dalla vita o una frantumazione del proprio essere, ma un nuovo passo verso la liberazione. Per questo l’obbedienza che vuole essere radicale non è autentica che presso persone piene di vita e di capacità d’amare.

 

L’aiuto nella prova

Le riflessioni fatte sul modo di vivere la prova, in particolare quelle che abbiamo fatto sull’obbedienza o sulla morte, mostrano quanto è necessario, nel cammino di fede, l’aiuto della direzione fraterna. Molti pericoli minacciano la strada: ricerca di sé, spirito di falsità, paura di vivere, illusioni di tutti i generi. La sofferenza che sovviene, per le reazioni che provoca, rivela in ciascuno il meglio o il peggio. E il peggio è mischiato al meglio. Con quale prudenza occorre accogliere tutte queste espressioni di una fede che si vuole generosa, e che riprende le forze nella sofferenza. L’ammirazione che talvolta suscitano tali espressioni non devono mai levare al direttore la sua lucidità.

Il ruolo di maestro in materia è paradossale. Egli deve da una parte amare la vita, le persone e la natura. Da un’altra parte, egli deve apprendere a passare oltre e non fermarsi a nulla. Senza esaltazione né rassegnazione, deve aiutare a vivere in uno spirito di liberazione e di passaggio. Ad esempio di Gesù e grazie alla meditazione delle Scritture, deve giungere a concepire come si possa alle volte amare profondamente le cose ed essere nello stesso momento sempre pronto a lasciarle fuggire.

Come un tale modo di pensare può essere conciliato? Non deve comportare né lassismo né severità, ma svilupparsi nella pazienza e nella gioia. Ciò non è possibile se il direttore non ha fatto lui stesso l’esperienza di ciò di cui egli parla. I libri possono dargli dei principi. Ma in pratica, coloro che sono più pericolosi sono proprio quelli che li applicano in modo assoluto. Tutti gli eccessi sono possibili quando non c’è un minimo di esperienza. Lui stesso deve essere quell’uomo libero che, nella dolcezza, non addolcisce affatto le esigenze liberatrici, come Gesù che ha lungamente formato i suoi ad affrontare la grande prova.

Lui anche, nell’aiuto che porta agli altri, deve accettare di passare per delle «notti». Egli si trova in presenza di un’opera che lo trascende. Il suo ruolo è di preparare la strada che conduce l’altro all’incontro. L’importante per lui è dimorare tranquillo nelle ore difficili, mentre è pressato da questioni che richiedono delle risposte immediate. In questi momenti crucianti, occorre che sappia, in un’intensa presenza di cuore, lasciare l’altro alla sua libertà. Soprattutto saper attendere in pace l’ora di Dio attraverso le situazioni ambigue. Senza dimenticare che non esistono due prove simili e che ciascuno è toccato al punto dove è più sensibile, al quale un altro non reagisce affatto.

Questo aiuto è, per il direttore, una esperienza spirituale tanto reale che quella nella quale è impegnato colui che si confida a lui. Non può dunque, per aiutare i suo fratello, che risalire alla sorgente e dell’uno e dell’altro chiedendo forza e luce. È questo che gli leva il diritto di credersi superiore del suo discepolo. L’uno e l’altro devono confidare nella grazia che è in loro, l’uno da maestro, l’altro da discepolo. È là che si incontrano.

Una volta di più, noi siamo nel gioco della libertà e della grazia. L’uomo deve fare qualche cosa, ma non può ottenere da solo lo scopo proposto. Un altro interviene nella sua vita per riconoscere negli avvenimenti questi «maestri che Dio ci dona» (Pascal). La sua preoccupazione è di custodire in tutto la fede nello Spirito che attende per agire del consenso della libertà.

  Torna all'indice       

 

Capitolo 7: La Preghiera

Il ruolo del maestro spirituale è sovente guardato come quello di un maestro di preghiera. Le pagine che precedono aprono un orizzonte più vasto, quello di un educatore che forma alla vita, vita nel mondo presente e vita nello Spirito nella loro correlazione reciproca. L’orazione, essendo posta nel suo rango di mezzo ha un suo posto unico. È ciò che rende tutto possibile. Conviene anche parlarne per dire ciò che domanda il ruolo di maestro spirituale a riguardo, come disporsi al gioco della grazia e della libertà. Due punti in apparenza contrari sono da armonizzare in questo campo come in tutta la formazione: l’attività e la passività che fanno accedere alla sola vera preghiera, quella di Gesù Cristo nella quale si ritrova la nostra.

 

Il ruolo del maestro

La preghiera si insegna? Un uomo può mettere un altro uomo sul cammino della preghiera? Per apprendere a leggere, occorre andare a scuola. Per arrivare a pregare è bene chiedere al Cristo: «Signore, insegnaci a pregare, come Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli» (Lc 11,1). Sin primi tempi del cristianesimo dei candidati della vita spirituale hanno chiesto a degli anziani, come i discepoli di Gesù: «Insegnateci a pregare». La storia religiosa dell’umanità, al di là del cristianesimo, ha conosciuto dei guru o dei maestri, che hanno aperto agli altri il cammino della preghiera.

Tuttavia è un'arte delicata questa. Si rischia di dimenticare, dalla partenza, che il solo maestro, è lo Spirito Santo. È Lui che prega in noi, dice Paolo, e ci fa sentire i suoi gemiti ineffabili. Ora le vie dello Spirito sono imprevedibili. Egli conduce gli uni in un modo, gli altri in un altro. Altrettante vie quanti sono i discepoli. Tutti i maestri spirituali sono unanimi in questo. Pregando con i Salmi, dice Cassiano (Conferenza 10), «noi ne diventiamo gli autori, ne catturiamo il pensiero più che seguirlo; seguiamo il senso senza seguirne la lettera». Le parole di cui ci serviamo e che ci sono insegnate non sono che dei segni, mezzi per svegliare l’attenzione alla realtà. Essi permettono il traboccare della sorgente, lo Spirito Santo che ci fa prendere coscienza del mistero di cui siamo portatori. Ciascuno, attraverso questi segni, trova la maniera con cui Dio si comunica a lui. Non si tratta di riempire un tempo previsto per la preghiera, ma di incontrare Dio nel cuore: «L’eccellenza della preghiera non consiste nella quantità, dice Evagrio, ma nella qualità» (Sulla preghiera,151). Altrettante riflessioni che fanno eco a quella di Gesù: «Quando tu preghi, entra nel tuo cuore, là dove il Padre vede ne segreto». Vi è in tutte le preghiere autentiche un mistero dove non si può entrare che con delicatezza e prudenza, il maestro che l’insegna più di ogni altro. Ancora una frase d Ignazio che abbiamo già citato: «Lasciate il Creatore che agisca senza intermediari con la sua creatura e l’abbracci nel suo amore». Ecco come bisogna capire che non ci si improvvisa maestri di preghiera.

Il pericolo è di sostituirsi all’azione dello Spirito Santo. Si possono scoprono da se stessi o da altri dei modi di fare, – dei metodi – che sembrano riuscire. Nel suo ardore di proselita, ciascuno vuole farne profittare anche gli altri, come se tutto i mondo dovesse passare per lo stesso cammino. Il mezzo allora diventa un assoluto. Si fa dell’apprendistato della preghiera una tecnica che, ben applicata, assicura sempre il suo risultato. Il comportamento che ne segue sa di artificioso e ferma il libero sviluppo dello Spirito. Migliore è la preghiera del pubblicano che non osa levare gli occhi al cielo, dicendo di essere indegno e di non sapere.

Non è che pertanto i consigli siano inutili. Chi li rifiuta sotto il pretesto di non farsi imporre da un altro un vestito che non gli va bene, rischia di camminare a vuoto. È il rischio di certuni che, coscienti del danno dei metodi mal compresi, lasciano i loro adepti alla loro spontaneità e rifiutano ogni costrizione. Essi spingono i loro discepoli verso le divagazioni di una sensibilità mal regolata che s’immagina di afferrare Dio nelle emozioni che prova. 

Attraverso questi due pericoli inversi – i rigore del metodo, la salvaguardia della spontaneità –, l’accompagnatore deve promuovere un cammino dove lo Spirito possa insinuarsi. Questo suppone un senso molto vivo della libertà e della grazia, nella loro azione comune, una loro sinergia, come dicevano i Greci. Talvolta egli si lascia imbrogliare da coloro che parlano della loro preghiera e dei loro stati interiori con scioltezza. Sicurezza dove fa difetto la povertà di cuore. In altri casi, succede il contrario: l’altro non ha nulla da dire. In lui non accade nulla. È il momento di inquietarsi. Questa assenza di vento sulle vele non augura nulla di buono, mancanza di desiderio, di personalità, di spirito desto. Un giorno diventa necessario di ammonire con dolcezza e forza colui che viene a noi. Intervento che può liberarlo, ma che potrebbe anche bloccarlo o farlo affossare. Perché ve ne sono degli altri che sembrano non avere nulla da dire, ma è solo per timidezza o difficoltà ad esprimersi. In tali casi bisogna saper attendere per agire saggiamente. Delle ricchezze di natura e di grazia possono nascondersi sono apparenze timorose e silenziose.

Ciò che è certo è che il maestro, preoccupato di rispettare la libertà dell’altro e di seguire i movimenti dello Spirito, deve aiutarlo a scoprire l’ostacolo che trattiene il suo slancio. Il discepolo potrebbe non averne nessuna idea, o pensare a qualcosa che invece non è il vero ostacolo. Tanti sono confusi da una affettività poco o nulla maturata! Certuni sono diffidenti; altri si lasciano trasportare troppo. Gli uni e gli altri non possono essere a loro agio nella preghiera. Essi devono entrambi, quantunque da punti di vista differenti, prendere in mano un’affettività che non sanno governare. Quanti equivoci in questo campo! Sì, il sentimento è cosa buona. S. Ignazio negli Esercizi altrettanto come la Liturgia nelle sue orazioni, fa chiedere il sentimento e il gusto delle realtà divine. Certamente! Ma occorre «sentire le cose all’intimo del cuore», aggiunge Ignazio. «Le cose» [res in latino], cioè le realtà oggettive, quelle evocate dalla Parola, e «il cuore», cioè il luogo segreto dove la persona è pienamente se stessa e capace di dire: Tu. L’affettività progredisce nella sua maturità quando non si compiace più delle sue sensazioni, ma si attacca all’Altro – la «Res» (la cosa) – che si presenta ad essa. Ed essa vi si attacca, dirà s. Giovanni nella sua lettera, non «non a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità» (1Gv 3,18). La libertà, fatta per aprirsi e amare, non può pervenire che lavorando nella verità, cioè riconoscendo che essa non è la misura delle cose e che non può giudicarle solo in base al piacere che vi trova.

Per raggiungere il modo giusto, l’accompagnatore deve continuamente ritornare a ciò che io chiamerei l’oggetto delle cose e della fede. In definitiva, sotto delle molteplici apparenza, talvolta pompose, egli deve individuare la qualità della vita, degli attaccamenti e delle opere, senza lasciarsi ingannare dai fiumi di parole, di sentimenti o di opere. È dagli effetti che si giudica la presenza dello Spirito. Il «gusto», se viene dallo Spirito, non ferma la persona su di sé, ma l’apre a DIo e agli altri. Il contatto con la vita quotidiana è indispensabile presso chi pretende trovare Dio nella preghiera. Da questo punto di vista, molti parlano giustamente degli Esercizi Spirituali nella vita corrente. Oc si può separare vita e preghiera.

Questo lavoro, a lungo andare, richiede al maestro spirituale una solida esperienza personale. Senza questa, egli rischia di essere come certi professori che non insegnano altro che cose che loro hanno imparato nei libri o ai corsi di formazione. Essi non sono da loro stessi né creatori né trascinatori. Il loro tono dottorale o professionale blocca la loro efficacia formativa. In campo spirituale più che in ogni altro, non si insegna bene ciò che non si vive. Per mezzo della sua qualità di vita personale, il maestro raggiunge l’altro nei suoi sforzi e cammina con lui nella verità.

 

Consigli per la preghiera

È possibile dare qualche consiglio per intraprendere l’orazione? Più essi sono semplici, più facilmente sono buoni. Potrebbero riassumersi nella preoccupazione di tenere un equilibrio entro una necessaria attività e una non meno indispensabile passività. Una volta di più noi siamo ricondotti alla tensione della libertà e della grazia, del fare e del ricevere.

Questo equilibrio si impara per esperienza. I maestro non deve cedere alla pratica di quella flessibilità che prende tutto per buono e non si stupisce di nulla. Tutto ciò che vive con il discepolo, non sono che vari test – esercizi – per arrivare a non volere altro che la volontà di Dio. A volte egli deve spingere in avanti, a volte deve calmare il suo ardore; come suggerisce l’esperienza, la docilità allo Spirito e il soffio che Egli dona all’uno e all’altro.

Ecco qualche consiglio che potrebbero costituire un aiuto alla memoria da consultare di tempo in tempo.

Nell’incontro con i discepolo, che il maestro non si perda mai in considerazioni inutili. Gli suggerisca per esempio di rispondere alla doppia questione: quale è stata la materia della tua preghiera? In che modo l’hai vissuta?

L’importante è disporsi. Lo spirito, il cuore, il corpo hanno la loro parte in questa disposizione. Non si può iniziare nell’agitazione: «Che si riposi un po’ lo spirito», consigli s. Ignazio. E aggiunge altrove: «Che si prenda l’attitudine che favorisca la preghiera». Questa pace richiede più o meno dei tempi per stabilirsi. I santi sono un’eccezione: essi non hanno bisogno di questi preparativi. Ma tu, fa ciò che ti dice Gesù: chiudi la porta a chiave. Sforzati di fissare il tuo spirito su un punto, la Parola di cui farai oggetto della tua preghiera. Soprattutto dirigi il tuo sguardo verso il desiderio. La domanda dei doni spirituali è l’oggetto di tante preci liturgiche, perché non servirsene? Esse fissano il tuo spirito e il tuo cuore. Ugualmente usa di tanto in tanto le frasi tratte dai Salmi: «È il tuo volto che io cerco, Signore». Esse educano il desiderio del cuore.

Per durare nella preghiera, cerca di sottometterti al ritmo tradizionale di lettura e preghiera. Non avere paura di passare dall’una all’altra. Con la lettura, tu sostieni l’attenzione; con la preghiera, tu permetti «al tuo cuore di cantare nella sua lingua» (Claudel). Al momento giusto, capirai con il cuore e la Parola ti discenderà nel cuore.

L’educazione ad una tale maniera di fare, è una scuola del cuore. Colui che prega così apprende a ricevere la Parola per «gustarla» nell’«unzione» che fa sì che non abbia più bisogno che qualcuno gli insegni (1Gv 2). Si riceve la Parola nella fede per giungere ad arrivare a trovare Dio nel silenzio dell’amore. Non molte parole dice Gesù. Invito che raggiunge quello dell’Amato del Cantico: «Non svegliate il mio amore che che si risvegli».

Lo scopo del tempo della preghiera non è di eseguire un programma previo di avanzamento. La preparazione ha fissato il tuo spirito. Nel seguito, lascia le tue facoltà giocare nella libertà, la tua memoria, la tua intelligenza, la tua volontà, i tuoi «sensi», la tua immaginazione. S. Giovanni ci invita a «vedere», a «capire», a «toccare» (1Gv 1). L’intelligenza vi cerca il luogo del cuore e si apre alla luce dello Spirito. Va liberamente da un punto all’altro, nell’azione della grazia, la lode, l’adorazione. Si tu prendi il Padre nostro, non solo parole che contano. Impregnati della loro realtà, lasciale risuonare nel silenzio. Tutto questo ti conduce ad un incontro personale, entro il silenzio. E sarà quel che DIo vorrà.

Nel cammino della preghiera, quella dell’inizio della giornata e che si prolunga nel filo di giorni, tu passerai attraverso stati diversi, talvolta di gioia, talvolta di tristezza o di noia. Impara a passare, senza esaltarti, senza stupirti, senza accusarti. Riconosci Dio che ti colma o ti purifica. Passa. In queste alternanze, tu impari a riposare, non in te, ma in Dio. Tutto il tuo sforzo consiste nel riconoscere in te la grazia, sempre presente, nella stessa oscurità.

Avanzando in tal modo, tu apprendi a situarti davanti a Dio. Tu lo conosci vicino e insieme al di là di tutto. Egli è Colui davanti al Quale ci si scalza e non lo si afferra con le idee o con gli sforzi. Egli è anche Colui che vuole prendere il suo riposo da te e «dimorare» in te, secondo l’espressione cara a s. Giovanni. Acquisisci il senso dell’adorazione nell’amore, l’«umiltà amorosa», diceva il Padre Ignazio. Così Dio ti diventa presente cercandolo sempre. In queste due attitudini che non si oppongono solo agli occhi dello spirito, tu vieni istruito sulla verità dell’uomo e di Dio. Riprendi per conto tuo le grandi preghiere dei Salmi e di tutta la Scrittura, le lunghe preghiere i gridi del cuore. La preghiera non cesserà di rinnovarsi in te. La finalità di tutta questa educazione è questo «Sì» e «Amen», in cui tutto il resto è superato, il consenso alla vita in cui la libertà si dona tutta intera. È il «Sì» di Maria, nel corso di tutta la sua esistenza terrena, e l’«Amen» dei Beati dell’Apocalisse. È il «Sì» che il Creatore attende dalla sua creatura, per il quale Egli l’ha creata al fine di aprirla alla pienezza della grazia. Un istante occorre per dirlo e per mezzo suo, in Maria, il Verbo si è fatto carne. Questo «Sì» si prolunga in noi per lasciare che il Verbo continui in noi la sua incarnazione. Noi non abbiamo mai finito di dirlo. Questa finalità è la Parola divenuta in noi Vita. È per questo che noi intraprendiamo tutto il cammino della preghiera.

Questi pochi avvisi fanno capire come è insieme semplice e delicata l’educazione alla preghiera. Semplicità che è, senza dubbio, la cosa al mondo più difficile, perché essa non ha nulla di puerile. Suppone che non l’uomo non rifiuti nulla di ciò che egli è, lo stesso peccato, e che vada verso Dio con tutto ciò che la natura ha depositato in lui di capacità d’essere e d’amare. Dio è guardato come il creatore dell’universo ed è con tutto l’universo che noi risaliamo a Lui. I Salmi ce lo fanno cantare in tutta la creazione. Al di sopra di tutto, la Scrittura ci insegna a non escludere nulla in noi di ciò che ci apparenta a Dio. Talora, delle persone pie si sono scandalizzate della presenza del Cantico dei Cantici nel cuore della Bibbia. Esse dimenticano che l’amore il più semplice e il più umano diventa i simbolo dello scambio d’amore a cui Dio chiama la creatura.

Per tenere il ruolo delicato di educatore alla preghiera, la conoscenza saporosa della Scrittura è ciò che più necessita. Occorre essere abitati da Essa. Essa preserva da tutte le specie di deviazioni,di non sensi, di illusioni, di bizzarrie dove cadono talvolta coloro che cercano la preghiera senza una guida. Essa insegna ad integrare nella nostra vita tutti i doni di Dio e a lodarlo con essi. Anche il peccato viene trascinato nella scia. Va al di là. Le cose non sono cattive se non ci si ferma per possederle. Diciamo che, tra tutti gli aiuti possibili, la Scrittura permette di custodire ogni giorno la giusta attitudine.

Se colui che si lancia nell’avventura della preghiera ha bisogno di aiuto, non è tanto per imparare metodi e pratiche. Essi non sono da disprezzare, ma devono rimanere al loro posto. L’aiuto è soprattutto necessario per dimorare in un’attitudine di verità. Bisogna apprendere a superare lo stadio della paura, della sola fedeltà al dovere, per entrare sulla rotta dell’amore. Questa non è mai ciò che noi immaginiamo all’inizio. Essa apre ad una Presenza infinita. Essa insegnarci, al di là di tutto ciò che noi abbiamo disposto con le nostre forze, a vivere nella libertà dello Spirito.

Viene il momento in cui non c’è più nulla che ci aiuti in mezzo a tutti i mezzi sui quali confidavamo. È allora che, avendo tutto perduto, abbiamo guadagnato tutto. Dio può venire. Una serie di incessante scoperte si apre dinanzi a noi. Essa ci conduce di meraviglia in meraviglia, di riinizio in riinizio per introdurci nella contemplazione dell’amore. La creazione diventa trasparente. Le opposizioni tra contemplazione e azione sono superate. Tutto è vita e diventa preghiera.

 

L’unica preghiera

La preghiera è un fenomeno universale che si trova in tutte le religioni. Tuttavia non c’è che un maestro della preghiera, Gesù. Non c’è che una sola preghiera, la sua. Tutte le nostre la raggiungono e prendono nella sua il loro valore.

Certamente Gesù è l’unico maestro di preghiera. È da Lui solo che noi apprendiamo la maniera di rivolgersi a Dio e chiamarlo «Padre nostro». Egli ci insegna in un maniera in apparenza contraddittoria. Da un lato Egli ci dice: Non accumulate le parole. Non fate come i pagani che moltiplicano le formule magiche. D’altra parte Egli ci dona i formulario di tutta una preghiera: padre nostro che sei nei cieli. Questa apparente contraddizione contiene un grande insegnamento. È quando sono dette nel cuore che queste parole prendono il loro senso. Non attaccarti alle parole, ma alla realtà. E la realtà è questa: guarda Dio come un Padre; riconosci il suo nome; desidera il suo regno; aderisci già da questa terra alla sua volontà, tale come si compie in cielo; domanda ciò che ti necessita per vivere: il pane di ogni giorno che è Lui stesso; l’amore fraterno che si realizza in Lui; la liberazione dalla Tentazione e dal Male che si realizza in Gesù. Tutto l’essenziale per il credente. Non vi sono migliori modi per rivolgersi a Dio purché sia il tuo cuore a indirizzarsi a Lui. L’uomo che riceve da Gesù questa preghiera non ha mai finito di lasciarla discendere nel suo cuore. Che io sia davanti al novello battezza che ha appena appreso la formula o davanti il più alto mistico introdotto ai segreti della Trinità, per gli uni e per gli altri, non vi è altra preghiera che quella. Essa contiene tutto quello che possiamo immaginare, purché noi la diciamo non con la bocca soltanto, ma con il cuore. Essa le riassume tutte.

C’è un’altra maniera più profonda di comprendere la preghiera insegnata da Gesù. Essa consiste nella considerazione che la sola preghiera valida e vera è la sua e che le nostre – questo Padre nostro che ci ha insegnato –, è nella sua che noi la indirizziamo al Padre. Io sono la Via, disse Gesù. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di Me. Quando il discepolo di Gesù si lascia penetrare da questa preghiera, non è più lui a pregare, è il suo Spirito che fa sentire al Padre i suoi «gemiti ineffabili». È il mistero della preghiera cristiana. Essa è trinitaria ed ha in Gesù una porta universale. Essa è la preghiera che il Figlio rivolge al Padre al momento di compiere la sua opera; quella preghiera sacerdotale o consacratori che Egli pronuncia in Giovanni (17) prima di entrare nella sua Passione. Lì si ritrovano gli stessi temi del Padre nostro: la gloria, il Nome, la verità, l’unità, l’amore. Questa unica preghiera racchiude in sé tutte quelle che gli uomini rivolgono a Dio sulla terra. Gesù lo insegna al momento stesso in cui dona ai suoi questa ultima consegna: «Dimorate nel mio amore». Divenuti uno in Me, «tutto ciò che voi domanderete al Padre nel mio nome, Egli ve lo accorderà» (Gv 15).

Maestro e discepoli non sono più che uno, la Vigna santa del padre. «In quel giorno», cioè il giorno in cui voi comprenderete che Io sono nel Padre e che voi siete in Me e io in voi, «in quel giorno là, voi domanderete nel mio nome e Io non vi dico che pregherò il Padre per voi, perché il Padre stesso vi ama dello stesso amore con il quale Egli ama Me, poiché voi mi amate e avete creduto che Io sono venuto da Dio» (Gv 16) non si finirà mai di lasciarsi penetrare da queste parole. Poco a poco, esse producono in noi un grande cambiamento: le nostre molteplici preghiere diventano, in Lui che vive in noi, una sola preghiera che sale con la sua al cuore del Padre. È «la preghiera dei Santi» che sale verso Dio come incenso e che è la preghiera dell’universo visibile e invisibile riconciliato per mezzo dell’Agnello che ha aperto il libro della vita (Ap 7).

Di questa preghiera che ha perforato il cielo ci è stato donato il segno permanente della sua efficacia: la croce. In essa, noi comprendiamo con tutti i santi «la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza». La croce è l’intersezione del nostro sforzo umano e della grazia, dove l’orizzontale è aspirato dal verticale. Essa fa da unione di tutta ciò che in noi s’oppone e si contraddice, questa doppia volontà di conquista della terra e di apertura al cielo, nella quale l’uomo si divide, abdicando l’una per attendere all’altra o viceversa. Gesù la riprende nel suo annientamento sulla croce. In essa viene portato a compimento ciò che era iniziato all’Incarnazione: in una carne simile alla nostra, riunire l’uomo a Dio e far partecipe alla nostra carne la pienezza della trinità. Egli ha rotto in Lui tutti i muri di separazione. Così, tutta la preghiera che raggiunge quella di Gesù ci fa entrare nella dimora di DIo. «Se qualcuno mi ama, dice Gesù, Noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui». Per il mistero della Croce, divenuto sempre più l’oggetto della contemplazione cristiana, tutto il mistero della vita è rivelato. La croce rompe le nostre catene, fa di noi il «Tempio di Dio, in cui adoriamo, in spirito e verità». Gesù ha rivela il Tempio, come l’aveva annunciato (Gv 2), questo Tempio è il Signore stesso (Ap 21,22). È bene intravedere almeno da lontano questa realtà, per dare a tutta la nostra preghiera la sua vera realtà: diventare in Gesù il punto di incontro di Dio, di ciascuno di noi e di tutti gli uomini.

Non è inutile, arrivati a questo punto, di ricordare la celebrazione dell’Eucaristia come realizzazione quotidiana della preghiera unica e universale di Gesù che è entrato come vincitore nel cielo e ci ha fatto sedere con Lui presso il Padre. Tutte le nostre preghiere, private o pubbliche, quella del monaco e quella del laico, quella del peccatore e quella del santo, tutte sono riprese nella grande preghiera eucaristica, immagine della grande liturgia celeste dell’Apocalisse. In essa noi facciamo memoria sotto i segni sacramentali e per la potenza della Parola che li consacra, della «morte e della Risurrezione del Cristo» «fino a che Egli venga». Allora si realizza «il sacrificio perfetto», «l’offerta viva e santa», dove «nutriti del suo corpo e del suo sangue e riempiti del suo Santo Spirito», noi diventiamo «un solo corpo e un solo spirito nel Cristo». Come stupirsi che i più intimi amici di Cristo, gli apostoli o contemplativi, vivendo nel chiostro o sparsi per il mondo, abbiano fatto dell’Eucaristia il centro della loro vita? Essa è per loro il segno permanente della salvezza universale. L’Agnello mistico «immolato» tenente in mano il libro della vita che Lui solo può aprire, diventa per tutti «il Pastore che conduce alle acque vive» e che «asciugherà ogni lacrima dai nostri occhi» (Ap 7).

È frequente di sentire opporre la preghiera privata alla preghiera liturgica o ancora azione e contemplazione. Queste opposizioni nuocciono alla retta comprensione della preghiera cristiana che raggiunge l’unica preghiera, quella del Cristo. Coloro che tengono queste posizioni non hanno ancora varcato la barriera che li separa dal mistero. Dimorano chiusi dalla lettera, gli uni nella gioia della loro preghiera solitaria, gli altri nell’ebbrezza della bellezza della liturgia, gli altri nei frutti della loro vita apostolica o della loro azione nel mondo. Quali che siano i  loro meriti e le loro virtù, essi devono, gli uni e gli altri, permettere al Cristo di invaderli del suo mistero. Nella fedeltà particolare alla vita dove Dio lo ha posto e lo chiama, ciascuno scopre, attraverso l’unica preghiera del Cristo, il bisogno che egli ha della strada seguita dagli altri. La sua preghiera diventa allora quella della Chiesa, presente tutta intera in ciascuno e una nel mondo. Riconoscendosi gli uni e gli altri nello loro preghiera, entrano insieme nella gloria di Dio che li unisce, li purifica delle loro ultime scorie. Allora si fa sentire in tutto la preghiera della Sposa, quella della Gerusalemme celeste, di cui la Chiesa terrena non è che un immagine, un segno, una preparazione.

  Torna all'indice       

 

Capitolo 8: Lo Spirito

Lo Spirito Santo è Colui che, maestro e discepolo, invocano sempre. Tuttavia per molti Egli rimane il Dio sconosciuto. Lo si invoca nelle tenebre e nelle difficoltà. Si dimentica la sua presenza ogni momento. Egli è «il dolce Ospite dell’anima», secondo l’inno di Pentecoste, e Colui che raggiunge ogni punto del mondo, come dice la Sapienza. Per molti Egli è un soccorso, non una Presenza.

Chi è Lui? Qual è la sua azione? Come riconoscerlo? Tutte specie di questioni che dovrebbero essere principali, se ciò che si chiama accompagnamento è un aiuto muto per entrare nel mistero di Dio e viverlo nelle bassezze della vita la più ordinaria. Egli fa vedere le cose dall’alto.

 

Presenza dello Spirito

Per parlare come conviene dello Spirito, occorrerà sempre usare un linguaggio mistico e poetico. Ciò che fa la liturgia. Raccogliendo tutte le specie di espressioni dell’Antico e il Nuovo Testamento, essa fa sfilare davanti a noi dei nomi, delle immagini, delle varie scene. È attraverso di esse, più che per mezzo di un trattato sistematico, che essa ci inizia al mistero dello Spirito. Perché lo Spirito non è nulla che possiamo rinchiudere nei concetti. Talora Egli si riversa come un torrente, talora è un acqua che mormora, talora un fuoco divorante. Fa conoscere la sua presenza per l’azione che esercita nella storia e per mezzo che prende i profeti. Allorquando si comincia a raccogliere i passaggi dove si parla di Lui, occorre comporre una litania per esprimere ciò   che Egli è. Presenza universale e creatrice, presenza intima e amorosa. Egli è Dio, in cui il Padre si manifesta, non come la Parola o l’immagine manifestata, ma lo Spirito o Immagine manifestante.

Non dice nulla di Lui, ma non cessa di parlare degli altri e di farli conoscere. Egli crea l’atmosfera che si respira e nella quale Egli fa ben vivere. Si percepisce la sua presenza quando non è più là, un po’ come la donna nell’umanità, ella crea il clima di un ambiente e, soprattutto, se non ricerca se stessa, scioglie le lingue e permette a ciascuno di essere se stesso. Madre o sposa, si capisce ciò che apporta solo quando è assente.

Per entrare poco a poco nel mistero dello Spirito, è bene ricercare, nella natura e nella nostra esperienza, tutto ciò che si esprime a volte con leggerezza, finezza e forza, lo spirito del poeta, dell’artista o dell’inventore, tutto ciò che nella nostra vita, dice amore e gratuità.

Nella presa di coscienza di questa vita dello Spirito, possiamo elevarci poco a poco fino al mistero di cui Gesù ci rivela il segreto, lo Spirito nel cuore del mistero di Dio. Come sarebbe Dio per il cristiano se non avesse lo Spirito? Ha il Padre, la sorgente da cui tutto scorre; il Figlio, l’oggetto della compiacenza del Padre in cui tutti si riversa. Ma lo Spirito è il riversamento stesso. Non Due, ma Tre. Da Uno all’Altro, un eterno scambio d’amore, questo Bacio che il Figlio ricevendolo, lo rinvia al Padre. Come Dio – Padre e Figlio – potrebbe essere Amore se non avesse lo Spirito che li unisce? Lo Spirito lo chiamiamo santo, perché Egli è comunione, come diceva un vecchio autore, ci rivela per la comunione stessa così la santità: ciò che mette unità tra le persone senza attentare alla loro identità.  Mistero che, illuminato così, conduce all’adorazione più che a lunghi discorsi di parole. Nello stesso modo in questo mistero della comunicazione dello Spirito, l’uomo viene a scoprire anche il proprio mistero. Come le Persone Divine, ciascuno in se stesso non attende alla sua pienezza che nel dono e nello scambio d’amore.

Il riversarsi delle Persone le Une nelle Altre, espressione della vita trinitaria, è il modello supremo ad analogia del quale si realizza nel mondo ogni perfezione delle opere di Dio. Nello Spirito Santo, Dio si riversa in tutte le creature e le conduce alla loro completezza e perfezione. Egli è presenza di Dio nel mondo per l’opera che Egli vi compie e per l’unione che realizza tra gli esseri. Questa presenza dello Spirito, la riconosciamo nella più meravigliosa delle opre di Dio, la carne del Cristo. È per opera dello Spirito che il Verbo si è fatto carne. «Lo Spirito del Signore è su di me», riprende Gesù al seguito del Profeta. È nello Spirito che Gesù compie le opere del Padre, fino a che, sulla croce, Egli consegnerà lo Spirito perché nasca la Chiesa che, in mezzo all’umanità, cammini verso la meta alla quale Dio la conduce. «Io vi invierò il mio Spirito, disse Gesù. Egli «dimora» tra noi, presente al più intimo di ciascuno, e, in questa presenza intima, unisce ciascuno a tutti coloro che, con Lui, hanno riconosciuto in Gesù la Salvezza del Padre. In questa intimità reciproca dove ciascuno, dove ciascuno non è se stesso che nell’unione che ha con tutti, il mistero dei Tre si realizza nell’uomo, mentre in questa presenza dello Spirito l’universo intero conosce la sua liberazione e il suo compimento.

È tutta la Scrittura – e non solamente le pagine più intime di Giovanni o gli accenti focosi di Paolo –, che ci fa entrare nella realtà dello Spirito Santo. Se non ci si contenta di una costruzione intellettuale, ma si coglie questa realtà  come l’anima della nostra vita e  di tutte le cose, non si finirà mai di esplorare una simile meraviglia. Perché la conoscenza dello Spirito Santo richiede una vita profonda, una vita spirituale e l’attenzione del cuore. È qui che il ruolo del maestro spirituale si scopre essenziale e meraviglioso. Egli cerca di iniziare l’altro al mistero di cui lui stesso è sempre più penetrato e apprende a viverlo nella realtà di tutti i giorni, nel completamento di un’opera, nella trasparenza delle relazioni. Lo Spirito Santo apporta gioia, santità, perfezione. Egli continua nella nostra umanità ciò che Gesù ha compiuto nella sua. E dato che noi ricordiamo l’opera dello Spirito in Gesù, è lo Spirito che ci configura alla rassomiglianza con il Verbo incarnato e ci fa penetrare nella più intimità del suo cuore e ci rivela il mistero d’amore nell’atto supremo della croce. Voi siete «una lettera dello Spirito», diceva s. Paolo. È lo Spirito che forma nell’uomo la rassomiglianza divina e porta a compimento anche il disegno eterno di Dio sull’universo.

 

La consegna allo Spirito

Questa presenza universale dello Spirito, essendo presenza d’amore, non s’impone mai. Come l’amore, essa si propone e chiede per compiersi, il consenso della creatura. Siamo ancora una volta di più rimessi di fronte al mistero della nostra libertà. Nello Spirito che ci invita a rispondergli, Dio si lascia «al pericolo della libertà».

È in questa proposta dello Spirito che noi scopriamo il mistero di ciò che chiamiamo libertà. Questa noi la viviamo come una capacità di scelta, potere di attaccarci a ciò che ci spinge il nostro desiderio. «Prendi e serviti». «Tutto è tuo». 

Lo Spirito vuole condurre l’uomo al suo fine che è la divinizzazione, la partecipazione alla vita di Dio. Questa voce ci dice: Ricevi. Accogli. Riconosci il dono che ti viene fatto. Vieni verso il Padre. In questa riconoscenza di Colui che viene a te per riempirti, tu farai i tuoi primi passi nella libertà e nell’amore.

Tra tutte le creature, ce n’è una che ha sentito questa voce e vi ha risposto in tutta pienezza. È per questo che essa ci appare come la sommità della vita spirituale, l’umanità in tutta la sua perfezione. Nella limpidezza del suo sguardo, Maria si accorda al desiderio dello Spirito. Ella vi risponde immediatamente e immediatamente riceve il dono di Dio a tutta l’umanità, la carne del Verbo incarnato.

In una sola parola, riassume l’aspirazione che, dalle origini fino alla consumazione dei secoli, l’umanità ha della felicità, senza mai pervenirvi. Ella riassume l’attesa dei Patriarchi e dei Profeti: Lei è Israele che riceve le promesse. Lei è la Eva degli altri tempi, ma una Eva che non si ferma sull’oggetto de suo desiderio e apre a Dio, come una donna che risponde all’uomo che l’ama. Lei ha creduto alla potenza dello Spirito, quando si riconosceva impotente, senza difese e nulla. La potenza dello Spirito per mezzo della quale furono creati i mondi, lei l’ha riconosciuta nell’opera incredibile che doveva compiersi in lei stessa, l’unione di Dio con l’uomo fino nella carne per trarlo dalle tenebre e trasfigurarlo. Per la fede e il consenso di Maria, l’uomo è ricongiunto a Dio. Nulla si poteva fare senza questo consenso, consenso che il Creatore aspettava dai secoli. In Maria, la libertà stessa si apre alla grazia. Maria, riconoscendosi oggetto di tale grazia, nel suo acconsentimento diventa la Donna piena di grazia, raggiando la bellezza divina e dando al mondo il Figlio in cui tutte le cose trovano il loro compimento.

È quel «Sì» dove tutta la sua persona si impegna, che conduce Maria fino alla sommità dell’opera divina. Io posso seguirla durane l’infanzia di Gesù, al Tempio lo perde angosciosa, a Cana dove lo vede compiere il segno che prelude alle nozze definitive, durante la vita pubblica e fino ai piedi della croce. Maria è colei che acconsente, che a scolta la Parola e la mette in pratica e diventa così per Dio, come la donna che Egli sposa preludendo al mistero della Chiesa e dell’umanità rigenerata. Non c’è altra star della vita che questa, per questo tutti coloro che la seguono diventano Chiesa, questa donna, madre del Figlio maschio, che Dio fa «fuggire nel deserto dove per lei ha preparato un rifugio» (Ap 12,6). Lei è vittoriosa – è Maria…? è la Chiesa? Entrambe – la vittoria sulla tentazione satanica di appropriarsi dei doni di Dio per rendersi maestri, al posto di riceverli in un canto eterno di vittoria e di riconoscenza.

Tutte le immaginazioni umane e tutti gli sforzi, anche i più eroici, per comprendere ciò che è la vita spirituale, devono rivolgersi a Maria se vogliono capirci qualcosa. Lei è il consenso all’amore, consenso continuamente rinnovato nella fede del nostro battesimo attraverso i nostri errori, i nostri peccati, i nostri successi e le nostre gioie. In ciascuno di noi, nella Chiesa come in Maria, non si cessa di acconsentire nella nostra carne alla presenza del Cristo risorto che la trasfigura. In quell’atto di fede, continuamente rinnovato,è contenuto l’essenziale della nostra vita spirituale.

 

Il discernimento degli spiriti

Quanto siamo lontani da questo ideale! Per avvicinarci, occorre entrare in una lotta, quella del discernimento degli spiriti. Trasportati dalla confusione dei noi pensieri e dai nostri desideri non sappiamo più dove è il bene, dove è il male. «Non fidatevi di tutti gli spiriti, scrive Giovanni nella sua lettera. Provate gli spiriti per sapere se vengono da Dio». Quest’invito si indirizza a tutti, ma conviene di preferenza alla guida spirituale, a cui appartiene i compito di formare al discernimento.

Qual è questo mondo degli spiriti? La Bibbia in loro delle potenze malefiche sparse per tutto l’universo, al servizio di una potenza superiore, Satana o l’Avversario. Gesù nel Vangelo si presenta come Colui che scaccia gli spiriti malvagi. Questa maniera di dire è per noi oggi ostica. Noi amiamo meglio vedere in essa la trasposizione di tutte le tendenze inconsce della nostra persona. Dal punto di vista della guida spirituale, la distinzione importa poco. Siamo in presenza di un mondo dove è estranea la nostra libertà, al punto di non fare il ben che vogliamo. L’importante è imparare a fare luce in questo mondo oscuro e a non essere oggetto di illusione.

Il primo discernimento – che possiamo definirlo oggettivo – consiste nel prendere coscienza di questo stato di confusione. Questa confusione ha la sua radice nella tentazione del primordiale giardino e si sviluppa fino al crollo delle nazioni di cui parla l’Apocalisse. Questo frutto ti piace, Prendilo. Non cercare più lontano. L’uomo diventa regola a se stesso e non vuole diventare nemico di tutti coloro che, a suo esempio, prendono se stessi come regola della loro condotta. «Tutti gli uomini fanno dio di sé giudicando questo è buono o cattivo; e s’affliggono o si rallegrano troppo degli avvenimenti» (Pascal). Da lì deriva nel mondo la divisione, l’odio, la guerra. Questo è vero di ciascuno e di tutti.

Se in questa confusione vado a fare discernimento, mi devo applicare a quello che gli antichi chiamavano «esame dei pensieri». Questo è il modo di intraprendere questo combattimento presente in tutta la storia umana. La storia che la Bibbia mi racconta diventa, se vi faccio attenzione, una storia personale. Nel suo punto di partenza, vi è la risposta alla scelta fondamentale: cercare se stessi o aprirsi all’altro. Due tipi di questa scelta: Adamo che prende per lui il frutto destinato a tutti; il Cristo che non ritiene per Sé il rango divino che gli appartiene. Quale dei due tu prendi a regola della tua vita? Se rimani nel vecchio Adamo, generi in te la morte. Cominci tu a guardare fuori di te e a volere l’altro per lui stesso? Il nuovo Adamo – il Cristo – si forma in te. Comincia ad amare, tu cominci a vivere: «Noi siamo passati dalla morte alla vita, perché noi amiamo i nostri fratelli» (1Gv 3).

Da questo combattimento, gli Esercizi di s. Ignazio ci danno un singolare compendio nella grande meditazione delle Due bandiere. Da un lato, Babilonia e Satana, dall’altro, Gerusalemme e il Cristo. Satana spinge l’uomo alla ricchezza e ad operare nel mondo per la propria gloria; Gesù insegna la povertà e il superamento di sé per vivere nell’amore. In questa opposizione, riguardata nella luce della fede e dell’esperienza umana, si fonda tutto lo sforzo del discernimento. Per questo, se nella tua vita ordinaria, tu vuoi fare una scelta degna della chiamata di Dio, comincia con il supplicare il Cristo e Nostra Signora di riceverti sotto lo stendardo di Cristo. È lì sotto che troverai la vera libertà; altrimenti tu non incontrerai che una illusoria libertà. E ancora, non immaginarti che la somma di tutte le perfezioni tu l’otterrai con i tuoi sforzi, ciò che deve assicurarti la libertà suprema d’amare in tutte le situazioni, l’otterrai  nella grazia: chiedi di essere ricevuto. Attraverso questa domanda, tu raggiungi il «Sì» di Maria che si apre allo Spirito e alla sua opera in lei.

È per questa lotta contro tutto ciò che in lui è compiacenza che il cristiano s’immerge nel regno dello Spirito. Il battesimo lo ha introdotto, ma gli resta da vivere ciò che ha ricevuto dall’inizio. Entrato nel mondo divino, ha acquistato dei «sensi nuovi», quei «sensi spirituali» di cui parla la Tradizione, sensi che lo collegano con la realtà divina. Molti non li si svilupperanno, come dei bambini che, possedendo dei sensi, non li esercitarono mai. Avendo degli occhi per vedere la luce, essi non si sarebbero esposti a passare tutta la vita in cecità. Così il cristiano che non tiene alcun conto dei questo dono del discernimento, non sapendo neppure che esiste. Gli è necessaria una educazione, come ai bambini, per vedere e capire. Deve apprendere a discernere gli spiriti, i buoni e i cattivi e sviluppare questo «fiuto interiore» di cui parla Paolo (Fil 1,10) e che permette di «discernere il meglio».

Questa educazione dei sensi si compie attraverso il sentimento che svegli in noi la vita spirituale. Questo si realizza non solo quando attendiamo alla preghiera, ma nella nostra vita ordinaria. Nel fiume dei sentimenti che ci trascinano, a volte consolanti, a volta desolanti. Gli autori hanno descritto questa alternanza, l’importante è servirci di essi per accedere alla pace che è il segno di Dio. Quando io sono oggetto di tristezza, di noia, di complicazioni interiori o di quella autodetrimento prodotto dalla cattiva coscienza, mi occorre rimanere fermo nella fede, non cambiando per nulla le mie decisioni, attendendo da Dio che mi levi il velo che mi separa da Lui. E quando arriva la consolazione, conviene che mi mantenga nella stessa attitudine di fede, ricevendo questa gioia con riconoscenza, senza attribuirla a me e senza credermi migliore per questo. In tutte le cose accetti di vivere ciò che ti è donato e tu impari a passare, per non attaccarti alla tua soddisfazione o al tuo dispiacere, ma a Dio che è sempre con te.

Vi è po un discernimento più fine, quello che si compie quando ci confrontiamo con l’ideale evangelico e l’appello Cristo a un più grande servizio. Siamo di fronte alla tentazione sotto le apparenze di bene. Ciò che io desidero è buono, ma la maniera in cui la desidero non lo è affatto. Un po’ come quei farisei che, parlano della gloria di Dio, ma non cercano che quella che viene dagli uomini. Le opere che intraprendo devono essere marcate dallo spirito delle Beatitudini. Per usare il linguaggio di s. Giovanni, è lì che noi «riconosciamo lo Spirito di verità dallo spirito dell’errore», e dove dimoriamo nell’amore e nell’unità (1Gv 4,6). Oppure, ancora, seguiamo la regola di s. Paolo: Quand’anche io distribuissi tutti i miei beni ai poveri, e mi mancasse l’amore, non guadagnerei nulla». E Paolo enumera i segni con i quali si riconosce l’amore: «esso prende pazienza, rende servizio, non è geloso, non si pavoneggia, non si gonfia di orgoglio,, ecc. …» (1Cor 13). È l’amore come lo descrive Giovanni nella sua lettera: non solamente nelle opere, ma «in verità». E s. Agostino indica qual è l’opera compiuta nella verità, quella dove il suo autore, non si pone davanti all’altro come un superiore che protegge un inferiore, ma come un eguale con cui vive nell’amore: «Opte aequalem» dice Agostino. Tu non hai un povero da sollevare, ma un fratello da amare. Davanti questa presenza d’amore, io riconosco la maniera di fare di Dio.

Il discernimento operato all’interno di tutti i miei rapporti con Dio, con gli altri, con me stesso, mi conduce a vivere al di là delle mie emozioni o dei miei stati d’animo, in quello che Olierei Clement chiama da qualche parte una «emozione non emozionale», dove lasciamo che il pensiero di DIo ci invada per riposarci in Lui. «È dai frutti che li riconoscerete», disse Gesù. Quando io trovo gioia solo nel compimento della volontà di Dio, raggiungo ’latitudine del Signore Gesù che vive della volontà del Padre. La persona è trasformata. Il ricordo di Gesù passa al vaglio le mie intenzioni e i miei desideri per non avere che in Lui la mia felicità e mi stabilisce in quello stato dove «nulla può separarmi dall’amore di Cristo» (Rm 5), perché noi siamo mossi dallo Spirito.

Queste alternanze e queste purificazioni sono il preludio di un altro passaggio, di quelle «notti» di cui abbiamo parlato a proposito della preghiera. La persona vi conosce una intimo potenziamento della sua capacità di sentire e di amare. Lì raggiunge Gesù che prega per i suoi nemici e benedice coloro che lo perseguitano. La croce non è più per lui uno scandalo o un fallimento, ma una manifestazione della sua divina potenza d’amore e di gloria. La libertà, che è passata attraverso queste prove, non si attacca più a se stessa in nessuna circostanza che sia, ma si offre alla grazia dello Spirito che vuole far maturare la pienezza dell’uomo in Gesù Cristo.

Attraverso questa lotta, vissuta alla luce della croce gloriosa, si dissipano la confusione nella quale la libertà si sviluppa dall’inizio. Essa tende a diventare puro consenso o gioiosa indifferenza  di fronte alle scelte particolari che si propongono ad essa. Uscita permanente di sé nell’incessante scoperta del Signore Gesù vivente in noi per mezzo del suo Spirito, i discernimento forma la persona libera, capace, dovunque la porti lo Spirito, di lavorare per la sola gloria di Dio e di trovare lì la propria gioia.

 

La decisione secondo lo Spirito

Spesso viene posta al direttore una questione: che devo fare per compiere la volontà di Dio? In particolare, quale decisione prendere per impegnare la mia vita al servizio di DIo? Viene posta la questione della scelta, dell’«elezione» per usare il linguaggio degli Esercizi.

La maniera di rispondervi supera infinitamente il caso particolare che la fa porre. In tutta la tua vita, tu dovrai determinarti. È per questo che è importante che tu all’inizio faccia una «sana e buona elezione». Per tutta la tua vita dovrai rimanere fedele a ciò che hai deciso. La decisione presa nella luce conduce a rendere docile allo Spirito tutta la propria vita.

Come porre la questione all’inizio? Tu la noi ad un altro, al tuo padre spirituale. Costui non può risponderti in verità che ritornando a te la questione. La volontà di Dio, non devo manifestartela io. Questo potere in tal caso assomiglierebbe ad un potere magico. La volontà di DIo è iscritta nella tua vita. È là che devi cercarla. Fai memoria di tutto ciò che ti costituisce e ti differenzia dagli altri, lauta famiglia, il tuo ambiente, la tua educazione, i progetti che a poco a poco si sono formati in te. «Esistere, è creare». L’espressione è di Claudel. Essa esprime bene questa presa di coscienza di sé necessaria per avventurarsi nella vita. Dio dona l’uomo a lui stesso perché diventi creatore di se stesso. 

Il consigliere forse dovrà lottare molto tempo con colui che consiglia. Costui, infatti, nella sua ansia di decidersi, vorrebbe affidarsi al consiglio di un altro, e attendere nella preghiera l’ispirazione che illumini. Dio sa se il ricorso alla preghiera sia buono, così come lo è il desiderio di fare un ritiro per trovare consiglio in questo senso. Ma è mettere il carro davanti ai buoi, omettere questa presa di coscienza di sé. Un ritiro non potrà essere qualcosa di miracoloso dove apparirà la soluzione. Ciò che dobbiamo aspettarci da esso è che ci aiuti a disporci nel migliore dei modi per poter fare una buona elezione. Ma questa verrà a suo tempo, che potrà essere durante il ritiro o al di fuori di esso. Riportare qualcuno alla sua propria esistenza e alla scoperta del dinamismo che è in lui, fa parte di ciò che io chiamerei umiltà primaria, necessario a ogni cristiano desideroso di lavorare per Dio.

E, pertanto, chi si stupirà di ciò che andiamo a dire? Nel capitolo sulla libertà, abbiamo insistito sulla tensione vitale, che è al cuore di tutta l’opera divina. Diventa te stesso, ma superati. Man mano che tu conosci i tuoi desideri e prendi confidenza con te stesso, apri degli orizzonti al di là di te e relativizzi ciò che si ferma in te. Prendi coscienza della solidarietà con tutti gli esseri e riconosci la tua dipendenza da Dio. Tu hai riconosciuto una vocazione, ma poiché essa è divina, non è un tuo affare. È fondamentale che di fronte ad essa, tu prenda la tua distanza. Fa’ tutto ciò che è possibile a te e dì: io sono un servo inutile. È per la grazia di Dio che esisto. È per mezzo della sua grazi ed in essa che potrò fare ciò per cui io sono stato fatto. Questo ritorno nella visione che noi abbiamo dell’esistenza, è l’orizzonte in cui si situa il consiglio di Ignazio che rischia di stupirci molto: «Molti si sbagliano, dice lui in sostanza, scegliendo prima il matrimonio o il sacerdozio, e dopo solamente, si determinano a servire Dio« riflessione che fa eco a quella di Cristo: «Cercate dapprima il Regno di Dio». «Io voglio essere prete», ripete  con frenesia un giovane a cui viene rifiutato di entrare in seminario. Egli vorrebbe assumere un compito prima di mettersi davanti allo Spirito che vuole compierlo in lui.

Tutto questo è un preambolo alla decisione. Per non essersene preoccupati, molti s’impegnano in modo sbagliato nella vita. Esse misconoscono la necessità di maturare a tutta l’opera divina. Il Vangelo lo mette in evidenza nelle parabole, quella del seminatore o del grano di senape. Sottometti dunque al tuo discernimento ciò che fa oggetto dei tuoi del tuo desiderio, per vedere se porta il segno dello Spirito. Potrebbe essere effetto di un temperamento generoso. Chi nella sua giovinezza non ha avuto dei grandi progetti? Non è perché essi siano di ordine religioso che diventano volontà di Dio su di te. Il tempo scoprirà che le tue motivazioni non erano pure e disinteressate. È il momento di riprendere la distinzione tra la materia e la maniera. Lascia passare il tempo e verifica che il tuo proposito è secondo lo spirito delle Beatitudini. Di più, come dice il Surin in una formula luminosa, «ciò che è movimento per Dio, non necessariamente è volontà di Dio». Il tuo cuore si entusiasma per una certa opera. L’ammirazione che essa suscita per te sembra indicarti che tu sia fatto per essa. Lascia passare del tempo e vedi se essa ti lascia nella pace, mettendo in Dio la tua fiducia per realizzarla.

In questa maturazione la presenza del direttore è preziosa, non per prendere la tua decisione, ma per aiutarti a guardarti dall’illusione e a fissare lo sguardo sull’essenziale. Questa presenza è anche beneficante, non solamente all’inizio di una vita – questo da va sé –, ma negli sviluppi posteriori della decisione. È sempre possibile che ciò che agli inizi portava il marchio di Dio vada degradandosi e, scivolando in una pendenza insensibile, divenga un opera del diavolo. «Corruptio optimi pessime». La corruzione di ciò che era migliore conduce al peggio. L’accompagnamento allora consiste, non a garantire la fedeltà a un progetto, ma a custodire la direzione del cuore, «l’occhio puro dell’intenzione». Riappare sempre la stessa regola: Sviluppa la tua grazia propria, ma non fermarti su di essa.

Parlando della maturazione delle cose, noi abbiamo accennato al caso della decisione dello stato di vita. Ora passiamo ai pericoli di una vocazione che non si rinnovi. In effetti, la mia vocazione non è dietro di me, ma è davanti a me ed io devo scoprirla ogni mattina, sotto l’usura del tempo che scorre e che crea delle abitudini, noi ne diventiamo proprietari e la difendiamo come un nostro bene. È sempre più difficile custodire quella profonda indipendenza del cuore di fronte alla sua stessa opera, sia nella riuscita che nel fallimento. È, pertanto, questa indipendenza radicale che permette il perpetuo rinnovarsi di una vita votata al servizio di Dio.

Tutto avviene nella realizzazione di ciò che diciamo essere la volontà di Dio, dall’inizio fino alla fine. Tutto è possibile, tutto ti appartiene, fino a quando non si cessa di ricevere da Dio la chiamata e la sua realizzazione.  Lascia pure crescere in te i sogni più grandi per il Regno, ma non farne mai un affare tuo personale. In te, attorno a te, in questo mondo, sarai fedele alla tua ispirazione primitiva di cui non perdi mai di vista la sorgente e la meta. Lascia cantare in  te la fine della lettera di Giovanni: «Miei piccoli figli, guardatevi dagli idoli». Non fate delle vostre opere degli idoli. Rimani libero di fronte alla stessa missione nella quale sei impegnato. Non c’è che un solo Dio. Non è nella confusione dei progetti che tu lo troverai. In tutto, fai passare il criterio superiore dell’amore che viene dall’alto e che conduce al di là di tutto. È a coloro che hanno raggiunto questa semplicità che Dio dona l’amore capace di riempire l’universo.

Noi capiamo allora la portata del motto di s. Agostino: «Ama e fa ciò che vuoi». Si rischia sempre di dare a questa frase un senso che non ha. Essa non invita alla fantasia, se non alla fantasia dell’amore che è suprema saggezza. Colui che vive secondo lo Spirito ricerca, all’inizio della sua vita come nel seguito, i segni dello Spirito. Egli tiene conto di ciò che l’uomo è, degli avvenimenti del mondo dove vive; vuole essere fedele alla Chiesa nella quale vede la Sposa del Cristo. Ma, nel più profondo di lui stesso, è alla ricerca di «un non so che si ha la ventura di trovare» (S. Giovanni della Croce).

La libertà nella quale egli oramai vive, non è più quella delle scelte particolari, ma quella di tutta la sua persona che acconsente all’amore. «Non chiedere all’amore dove ti conduce». Egli ti farà ritrovare in Gesù continuamente spinto dallo Spirito.

  Torna all'indice       

 

Capitolo 9: Un Testimone

È temerario intraprendere un libro sull’accompagnamento. È altrettanto temerario intraprenderne la lettura. Il rischio è di fermarsi a delle formule o di attendere ad una dottrina oc,pelta. Non si può avere una dottrina sull’accompagnamento, non ci può essere un modo comune di attualizzarla. Ciascuno ha la sua e la scopre a poco a poco, nella misura che la esercita su coloro verso i quali ha un influsso profondo e buono, senza imporsi.

Pervenuto al termine di queste pagine, mi sembra di aver girato attorno alla montagna. Ho scritto qualche avviso, consigliato qualche passo, ma avvisi e passi che non sono che dei punti di partenza di una strada che procede verso l’infinito. Da loro un valore assoluto sarebbe scambiare i mezzi per il fine – fosse questo anche un sacramento – non è che un mezzo. Avanza e guarda più in alto. Alla luce di questo passare oltre che si giudica il valore di un accompagnamento. Quando tu hai finito un libro – fosse anche quello della Parola di Dio –, chiudilo, e lascia, attraverso le parole, che la realtà entri nel tuo cuore. Quando tocchiamo il mistero di Dio, non facciamo altro che sfiorarlo. Attraverso la Parola, «entra nel folto» (S. Giovanni della Croce).

L’importante è avere incontrato un testimone: questo dovrebbe essere in definitiva un accompagnatore. Presso colui che viene a lui, il testimone della libertà dello Spirito nel cuore della Chiesa e nel cuore del mondo, di uno Spirito che ci fa passare oltre fino «alla pienezza di Colui che riempie tutte le cose» (Ef 1,23).

 

Nella Chiesa

Egli parla della Chiesa, ma per farne sentire le dimensioni divine e universali. È libero di fronte a tutto ciò che può ancora dividerci, la sa pellegrina sulla terra, come Israele in cammino verso la Terra Promessa. Senza dubbio impara a vivere solo, a decidersi da solo, a fare della  sua obbedienza alla chiesa un atto personale di libertà. Facendo ciò, ha coscienza di essere l’anello di una immensa catena e di prendere il suo posto in quella «folla immensa che non si può numerare» (Ap 7), formata da tutti quelli che seguono l’Agnello. Non pretendere di essere Chiesa che nella misura in cui la riconosce una ne mondo e tutta intera in ciascuno: «Una in omnibus, tota in singulis. Una in tutti, tutti nei singoli». Sempre più responsabile dei suoi atti, si sente, nello stesso tempo, in comunione con tutti. La libertà vissuta nella Chiesa lo apre a questa comunione universale.

Il compito di maestro spirituale si esercitandosi sugli individui, comporta un dimensione ecclesiale. Cerca di scrivere lo sforzo di ciascuno nel mistero totale, quello di cui parla Paolo nelle sue lettere e di cui Giovanni, attraverso il suo Vangelo e le sue lettere, rivela la natura. Mistero che viviamo nella chiesa per mezzo dei sacramenti.

Egli evita così l’individualismo spirituale, sempre pronto a rinascere presso colui che si occupa di purezza di cuore e di docilità allo Spirito. Più che preoccuparsi dei risultati raggiunti e dei rendiconti delle attività, si sforza in questo dettaglio di mostrarne il senso. Il suo cammino rimane aperto e centrato sul mistero di Dio e della Chiesa.

Davanti alle illusioni sempre possibili, il rimedio per lui non è la fuga. La prudenza che osserva non si confonde con la paura. Il Vangelo, i libri sapienziali, i testi di Giovanni e di Paolo gli dicono abbastanza. I criteri dello Spirito nella Chiesa come in ciascuno, si riassumono nella pace, nella gioia, umiltà, amore per i fratelli. Quando questi criteri si manifestano, il maestro non confermare ciascuno nella via che egli segue, inattesa che essa sia. Ciò che fa la nostra unità non è un conformismo di comodo, ma lo Spirito vivente nel cuore di tutti unificandoli in uno stesso amore. L’amore vivente è la garanzia della libertà.

Nella fedeltà alla Chiesa, il maestro cerca soprattutto di evitare la dicotomia che è tentazioni di molti: separare nel proprio cuore Cristo e la Chiesa oppure non custodire ciò che è indispensabile per rimanere fedele alla Chiesa. Egli lavora soprattutto a superare l’apparenza di tutto ciò che blocca nel cristiano la sua fede nella Chiesa. La scoperta della Chiesa, Sposa di Cristo, nella quale il Cristo continua la sua incarnazione in mezzo agli uomini, fa parte della vita spirituale. Per dire tutto in una frase: è nella Chiesa che si trova il Cristo. È il Cristo che, attraverso tutto, egli cerca nella Chiesa.

 

Nel mondo

La stessa libertà che testimonia nella Chiesa, il padre spirituale la testimonia nel mondo. Davanti a chiunque, non è tentato né di rigetto né di infatuarsi. Ama questo mondo e insegna al discepolo ad amarlo. La vita spirituale, se è autentica, non conduce alla negligenza o a disprezzare i doveri quotidiani, i grandi come i piccoli. Egli conosce la bellezza del mondo, non banalizza i suoi pericoli. Come davanti a tutte le realtà divine e umane, custodisce il distacco del cuore che fa cercare l’essenziale sotto i relativo, la realtà sotto l’apparenza, l’invisibile sotto il visibile. Rimanendo libero davanti a colui che per le sue varie competenze potrebbe imporsi, ma che, tuttavia, come tanti altri ha bisogno El suo aiuto. Senza diffidenza davanti ai progressi, non si crede obbligato a sapere tutto. Rispetta la capacità dell’altro, rispetta, ha coscienza della propria grazia e non teme di testimoniarla presso chi la sollecita. Senza sostituirsi a nessuno e senza decidere per lui, ha la preoccupazione di aiutare l’altro a scoprire la sua propria maniera di vivere la sua libertà nella dipendenza allo Spirito. Insomma, un consigliere nel Cristo che, per quella libertà in cui vive, vorrebbe confermare gli altri nella loro libertà.

Confidando in questo gioco della libertà e della grazia – la sinergia –, prende volentieri come regola di vita quell’adagio attribuito a s. Ignazio e che, senza essere suo, riassume bene il suo spirito: «Affidati a Dio, come se tutto dipendesse da te e nulla da Dio; opera tutto come se tutto dipendesse da Dio e non da te». Le due parti di questa frase devono essere afferrate nella loro complementarietà reciproca. Il più bel segno della fiducia verso Dio è l’uso della libertà che ti ha donato. Non avere paura di essa. Metti la tua opera nelle tue mani e decidi tu. Ma, venuto il momento di agire, confida n elle forze che Dio mette in te. In Dio che ti dona «l’essere, la forza e l’azione», esercita la tua libertà. Come dice il Salmo: «Confida in Dio e Lui agirà». Questa maniera di agire dona a chi la vive, serietà e leggerezza.

Guida e accompagnato, in mezzo al lavoro di ogni giorno, veniamo ad incontrarci come fratelli, ciascuno al nostro posto. L’uno e l’altro, al cuore delle nostre fragilità. L’uno e l’altro, nel cuore delle nostre fragilità, lasciamo trionfare in noi le forze della vita su quelle della morte.

In questi due campi, apertura alla Chiesa, apertura al mondo, possiamo parlare  di educazione alla libertà, alla libertà che unisce in un unico amore la Chiesa e il mondo. Che sarebbe la Chiesa senza il mondo? Che sarebbe il mondo senza la Chiesa? Ciascuno vive la tensione di queste due realtà nell’unità del suo essere spirituale. Vivendo il mistero della Chiesa, egli consacra con la sua presenza tutto ciò che vive nel mondo. L’amore che porta al mondo, gli impedisce di fermarsi su se stesso.

È questa la lezione che riceve ogni giorno nell’Eucaristia. In Essa, lui stesso e immondo sono già misteriosamente consacrati. Questo non appare ancora visibilmente, ma egli vive già questa realtà nella fede, sapendo con s. Giovanni che «quando il Cristo apparirà, noi saremo simili a Lui» (1Gv 3,2). La trasfigurazione del mondo nel Cristo si compirà e l’Eucaristia è, nel mondo che passa, la permanente garanzia. È l’Eucaristia che gli dona il coraggio di lavorare in questo mondo, sicuro di essere con Cristo e non credendosi mai arrivato. Testimone sulla terra di questo mondo divino che lo chiama alla sua maniera di essere del mondo e di Dio.

 

La sorgente della testimonianza

La sorgente di questa maniera di essere è la vita personale del testimone e il suo distacco. Per diventare se stesso dovrà rigettare ogni influsso? Ci sono nella sua vita delle persone che hanno lasciato in lui un segno. Ci sono tante persone di valore che ha affiancato e altre dalle quali ha ricevuto insegnamenti. Egli ha saputo approfittare delle une e delle altre, ma non è rimasto impressionato per il loro prestigio o per il loro talento. Quelle di cui egli porta il segno sono coloro davanti ai quali egli si è sentito esistere e che hanno rispettato ciò che lui è. A loro riguardo egli nutre una certa dipendenza che li stupirebbe se si manifestasse e loro egli ha aiutato a crescere nella libertà e dunque nella vita.

Per questo, congiuntamente a questo distacco, egli non cerca di fare dei discepoli. «noi non abbiamo che un solo maestro, il Cristo». Egli è penetrato da questa parola. Ha solo un desiderio: condurre al Cristo coloro che si affidano a lui, perché a loro volta, essi stessi realizzino l’opera originale alla quale sono destinati. La sua intenzione non è quella di formare dei discepoli che gli rassomiglino, né di assicurarsi la riuscita della sua azione per trasmettere il suo spirito. Lascia, a coloro che lo seguono, di prendere ciò che vogliono. Non è un mestiere o una tecnica ciò che insegnano loro. Ciò che lui dona non gli appartiene. Lascia che l’opera si compia in lui.

In ciò che sembrerebbe leggerezza di spirito ad uno sguardo superficiale, è invece un profondo rinnegamento di sé. Non un rinnegamento virtuoso che ha paura di tutto ciò che è irradiamento personale, ma la trasparenza di una presenza che penetra tutto il suo essere, la presenza di Colui che è, che ci fa e nel Quale siamo. Il testimone si offre a l’invadenza di questa presenza che riconosce in tutti e in ciascuno. Immerso così nel mistero della presenza divina, attende la purificazione di cui sente il bisogno. Povero e nudo davanti ad essa, vorrebbe trasparire in Lui. Diviene sempre più sensibile allo Spirito che forma ciascuno nel suo essere proprio e lo conferma nella sua originalità.

Vivendo nel mistero di questa presenza universale, egli lascia passare la luce, sforzandosi di non ritenere nulla per lui. E così come nessuno può condizionarlo, nemmeno lui condiziona nessuno. Coloro che si fanno aiutare da lui si sentono in sicurezza e non provano quel sentimento di essere un vortice soffocante da cui non si riesce ad uscire.

La sua vita è segnata dall’umiltà. In certi giorni egli si ritrova poverissimo sotto lo sguardo degli altri. La sua preghiera gli sembra senza rilievo. Conosce la noia, l’angoscia, la preoccupazione. Si interroga sul suo stato e si chiede cosa non vada bene. Nelle audacie dove egli conduce, si sente perfettamente solo. Nessuno può dirli che cosa fare. Portando i segreti di ciascuno, a fatica riesce a portare il suo. Ma più accetta questo stato di povertà, più gli sono donati i gesti da porre, le parole da dire. Voi direte che questo viene da sé. La sicurezza che l’unifica viene da fuori e gli permette di reprimere il suo desiderio di fuggire trovandosi sempre più disarmato di prima.

Nella sua maniera di fare egli ha, senza saperlo, qualche cosa del bambino, unico nel suo genere. Il suo candore non gli fa preferire nessuno. Se viene tentato di superbia, la messa in presenza di Dio lo rimette nella verità: tutto viene dallo Spirito e tutto ritorna. È là tutta la sua vita spirituale, unificata per questa presenza che la muove e alla quale egli si consegna. Assomiglia a Giovanni Battista che è «venuto come testimone» e che, sapendo di non essere la luce, non cessa di «rendere testimonianza alla luce» (Gv 1), a meno che non preferisca, come lo stesso Battista, dirsi «l’amico dello Sposo» (Gv 3).

Non solo a Giovanni Battista, ma anche a Maria. Giovanni è l’austerità del deserto, l’allontanamento dell’amico che si ritira per salvaguardare l’intimità dello Sposo. Maria aggiunge la dolcezza e la presenza di madre che si dona senza misura né costrizione… la sua maniera di fare ha, come quella di Maria, qualche cosa dell’immensità e della tenerezza di Dio. Similmente a Maria, egli non scaccia colui che bussa alla sua porta, lo fa entrare e lo conduce alla vita: «Fate tutto quello che Lui vi dirà« (Gv 2). Maniera che lascia trasparire la dolcezza e il rispetto di Dio per l’uomo. Guida a cui si fa riferimento e finché l’abbiamo vicino a noi le nostre cose vanno da sé, ma la sua presenza rimane al di là dell’assenza e della morte. Come quella di Gesù che, prima di lasciare i suoi, si continua in loro per mezzo del suo Spirito sempre attivo e presente.

Il ricordo di lui non è nostalgia: desiderio di rivivere il passato, rimpianto di non aver approfittato abbastanza della sua presenza. La vita che è fluita dal suo incontro si continua e non si ferma. Ruolo unico nel suo genere che si piega a tutti i progetti che gli si presentano, non per condiscendenza, ma per aiutare ciascuno a trovare la sua strada. Egli evita di farsi chiamare padre o di credere che egli lo sia, benché in lui vi è il fluire dell’unica paternità. Nella tenerezza fisica che esprime, fa passare la tenerezza di Dio che comunica senza tenerla per sé. La sua gioia è quella della trasparenza della luce, quella dello specchio che trasmette a coloro che si avvicinano la luce che sa venire da altrove e di cui egli ha la preoccupazione costante di riconoscerne la sorgente.

La sua sicurezza alle volte sconcerta. Una parola gli è sufficiente per rispondere ad una questione e sembra ripugnare le lunghe spiegazioni. Si direbbe che pronunciando una parola, egli la riceva da oltre, come senza pensarvi. Senza voler imporre nulla, desidera solamente far luce, in tutti i sensi del termine – mettere in luce e manifestare –, ciò che ciascuno porta in sé, di artificiale, di complicato, di falso, e aiutarlo a scoprire il tesoro nascosto in lui. Felice se vi riesce; affatto scoraggiato, se i suoi sforzi si concludono con un fallimento; sempre pronto a ricominciare, come pronto a lasciare tutti quando è giunta l’ora di farlo. Presenza intensa, ma libera. Essa si dà quando serve e, ugualmente, si ritira quando non serve, senza fare difficoltà. Disposto a rinunciare all’opera alla quale è consacrato, non per timore dei svantaggi o il rischio di dispiacere. Per lui la vita non si mostra, si dona. Ciascuno la prende e la usa a suo piacimento.

Il suo posto nella Chiesa è insostituibile, per assicurare che esiste la vita, che esiste la libertà. Compito unico di colui che lo deve vivere riconoscendosi servo inutile. Dio lo ha introdotto nel suo segreto. È a Dio che lascia la cura di rivelare quando il tempo è arrivato. Lui sa che nell’ordine dello Spirito nulla si perde, e che Dio non è legato al minuto che passa.

Questa maniera, che è la sua, e nella quale crede, non pretende che sia la sola o la migliore, è la sua. In essa è a suo agio e la riceve come un dono di Dio. Non pretende alcuna originalità, e non si mette a parte di nulla e di nessuno. Tuttavia è difficile farlo entrare in una categoria già fatta. Fedele alla Chiesa, non fonda nulla. La sua stessa vita è una creazione perpetua e non pretende di lasciare alcuna traccia di se stessa. Non rifiuta di rendere la sua testimonianza quando è richiesta. Libera chi esce da lui, senza inquietarsi per ciò che ne seguirà. La sua opera, se si può parlare così, non gli appartiene, è l’opera dello Spirito e il bene comune della Chiesa. Ad altri il compito di decidere se conviene custodirla o sopprimerla. Questa opera, egli l’ama profondamente, ma non appartiene più al suo autore dal giorno che l’ha vista. Essa è di Dio, della Chiesa e di chi la vuol prendere.

Come in certi giorni non sarà preso dalle vertigini? La sua azione la mette davanti l’immensità del disegno di Dio. Incapace di afferrarlo nella sua interezza, non raccoglie che delle particelle, non sa che fare, non sa che dire. Ma in questo sentimento del nulla, è anche trascinato dall’onda del Tutto. Presso un essere che si riconosce come nulla, il miracolo diventa possibile. Una nuova vertigine lo assale. Cosa vuoi fare di me, Signore? Fino a dove vuoi trascinarmi? Anche di questo, egli mi fa essere testimone.

Ciò che spaventa non è di ingannarsi, anche se in certi giorni, è invaso da una certa paura. Lui che insegna il discernimento deve apprenderlo con la pratica. Pazienta nella fede, prega, manda via la tristezza «che non ha nulla di buono», e si sforza di giudicare dai suoi effetti la presenza di Dio e della sua azione in lui. Constata allora che Dio non lo fa sbagliare. Lo riconosce da dei segni furtivi e leggeri, ma che non ingannano mai. Essi lo invitano a passare e a continuare, senza aspettarsi altro che questa certezza del momento. La sua paura è quella di non riconoscere più il dono di Dio di non stupirsi più delle meraviglie che passano tra le sue mani. Come ogni uomo egli conosce il pericolo della libertà che, quando non se ne la si coltiva, spinge ciascuno ad attribuire a sé ciò che è della grazia. Solo la riconoscenza quotidiana dei doni di Dio lo custodisce nella verità e nella libertà dell’amore. L’umiltà, colma di azione di grazie, scaccia la paura e apre ai più grandi doni. «A colui che ha sarà dato di più». Egli diventa testimone della liberalità divina.

Come tutti gli esseri umani, egli conosce la solitudine. Solitudine che gli deriva dalla grazia che è la sua. È esposto all’incomprensione e al non essere riconosciuto nel dono che egli fa di se stesso. Nel segreto del suo cuore, egli porta il segreto degli altri che non può rivelare a nessuno. Il Cristo vivendo in mezzo agli uomini ha conosciuto questa solitudine, senza farne difficoltà, interamente rimesso al Padre. Il terzo grado di umiltà descritto da s. Ignazio, unendolo al Cristo e alla sua solitudine diventa in lui, la sorgente della più pure libertà, qualcosa che appartiene alla perfetta letizia di s. Francesco d’Assisi.

Egli entra ogni giorno in questa fede libera, «l’obbedienza della fede» come s. Paolo, che testimonia di Dio in quella libertà nella quale fa vivere. Questa libertà non ha altra prova che se stessa. Gesù nella sua Passione, per affermarsi libero, non ha bisogno di fare dei discorsi. Rende testimonianza al Dio in cui vive nella libertà. Al limite, essere libero, è lasciare Dio vivere in me, come Egli voglia e in questa libertà umana, lasciare passare la grazia di Dio.

Essere testimone, è tutto il ruolo della guida spirituale. Non testimone inattivo che, dalla riva dà i consigli a coloro che sono imbarcati, ma testimone che, sicuro della Parola che l’abita, s’imbarca lui stesso e va dove lo Spirito l’invia. Partecipa alla sua maniera alla grazia universale dello Spirito che, in lui e nell’universo, costruisce il corpo della Chiesa, la Sposa di Cristo.

  Torna all'indice       

 

Capitolo 10: «Ridirsi le cose…»

Perché quest’ultimo capitolo? Nella letteratura spirituale, a fianco dei trattati didattici, è sempre esistito un genere che richiama lo stile dei Libri Sapienziali della Sacra Scrittura. I Proverbi ne sono il migliore esempio. Similmente, nello scorrere dei secoli, le Centurie di Evagrio di Pontice o di Massimo il Confessore, gli Aforismi dei Padri del deserto, i Pensieri di luce e di amore di s. Giovanni della Croce. Dappertutto, fino agli Esercizi di Ignazio di Loyola, si trovano qualcosa di simile: regole, avvisi, annotazioni e addizioni abbondanti. Non posti in sequenza logica, ma pensieri diversi la cui unità si trova nella finalità a cui conducono. Un esercitante che faceva con me gli Esercizi, ebbe l’idea di stilare in massime gli insegnamenti che vi aveva ricevuto.

Questa è una pratica spontanea e feconda di chi si sente incapace di rinchiudere la sua ricerca di Dio in un insieme ben costruito e, tuttavia, sente il bisogno di ritrovare ciò che vive in qualche formula lapidaria che gli permetta di ricordarla, senza bloccarsi in essa. Lascia zampillare l’acqua dalla sorgente, senza voler canalizzare il pensiero, ma nel desiderio di sempre più approfondire, scava in sé un luogo dove possa riemergere e far rivivere tutto nel suo riecheggiare.

Questo modo di fare conviene eminentemente all’educazione spirituale che, attraverso l’intelligenza, vuole arrivare al cuore e plasmarlo per la vita. Essa è oltre l’insegnamento. Il pensiero diventa vita. Ritiene qualche punto, senza bisogno di ritornare al libro. Così, nell’iniziazione alla preghiera dove qualche formula semplice, del genere di quella dei Salmi o del Padre nostro, sostiene l’attenzione nel movimento della realtà che si vive.

È in questo spirito che proponiamo questi pensieri che seguono, spigolati nel corso dei capitoli di questo libro. Essi invitano a «ridirsi le cose», come Maria che, a forza di meditarle, realizza la giusta disposizione nel compimento del disegno inatteso di Dio. Tale maniera di fare ha, perlomeno, come effetto, di conservare in ciascuno la vitalità spirituale, senza essere tentata, per via di un esagerata attività intellettuale o di tensione affettiva, d’arrestare in lui l’incessante gorgoglio dello Spirito.

 

Il dialogo

  • Nel dialogo, l’uno propone, l’altro reagisce.
  • Non affidare la tua anima a chicchessia. Una guida sceglila tra mille, è una regola di saggezza universale.
  • Non improvvisiamoci accompagnatori, lasciamo che gli altri scoprano in noi questo carisma.
  • L’accompagnatore? Il testimone di una vita che lo supera. Lui stesso è colui che interroga i suoi discepoli del Maestro interiore.
  • Tu mi chiedi che fare? La risposta è uni te, io posso solo aiutarti a scoprirla.
  • La tua libertà risveglia l’altro alla sua libertà. Tu lo confermerai maggiormente per ciò che sei più che per le tue parole.
  • Lascia venire quel momento in cui una parola breve, semplice e tonificante, ti sarà donata: che darà gioia e luce in colui che la riceve.
  • Sii magnanimo con il tempo. Forse occorreranno degli anni perché la parola uscita da te porti frutto in colui che l’ha ascoltata.
  • Non trattenere colui di cui hai incrociato la strada, lascia allo Spirito la cura di nuovi incontri.
  • Custodisci il tuo cuore libero, gioioso e distaccato. Le persone appartengono a Dio.
  • In ciascun dialogo, ascolta in te e nell’altro, l’appello dello Spirito. Raggiungi ciò che ciascuno porta in sé di divino.
  • Ricordati che il segno che Dio è con te, è la pace che sperimenti, l’indifferenza ai risultati. Rimetti l’altro al suo Creatore.

 

La relazione

  • Due persone messe in presenza delle realtà più profonde, si rallegrano nella fede che sperimentano nella vita dello Spirito. Due mondi si incontrano, la libertà e la grazia.
  • Ricevere liberi e disarmati. Curioso miscuglio di fermezza e dolcezza, di sicurezza e debolezza.
  • L’amore che è nel cuore, ma rimonta alla sua sorgente, dona libertà di parlare e di tacere.
  • Essere presi dallo Spirito, riversare verso un altro una vita che viene da oltre.
  • Negli incontri due libertà si ricevono da Dio che dona loro di conoscersi per accenderli ad un più alto grado di libertà nell’amore.
  • Le relazioni di un giorno come quelle di tutta la vita, non appartengono a te.
  • Legami segreti di vita che non asservono, ma danno agli esseri di esistere.
  • La paternità spirituale costituisce una relazione unica, immagine della paternità di Dio. Essa è come il fiorire di tutte le cose nel mistero trinitario, comunicato all’uomo per Gesù Cristo nella Chiesa.
  • L’amicizia, un incontro nella similitudine del desiderio spirituale. Due libertà si ricevano da Dio riconoscendo di non avere l’uno sull’altro nessun diritto.
  • Tali relazioni rivolgono i cuori verso un oltre da scoprire incessantemente. Sono un anticipazioni del Regno dove le persone si conoscono reciprocamente nella luce di Dio.
  • La maniera sempre più libera di vivere una relazione, senza ricerca di sé, apre alla vera castità, condizione di ogni incontro e di ogni amore. Quaggiù sulla terra non finiremo mai di scoprirla.
  • L’amore casto è l’amore diventato trasparente alla vita di Dio che è amore.
  • Tutte le potenze affettive della persona sono sempre più aperte nella consegna della propria libertà allo Spirito e vengono trasfigurate in Lui. Esse lasciano passare in loro il movimento dell’amore che fa comunicare le persone senza mai farle fermare su se stesse e dona a ciascuno di conoscere nell’amore la propria identità.

 

Lo sguardo

  • Lo sguardo di Dio è uno sguardo creatore.
  • La preoccupazione primaria del maestro spirituale deve essere quella di cercare nella Sacra Scrittura come Dio vede le cose, l’uomo, la sua storia. Così si forma lo sguardo della fede, sguardo contemplativo.
  • Il vero accompagnatore volge su colui che bussa alla sua porta uno sguardo dall’alto. Come Gesù accoglieva ogni uomo che il Padre gli mandava.
  • Lo sguardo contemplativo vede tutto l’universo, visibile e invisibile, attraverso il desiderio dello Spirito.
  • Portare sull’altro uno sguardo luminoso, nel quale nulla viene omesso: né la sua grandezza, né la sua miseria.
  • Questo sguardo interdice il giudizio, ma rimette l’altro a Dio e al suo segreto.
  • Il male non è nelle cose, ma nello sguardo che desidera catturarle per sé.
  • Lo sguardo di Gesù è quello del Profeta che vede le cose dal di dentro e per il Quale l’avvenire è presente.
  • Lo sguardo penetrante di Gesù è quello del Creatore, dell’artista, dell’amante che non disprezza nulla, perché ne vede il riflesso dell’eterna bellezza.
  • Gesù ci invita a sviluppare questo sguardo del cuore per giungere a vedere le cose come le vede Lui, sguardo di verità in cui traspare la luce dello Spirito.
  • Tutto lo sforzo dell’ascesi ha come finalità far crescere nei nostri cuori il desiderio di Colui che già li ha toccati, ma che ci ha lasciati sua nell’assenza.

 

La Libertà

  • La libertà, pericolo e possibilità di una persona che può attendere alla sua vocazione solo nella consegna all’amore.
  • La vita chiama vita. La libertà suscita libertà.
  • Cerca di viverla e scoprirai ciò che è.
  • Vuoi diventare libero? Comincia con il renderti conto che non lo sei e impegnati nella lotta per diventarlo.
  • Sin dall’inizio, due realtà sono legate l’una all’altra: non c’è libertà senza amore, non c’è amore senza libertà.
  • La libertà senza amore è vagabondaggio, l’amore senza libertà diventa schiavitù.
  • Accetta ciò che sei, ma supera la tentazione di fermarti in te. In ogni cosa vai sempre oltre.
  • Ciò che tu sei, non lo vivi per te. L’ascia all’Altro di venire in te per insegnarti la strada della libertà e dell’amore.
  • Il maestro spirituale deve rispettare la persona che scopre la propria libertà e diventa capace di amare. Deve lasciarlo venire senza imporgli nulla. Come Gesù.
  • Venuto il momento di deciderti, «entra nella tua camera», il luogo segreto del cuore è là, solo davanti a Dio, vedi ciò che devi fare. Lì scoprirai il volto che l’amore dona a te stesso.
  • Là dove noi siamo, diventiamo i cooperatori di Dio per portare a termine la sua creazione: la trasfigurazione.
  • La libertà non è una trappola.
  • Essa non dipende dai condizionamenti esteriori, ma da lucore che riconosce in tutte le cose un cammino verso Dio.
  • Entra in te stesso e non cessare mai di uscirne, allora sarai libero.
  • L’ostacolo alla libertà? Fare da sé la regola della felicità, tirare dalla propria parte la giustizia.
  • Per diventare libero, impara lo stile di vita del Vangelo, quello delle Beatitudini.
  • Vivi nella fede il dinamismo della libertà e della grazia, esso ti trasporterà come un fiume.
  • Diventa perfettamente libero consegnandoti all’amore unico e necessari, spezzi così le tue catene e non vuoi più altro che lasciare vivere l’amore.
  • Nei Santi, la grazia non distrugge la natura, ma la trasfigura e la orienta verso il Regno.

 

Il tempo

  • Dio lancia gli esseri nell’esistenza, perché diventino nel tempo ciò che sono in Lui dalle origini. Ritorna a ciò che se dalle origini.
  • Occorre al credente tutto lo scorrere della sua vita sulla terra per scoprire poco a poco il tesoro nascosto che egli porta dagli inizi.
  • Il battesimo è l’inizio della vita nello Spirito. In esso tutto è presente come in un seme.
  • In una fede vissuta nel quotidiano, fai l’esperienza di ciò che viene.
  • Lo Spirito ti fa riconoscere la sua presenza per l’incessante sollecitazione che Egli esercita su di te per spingerti più avanti.
  • La trasformazione in amore non è mai finita, perché Dio è amore.
  • Riconosci il bisogno che hai, insieme no tutti gli uomini, di essere riconciliato con Dio in Gesù Cristo. La libertà che acconsente al riconoscimento del peccato, si lascia portare al di là di sé dalla grazia che la giustifica.
  • Il perdono mi dispone alla luce e la luce all’unione.
  • Il battezzato è una persona chiamata ad irradiare attorno a sé l’amore che lo colma.
  • Per mezzo dei sacramenti entriamo nell’«oggi» di quel tempo nuovo inaugurato da Gesù Cristo.
  • I sacramenti sono situati al limite tra due mondi: del presente che essi sempre consacrano e contestano; dell’eternità che è già qui e rimane velata.
  • I sacramenti sono un germe celeste in cui noi cominciamo a marci gli uni gli altri dell’amore eterno con cui il Padre ama il Figlio e, per mezzo di Lui, tutti gli uomini che gli dona come fratelli.
  • Ed ecco l’inatteso: l’età dei perfetti, di coloro che hanno ritrovato l’infanzia.
  • Il metodo: strada per condurre al di là delle strada, dove dove tutte le strade convergono verso l’Unica, Gesù Cristo.
  • Ricordati spesso che tu non sei che all’inizio delle meraviglie.

La prova

  • Nella prova, l’uomo lasciato a se stesso, alla sua fragilità, alla sua solitudine, è svegliato per mezzo della fede ad un altro mondo.
  • Portando in sé il desiderio della vita, l’uomo cresce sotto il segno della morte.
  • La prova è un test di ciò che io porto in me di miseria, ma anche di ricchezze. Essa rivela il meglio e il peggio dell’uomo.
  • Un cammino doloroso può diventare un cammino luminoso.
  • Nella prova, la libertà, al di là di ogni scelta possibile, è invitata al consenso.
  • Il Cristo non ha spiegato il mistero della sofferenza, ma vi è passato.
  • Il superamento delle prove non può avvenire senza un ricorso costante a Gesù Cristo.
  • Straziata dal problema del male, la libertà cresce nella fede e viene a credere all’amore.
  • Gesù non insiste tanto sul rinnegamento quanto sulla fecondità.
  • Ogni Eucaristia, anche se noi fossimo affranti dalla sofferenza, ci rilancia nella speranza della gloria.
  • Parlare della croce, senza parlare della gloria è falsarne il senso.
  • È nel Cristo in cui vive che il cristiano accoglie la prova.
  • Il Cristo è Lui stesso la spiegazione: bisognava che soffrisse per noi!
  • L’obbedienza che si vuole radicale non è vera che presso persone piene di vita e capaci di amare. Essa non si comprende che nel desiderio di lasciare che il Cristo prenda in Sé tutto ciò che noi abbiamo ricevuto da Lui di intelligenza, volontà, capacità di essere e di amare. Occorre vivere orientandoci noi stessi a fare della nostra vita un dono. 
  • In questi momenti cruciali, il maestro, come il discepolo, deve custodire la fede nello Spirito, che attende il consenso della libertà per agire.
  • Ogni volta che siamo nella prova sentiamo il desiderio del «bel silenzio».

 

La preghiera

  • L’attività e la passività nell’orazione fanno accedere alla sola e vera preghiera, quella di Gesù Cristo nella quale lo nostra si ritrova.
  • Il solo maestro, lo Spirito Santo.
  • L’aiuto dell’accompagnatore è soprattutto necessario per permanere in un giusta disposizione d’animo. La frequenza delle Scritture glielo permette.
  • Egli non deve mai dimenticarsi che in campo spirituale si può insegnare bene solo ciò che si vive.
  • Non si tratta di riempire un certo tempo previsto con la preghiera, ma di incontrare Dio nel cuore.
  • Orienta il tuo cuore verso il desiderio. Chiedi i doni spirituali.
  • Per durare nella preghiera, impara a sottometterti al ritmo tradizionale della lettura e della preghiera.
  • Ricevi la Parola nella fede per superarti e trovare Dio nel silenzio dell’amore.
  • La mente che cerca il luogo del cuore, si apre alla luce dello Spirito.
  • Nel cammino della preghiera, impara a passare attraverso gioie, tristezze, lacrime, senza esaltarti, senza stupirti, senza accusarti. Riconosci Dio che ti colma e ti purifica.
  • Il «gusto», se viene dallo Spirito, non ferma la persona su se stessa, ma l’apre a DIo e agli altri.
  • Dio non ti diventa presente che cercandolo sempre.
  • Il confronto con la vita quotidiana giudica la bontà della vita di preghiera.
  • Il termine di questa lunga educazione, è la Parola divenuta vita, sotto l’azione dello Spirito.
  • Apprendi a riposarti non in te, ma in Dio.
  • Riconosci in te la grazia sempre operante, anche nell’oscurità.
  • Nella tua preghiera supera l’ostacolo della paura o del dovere, per entrare nella strada dell’amore. Impara a vivere nella libertà dello Spirito.

 

Lo Spirito

  • Lo Spirito è presenza di Dio nel mondo per l’opera che Egli vi compie e per l’unione che realizza tra gli esseri. 
  • Scoprire nello Spirito Santo l’anima della nostra vita e di tutte le cose.
  • Il maestro deve iniziare il discepolo al mistero di cui lui stesso è sempre più penetrato.
  • La presenza universale dello Spirito non si impone. Essa si propone e chiede per compiersi il consenso della creatura.
  • La voce dello Spirito ci dice: Ricevi, accogli, riconosci il dono che ti viene fatto.
  • È quel «Sì» dove tutta la sua persona si impegna, che conduce Maria fino alla sommità dell’opera divina.
  • Per la fede e il consenso di Maria, l’umanità è riconciliata con Dio.
  • Noi, nella Chiesa come in Maria, non cessiamo di consentire alla presenza in noi del Cristo Risorto di trasfigurare la nostra umanità.
  • Per uscire dalla confusione in cui viviamo, esercitati all’«esame dei pensieri». Non prendere per te, come Adamo, il frutto destinato a tutti. Prendi parte al combattimento al quale Cristo ci conduce nel corso di tutta la storia dell’uomo: ricevere da Lui il frutto che deve fruttificare nelle nostre mani.
  • Il nostro combattimento: «Prendi te stesso come regola di vita» o «Vuoi cominciare a guardare fuori di te e a volere l’altro per sé stesso?».
  • Ecco qualche regola di questo discernimento nel quale consiste il nostro combattimento:
  • In ogni cosa, impara ad accogliere ciò che ti viene donato e impara
    a passare oltre.
  • Lascia che il pensiero di Dio ti invada per non gioire che in Lui e in rapporto a Lui.
  • Nel ricordo del Signore Gesù, passa al vaglio tutti i movimenti interiori della tua persona, esame che permette di discernere i meglio.
  • Questo discernimento, operato all’interno di tutto ciò che tu vivi, ti farà passare ala di là degli stati d’animo e ti renderà capace di ricevere le mozioni dello Spirito.
  • Tu cerchi di scoprire la volontà di Dio? È in noi stessi che essa è scritta.
  • Spesso noi cerchiamo di adempiere un compito non considerando che è lo Spirito che vuole compierlo in noi. Non cessare di uscire da te stesso per scoprire il Signore Gesù che vive in noi con il suo Santo Spirito.
  • Dio ha rimesso l’uomo a se stesso perché diventi creatore di se stesso. Risveglia in te il desiderio di vivere, ma non ti paragonare agli altri, non crederti né migliore né peggiore.
  • Il rinnegamento di te stesso sia per te la purificazione del desiderio per un più grande dono di te.
  • Sviluppa la tua grazia propria, ma non ti fermare su di essa.
  • Tutto è possibile, tutto ti appartiene, dal momento che tu non cessi di ricevere da Dio la chiamata e la sua realizzazione.
  • Non ti fare degli idoli delle tue opere.
  • Nelle tue scelte, non ti dimenticare: «Tutti i movimenti per Dio, non sono necessariamente una volontà di Dio» (Surin)
  • Al di sopra di tutto: «All’amore che ti trasporta non chiedere mai dove va».

 

Il testimone

  • La guida spirituale è un testimone della libertà che Dio rimette all’uomo.
  • Egli cerca di risvegliare la libertà al mistero della Chiesa e a quello del mondo.
  • È nella Chiesa che il neofita trova il Cristo, ed è il Cristo che, attraverso tutto, egli cerca nella Chiesa. 
  • Ama il mondo che è da Dio, ma non fermarti in esso come in un assoluto.
  • Che sarebbe la Chiesa senza il mondo? Che sarebbe il mondo senza la Chiesa? Vivi la tensione dei due nell’unità del tuo essere spirituale.
  • Il padre spirituale è colui che, dall’inizio, fa intravedere la meta e dona il senso della grazia sempre presente. Egli aiuta a dare senso alla vita, ad ogni vita, superandola e dirigendola verso lassù.
  • Testimone di questo mondo che passa, la sua maniera di essere nel mondo è una maniera di essere di Dio.
  • C’è una dottrina sull’accompagnamento? Ognuno la sua maniera la scopre a poco a poco, nella misura che la esercita su coloro verso i quali ha un influsso profondo e buono, senza imporsi.
  • La sua vita è unificata per la presenza dello Spirito che la muove, ciononostante ci sono giorni in cui egli si trova poverissimo allo sguardo degli altri.
  • La sua maniera di fare, come quella di Maria, a qualche cosa dell’immensità e della tenerezza di Dio.
  • La sua gioia è quella della trasparenza, lasciando cadere su coloro che lo incontrano la luce che sa venire da oltre.
  • Gioioso, se riesce, affatto scoraggiato, che fallisce. Sempre ponto a ricominciare come anche a lasciare tutto, quando viene l’ora di doverlo fare. Presenza intensa, ma libera.
  • Per lui la vita non si mostra, ma si dona. La si prende o la si lascia, secondo la volontà di ciascuno.
  • Compito unico di colui che lo deve vivere riconoscendosi servo inutile. Dio lo ha introdotto nel suo segreto. È a Dio che lascia la cura di rivelare quando il tempo è arrivato.
  • Questa opera, egli l’ama profondamente, ma non appartiene più al suo autore dal giorno che l’ha vista. Essa è di Dio, della Chiesa e di chi la vuol prendere.

 

P. Jean Laplace SJ

Una esperienza della vita nello Spirito

INDICE

 

 

Prefazione: Itinerario e accompagnamento

PRIMA DI ENTRARE NELL’ESPERIENZA

 Primi consigli sulla preghiera

  1. Il tempo, l’ora
  2. L’entrata. La tranquillità di spirito
  3. L’offerta di sé
  4. L’affettività spirituale
  5. La preghiera del cuore

aiuti in vista dell’esperienza

  1. La conferenza
  2. Il dialogo spirituale
  3. La condivisione fraterna
  4. L’esame quotidiano

lo spirito di un orario

in vista della preghiera del giorno dopo

  1. Il luogo della preghiera: il cuore (Mt 6,515)
  2. Una disposizione di entrata: il roveto ardente (Es 3,1-20).
  3. La fede nel chiedere (Lc 11,9-15).
  4. La ruminazione interiore della Parola.
  5. A chi Dio comunica la Sapienza?

1°       PRINCIPIO E FONDAMENTO
             DISEGNO DI DIO E RISPOSTA DELL’UOMO

la finalità della giornata: come cominciare?

in vista della preghiera di questo giorno

  1. La presenza attuale e creatrice di Dio (Sal 139-138).
  2. Le origini dell’universo e dell’uomo (Gen 1-2).
  3. La rivelazione del mistero (Ef 1; Gv 14; Rm 8; 1Gv 4,7-16; 3,1-3).
  4. La disposizione del cuore (Lc 14,25-33; Sal 40-39).

discernimento al termine della giornata

PRIMA TAPPA

L’invito alla conversione

2°       NELLE PROFONDITÀ

la finalità della giornata: la rivelazione del peccato

la meditazione

in vista della preghiera di questo giorno

  1. Il clima di queste meditazioni (Lc 5,1-11; Bar 1,15-3,8)
  2. La rivelazione del peccato (Gv 8; Gen 3; Rm 1-11)
  3. Ripresa di questa rivelazione nella parabola dei «due figli» (Lc 15,11-32)
  4. La conclusione di questa meditazione: «colloquio» o la «preghiera a Gesù»

primi passi nel discernimento

avvisi di fine giornata

  1. L’importanza dell’entrata in preghiera
  2. Aiuti per intrattenersi nell’orazione
  3. Pazientare nell’attesa
  4. «Raccogliere i frutti»

 

3°       LA PREGHIERA A GESÙ

la finalità della giornata: gesù salvatore

in vista della preghiera di questo giorno

  1. Schema di questa preghiera: «Meditazione dei peccati»
  2. Una sintesi nella Sacra Scrittura: le accuse di Dio ad Israele (Ez 16)
  3. Alcuni penitenti nella Sacra Scrittura
  4. Alcune preghiere di peccatori nella Sacra Scrittura
  5. La triplice supplica
  6. La misericordia e il giudizio

rimanere nella preghiera. ripetizione. esame

il sacramento della penitenza

al termine di questi due giorni: discernimento

 

SECONDA TAPPA

L’invito alla conversione

4°       LA CHIAMATA DI GESÙ

la finalità della giornata: la contemplazione del regno

la chiamata di Gesù

  1. La chiamata dell’uomo
  2. La chiamata del Cristo
  3. La risposta dell’uomo

in vista della preghiera di questo giorno

  1. Come si presenta Gesù (Lc 4,16-30)
  2. La descrizione del suo Regno: Libro della Consolazione (Is 40-50)
  3. La sua manifestazione nella debolezza della carne:
    «Il Verbo si è fatto carne» (Gv 1- 2,12)
  4. L’opera del Signore: «Maestro, dove abiti?» (Gv 1,38)
  5. L’offerta: «Potete voi bere il mio calice?» (Mt 20,20-33)

discernimento di fine giornata

 

5°       MARIA, OVVERO LA RISPOSTA PERFETTA

la finalità della giornata: i misteri… quello di maria

la contemplazione

in vista della preghiera di questo giorno

  1. L’Annunciazione (Lc 1,26-38)
  2. Il mistero di Maria
  3. Nazareth e lo smarrimento di Gesù al Tempio
  4. Il mistero della Verginità

affinamento e semplificazione della preghiera

il discernimento in questa contemplazione

 

6°       IL DISCERNIMENTO: LO STILE DI CRISTO

la finalità della giornata: la sapienza di cristo

la lotta da intraprendere

  1. La tentazione universale
  2. La chiamata del Cristo

la preghiera per chiedere di essere accolto

in vista della preghiera di questo giorno

  1. La preghiera di Salomone per chiedere la sapienza (Sap 8,17 – 9)
  2. La Legge del regno: le Beatitudini (Mt 5,1-12; Lc 56,20-26)
  3. Il Magnificat (Lc 1,46-55)
  4. La Legge della  comunità dei discepoli di Gesù (Fil 2)
  5. La lotta: Gesù tentato nel deserto (Lc 4,1-13)
  6. In mezzo alle prove e alle persecuzioni (Lc 21,8-19)
  7. La profondità della lotta

La regola delle nostre scelte: i due criteri (Es. Sp. 333)

 

7°       EDUCAZIONE AL DISCERNIMENTO: L’ELEZIONE

la finalità della giornata: la maniera di scegliere

l’elezione: di che cosa si tratta?

disposizioni in vista dell’elezione

  1. Maturità umana
  2. La rettitudine o la purezza delle motivazioni
  3. L’apertura all’amore

come fare l’elezione?

applicazioni

  1. La scelta di uno stato di vita
  2. Il cambiamento di uno stato di vita
  3. Le decisioni comunitaria

in vista della preghiera di questo giorno

  1. Il giovane ricco e Pietro (Lc 18,18-30)
  2. La grazia del discernimento (S. Giovanni e S. Paolo)
  3. La meditazione della memoria
  4. Cammino spirituale di Pietro

al termine di questi quattro giorni

 

TERZA TAPPA

L’invito alla conversione

8°       IL DONO DEL CORPO DI CRISTO: L’EUCARISTIA

la finalità della giornata: uniti a cristo

in vista della preghiera di questo giorno

  1. La «grande entrata»: La lavanda dei piedi (Gv 13)
  2. Il dono del suo Corpo (Lc 22,1-20)
  3. Il memoriale: la frazione del pane (At 2,42) e la Cena del Signore (1Cor 11,17-34)
  4. La carne e lo spirito (Gv 6)
  5. Il discorso dopo la Cena (Gv 14-17)

 

9° ALLE SORGENTI DELLA PERSONA E DELLA VITA. LA PASSIONE

la finalità della giornata: uniti a cristo

la preghiera davanti alla passione

la difficoltà: il muro

in vista della preghiera di questo giorno

  1. La preghiera del Giusto sofferente
  2. Come Gesù guarda la sua morte (Gv 12 e la Passione secondo i Sinottici)
  3. Come gli uomini hanno vissuto la Passione: la luce sul dramma universale
  4. Il grande testimone: il Padre
  5. La rivelazione del Mistero (Ef 3,14-21)

 

10°  L’UOMO NUOVO: IL CRISTO RISORTO

la finalità della giornata: il passaggio

la preghiera davanti al cristo risorto

il ritorno all’inizio

  1. L’uomo nuovo
  2. La Chiesa
  3. Dio in tutte le cose: la libertà

in vista della preghiera di questo giorno

  1. Gesù risuscitato e Maria
  2. I discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35)
  3. La comunità fraterna (Gv 21)
  4. La Chiesa. L’Ascensione (At 1,1-11)

 

CONCLUSIONE DELL’ESPERIENZA

bilancio e condivisione finale

mantenimento dell’esperienza

  1. La preghiera
  2. Le riprese: il rinnovamento dell’esperienza
  3. Aggiornamento intellettuale: la cultura

la vita nel discernimento: l’esame

la contemplazione per ottenere l’amore

in vista di questa contemplazione

 

IL RINNOVO DELL’ESPERIENZA

––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

 

Prefazione

ITINERARIO E ACCOMPAGNAMENTO

Non è facile trovare un titolo per esprimere il disegno di un libro. Nel campo spirituale, ogni parola si presta ad equivoci. Qualcuno ci aveva proposto: l’intelligenza del cuore. Ma questa frase domanderebbe delle lunghe spiegazioni e sarebbe così pretenzioso che sembrerebbe non essere un libro come un altro. In realtà questo nostro libro non è destinato ad essere letto, bensì ad essere esperimentato, infatti è l’itinerario di un’esperienza, simile ad un accompagnamento. Chi si accontenta di leggere queste pagine senza provarne lo spessore nella vita, non può essere capace di giudicarlo. Per questo, malgrado le possibili ambiguità, abbiamo scelto la parola «esperienza».

Ma un’esperienza della vita dello Spirito. Essa suppone una persona che si consegni crescentemente all’azione dello Spirito, per formare in noi Gesù Cristo e farci vivere nell’amore. Ed ecco una seconda difficoltà: per quanti lo Spirito Santo rimane il dio sconosciuto? Per quanti ancora ciò che riguarda la vita spirituale sembra qualcosa di irreale?

… nondimeno, noi cercheremo di presentarvi la vita spirituale, tale come ce la presenta la tradizione.

In effetti queste pagine sono il risultato di vent’anni di esperienza: ritiri di quattro giorni fino a quelli di Trenta Giorni, passando attraverso le tipologie di persone le più diverse. Dieci anni fa abbiamo pubblicato dei fogli, nati come schemi seguiti in ritiri di dieci giorni. Questa edizione è da tempo esaurita. Da più parti siamo stati sollecitati a rieditarli in modo definitivo. Ma come fissare su carta una vita che si evolve? quelle degli esercitanti e quella del direttore con loro.

Se noi diamo queste pagine alla stampa, è nella speranza che nessuno sei ingannerà sulla loro natura e sul loro uso. Esse sono come un residuo d’esperienza. La forma che converrebbe loro di più sarebbe quella degli aforismi dei Padri del deserto, una specie di raccolte di pensieri non organizzati logicamente, ma che invita ad entrare nella realtà presentata. L’ideale sarebbe che dopo aver letto questo libro, o anche semplicemente qualche pagina, il lettori si fermi, dimentichi ciò che ha letto e lasci che la preghiera si elevi dal suo cuore.

Questo insieme potrebbe costituire ciò che noi chiamiamo un ritiro o un corso di esercizi spirituali a condizioni che non si congeli l’esposizione. Essa raggiunge il suo scopo solo nella misura che si adatta a ciascuna persona o al gruppo. Presentiamo un ritiro di dieci giorni perché questa è a formula in cui noi più ordinariamente abbiamo dato gli Esercizi. Ma colui che se ne servisse, soprattutto se è solo, potrebbe accorciare o allungare a suo piacimento. È inoltre necessario, per seguire questo itinerario, ritirasi in una Casa di Preghiera? Quando è possibile questo è buono farlo, ma non sempre lo è. Perché dunque non seguirlo presso la propria casa, consacrando qualche tempo ogni giorno per un insieme di diverse settimane? Tutto è possibile.

Quest’ultima affermazione ne richiama un’altra. Ciò che noi qui offriamo, più che un aiuto per fare un ritiro, è una formazione alla vita dello Spirito. Senza dubbio è cosa buona qualche volta isolarsi per fare questi Dieci Giorni, ma la realtà che allora ci viene comunicata non potrà essere esaurita in una sola volta. Il germe mette anni per portare i suoi frutti e chiede di essere conservato nell’ordinarietà dei giorni che passano. Il suo sviluppo nella vita fa apparire ciò che rimane nascoste e ne verifica l’autenticità. E, siccome questa esperienza si estende a tutta la vita per trasformarla, non esclude alcuna categoria di coloro che cercano Dio nel profondo del proprio essere. La vita spirituale non è riservata a persone di particolari stati o ambienti. In altre circostanze si distinguono ritiri per laici, per preti, per religiosi, per giovani, ecc. Questa settorizzazione ha, sotto alcuni aspetti, i suoi vantaggi; sotto altri ha i suoi svantaggi. Noi ne abbiamo fatto spesso l’esperienza in ritiri dove si raggruppavano laici, gente sposata, preti, celibi, religiosi. Questo miscuglio permetteva di ritrovarci nell’essenziale, dentro e al di fuori di tutte le specificazioni. Come diremo più tardi, le condizioni richieste per ammettere qualcuno a fare questa esperienza sono da cercare, non dal lato dell’ambiente di provenienza o del ruolo della persona o della cultura, ma dal lato della maturità umana e di una certa disponibilità interiore.

Noi riteniamo appartenere alla tradizione degli Esercizi Spirituali. Ovviamente, di quelli di s. Ignazio. Questo vuol dire che queste pagine pretendono di esserne una interpretazione o un adattamento? L’uno e l’altro sono opera degli esegeti, degli storici della spiritualità, dei ricercatori. Il loro lavoro, come quello che concerne l’interpretazione della Parola di Dio o la sua trasposizione in linguaggio moderno, è necessario. Come sarebbe pericoloso fermarsi ad una lettura letterale degli Esercizi, ignorando la grande tradizione della Chiesa, quella precedente e quella susseguente, quella dell’Occidente e quella dell’Oriente, la cui ignoranza, in questo ordine spirituale, sarebbe pregiudiziale. Ma la vita non aspetta le nostre ricerche, noi saremo tutti morti quando i dotti avranno concluso i loro lavori. Il nostro punto di vista è quello dell’educatore per il quale la vita chiama la vita. È dunque quella di qualcuno che, credente lui stesso allo Spirito Santo e avvalendosi di ciò che la tradizione e l’esperienza personale gli hanno fatto capire della sua maniera di agire, consegna se stesso perché altri, incontrandolo, possano risvegliarsi alla vita dello Spirito che ci inabita.

Questo punta di vista pedagogico spiega la presentazione. Abbiamo conservato nello svolgimento del libro, la divisione in giornate, affinché possa essere utilizzato più facilmente, nel corso di un ritiro. Praticamente le note di ciascun giorno comportano un orientamento generale: dei consigli riguardanti la preghiera, dei testi per aiutare questa, infine dei consigli in vista del discernimento. In se stesse esse non hanno un seguito. L’unità si fa nell’esperienza stessa. È per questo che non è bene leggerle di colpo, ma man mano che l’esperienza le rende necessarie.

C’è un itinerario. È quello degli Esercizi, in quanto che questi fanno passare attraverso le grandi tappe dell’esperienza cristiana e aiutano una persona a discernere la volontà di Dio su di lei. Ma la presentazione di questo itinerario non è oggetto di un puro insegnamento. Questo è necessario soprattutto negli inizi. Ma la maniera con cui un itinerario viene proposto è finalizzato, non a costruire una sintesi spirituale, ma a personalizzare al vita della fede in una crescente libertà. L’oggetto della nostra fede deve diventare sorgente di unità e di vita.

Perché non pubblicare anche le note per dare il Mese Ignaziano? È, per adesso, credo prematuro, malgrado i trentacinque anni di esperienza già fatti. E, inoltre, questi Dieci Giorni possono, al bisogno, essere utilizzati a questo fine. È sufficiente percorrerli con più lentezza e dilungarsi nella contemplazione dei misteri della vita, morte e risurrezione di Gesù.

Tutto questo non è che esercizio, prova, suggestione, invito a camminare, in tutti i modi di disporsi all’azione dello Spirito per «cercare e trovare la volontà divina nell’organizzazione della propria vita» (EE 1). 

Maison Saint-Joseph, LA BERNIERE.

24 giugno 1972, nella Solennità di S. Giovanni Battista                               Torna all'indice          

 

 

PRIMA DI ENTRARE NELL’ESPERIENZA

PRIMI CONSIGLI SULLA PREGHIERA

Questi consigli è bene leggerli nel corso della prima giornata. Essi condensano e riassumono diverse annotazioni degli Esercizi. Inoltre è importante anche ricordarli durante il ritiro. Essi costituiscono una pedagogia della preghiera che vale per tutta la vita.

Ma è importante prenderli per quello che essi sono: un mezzo per disporre il proprio cuore. La preghiera è opera dello Spirito Santo, essa non è un fatto di volontà, di riflessione o di sentimento. Tanto più essa non può essere l’effetto di un insegnamento.

Un uomo non può insegnare ad  un altro uomo a pregare, né può fare per un altro un’esperienza di amore. il mistero dell’incontro rimane segreto di ciascuno: Entra nella tua camera… È la legge di ogni amore, dell’amore per Dio, per gli altri. Allora ama e fa ciò che vuoi.

Quello che noi possiamo fare, è aiutarci a meglio disporci, gli Esercizi cercano di disporci a qualcosa che non ci riveliamo da soli e senza la quale, tuttavia la vita non è più una vita.

Questi consigli sulla preghiera racchiudono già le condizioni necessarie ad ogni esperienza spirituale. Esse mirano a formare in noi le disposizioni che aprano il cuore ad ogni azione dello Spirito Santo, in particolare l’accoglienza di sé. Questa disposizione, che è lontana da essere una rassegnazione passiva e la cui natura si schiarirà poco a poco, fa parte di quella indifferenza richiesta da s. Ignazio per pregare. Per fare gli Esercizi, per condurre una vita umana secondo Dio. Accettazione di sé che è sia apertura all’avvenire che confidenza in Dio, sia accettazione di essere «un campo dell’esperienza dello Spirito Santo» (Theillard).

 

1. Il tempo, l’ora

«Occorre procurare di avere il cuore soddisfatto al pensiero di essere rimasto un’ora intera nell’esercizio, e piuttosto più che meno» (EE 12). In questa esperienza di preghiera nulla può rimpiazzare il tempo. Dubito che mai potremo sapere cosa sia la preghiera, se non ci siamo almeno una volta decisi a pagarne il prezzo, cioè a durarvi del tempo considerevole. Dopo la preghiera non è più la stessa: essa fa corpo con noi. È come in tutte le arti: la scioltezza è legata allo sforzo regolare.

Numerose testimonianze possono essere portate in merito. L’essenziale è là. Tutto il resto: letture, programmi di vita, discussioni, annotazioni… è secondario. Nessuno entra qui se non decide di dare il suo tempo, alcuni direbbero, a perdere il suo tempo per Dio.

C’è nel decidere di accordare del tempo alla preghiera, un atto di fede previo nell’operazione dello Spirito Santo nei nostri cuori: noi crediamo che la grazia può trasformare queste povere persone che siamo.

Praticamente questa decisione vuol dire: quattro ore di preghiera per giorno o anche cinque, se, secondo un consiglio degli Esercizi, l’esercitante sente il desiderio di svegliarsi di notte per pregare. 

Questa esigenza non può essere portata avanti senza aggiungere che ciascuno deve tener conto della sua situazione. Da qui l’elasticità dell’orario. Nel modo ideale, gli Esercizi sono dati individualmente. A ciascuno il compito di trovare il suo ritmo, ma questo deve avvenire anche quando si fanno in gruppo.

L’accettazione della durata fa passare dal piano intellettuale al piano spirituale, dall’insegnamento ricevuto all’esperienza pratica. Chi si accontenta di ascoltare una conferenza e dopo, di riflettere o di discuterne, s’attacca alla critica o alle idee. Senza dubbio, il profitto non è che apparente e passeggero. Egli tira la verità a sé, più che lasciarsi attirare da lei. Se prende il suo tempo, egli può rimanere là. Costringe se stesso a passare a Dio e a rimettersi a Lui.

Non dobbiamo essere pressati di sapere tutto prima, come se volessimo assicurarci contro i rischi. Succede della preghiera come della libertà e dell’amore. Non ne conosciamo la natura che esercitandoci ogni giorno

2. L’entrata – La tranquillità di spirito

«Prima di incominciare la preghiera, distendo lo spirito sedendo o passeggiando, come mi sembra meglio, e pensando dove vado e a che scopo» (EE 239). A volte il corpo si rilassa, lo spirito si raccoglie, il cuore si apre. Si realizza così il «levati i sandali» indirizzato a Mosè (Es 3) e il «chiudi a chiave la porta» del Sermone della Montagna (Mt 6,6).

Molti si immaginano che preparare l’orazione è fissarsi un soggetto, prevederne i punti, come si agisce quando si deve fare una dissertazione secondo un progetto previsto. Invece conviene fissare il proprio spirito su un punto o su un altro per non dimorare nel vago. «Cerco da dove cominciare» è una espressione frequente nel Diario di s. Ignazio. Così lo spirito è in pace. È la ragione per cui proponiamo dei testi della Scrittura come punto di partenza della preghiera.

In questa focalizzazione dello spirito, è tutto l’essere che si raccoglie e si semplifica. Affinché si risvegli la preghiera, è importante che lo spirito non si divida attorno a molti oggetti. Si raccolga in se stesso su un solo punto, per essere meglio aperto all’ispirazione che, attraverso questo punto, lo Spirito gli comunicherà.

Ci sono dei direttori di esercizi che vogliono dire tutto: essi ingombrano lo spirito, impediscono l’assimilazione personale, faticando così prima ancora che inizi la preghiera. Ci sono degli esercitanti che cadono nello stesso difetto: vogliono sentire parlare di tutto, vogliono approfittare del ritiro per mettersi al corrente delle idee alla moda o degli ultimi libri usciti. Gli uni e gli altri dimenticano che, nel corso degli Esercizi Spirituali, è molto meglio lasciare «il Creatore e Signore comunicarsi lui stesso all’anima fedele» (EE 15).

Il corpo partecipa a questo raccoglimento con la sua disponibilità: «seduto o in piedi», cioè in un’attitudine di vigilanza o di distensione. Giacché dobbiamo imparare che la posizione del corpo non è affatto indifferente alla preghiera, tanto più una respirazione tranquilla. Non occorre essere un appassionato di yoga o di zen per farne l’esperienza. È sufficiente di lasciarci prendere da un oggetto: tutto il corpo partecipa all’attenzione. «Cominciare la contemplazione quando in ginocchio, quando prostrato, quando con il viso verso il cielo, quando seduto, quando in piedi, desiderando sempre cercare ciò che voglio» (EE76). E se tale postura mi conviene, perché volerla cambiare?

Lo spirito e il corpo si distendono, la vera attenzione diventa possibile, quella che non richiede sforzo. È sempre opportuno domandarsi se tutto sia andato bene, quando usciamo dalla preghiera nervosi. Forse si dovrebbe cambiare qualcosa della nostra maniera di fare. La tensione è segno che noi contiamo solo sul nostro sforzo, che non sappiamo ancora che significhi essere rilassati per essere maggiormente presenti.

3. L’offerta di sé

Colui che intraprende gli Esercizi offre a Dio «tutto il suo volere e tutta la sua libertà, perché la divina maestà si possa servire di ciò che egli è e di ciò che ha, secondo la sua santissima volontà» (EE 5). Ciascuno entra nella preghiera con tutto ciò che è: «tutto il suo cuore, tutta la sua anima, tutto il suo spirito, tutta la sua forza» (Mc 12,30), il suo «essere tutto intero, spirito, anima e corpo» (1Ts 5,23), disarmato, senza difese, con la sua vita reale.

Molti oggi insistono su questo punto: noi preghiamo con tutta la nostra vita. Ma cosa vuol dire questo? Cos’è questa vita che essi desiderano trasformare in preghiera? Si tratta di venire a Dio con la propria vita trascinando nella preghiera le sue amarezze, le sue delusioni, le sue critiche e i suoi giudizi sugli altri. Pregare con la propria vita, è per prima cosa offrire tutto il complesso di ciò che noi siamo, affinché Dio lo purifichi, è «domandare a Dio nostro Signore che tutte le mie intenzioni, le mie azioni, le mie operazioni siano puramente ordinate al servizio e alla lode della divina maestà» (EE46).

Non è sufficiente, dunque, per pregare con la vita, rimanere al livello della superficie o della reazione sensibile. Ciò che io offro a Dio, è la mia persona con tutte le sue capacità di esistere e di amare, nel desiderio che lo Spirito penetri nelle profondità del mio essere donandomi uno sguardo e un cuore nuovo: «Dio, crea in me un cuore puro» (Sal 51-50, 12), cioè: quando tu preghi, fai un atto di vera libertà, entra nella tua camera, là dove tu sei te stesso, senza occuparti degli sguardi degli altri o delle formule da impiegare e il Padre che vede nel segreto ti farà il dono del suo Spirito.

La generosità – una delle parole più equivoche del linguaggio spirituale – non consiste nell’esercitarsi in grandi sentimenti, fossero anche a servizio di nobili cause, ma a discernere un po’ più in profondo ciò che noi siamo in verità e, accettando di guardarci in faccia e di presentarci al Signore così come siamo perché Lui compia la sua opera in noi. La libertà si offre alla grazia. È così che la preghiera non è mai separata dalla vita e dall’essere di ciascuno.

Per alcuni è possibile che questo linguaggio rischi di non rimanere a loro estraneo: costoro fuggono da se stessi, vivendo nella preoccupazione dell’apparire o dall’essere giudicati dagli altri, non hanno imparato ad conoscersi e ad accettarsi. È nella misura in cui una persona sviluppa ogni giorno la sua vitalità umana, soprattutto nell’ordine della relazione e dell’amore, che offre presa alla grazia. A torto noi spesso opponiamo le due, grazia e vitalità umana. La vera presenza di sé, è presenza a Dio, agli altri, alla vita. Tutto viene ad essere presente nella sua realtà.

4. L’affettività spirituale 

«Infatti non è il molto sapere che sazia e soddisfa l'anima, ma il sentire e gustare le cose internamente» (EE 2). Certamente, quando io entro in preghiera, vi entro con l’intento particolare di mettermi davanti a una determinata «storia da contemplare o da meditare» (EE 2), o con l’intento di scavare una parola di una preghiera di cui vorrei «contemplarne il senso» (EE 249). Come abbiamo detto, è importante sapere da dove cominciare, dove fissare il proprio spirito.

Allora, che si sta facendo?

Certamente è in primo luogo l’occhio della mia intelligenza che prova ad aprirsi alla verità, ma non come ad un oggetto di studio o una considerazione intellettuale. Ciò che si sta facendo, rassomiglia piuttosto allo sguardo di un artista sulla sua opera: egli va, viene, si lascia impregnare, la gusta. È proprio questo ciò che si propone colui che prega. Egli riceve la Parola. Sotto l’effetto dell’unzione che gli fa «ricordare» (Gv 14,26) le cose e «che tutti ammaestra» (1Gv 2,27), egli la rumina e si riporta senza fatica a ciò che ha inteso. Per questo s. Ignazio gli consiglia di «riposi sul punto nel quale trova ciò che vuole, senza avere fretta di andare più avanti, finché rimane soddisfatto lì» (EE 76).

«Gustare», «assaporare», «riposarsi», altrettanti vocaboli di un linguaggio affettivo che ridicono la stessa cosa. La verità religiosa non entra nella stessa maniera degli oggetti della scienza, passando da una proposizione all’altra con ordine logico. Un solo punto gustato apre agli altri, come nel Credo dove vi sono tutti gli articoli della fede, l’intelligenza di ognuno dei quali apre a quella degli altri. Noi non conosciamo Dio come un oggetto dell’universo, ma come una Persona vivente. La sua realtà ci è donata poco a poco per via di approcci successivi del cuore. Questo modo di fare non è negazione dell’intelligenza, ma la scoperta della verità come vita.

È normale che man mano che entriamo nella preghiera, domandiamo a Dio i doni spirituali che ce lo fanno conoscere, gustare, amare. La liturgia non cessa di domandare a Dio la sapienza, la gioia, la pace, il senso del sentimento del peccato, che è anch’esso una maniera di sentire Dio (per contrapposizione). S. Ignazio fa lo stesso ed entrambi sono nella linea della Sacra Scrittura e dei Salmi, in particolare: «Quanto sono dolci le tue parole alle mie labbra», «Il mio cuore mi ha detto: è il tuo volto che io cerco!», «Il mio cuore e la mia carne gridano di gioia verso di Te».

Nessuno deve stupirsi di un simile linguaggio. Nondimeno molti non hanno pensieri che possono essere raccolti per la preghiera e vanno alla preghiera come ad un dovere, curiosi amanti che si danno appuntamento solo per dovere. Se c’è aridità nella preghiera, essa pone un problema di cui è conveniente ricercarne le cause.

5. La preghiera del cuore

L’attività della volontà, allorché noi ci intratteniamo localmente o mentalmente con Dio nostro Signore… esige da parte nostra un più grande rispetto» (EE 3). Alla fine dell’esercizio, «parlare come un amico parla con il suo amico» (EE 54).

Lo spirito dapprima è invitato a riposarsi, perché il cuore possa aprirsi alla grazia e gustare Dio. Alla fine il cuore è invitato a riposarsi nel sentimento che Dio gli comunica della realtà. È la preghiera del cuore, l’intrattenimento con Dio dove ciascuno parla come lo comprende, nel più grande rispetto dell’amore.

Qui, non ci sono più regole da dare, tanto più a delle persone che sono accese d’amore. è l’amore che si crea le propri regole. Il linguaggio della preghiera è quello della libertà, dell’amore, della relazione. Alla fine, è il silenzio nell’adorazione, nello stupore e nella riconoscenza.

Molti, è possibile che siano scandalizzati per questo appello al sentimento. Tuttavia, un uomo non si equilibria se non nell’amore. A più forte ragione, se noi ci doniamo al nostro Creatore: è con tutto il nostro essere che noi andiamo a Lui. Come delle vite consacrate non sarebbero squilibrate se si sviluppano nella freddezza, per paura o ignoranza del sentimento?

Il sentimento, così come nella vita ordinaria, domanda non di essere rigettato, ma di essere educato e purificato. Questa formazione è uno degli obiettivi del discernimento degli spiriti. Come? Evitando il compiacimento o il ripiegamento su di sé. Il piacere che accompagna il dono di sé e l’incontro con l’altro è voluto da Dio; ma, se lo si rimarca troppo, si rischia poi di farlo rinascere senza alcun oggetto che lo susciti, allora si commette un’impurità. La vita, le difficoltà si incaricano di operare le purificazioni necessarie. Il mio sforzo allora consisterà nel non schivarle, sempre che non sia necessario farlo. Occorre che io giunga a volere l’altro, Dio, per loro stessi e non per il piacere che l’incontro mi possa procurare. Come la crescita nell’amore, lo sforzo non finisce mai.

La legge di tutta l’affettività, soprattutto quella spirituale, è, dunque, l’oggetto, la «cosa»: «sentire le cose» (EE 2). La vera preghiera, lontana dal condurre al ripiegamento su di sé, è, come l’amore vero, uscita da sé. Se essa si ripiega su di sé, è un segno chiaro che essa non è ricerca di Dio, ma di sé, i cui segni sono: tristezza, durezza del cuore, rifiuto degli altri, perdita del gusto di vivere e di comunicare con gli altri.

È facile comprendere che l’esperienza della vera preghiera, che è una relazione nello Spirito, non è estranea all’esperienza che noi facciamo dell’amore umano nelle nostre relazioni con gli altri. Come comprenderà i linguaggio dell’amore di Dio, colui che non intende affatto il linguaggio dell’amore altrui? Noi possiamo parlare solo di ciò che conosciamo. Molte delle difficoltà che si pretendono essere di ordine spirituale, si radicano nell’ignoranza o nell’assenza di uno sviluppo di ordine umano.

Aggiungiamo che più grande è la capacità umana di una persona, più necessita di un equilibrio affettivo nell’ordine spirituale. Senza questo, si produce una grave frattura in una vita umana che si evolve e una vita spirituale che si sclerotizza e infantilizza. Qui tocchiamo una delle cause più frequenti delle crisi della vita religiosa.

AIUTI IN VISTA DELL’ESPERIENZA

«Affinché il direttore e gli esercitanti trovino maggior aiuto e profitto… » scrive s. Ignazio (EE 22) parlando della confidenza reciproca necessaria al cammino degli Esercizi, sia che si facciano individualmente oppure in gruppo, coloro che vi partecipano devono, in effetti, esaminarsi su come vivono insieme un opera dello Spirito Santo. Il loro incontro deve essere un aiuto per ciascuno e per tutti.

1. La conferenza

Lo scopo non è quello di fare un’esposizione dottrinale, benché di una dottrina che sostiene il cammino, piuttosto mira, a partire dell’insegnamento dato, a suscitare un’esperienza e ad indicare, quando possibile, i mezzi per portarla a termine bene.

Essa può comportare, in pratica, due parti: degli avvisi che costituiscono l’accompagnamen-to e un elenco di testi. Gli avvisi sono l’aiuto comune in vista della preghiera e del discernimento, presentati man mano che si svolge l’esperienza. Essi non dispensano dal contatto personale, ma lo permettono più veloce e preciso. Dopo questi avvisi, degli orientamenti sulla preghiera. Possono essere presentati succintamente diversi testi, più per suggerire che per spiegare. Se la spiegazione è troppo lunga ed esaustiva, abbiamo spinto così più a discutere o a prendere appunti, più che a pregare.

In genere, sembra che una sola conferenza al giorno è sufficiente. Il miglior momento per darla è il mattino. Lo spirito, avendo ricevuto questo dono, ha bisogno di non essere interrotto nel suo movimento. È ugualmente cosa buona la sera indicare, in pochi minuti, gli orientamenti di preghiera dell’indomani.

Occorrerà dire una parola sul modo di ascoltare, citando la parabola dei quattro terreni: cuore sgombro, aperto, pacifico, come se le parole intese venissero a risvegliare una verità che già possediamo, ma che sonnecchia. La preoccupazione non deve essere quella di ritenere tutto o prendere nota di tutto, ma quella di disporre il cuore alla preghiera e al giorno che viene. Attenzione alla maniera di prendere appunti! Qualche volta gli alberi nascondono una foresta.

Questa maniera di fare suppone che da una parte e dall’altra siano persuasi che il vero maestro è Colui che parla non agli orecchi, ma al cuore. Se noi cerchiamo di capire attraverso le parole umane «quanti usciranno senza aver nulla appreso» (s. Agostino)? In effetti, anche se uno scambio di idee non è possibile durante la conferenza, essa rimane sempre una condivisione di una verità di cui siamo tutti discepoli. Io che parlo ti dono ciò che ho. E tu che fai? Io non lo so. Io mi consegno a te senza difese, dicendoti quello che, secondo le circostanze, lo Spirito mi ispira. Da parte tua, apriti senza pregiudizi. Nessuno deve entrare qui con curiosità. Rimani umile nel tuo sforzo, evitando di scervellarti sulle oscurità o sulle impossibilità. Il Signore le leverà al tempo opportuno, se tu pregherai.

2. Il dialogo spirituale

L’ideale rimane il ritiro individuale. Allora il ruolo della guida è evidente. Nondimeno, il ritiro di gruppo, ha la sua utilità: insegnamento ricevuto, aiuto fraterno, costituzione di una piccola comunità cristiana. Alla persona capire, a suo tempo, ciò che le conviene di più.

Nel ritiro di gruppo, l’aiuto personale non è meno necessario, soprattutto all’inizio. Gli avvisi comuni che, in un certo modo, suppliscono la messa a punto individuale, permettono un incontro con la guida molto più breve.

Occorre dare una regola? Visite corte e frequenti, tanto più frequenti quanto meno profonda è la conoscenza che il direttore ha degli esercitanti; coloro, invece, che sono ben conosciuti dalla guida, potrebbero avere anche un solo incontro in tutto il corso degli Esercizi. Quello che è certo, è che queste visite fatte al momento giusto, evitano errori, scoraggiamenti, passi falsi, perdite di tempo.

Qual è la finalità di queste visite? La stessa dell’esame, di cui parleremo più avanti. Perché voler parlare di tutto? È importante soprattutto rendere conto di come ci si sta comportando, delle luci ricevute nel corso del cammino, degli ostacoli scoperti che allentano la nostra libertà. In tutti i modi, tocca a ciascuno sapere su cosa voler intrattenere il direttore, al quale conviene rimanere con riservatezza: il suo ruolo è quello di ricevere ciò che gli viene confidato e reagire in base a questo. Molti rischiano di rimanere sconcertati di fronte a questo silenzio: vorrebbero essere interrogati. Questa loro indole allora deve essere riconosciuta come il segno di un qualche ostacolo interiore che sarebbe bene chiarire per diventare più liberi.

È bene all’inizio che l’esercitante manifesti l’idea che ha del corso a cui partecipa e cosa si aspetta da esso. Questo potrebbe essere l’oggetto della prima visita. D’altronde è possibile che l’esperienza lo porti a modificare questa idea e a ricevere altre cose che dapprima non si attendeva.

Questa manifestazione dei pensieri si collega a tutta una tradizione che va oltre il cristianesimo, quella del maestro spirituale. Questa si fonda sulla legge dell’educazione umana: nessuno si forma da sé.

3. La condivisione fraterna

Quando un ritiro viene fatto in gruppo, è bene proporre a coloro che lo desiderano di condividere l’esperienza in corso. Non si tratta di discutere, di dare consigli o di riceverne, ma semplicemente di condividere con qualcun altro le luci ricevute o il modo che abbiamo di pregare.

Su questa condivisione possiamo fare qualche osservazione.

La partecipazione degli esercitanti alla condivisione deve essere fatta liberamente. Non sono ammessi uditori liberi od osservatori, del tipo: «Vado a vedere di cosa si tratta. Se la gente mi piace, tornerò». Questa condivisione è un esercizio spirituale dove ciascuno, come nella preghiera, si impegna così come è.

È bene che ciascun gruppo non superi i sette od otto membri. Una riunione più numerosa rischia di non permettere a ciascuno di parlare a suo agio. Bisogna stare attenti che non ci siano persone abituate a parlare che cambino l’incontro da condivisione di un’esperienza a discussione di idee. Ora sul piano dell’esperienza, tutti sono sullo stesso piano.

Per ricevere ciò che dice l’altro e donare se stessi, non è inutile, prima di cominciare il giro, di mettersi in silenzio. Un silenzio ricco condiziona la qualità della condivisione. Se nel corso della condivisione sentite il bisogno di fare qualche osservazione o di porre una questione, questo deve partire dal silenzio, non per opporvi, ma per meglio ricevere quello che dice l’altro o permettergli di meglio esprimersi.

Una simile condivisione non deve essere oggetto di nessun rendiconto e non devono essere fatte sintesi. Ciò che si è detto rimane un segreto di coloro che si sono reciprocamente confidati. Non si deve giudicare se stessi né gli altri, ma accogliere gli uni e gli altri nel movimento che lo Spirito suscita in ciascuno.

Quando sia possibile, l’esperienza deve essere perseguita per più giorni e con le stesse persone. Nel caso di ritiri molto lunghi, conviene iniziare queste riunioni di condivisioni dopo il terzo o il quarto giorno. Questo permetterà di assicurarsi che inizino in un clima di preghiera. Diciamo pure che all’inizio si potrà sentire imbarazzo o difficoltà ad esprimersi. Inutile forzare le cose. Come nella preghiera, la scioltezza verrà a poco a poco. Alla fine ci si darà così come si è, senza neppure pensarci, e questo avverrà in una mutua gioia, avendo trovato ciascuno nell’altro una nuova sicurezza.

Questa condivisione non sostituisce il dialogo personale, ma spesso lo semplifica e lo facilita. 

A coloro che pensassero: noi non possiamo continuare questa maniera di fare nella vita ordinaria – è sufficiente rispondere: non più tanto di come voi non pregate nella vita ordinaria come pregate in ritiro. Né in un caso che nell’altro, state cercate di assicurarvi un capitale spirituale utilizzabile successivamente, ma state consegnandovi allo Spirito Santo, nella condivisione come nella preghiera, per riceverne i benefici. Questa esperienza d’amore, fatta per se stessa e incomunicabile nel suo fondo, cambia la nostra maniera di vivere e le nostre ordinarie relazioni. Come dopo la condivisione eucaristica, la vita rimane quella che era, ma noi non siamo pi gli stessi.

Si tenga presente però che, nel caso di esercitanti che durante il corso di Esercizi si propongono il discernimento su un oggetto preciso, quale ad esempio lo stato di vita, la condivisione non è opportuna ed è da sconsigliare. Infatti l’esperienza comunicata da altri rischia di interferire nel movimento che noi seguiamo e di contrastarlo, soprattutto se noi non siamo ancora sicuri di noi stessi.

4. L’esame quotidiano

L’esame è legato tanto al dialogo spirituale che alla condivisione fraterna e all’esperienza tutt’intera. È un mezzo per permanere nella disponibilità spirituale a partire da ciò che si vive. Né analisi, né ripiegamento su di sé, né volontà di lasciarsi sfuggire nulla, ma apertura di tutto l’essere al soffio di Dio. Cerchiamo di riconoscere meglio l’azione dello Spirito, negli sviluppi dell’azione della grazia, prima di chiederci in cosa il nostro cuore si sia fermato.

Praticamente le domande seguenti possono aiutare a fare il punto ogni giorno:

1 – Domande riguardanti la preghiera: scelta del’ora, fedeltà, posizione, soddisfazione, luci, difficoltà. A cosa sono portato? Cosa mi riesce meglio?

2 – Domande riguardanti l’atmosfera della giornata: nervosismo, inquietudine, distrazione; gioia, tranquillità, silenzio del cuore; stato dei miei pensieri abituali; ordine del mio tempo.

3 – E anche, ciò che riguarda il mio stato di santità. Nulla è indifferente all’esperienza in corso.

Naturalmente sono preoccupato da alcune cose. Nel silenzio, esse mi rivengono in mente, forse mi turbano. Come prenderle? Alcuni le scacciano via come un ostacolo, altri dicono che non possono pregare senza di loro. In effetti, a partire da loro, un discernimento deve essere fatto. Esso verterà più sulla maniera di vivere questi pensieri che sulla loro soluzione immediata.

LO SPIRITO DI UN ORARIO

Anche colui che fa il ritiro da solo, dovrà fissarsi qualche orario, se non altro quello delle refezioni, dell’Eucaristia e della levata. A più forte ragione, se il ritiro è di un gruppo.

Una doppia esigenza contraddittoria presiede all’organizzazione del tempo: da una parte, la fedeltà alla preghiera: tutto deve essere fatto per favorirla; dall’altra, flessibilità e libertà, perché ciascuno trovi il suo ritmo. Il segno che un orario è buono è che favorisce la fedeltà nella pace. Avendone trovato uno così, perché cambiarlo? Le abitudini sono buone se permettono alla persona di donarsi maggiormente.

Ecco, a puro titolo di esempio, un orario che noi seguiamo frequentemente in un ritiro di gruppo:

09:30    Lodi, Conferenza

12:30    Pranzo

18:00    Celebrazione eucaristica

19:30    Cena

20:30    Vespri con qualche indicazione sulla preghiera dell’indomani

La condivisione fraterna può essere situata tre quarti d’ora prima della celebrazione eucaristica. Tutto il resto se lo regola ciascuno.

In un ritiro di gruppo, è bene considerare la possibilità di avere una équipe in vista della preparazione della Liturgia delle Ore e della S. Messa. Questa équipe contribuisce pure a sviluppare un’atmosfera fraterna, così preziosa per la preghiera.

D’altronde, ben presto, un legame profondo si fa sentire tra coloro che accettano di vivere insieme il silenzio per trovare il Signore. Ben lontano da quello vissuto con pesantezza, esso diviene l’atmosfera dove ciascuno si sente unito agli altri nello stesso Spirito. E questo anche colui che decide non di non partecipare alle condivisioni rimanendo solitario. 

Senza dubbio, facciamo allora noi l’esperienza di ciò che sono i fondamenti di una comunità di discepoli di Gesù. Dei legami segreti uniscono queste persone che ieri ancora non si conoscevano.

Occorre tacere nei pranzi? Il silenzio sembra artificiale solo a coloro che vivono pesantemente l’esperienza proposta. Per gli altri, è un bisogno. Naturalmente può diventare un silenzio teso in seguito ad un servizio molto lento delle portate o mal fatte. Sono dettagli che hanno la loro importanza. Una lettura accompagnata da musica può aiutare a custodire senza fatica questo clima di silenzio tranquillo e liberamente accolto.

IN VISTA DELLA PREGHIERA DEL GIORNO DOPO

1. IL LUOGO DELLA PREGHIERA: IL CUORE (Mt 6,5-15)

Ritirati in questo luogo segreto conosciuto da te solo. Non cercare di farti vedere, non assumere un ruolo, non ripetere formule già fatte. Sii te stesso davanti a tuo padre c he conosce il segreto del tuo cuore. La preghiera è l’atto di un essere libero che si mette al suo posto davanti a Dio e davanti agli altri.

2. UNA DISPOSIZIONE DI ENTRATA: IL ROVETO ARDENTE  (Es 3,1-20)

Davanti a Dio che si rivela a te come fuoco inaccessibile, levati i sandali. Perché Dio non si può afferrare, Egli si rivela, come due persone che si fanno conoscere l’uno all’altra. Allora tu lo conoscerai nel suo mistero, al di là di tutto ciò che si possa nominare, e da Lui tu sarai rivestito della tua missione. Va a trovare il Faraone. Io sarò la parola sulle tue labbra.

3. LA FEDE NEL CHIEDERE (Lc 11,9)

In questa attitudine, potrai chiedere tutto quello che il tuo cuore desidera. Come il Padre potrà rifiutarti il Santo Spirito se tu glielo chiedi? Giacché noi non sappiamo pregare come si conviene, lo Spirito eleva dei gemiti ineffabili (Rm 8,26-27). Prega lo Spirito ed Egli formerà in te il desiderio.

4. LA RUMINAZIONE INTERIORE DELLA PAROLA

Il credente si ricorda della Parola e se la ridice a se stesso: la memoria del cuore.

«Scriviti i miei precetti sulle tavole del tuo cuore» (Pr 7,1-3).

Io non mi dimentico della tua Parola (Sal 119-118).

Egli la rumina in se stesso per imparare la Sapienza e farne la propria delizia: il cuore è il luogo dell’intelligenza (tutto il Sal 119-118).

  • Gli Esercizi invitano a ricordare, a riflettere, più che ad applicare la propria volontà. È il ritmo normale della preghiera che si mette a scuola della Scrittura. Lì noi troviamo il gusto delle cose.

5. A CHI DIO COMUNICA LA SUA SAPIENZA?

A coloro che ne riconoscono la sorgente (Bar 3 – 4,4).

A coloro che la chiedono: preghiera di Salomone per chiedere la Sapienza (Sap 8,17 – 9).

Ai piccoli (Lc 10,21-22)

Ai cuori aperti: parabola de seminatore (Lc 8,4-15).

A coloro che vivono nell’amore fraterno (Mt 5,23-24; e il cenacolo: At 1,12-14).

  • «Fate attenzione a come ascoltate» (Lc 8,18). Gli Esercizi propongono un modo di disporsi ai doni di Dio.

     Torna all'indice         

PRINCIPIO E                                                                                      1°

FONDAMENTO                                                                      GIORNO

IL DISEGNO DI DIO

E LA RISPOSTA DELL'UOMO

 

IL PROGRAMMA DELLA GIORNATA: COME COMINCIARE?

Come iniziare? Occorre partire da qualche cosa. Oggi ogni scelta sembrerebbe arbitraria. Tutto viene rimesso in questione. Ognuno discute sul cammino da seguire per andare a Dio: da Dio al mondo, dal mondo a Dio… Il rischio è che, desiderosi di rispettare il cammino dell’altro, noi perdiamo il nostro tempo a discutere. Ora, non abbiamo tempo da perdere (Rm 13,11-12). Occorre andare all’essenziale.

Vi è una disposizione fondamentale senza a quale nulla è vero nei miei desideri, nei miei progetti, nella mia azione. Questa attitudine si situa al di qua e al di là delle nostre abituali opposizioni: preghiera e azione, interiorità ed esteriorità, le opposizioni che l’esistenza stessa stabilisce in noi, quelle della professione, dell’ambiente, della cultura.

Questa attitudine è quella della libertà che acconsente all’esistenza. Non la libertà che sceglie le cose a sua fantasia, ma quella che, nella conoscenza delle sue determinazioni e dei suoi limiti, si accoglie con tutto l’universo nell’amore che la fa esistere e fuori del quale non potrebbe svilupparsi.

In questo consenso vi è qualche cosa di unico, come il sì dell’amore tra due persone. Nessuno lo può donare al mio posto. E io non posso donarlo che scendendo nelle profondità della mia persona, là dove sono solo davanti a Dio, «là dove il Padre vede nel segreto». È nel fondo segreto che la mia esistenza riceve la sua unità e dove, allo stesso tempo,  raggiungo tutti gli uomini. Là, io non escludo niente e nessuno.

È in questo consenso che io comincio a relativizzare le cose, cioè a non fermarmi su di esse come su un assoluto, ma le guardo nella relazione che le fanno esistere, in modo che posso riceverle nella libertà e servirmene nell’amore. Così io scopro la legge di ogni vita che il compimento di sé nello scambio reciproco. Nessuno ha in sé il suo centro né il suo fine, tanto meno l’umanità che l’individuo. L’uomo non diviene se stesso che nella relazione. L’essere è il dono, la comunicazione.

Il compimento del mondo non si può realizzare che nella fedeltà a questo principio: accettare, man mano che vivo, di discendere nelle profondità e nella solitudine del mio essere, per scoprirmi solidale con ogni uomo e dato a me stesso da Dio. Ciò che fa il valore di una vita umana, non sono le grandi azioni realizzate, non è la reputazione che si possa avere, questi non sono vantaggi per la santità, e così pure la ricchezza né il numero degli anni, ma, nella situazione in cui mi trovo, in questo giorno di cui non so se avrà un indomani, nella libertà che si riceve da Dio in quell’istante, accettare di aprirsi all’amore. là inizia la pienezza della vita.

Questa prospettiva è forse un sogno? Per uscire fuori dall’astrazione, occorrerà decentrarmi e prendere da un altro la regola della mia vita e delle mie scelte. Sarà necessaria una rottura liberatrice, quella che mi farà prendere come evidenza vitale la legge evangelica: chi perde la propria vita la guadagna. La legge dell’amore, è l’accettazione della morte. Allora, tutto sarà semplice. Ma, giustamente, questo è difficile, impossibile.

In effetti, questo disegno, è solo Cristo che lo realizza in mezzo a noi. Per questo Lui è Colui che opera la trasfigurazione del mondo e la rende possibile. Egli vive la sua umanità nella libertà dell’amore. tutti i desideri del suo cuore tendono verso il compimento della volontà del Padre. Egli è pressato da questo desiderio: Egli ne vive e ne muore nella sua esistenza umana che non può non essere che breve, talmente egli ha fretta che tutto venga compiuto. Ma ci lascia il suo Spirito perché questa opera frettolosamente cominciata da Lui si continui in noi lentamente e attraverso i secoli. Tutta la vita spirituale consiste nel raggiungere nella nostra piccola vita umana questo orientamento profondo del cuore di Cristo. Allora in me, come in Lui, si continua a trasfigurazione del mio essere e del mondo.

Per compiere quest’opera, Egli ha posto la legge che Lui stesso ha seguito, quella del rinnegamento. Non un rinnegamento ascetico che è pura privazione o disprezzo delle cose. Lui, che ha fatto tutte le cose, come potrebbe chiedere di fuggirle? Ma, apertura all’amore che trascina al di là di tutto. Ciò che s. Ignazio esprime così all’inizio dei suo Esercizi: «Desidero e scelgo unicamente ciò che più mi aiuta a raggiungere il fine per il quale siamo stati creati» (Es. Sp. 23). La sua espressione non fa che tradurre la severità della vita e dell’amore. Vieni e seguimi. Se tu vuoi costruire un torre, prima siediti e chiediti se hai ben posto le fondamenta, al fine di poter condurre a termine la tua impresa (Lc 14,25-33).

A queste verità fondamentali, che sono la legge dell’esistenza, la fede dona un nuovo rilievo. Possiamo anche chiederci se senza essa, queste verità ci apparirebbero ancora con una tale luce. Esse ci fanno raggiungere il primitivo disegno di Dio sull’uomo: «Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza». Come potrà l’uomo comprendersi al di fuori di Chi è l’Immagine del Padre? È in Lui che siamo creati e nel Quale comprendiamo cosa vuol dire essere uomini.

La Rivelazione ci mette davanti la legge universale, quella dell’Amore che crea e si comunica. Così è anche nel Cristo che non vive che per il Padre. Così è nella Chiesa che non vive che per il Cristo. È così pure dell’uomo e della donna. È così per tutta l’umanità. Il compimento di qualunque essere non è possibile che nel riconoscimento dell’essere dell’altro, nella rinuncia radicale di sé. È il nulla che si apre al tutto.

Eccomi dunque imbarcato e la fede mi dice in quale avventura. Io posso, sotto questa luce, pormi almeno qualche questione per non sbagliarmi sulla strada. In effetti, una sola è sufficiente. In tutto ciò che mi accade, come rimanere libero per amare? In negativo, questo vuol dire: in molte cose ancora, io sento in me la paura, la costrizione, l’irritazione, la vigliaccheria. Faccio esperienza dei miei limiti. Posso almeno accettare di oggettivare ciò che mi asserve, per poi, senza arrabbiarmi, dimorare aperto alla luce? Che cosa succederà? Io non lo so. Accetto di non sapere e di rimanere senza difese né idee preconcette.

A partire da questo, tutto è possibile, perché l’essenziale è in gioco. Non devi evadere dalla realtà, né quella del mondo né quella tua. Tu vorresti che le cose fossero diverse da quelle che sono. Tu vorresti essere diverso da quello che sei. Questa realtà ti apparirà relativa, cioè essa prenderà il suo senso in un’altra. Allora comincerai a camminare senza paura, perché avrai cominciato a conoscerti libero di amare a partire da ciò che sei.

Vedi, non si tratta di negare nulla della tua vita né delle tue preoccupazioni ordinarie, ma di discendere un po’ più in queste profondità, là dove tu raggiungi l’amore creatore.

– Ma, è questa la perfezione che vi siete proposti all’inizio!

Sì, ma come un germe. Tutto è contenuto nel punto di partenza, ma occorre lasciarlo sviluppare nell’esperienza per comprendere quello che racchiude. Tutto ti è donato di colpo e tutto ti resta da fare.

A tutte le età della vita, io posso ritornare a questo fondamento. La sua verità prende ciascuna volta un valore più grande per via dell’esperienza accresciuta e accettata. Ritorno sempre allo stesso punto di partenza e ciascuna volta lo scopro nuovo.

Pervenuto alla sommità della perfezione, mi resta ancora di distaccarmi dalla soddisfazione che provo e della paura di compromettere l’equilibrio al quale credo di essere pervenuto. Chi si ferma per guardarsi, cade. Posso guadagnare nella misura in cui perdo il guadagno.

Queste verità domandano di essere ruminate. Dal momento in cui esse non sono più solo un semplice oggetto di considerazione o di discussione, esse passano al cuore e diventano inesauribili. Allora tutto cambia e tutto diventa possibile. La vita comincia a circolare, quella dello Spirito di cui «tu non sai da dove viene né dove và» (Gv 3,8). Tu sai solo che Lui è là e ti spinge.

IN VISTA DELLA PREGHIERA DI QUESTO GIORNO

  • Ogni testo, brevemente commentato, chiarisce degli aspetti dell’orientamento della preghiera del giorno. La loro varietà permette di scegliere ciò che sembra il meglio per i bisogni di ciascuno.

Prima di entrare in preghiera, è bene aver fissato bene il brano scelto, al fine di sapere da dove cominciare. È inutile di preoccuparsi degli altri brani, se noi troviamo ciò che cerchiamo in uno. Gli altri, se ce ne sarà di bisogno, potranno servire da lettura, nel corso della giornata, a condizione di non dimenticare che «non è l’abbondanza del sapere che sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e il gustare le cose internamente» (Es. Sp. 2).

1.  LA PRESENZA ATTUALE E CREATRICE DI DIO    

Sal 139(138): Dio, Tu mi scruti e mi conosci…

Questo Dio che noi cerchiamo, «non è lontano da ciascuno di noi» (At 17,22-31). Egli è più intimo a me stesso di me stesso, al cuore di tutte le attività, mi dona l’essere, il volere e il fare. [Sal 139(138),1-6]

Più discendo nelle profondità del mio essere, più scopro lo Spirito che raggiunge una estremità del mondo all’altra e a cui nulla sfugge (Sap 7,22 – 8,1), neppure le tenebre né il peccato. [Sal 139(138),7-12].

Il Dio che ad ogni istante mi dona a  me stesso, mi unisce a tutti gli esseri dell’universo, Egli ci lega nell’amore, perché se Egli ci ha fatti, ci ha fatti per amore: Se Tu avessi odiato qualche cosa, non l’avresti neanche fatta (Sap 11,21 – 12,2). Io mi sento superato da questo amore che non cessa di farmi essere e che è la stessa realtà più profonda. [Sal 139(138),13-18].

Questo amore, nel quale io mi scopro di esistere, io lo voglio totalmente. Che non sia come coloro che non tengono conto dei tuoi pensieri e che vogliono «servire due padroni» (Mt 6,24). [Sal 139(138),19-22].

In questa libertà che ricevo da Dio, io dono il mio consenso all’esistenza. Io vorrei essere tutto aperto e disponibile davanti a Lui, come la Vergine che dice il suo «Sì». [Sal 139(138),23-24].

  • Questo Salmo è un punto di partenza e costituisce tutta una disposizione spirituale, quella della creatura davanti al Creatore. Affinché questa attitudine diventi nostra, niente di meglio che leggere e rileggere, per apprenderlo con il cuore in modo da ricrearlo in noi stessi.

2.  LE ORIGINI DELL’UNIVERSO E DELL’UOMO 

Gen  1 – 2

  • Ciò che è importante, nel caso noi scegliessimo questi due capitoli della Genesi, è di lasciar formare in noi, sotto la mozione dello Spirito, le disposizioni fondamentali che essi implicano.

Dapprima l’universo

Tutto è opera della sua Parola e del suo Amore.

La sua Parola non ritorna mai a Colui che la proferisce senza aver prodotto il suo effetto (Is 55,10-11) e che «ricrea il cuore» di colui che ad Essa si affida (Sal 51-50,12). «Se voi avreste fede, voi direste a questa montagna…» (Mt 21,21-22).

Il suo Amore che non vuole mai il male, ma la vita di colui che Egli ha creato. L’universo, contemplato nella fede, diventa un invito a lodare Dio e a riconoscerlo presente e amante. I Libri Sapienziali e dei Salmi sviluppano questo invito, per esempio: Pr 8; Sir 39,12-35; 42,15–43,33; Sal 103(102) e 104(103); Gb 38-42.

Questo universo non è che l’inizio dell’opera. Verranno una nuova terra e dei nuovi cieli (Ap 21,1).

– L’uomo al centro dell’universo

Quest’universo è rimesso all’uomo, immagine di Dio, perché divenga suo collaboratore trasformando il mondo nell’esercizio della sua libertà. L’uomo, poi, in modo particolare, similmente a Dio, la cui unità non è un solitudine, ma donazione mutua nell’amore, non diviene se stesso che conoscendosi come «maschio e femmina», mai fermo su di sé.

La Genesi non presenta che qualche punto di partenza. Il seguito della Scrittura, e soprattutto, la venuta di Colui che è l’Immagine del Padre – il Verbo fatto carne – riveleranno ciò che era rimasto ancora nascosto. L’uomo non si riconosce se non nel Cristo, «nella cui immagine noi siamo trasformati, di gloria in gloria» (2Cor 3,18 – 4,6) e nel Quale veniamo rivestiti dell’«uomo nuovo che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. (Col 3,10-11).

  • È possibile che questi testi siano talmente conosciuti che non occorra leggerli. Allora chiudiamo il Libro e lasciamoci penetrare dalla realtà che essi suggeriscono. Se noi li leggiamo, che sia nella fede, non nella sola evidenza sensibile. Essi sono un invito a leggere l’universo e l’umanità come Dio ci rivela che Lui li vede, senza disperarsi della sua opera, malgrado il male che è sovvenuto.

Questa lettura non è fondata che nella preghiera del credente, per questo essa si sviluppa naturalmente nei Salmi di lode e di adorazione.

3.  LA RIVELAZIONE DEL MISTERO 

  • Queste verità fondamentali possono approfondirsi sotto diversi aspetti. Molti testi possono aiutarci. I migliori sono quelli che ognuno scopre da sé. Eccovene alcuni che riprendono da diversi punti di vista il Principio e Fondamento.

Riceviamo ciascuno di essi come un reliquia ardente dell’esperienza spirituale degli Apostoli, Giovanni o Paolo. Domandiamo di essere introdotti noi stessi in questa esperienza, secondo la misura donataci dallo Spirito.

Il disegno di Dio: il Mistero di Gesù Cristo (Ef 1)

Questo inno di benedizione esplicita ciò che l’opera dei sei giorni contiene in germe: l’accesso, in Cristo, di tutti gli uomini alla filiazione divina. Questo disegno benevolo, che si realizza attraverso i tutti secoli e che riunisce tutti gli esseri visibili e quelli invisibili nell’amore, si compie in ciascuno di noi per mezzo della Parola che abbiamo ricevuta e per mezzo dello Spirito riversato nei nostri cuori. Dio apra gli occhi dei nostri cuori per vedere la straordinaria grandezza della nostra vocazione e per misurare qual è la nostra speranza.

La nostra vita nello Spirito (Gv 14)

Un’altra maniera di penetrare il mistero del nostro destino divino: il dono di Dio che è lo Spirito Santo che ci viene donato attraverso il Figlio. Vi è una presenza più straordinaria di quella per la quale il Verbo fatto carne si è reso visibile agli uomini. È quella che il Signore realizza con il dono del suo Spirito. Presenza permanente che ci illumina di verità e, soprattutto, che ci fa entrare nell’intimità di Dio. Essa si compie nel cuore divenuto simile a Dio per la vita nei comandamenti e produce una pace che il mondo non può intaccare.

La vita nella libertà dei figli di Dio (Rm 8)

Ancora un altro aspetto della nostra vita nello Spirito, quello della liberazione. Noi conosciamo le sofferenze del tempo presente, ma per mezzo dello Spirito che rende testimonianza al nostro spirito che siamo figli, noi sappiamo dove essa ci conduce. La nostra redenzione e quella dell’universo si compie attraverso i gemiti della nostra attesa. Quindi possiamo ora lavorare nella fiducia. Con coloro che lo amano, Dio collabora in tutto per condurli a realizzare in loro la perfetta immagine sua. Anche le tribolazioni del mondo presente, anche tutto ciò che sa di ostile nell’universo, la tribolazione, l’angoscia, la morte, non possono separarci dall’amore di Dio che a noi si è manifestato in Gesù Cristo.

Dio nella realtà dell’amore (1Gv 4,7-16)

L’esperienza che quaggiù abbiamo dell’amore costituisce per noi contemporaneamente un raggio della conoscenza di Dio e della sua ultima manifestazione: chiunque ama Dio è nato da Dio e conosce Dio. Come Giovanni dice nel capitolo 2 di questa stessa sua prima lettera, il comandamento nuovo dell’amore fraterno va a congiungersi con il comandamento antico, ricevuto dalle origini, secondo il quale l’uomo deve amare il suo simile come se stesso. È nella realtà di quest’amore che io posso raggiungere la realtà di Dio che è amore. Se noi ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi, e l’amore di Lui è perfetto in noi. 

Non c’è null’altro da dire su Dio se non che è Amore, cioè gratuità, iniziativa, reciprocità. Dio ama per primo, cioè Egli crea e rifà ciò che è disfatto, perché nel suo Cristo, gli uomini partecipano del suo Spirito e, nell’amore di cui essi vivono, conoscono che Egli è amore. Non si tratta di un amore che noi facciamo uscire dai nostri cuori con la nostra volontà, ma dell’amore con il quale Dio ama Se Stesso e noi e che Lui ci ha comunicato.

La comunità fraterna nella Chiesa è il luogo privilegiato di questa presenza di Dio-Amore. è in essa e a partire da essa che l’amore si diffonde sugli uomini e risale fino al Padre. Ancora, occorre aggiungere con s. Giovanni che «lo Spirito soffia dove vuole» (Gv 3,8).

I due stati del nostro destino (1Gv 3,1-3)

Questo stato di figli di Dio, che ci separa dal mondo chiuso in se stesso e che non vuole vivere che di se stesso, noi lo viviamo in due modi: in realtà e in speranza. «Sin da ora», noi siamo figli di Dio, ma questa realtà non è posseduta che nel sacramento: quello che saremo non è stato ancora manifestato. Nel tempo in cui noi esistiamo noi facciamo la nostra educazione nella fede.

Ma «noi sappiamo», di questa certezza prodotta in noi dall’«unzione» dello Spirito (1Gv 2,27) è più solida di quella dataci dai nostri sensi o dai ragionamenti del nostro spirito, che raggiungerà la perfetta somiglianza «quando Lui apparirà» (1Gv 2,28).

Vedendolo, noi saremo trasformati in Lui. Questa sarà la perfetta conoscenza: conoscerò come sono conosciuto (1Cor 13,12).

Il segreto di tutta la perfezione umana è là: la speranza, fondata in Lui, della totale trasfigurazione. Allora apparirà il senso della nostra creazione a immagine del nostro Creatore.

  • La meditazione del nostro destino, qualunque sia il testo scelto, si svolga in un intimo colloquio, «come un amico parla al suo amico» (Es. Sp. 54). Nel suo concludersi, essa si nutra della Liturgia delle Ore: una parola, un versetto, una frase è sufficiente per meglio assaporare,  lungo il giorno, ciò che la meditazione mi ha fatto penetrare. Così la Parola di Dio diventa in me carne e vita.

4.  LA DISPOSIZIONE DEL CUORE

Riassumo così dove mi vuol condurre la preghiera di questo giorno: Ama Colui che ti ha fatto (Sir 7,30).

Per arrivare «a desiderare e a scegliere unicamente ciò che più mi conduce al fine per il quale sono stato creato» (Es. Sp. 23). Ciò comporta una totale trasformazione della mia persona a cui io mi offro con il rigore dell’ideale evangelico e con l’attenzione di colui che si chiede se abbia i mezzi per portare a compimento la sua impresa (Lc 14,25-33).

Posso concludere questa preghiera con il Sal 40(39):  Tu hai fatto per noi prodigi. Non ha voluto sacrificio e offerta. Io ho detto: eccomi, Signore, per fare la tua volontà! La tua legge è nel profondo del mio cuore. Che il tuo amore mi custodisca.

  • Questa prima giornata può darci un’idea di come utilizzare la Sacra Scrittura nella nostra preghiera. L’essenziale è cercare di sviluppare la disposizione del cuore che è oggetto del giorno presente. Ciascuno scelga i testi che rispondono meglio allo scopo che si propone e, se ottiene ciò che desidera, non si preoccupi affatto di trovarne degli altri.

 

DISCERNIMENTO ALLA FINE DELLA GIORNATA

Il primo giorno è finito. Occorre girare la pagina, non senza annotarne i risultati. Si dà uno sguardo a ciò che è passato non per il piacere di analizzare, non per scoraggiarsi, né per esaltarsi, ma per trarre profitto da tutto, anche dagli stessi  propri errori.

Un punto che è bene esaminare è la qualità del silenzio. Quando qualcuno non perviene ad un silenzio totale e, soprattutto, tranquillo, è bene domandarsi se sia adatto per l’esperienza nella quale si sta impegnando. La tensione e il nervosismo – messa da parte la fatica normale del primo giorno – non sono mai un buon segno. Se noi le esperimentiamo, esse sono rivelatrice di ostacoli all’azione dello Spirito. In questi casi, occorre cambiare maniera. Così chi aveva deciso di non concedersi nulla, deve accettare di allentare la tensione e distendersi un po’. Meglio volere fare di meno, ma con gioia, che molto, ma con tensione nervosa.

La sottomissione all’ora di orazione mi insegna a non ricercare nella preghiera i sentimenti o le idee, ma la fedeltà e il desiderio. Prendimi con te per la gloria del Padre. Gli Esercizi ci fanno fare questa preghiera a Gesù, quando noi arriviamo alla loro sommità, la Meditazione delle due Bandiere. Essa è presente in germe sin dall’inizio. Talvolta sono felice dell’ora passata, talaltra credo di aver perduto il tempo. Né io mi lascio gonfiare per l’una, né scoraggiare per l’altra. Non devo pensare che la freddezza, l’aridità, le distrazioni, non mi facciano approfittare della preghiera, queste deve superarle senza spaventarmi. Io devo andare alla preghiera per Dio, aspettando da Lui il risultato, in qualunque modo e in qualunque momento mi sia dato di riceverlo.

Io posso fuggire l’esperienza procurandomi delle distrazioni che mi fanno credere di pregare. È una maniera sottile di accomodarsi. In questo modo schivo l’esigenza della preghiera leggendo libri spirituali o intrattenendomi in generosi e bei pensieri, ma che non raggiungono il l’oggetto. Prendo numerose note e sviluppo delle idee. Così passo dall’opera dello Spirito Santo ad un lavoro del mio spirito. Ritrovo me stesso al posto di perdermi. È utile rendersi consapevoli di questa tentazione nel suo inizio. La possiamo percepire talora in una certa aridità della preghiera o in una certa agitazione.

Una tale maniera di procedere costituisce una entrata concreta nella vita della fede. La preghiera diventa un esperimento dove io provo ciò che sono e il grado di grazia che Dio mi accorda. «Un altro» – lo Spirito – mi conduce ed io provo a sottomettermi alla sua azione sempre imprevedibile. L’esame di coscienza diventa allora un atto di «riconoscimento» dell’azione di Dio nel cuore dei miei giorni. È così che posso farlo da questa sera. Dopo continuerò a farlo sempre così.

È un altro modo di sottomettermi all’azione dello Spirito. Vengo al ritiro con i miei problemi di vita e le mie difficoltà. La sottomissione all’oggetto della mia preghiera mi obbliga, non a ignorarli o a fuggirli, ma a metterli al loro posto, in tal maniera che la preghiera, purificando e illuminando il mio cuore, mi conduce a quel punto dove li giudicherò con più verità e dove sentirò verso che parte Dio mi inclina. Questo si produrrà al momento voluto da Dio, non quando piacerà a me.

Io scopro poco a poco dove si situa la generosità. Essa non suppone che io ottenga subito e da me stesso il risultato, soprattutto quello che io immagino. Essa mi chiede di riprendere incessantemente il cammino in una accresciuta confidenza. È necessaria una lotta per fissare il mio spirito, ma senza essere bruschi: dalla tranquillità dello spirito per entrare in preghiera…

Io non cesso di navigare tra due scogli. Il primo è quello della pura spontaneità. Io prego come mi viene. Rimango schiavo dei miei impulsi, dei vortici della mia sensibilità o dell’azione, o dell’impressione fatta agli altri o supposte tali. È una falsa dipendenza. Il secondo scoglio è l’inverso del primo. È quello della pura volontà. Io voglio arrivare e non sono mai a mio agio. Passato un po’ di tempo, non posso più tenermi, mi scoraggio e vado a passeggiare. Al posto di voler tener a tutti i costi, nel contegno più teso, farei meglio ad andare a dormire. Dio colma «i suoi amici anche quando dormono» (Sal 127(126),2).

Queste note, prese davanti a queste diverse situazioni, avviano ad un dialogo spirituale. Non devo aspettarmi dal direttore che mi dica cosa devo fare, ma, manifestandole a lui, egli mi aiuterà a interpretare questi movimenti che io comincio a sentire o a… non sentire. Questo dialogo allora mi apparirà come una lenta formazione alla docilità allo Spirito in una libertà che cerca di aprirsi alla grazia. 

Torna all'indice    

PRIMA TAPPA

L’invito alla conversione

Gesù ci rivela, vivendolo Lui stesso, l’ideale di cui noi portiamo l’impronta, ma nella confusione e nell’opacità. Nello stesso tempo, Egli ci rivela il male nel quale siamo immersi e dal quale Egli ci fa uscire. Egli è l’unico che può farci raggiungere il nostro fine. Divenuto solidale della nostra vita e della nostra morte, Egli è la rivelazione dell’Immagine di Dio, secondo la quale siamo stati creati.

È dunque la sua presenza in noi che ci conduce al primo stadio di tutta la vita spirituale: la conversione del cuore. I Giudei, messi bruscamente in presenza delle meraviglie della Pentecoste, domandarono a Pietro e agli Apostoli che gliele annunciavano: «Fratelli cosa dobbiamo fare?» (At 2,37). L’amore, manifestandosi, rischiara le tenebre dalle quali Egli ci libera. Raggiungendo le profondità, l’uomo sospira una giustizia che non è sua, ma che viene da Dio che giustifica il peccatore.

Noi parliamo di stadi. In realtà, nello svolgimento dell’esperienza, occorre parlare di mutua inclusione. Non possiamo separare l’una dall’altra, la conoscenza di Gesù e la conoscenza di noi stessi. Là dove colui che esamina le cose dall’esterno vede delle nozioni successive, colui che le vive nel suo cuore scopre la continuità dell’opera dello Spirito. Il passaggio attraverso le purificazioni non può compiersi senza che il Cristo sia già presente nella gloria della Risurrezione.

Più una vita avanza nel Cristo, più si fa sentire questa continuità profonda. I più intimi amici di Gesù si dichiarano i più grandi peccatori. L’uno e l’altro (essere amici e essere peccatori), essi lo dicono nell’unità dell’amore. All’inizio, noi opponiamo le due cose, questo è l’indizio che la vita spirituale rimane ancora un’opera nostra. Poco a poco, tutto diventa uno.

L’entrata in questa tappa è dunque sempre l’invito a sentire la chiamata della vita e la pesantezza che ci trattiene di rispondere. La ricerca dell’amore rivela in me la resistenza: io non faccio il bene che voglio, faccio ciò che non voglio. Io sono diviso in me stesso e tutta l’umanità è come me. Chi mi libererà? Io non esco da questa divisione che in Gesù che mi ricompone. Io non fuggo dall’inferno dove mi scopro di essere che in Gesù che vi è disceso con me e mi porta con Lui verso il Padre (cf Rm 8,14-25).

Torna all'indice         

                                                                                                               2°  GIORNO 

Nelle profondità…

LA FINALITÀ DELLA GIORNATA: LA RIVELAZIONE DEL PECCATO

Il suo scopo è quello di metterci davanti alla realtà del peccato. Da noi stessi siamo incapaci di scrutare le profondità. Per discendervi, abbiamo bisogno della luce della Rivelazione. Cosa ci dice questa?

Il peccato è la volontà di non dovere che a sé la realizzazione del proprio essere, il rifiuto di situarsi davanti a Dio e agli altri in un relazione d’amore, il rifiuto di ogni dipendenza e il rimanere nella solitudine di me stesso. Detto in un altro modo, è l’atto di una libertà che si ferma su se stessa o che tarda ad aprirsi. S. Ignazio dice che è «il rifiuto di servirsi della propria libertà per riverire e ubbidire al nostro Creatore e Padre» (Es. Sp. 50).

Non è un affare individuale. È uno stato di divisione intima dove io mi scopro con tutti gli uomini. Io sono diviso tra due parti, quella della luce e dell’amore mi chiama in alto, quella del «mio cuore malvagio» che mi attira in basso. Secondo la scelta del mio cuore, io divengo ciò che desidero essere.

Così la conoscenza che io cerco non è in primo luogo quella del mio peccato. Io potrei ancora giudicarmi e credermi migliore. È la conoscenza di un male nel quale noi siamo immersi. Male radicale e universale.

Questo stato, la nostra storia ce lo presenta a diversi gradi.  Secondo lo schema della prima meditazione degli Esercizi, si trova allo stato puro nel «peccato degli angeli». Alcuni oggi sono a disagio di fronte questa evocazione degli angeli. Essa ha almeno questo vantaggio, soprattutto se lo comprendiamo alla luce della Scrittura, di metterci davanti ciò che è incluso nel fondo di ogni peccato: non una dimenticanza o un atto di debolezza, ma un rifiuto di vivere e di amare, una specie di mostruosità ontologica che pone il mondo alla rovescia. Benché il fondo del male sia questo orgoglio, la nostra esperienza si trova meglio davanti al secondo e al terzo peccato, quello di Adamo e di Eva, quello di qualunque uomo. Non più il peccato nella pura luce, ma la tergivistazione di un cuore che mette il suo bene fuori di ciò che è essenziale. Lungo la storia umana fatta dai nostri desideri ambigui, dalle paure che ci trattengono, delle ricerche di noi stessi, delle pulsioni mal governate, dei nostri pensieri vaganti. La libertà, che sente la pesantezza di me stesso, s’impegna su un cammino difficile. Come Narcisio, essa si guarda e volendo gioire di sé, si ritrova sola.

Il peccato non è all’inizio considerato come un’infrazione ad una legge. Senza dubbio mi è donata una legge, legge scritta o legge della coscienza, ma finché essa mi rimane esteriore, io la giudico ed essa mi giudica e mi lascia a me stesso, lontano da Dio. Occorre scendere al di sotto per scoprire il male profondo, là dove si radica la divisione nel cuore della persona e degli esseri. La legge può essermi donata per aiutarmi a scoprirla, ma fedele o infedele, io non posso trovare in essa la mia giustizia alla quale aspiro. Essa mi lascia alla mia impotenza. Solo in Gesù, che assume nella sua carne la condanna della legge, il muro di separazione crolla e la legge mi diviene interiore.

Nello stesso momento che prendo coscienza di questo mio stato di peccato, scopro Cristo alla radice del mio essere. Egli ha annullato la distanza che ci separa da Lui, viene con noi nella nostra assenza di Dio: Creatore, Egli si fa uomo; Immortale, Egli è nella morte. Essendo con noi nel male, Egli ce ne libera dal momento in cui noi lo riconosciamo come il nostro unico Salvatore, che rende possibile, tra Dio e noi, lo scambio d’amore senza il quale noi non possiamo essere.

Così, più che la mia ignoranza o la mia debolezza, ciò che voglio raggiungere per prima cosa in questa meditazione di verità, è lo sviluppo in me di questa attitudine io faccio di me il centro e non voglio le cose se non in rapporto a me stesso. È questa che mi uccide all’amore e quindi mi toglie la vita. Alla fine l’albero cade dal lato dove pende e il mio cuore trova ciò che desidera: me stesso o Gesù Cristo. «Se Io non fossi venuto, essi non avrebbero peccato» (Gv 15,22). Ma occorre che luce sia fatta e che qualcuno possa dire che vuole essere.

Lo scopo di questo giorno, rivelandoci che siamo sprovvisti d’amore, è di spingerci ad accogliere la salvezza offerta da Gesù Cristo. In questa discesa al cuore del male, io mi interdico di giudicare gli altri. È il mio male che io cerco di conoscere. Domando «vergogna e confusione di me stesso» in questo «esilio» di cui non ho tanta consapevolezza del mio peccato, da questo torpore il Cristo mi sveglia e dal quale, essendosi rinchiuso con noi, Egli mi libera.

LA MEDITAZIONE

Questa metodologia implica un certa maniera di meditare, quella della fede che riceve la luce da Dio. È l’approccio che noi dovremmo avere ogni volta che noi apriamo la Scrittura. Come quella giovane donna che rappresenta la vita contemplativa sul timpano del portale nord della cattedrale di Chartres, colui che medita si siede tranquillamente, apre il libro e ne legge qualche passo, si ridice nel cuore le parole lette, poi entra in estasi… allora può passare alla vita attiva.

Questo ritmo è quello proposta dagli Esercizi. Dapprima metto davanti alla memoria del mio cuore il fatto del peccato, tale come la fede me lo mostra, questa storia che risale ben al di là di me stesso – «realtà invisibile», dice s. Ignazio – che io non ho fatto e nella quale mi trovo inserito, la storia di questo peccato che viene da più lontano e da più in alto e di cui il Cristo dice che Satana ne è «l’inventore» (cf Gv 8,44).

Poi considero questa storia meglio che posso. Non per l’intelligenza discorsiva che analizza, discute e prova, ma l’intelligenza che rumina, quella di cui parlano i Libri Sapienziali. Cerco le comparazioni, le analogie, gli esempi che chiariscono l’oggetto che desidero comprendere. È uno sforzo di intelligenza spirituale a partire dal dato di fede. Per mezzo di esso, come dice s. Paolo, «acquistiamo in tutta la sua ricchezza la piena intelligenza, e giungiamo a penetrare nella perfetta conoscenza del mistero di Dio, cioè Cristo» (Col 2,2). La fede diventa saggezza di vita.

Allora il cuore si ferma nel gusto della verità. Per il momento non si sente più il bisogno di proseguire la ricerca. Chiedendo il libro, si lascia penetrare con amore la luce ricevuta. La verità allora passa dalla testa al cuore. Né troppo alto né troppo basso, diceva un esercitante: io metto la preghiera nelle idee o nelle viscere, non ne cuore. La liturgia segue lo stesso movimento: essa legge, spiega, gioisce della Parola..

Fare così è, senza dubbio, ritrovare il senso della «Lectio divina», questa maniera tradizionale di leggere la Sacra Scrittura, non in primo luogo per farne un’esegesi, ma per scoprire, attraverso le parole impiegate, i pensieri sviluppati, i fatti scritti, la realtà invisibile dove essi conducono e che è al di là. Il cuore si offre alla luce davanti alla Parola che si rivela a noi stessi e che ci rivela Dio nella fede. Dagli effetti che produce in noi, manifesta la sua origine, lo Spirito Santo.

IN VISTA DELLA PREGHIERA DI QUESTO GIORNO

  • Prima di entrare in preghiera, è bene disporsi, non solamente fissando il proprio spirito su un oggetto – tale testo della Scrittura – ma creando l’atmosfera più conveniente. Gli autori spirituali e s. Ignazio con loro, parlano di preludi della preghiera. Ecco di seguito due testi che possono essere d’aiuto ad entrare nel clima, prima di meditare sulla natura del peccato.

1.  IL CLIMA DI QUESTE MEDITAZIONI

Lo stupore di Pietro (Lc 5,1-11)

L’incontro con Dio in Gesù va di pari passo con una più grande rivelazione di sé.

E l’una e l’altra dispongono ad entrare meglio nella propria vocazione. La luce rivela le tenebre e le tenebre, dove io conosco chi sono in verità, mi fanno sentire il bisogno della luce. Allora potrò ricevere in pace la missione che è mia.

Pietro, che vive già nell’intimità di Gesù, la scopre improvvisamente come il suo Creatore, il Dio onnipotente, sorgente di tutta la Parola e di tutte le meraviglie.

In quel momento l’essere tentenna, non sa più che dire, che fare, è preso dallo stupore. Conosce insieme Dio e la propria divisione interiore: «Allontanati da me, Signore, perché sono un peccatore!». Come Tu, il Tutt’Altro, ti fai così prossimo?

È in questo momento di verità che noi siamo capaci di ricevere la nostra missione: «Non temere, d’ora in poi sarai pescatore di uomini». Nello stesso momento che ti getti ai miei piedi, tu sei donato agli uomini. La parola che trasmetterai loro sarà la mia sulle tue labbra.

Tutto ti è donato insieme: creazione, stupore, vocazione.

Noi possiamo aggiungere: questo è donato ai compagni del Signore. Essi non hanno più desiderio di paragonarsi tra loro, almeno in questo momento. Il Signore è il punto di convergenza dei loro sguardi. È in Lui che riconoscono se stessi.

La preghiera di Baruc o preghiera dell’esilio (Bar 1,15 – 3,8)

Si tratta della composizione di luogo della preghiera del peccatore. 

Essa ci aiuta a fissare il nostro sguardo, come lo stupore di Pietro del brano precedente, su Dio, facendoci giudicare le cose davanti a Lui.

Il peccato è uno stato di assenza, di esilio: «Tutto il composto umano, anima e corpo, dice Ignazio (Es. Sp. 47), è come esiliato». Io sono fuori dalla mia patria, fuori dalla vita, in una terra di divisione e di morte e io non ne soffro! C’è solo da osservare la condizione dell’uomo sulla terra.

Il male viene dal fatto che io ho cercato la giustizia là dove essa non c’è, fuori di Dio: ho cercato di giustificarmi da me stesso, e non ne ho raccolto che vergogna. Io e noi tutti siamo fuori dalla verità.

Di cosa accusarmi? «Noi non abbiamo ascoltato la voce del Signore» (spesso). «Noi ce ne siamo andati, ciascuno seguendo le proprie inclinazioni malvagie» (1,22) «Noi non abbiamo supplicato il Signore di stornare dal nostro cuore i pensieri malvagi» (2,8). Come gli invitati alle nozze, noi abbiamo avuto tutt’altro da fare. Seguendo l’inclinazione del mio cuore che non vuole altro che se stesso, ci siamo lasciati trascinare lì dove il nostro cuore ci portava: la solitudine del mio io, l’inferno dell’uomo ripiegato su se stesso. Sentendo il mio cuore duro, non l’ho rivolto verso il Signore, perché lo intenerisse. Dio assente, regna la durezza, l’odio, la follia. «Così il Signore, che è pronto al castigo, lo ha mandato sopra di noi…» (2,9).

«Guarda, Signore, dalla tua santa dimora e pensa a noi; inclina il tuo orecchio, Signore, e ascolta; apri, Signore, gli occhi e osserva: non i morti che sono negli inferi, il cui spirito se n'è andato dalle loro viscere, danno gloria e giustizia al Signore, ma chi geme sotto il peso, chi se ne va curvo e spossato, chi ha gli occhi languenti, chi è affamato, questi sono coloro che ti rendono gloria e giustizia, Signore (2,16-18). Dall’eccesso del male, Dio trae il bene. L’uomo «rientra in se stesso» (2,30), riconosce il Signore e si ricorda della casa paterna» (Lc 15,17). Dio gli dona un cuore e delle orecchie. Da un «cuore spezzato, contrito», ne fa un «cuore nuovo» [Sal 51(50)], capace di amare. E così la legge gli diventa interiore.

La maniera con cui Dio trae a Sé l’uomo dal suo esilio, consiste nel donargli il suo Spirito per mezzo della Croce del suo Figlio: «Egli da Creatore è venuto a farsi uomo» (Es. Sp. 53)

2.  LA RIVELAZIONE DEL PECCATO

  • Tutta la Scrittura, ci rivela Dio in Gesù Cristo, ci rivela il peccato dal quale Gesù Cristo ci fa uscire. Per penetrare la natura di questo male, seguiamo i momenti della sua storia, tali quali sono presentati dagli Esercizi.

Il peccato di Satana (Gv 9)

La storia inizia prima dell’uomo. Essa è di «ordine invisibile» (Es. Sp. 47) e parte da colui che non ha voluto mantenersi nella gloria che aveva ricevuto all’origine, ma che è fuggito dal suo proprio posto (Gd 6), Satana l’inventore del male, come lo chiama il Cristo (Gv 8,44).

Il capitolo 8 del Vangelo di Giovanni ci fa penetrare la natura del peccato di Satana, contrapponendo i figli di Dio, liberati dal Figlio, ai figli del diavolo che soddisfano i desideri del padre loro. Da una parte la trasparenza, la verità, la relazione, la vita, un incessante riferimento al Padre, la libertà nell’amore; dall’altra, il fermarsi su di sé, il rifiuto del riconoscimento dell’altro, l’assenza della relazione, la menzogna, la solitudine, la divisione. Un essere non è vero e libero che nel riconoscere nel proprio cuore la relazione che lo ha fatto esistere: come il Figlio davanti al Padre, noi non siamo noi stessi che nella relazione con tutti coloro con i quali partecipiamo all’esistenza. 

Di colpo il peccato appare nella sua natura più profonda: rifiuto della relazione che fa essere e fa stabilire nell’amore. È l’inclinazione del cuore prodotta dal peccato: tu diventi figlio di colui a cui hai deciso di rassomigliare. Se tu accogli la parola del Figlio, allora conosci la verità e la verità ti rende libero. Se ti fermi sui tuoi privilegi, fosse anche il titolo de «figli di Abramo» e dei «figli di Dio», malgrado la tua pretesa, il tuo desiderio diventa quello di un figlio del diavolo che si ferma su di sé e rimane nella morte.

Gesù con le sue parole ci rivela la sorgente della vita e della morte.

Il peccato di Adamo e di Eva (Gen 3)

È l’inizio della storia umana. L’uomo creato a immagine di Dio, prende le distanze dal suo Creatore. Vuole scegliere lui stesso il bene e il male e, facendosi il centro, si divide dagli altri. Si nasconde da Dio, improvvisamente divenuto lontano. L’uomo vuole dominare colui che il Creatore gli ha dato come compagno, tanto che la Eva cerca di sedurre il Adamo. È la lacerazione nel cuore dell’universo.

Questa storia che ci porta all’origine dell’umanità, sarebbe più giusto porla all’origine dei miei atti. «Ciascuno fa il dio dicendo: questo è bene, questo è male, affliggendosi o rallegrandosi troppo degli avvenimenti»(Pascal). L’uomo vuole essere la misura di se stesso e delle cose.

Questo è propriamente il peccato dell’uomo che, ricevendo i benefici e le promesse di Dio, contesta e mormora: Dio non può darci da bere in questo deserto, dicevano a Mosè i figli di Israele (Es 17,1-7). Essi hanno dimenticato Dio che li aveva salvati, ripetono incessantemente i Salmi e i Profeti. Così: Nessuno che cerca Dio [Sal 53(52)]. Essi si sono allontanati dal suo seno [Sal 58(57)]. Generazione dal cuore incostante [Sal 78(77)] Confessione dei peccati di tutto il popolo [Sal 106(105)]. A chi comparare questa generazione?  Noi vi abbiamo suonato il flauto e voi non avete danzato, vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto! (Lc 7,31-32). Voi avete opposto il rifiuto, la disattenzione, la dimenticanza a colui che vi aveva invitato alle nozze (Mt 22,2ss). Cuore deviato, ostinato, distratto. Essi hanno abbandonato me, sorgente d’acqua viva (Ger 2,13), ripetono i Profeti. La venuta di Gesù fa luce su questo peccato dell’uomo che si ferma su di sé.

Il peccato di tutta l’umanità: pagani e giudei (Rm 1-3)

Questo peccato, che è il ritorno su se stessi dell’inclinazione della persona verso l’amore, è dilagato su tutta l’umanità. Chiunque noi siamo, pagani o giudei, dobbiamo riconoscere che siamo feriti: i pagani che nella creazione non riconoscono il Creatore, ma orientano le cose a loro profitto (Rm 1,18-31); i giudei che, ricevendo le promesse e la legge di Dio, se ne sono fatti una gloria e si credono migliori degli altri (Rm 2). Così «il mondo intero è riconosciuto colpevole davanti a Dio» e si trova chiuso nel male e nella morte (Rm 3,1-19). Chi desidera uscire da se stesso esperimenta la divisione interiore, non facendo il bene che vuole, ma facendo il male che non vorrebbe fare. Per gli uni e per gli altri, non c’è salvezza, di vita e di giustizia che ne riconoscimento di Gesù Cristo, divenuto nostra giustizia (Rm 7,14-25). È in Lui che a tutti Dio fa misericordia, facendo cadere il muro di separazione e distruggendo l’inimicizia (Ef 2).

Questa lunga storia, descritta da s. Paolo, che è la storia dell’umanità, è la nostra storia personale. Anche in me, c’è tanto un pagano, che un giudeo, che si arresta ai doni di Dio come in un universo che gli basta, dove l’«io» è il re e dove regna la morte.

3.  RIPRESA DI QUESTA RIVELAZIONE NELLA PARABOLA DEI «DUE FIGLI»

(Lc 15,11-32)

Posso rileggere questa parabola alla luce della Lettera ai Romani. Vi vedo sia il peccato dei pagani che quello dei giudei. Il peccato del figlio prodigo che si serve della sua libertà per accaparrarsi le cose è quello del pagano: quello che mi spetta, dice, è mio. Non pensa che a sé, non può non finire che nel fallimento totale. Per uscirne deve riconoscere colui dal quale riceve tutto: Andrò da mio padre. Nuovamente la libertà si apre all’amore. Il fratello irreprensibile, lui, il giudeo della Lettera ai Romani, malgrado la sua fedeltà, è chiuso a quest’amore. Egli si serve della sua giustizia per rivendicare i suoi diritti e rifiutare suo fratello. Non comprende che «tutto ciò che è mio è tuo». Uscire dal peccato, è, qualunque sia il numero dei peccati, non cessare di rivolgersi verso l’amore, per riconoscervi la sorgente di ogni bene.

L’uno e l’altro, prodigo o irreprensibile, non sono giustificati che riconoscendo la giustizia del Figlio Unigenito «primo fra tutte le creature» (Col 1,15-20) che, pur essendo per natura uguale al Padre, si è fatto simile agli uomini (Fil 2,6-8), e pur «non avendo conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2Cor 5,21).

Quando l’«io» si chiude all’amore, diventa di volta in volta Satana, Adamo, Eva, della famiglia dei peccatori. Quando riconosce ciò che lui è, si apre e diventa di volta in volta il Cristo, la vergine, della famiglia dei santi.

  • Lo svolgersi della nostra storia nel peccato ci viene presentata in modo inverso di come si svolge nell’esperienza. Siamo condotti di colpo nel cuore della realtà invisibile, questo peccato-tipo che è all’origine di tutto e che la fede rivela. In effetti, noi prendiamo coscienza di questo «male segreto» [Sal 19(18),13] a poco a poco, man mano che cresce la nostra libertà. Il Cristo è venuto per la rivelazione del peccato universale e anche per la sua distruzione.

Posso meditare l’insieme di questa storia o uno dei suoi momenti particolare secondo il desiderio che ne ho. In ogni modo io non la esaurirei in una sola volta.

La «profondità» (Ef 3,18) non mi è rivelata che a poco a poco, man mano che io posso sopportarne la vista e che divengo me stesso.

 

 

3.  LA CONCLUSIONE DI QUESTA MEDITAZIONE:
                                                                         IL «COLLOQUIO» O «LA PREGHIERA A GESÙ»

Tutti conoscono la preghiera della tradizione orientale: Gesù, Figlio di Dio, Salvatore, abbi pietà di me, peccatore. Essa contiene tutto e può essere ripresa, indefinitivamente nel corso dell’esistenza, senza che noi ne esauriamo la verità. Gesù vi appare come in questo colloquio al quale Ignazio invita l’esercitante alla fine di questa meditazione: «Immaginando il Cristo davanti a me e in croce, domandargli come Lui, il Creatore, sia venuto a farsi uomo; come da vita eterna, sia venuto alla vita temporale e a morire così per i miei peccati… » (Es. Sp. 53).

L’atto che mi condanna è inchiodato alla croce (Col 2,14-15). Non c’è più nessuna condanna se non per chi, messo davanti alla misericordia, rifiuta di riconoscerla.

D’ora in poi:

Per chi spera in Te, non più vergogna [Sal 25(24)].

Purificami dal male segreto, preserva il tuo servo dall’orgoglio [Sal 19(18),13-14].

 

PRIMI PASSI NEL DISCERNIMENTO

Questa meditazione non può lasciarci indifferenti. Se essa non producesse nulla, questo nulla dovrebbe fare problema. D’ordinario, essa suscita quello che nel suo linguaggio, s. Ignazio chiama consolazioni, desolazioni. Il linguaggio, come quello concernente il peccato e gli angeli, potrebbe apparire desueto, senza attardarci, tentiamo un primo discernimento.

Il sentimento del peccato ha le sue contraffazioni. Molti dicono: io sono un povero uomo, credono di avere questo sentimento, ma invece hanno sentimenti assolutamente opposti. Esso non può venire dallo Spirito se produce rabbia, scoraggiamento, senso di colpa, paragoni con altre persone, tristezza morbosa. I sentimenti che portano il marchio divino sono la forza, la dolcezza, la certezza di essere amati da Dio, il desiderio di aprirsi a Lui con più amore.

Ugualmente, la conoscenza che fa nascere e che accompagna questo senso del peccato, non è frutto di un’analisi di sé o degli altri. Esso scarta ogni comparazione e ci fa raggiungere le profondità, là dove sempre noi ci riconosciamo incapaci di bene e chiamati a tutta la perfezione. «Dal profondo io grido verso di Te» [Sal 130(129)]. Io ho gridato: «Il Signore mi ha salvato, perché mi ama» [Sal 18(17),20].

È un primo discernimento che compiamo per l’intelligenza illuminata dalla fede. Se ci sono lacrime, esse non devono essere frutto del dispiacere di aver peccato. Quelle che io posso chiedere devono essere frutto dello Spirito: Addolcisci i nostri cuori induriti con le lacrime della compunzione, diceva una preghiera del Messale. Il mio cuore è duro come pietra, fai sgorgare da lui, come dalla roccia di Mosè, le lacrime della compunzione. Queste lacrime sono beatificanti: «Beati coloro che piangono; essi saranno consolati» (Mt 5,4). A differenza della «tristezza del mondo» che «produce la morte», esse sono «tristezza secondo Dio» che «produce un salutare e irrevocabile pentimento» (2Co 7,10).

Questa meditazione non può essere fatta che da delle persone che si sentono salvate in Gesù Cristo. A coloro per i quali Gesù Cristo non è ancora Colui che vive in noi e noi siamo ristabiliti nell’amore, essa rischia di essere nociva, perché li rinchiude nella loro solitudine e nella loro tristezza. È qualcosa che il direttore degli Esercizi capirà con l’esperienza. Costui deve mostrare un po’ di discrezione nella maniera di presentare queste meditazioni al fine di non ottenere un risultato contrario a quello propostosi. Esse sono dannose se non accrescono in noi la conoscenza e l’amore di Gesù Salvatore nostro.

 

AVVISI DI FINE GIORNATA

Hanno come scopo di aiutarci a progredire nel discernimento, di stabilirci nell’ordine oggettivo della fede, sotto l’azione dello Spirito Santo.

1.  L’IMPORTANZA DELL’ENTRATA IN PREGHIERA

O sarebbe meglio dire: l’importanza del punto di partenza, dei «preludi» che danno il tono.

La preoccupazione principale che abbiamo manifestata è l’importanza legata all’azione dello Spirito. «Domanda ciò che vuoi», dice s. Ignazio (Es. Sp. 48). Molti dimenticano uno dei due fattori e, soprattutto, dimenticano che conviene prenderli nella loro correlazione. Io prego quanto più desidero che qualcosa si compia in me o si spezzi in me e quanto pi io mi riconosco incapace di realizzare ciò. Dio mi dona di desiderare e io attendo da Lui la realizzazione del desiderio.

«Ciò che io voglio». Spesso succede che io non sappia ciò che voglio; ignoro ciò che è il mio bene. Io lo domando quindi nella fede della Chiesa, sapendo che Dio mi darà di vedere ciò di cui abbisogno, se mi sforzerò in qualche cosa. Nei miei svariati sforzi, Dio mi farà sentire ciò che conviene a me.

2.  AIUTI PER INTRATTENERSI NELL’ORAZIONE

Per rimanere nella preghiera per tutto il tempo prescritto, conviene sottolineare ciò che più e meglio ci possa aiutare, in particolare i Salmi, i testi della Scrittura o della Liturgia che diventano la mia preghiera. È molto sciocco e pretenzioso volere far tutto da soli, quando lo Spirito si prende la briga di istruirci con la sua Parola. Poco alla volta, si stabilisce in me, a lungo andare, un movimento continuo, che va dalla lettura alla preghiera, dalla preghiera alla lettura.

3.  PAZIENTARE NELL’ATTESA

Come il senso del peccato è opera della grazia e non della tensione del proprio spirito, la sua rivelazione, nella storia dell’umanità, come nella storia di ciascuno, è progressiva, cioè è fatta a misura delle forze della persona che la riceve.

È importante stare alla misura della grazia che mi viene donata oggi. Il meglio sognato, è, qui come dappertutto, nemico del bene reale.

Innervosirsi per l’attesa, espone allo scoraggiamento che ci consegna a Satana. Siamo attenti, ma senza fretta né febbrilità.

Questa pazienza si nutre di questa certezza: Dio rivela il nostro male donandoci il nostro Redentore: «Il fatto che io ti parli del mio male, è segno che ne voglio guarire» (Pascal).

4.  «RACCOGLIERE I FRUTTI»

Alla fine della giornata, è bene annotarsi i punti nei quali mi sono fermato in orazione, al fine di potervi ritornare. Queste sono delle indicazioni dello Spirito.

… Fosse anche solo per dire una parola nella visita con la guida o durante la condivisione. Questi sono anche dei punti attraverso i quali si delinea un orientamento. La loro convergenza fa a poco a poco conoscere la volontà di Dio, l’elezione alla fine non è altro che la raccolta di un frutto che è maturato a poco a poco.

Conviene anche, se noi abbiamo l’impressione di non trarne alcun profitto, di parlarne con la guida. Spesso noi crediamo di non approfittarne, allorché, senza dubbio, la grazia sta lavorandoci, ma non come pensavamo noi che lavorasse. Come è spesso detto nella Scrittura, Dio era là e io non me ne ero accorto.

 

Torna all'indice         

 

PRIMA TAPPA                                                     3° GIORNO 
L’INVITO ALLA CONVERSIONE                                        

La preghiera a Gesù

LA FINALITÀ DELLA GIORNATA: GESÙ SALVATORE

Come dire in verità e non solo con le labbra, la preghiera a Gesù:

Gesù, Figlio di Dio, Salvatore, abbi pietà di me, peccatore?

Nel male dove io sto, Gesù è con me sempre. Quanto più basso noi discendiamo nell’umanità, Lui è là. Stasera, tu sarai con me in Paradiso (Lc 23,43). Con Lui io posso scendere negli abissi del male: vedere la bruttezza del peccato, «anche quando non fosse proibito» (Es. Sp. 57). Arrivo fino alla sorgente del disordine comune, nella quale io stesso appartengo con tutto questo mondo di cui parla s. Giovanni e dal quale mi fa uscire Gesù, là dove ogni giustificazione è impossibile, tanto per l’uomo giusto che giudica sulla legge che per l’uomo pagano che si appoggia alla propria coscienza.

In queste profondità, io non condanno nessuno, se non me stesso. S<copro così la dimensione della salvezza: «La larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità» (Ef 3,18). Sono le dimensioni dell’amore che è più forte dell’inferno. Nel più intimo di me stesso, io sono alle sorgenti della misericordia universale, là dove il Cristo mi salva: «Pensa all’inferno e non disperarti mai» disse Gesù al monaco Silvano del monte Athos. Gesù è per me e per tutti, il Salvatore, Agnello che porta il peccato del mondo. Egli mi rende all’amore fraterno (1Gv 1,8 – 2,2).

Attraverso quest’incontro, si fa lo scambio. Io gli dono ciò che sono, Lui mi dona ciò che è. La trasformazione dell’uomo comincia lì. Io posso manifestare davanti a Lui tutti i crimini dell’umanità. Là dove ha abbondato il peccato la grazia di Gesù ha sovrabbondato (Rm 5,20).

Non bisogna avere paura, in questa personalizzazione della preghiera del peccatore, di discendere al più profondo, al punto dell’«inclinazione del mio cuore malvagio», nello stato puro di assenza, dove si pone l’«io» che non gode che di se stesso, l’inferno. Occorre sbarazzarsi delle immagini comuni che si hanno della realtà dell’inferno, cioè di un mondo senza amore, senza relazione, senza Dio. La sua realtà nasce in noi del desiderio del cuore.

Se io dico Gesù Salvatore, occorre sapere da cosa mi salva. Da niente meno che l’inferno, l’incomprensibile, le tenebre, il mondo all’inverso, il contrario dell’amore. Talvolta io posso avere qui sulla terra l’esperienza di questo stato o di persone accartocciate in se stesse, rimanendo impermeabili le une alle altre.

La discesa a queste profondità non è disperante, ma purificante. Essa costituisce il ritorno doloroso di una persona attratta dall’amore e che sente in sé delle resistenze. Mettendo alla luce il male, io ne esco fuori. Mi ritrovo nel Cristo, cuore del mondo e dell’umanità. Non mi rigetta lontano dal suo volto. Tu solo sei la vita. Non c’è salvezza che in Te. In Te solo, è la giustizia universale a cui aspirano gli uomini. Prima, durante e dopo la sua venuta sulla terra, tutti sono uniti a Lui e tutti sono giudicati da Lui.

IN VISTA DELLA PREGHIERA DI QUESTO GIORNO

 1.  SCHEMA DI QUESTA PREGHIERA: «MEDITAZIONE DEI PECCATI»

Es. Sp. 51-61

  • Benché si dica «dei peccati», essa non costituisce un esame di coscienza. È un incontro personale tra Dio e l’uomo, nel genere del dialogo fra Giobbe e il suo Creatore. È composta da cinque grande ondate che ci trascinano negli abissi della misericordia.

In qualunque modo che io mi guardi – luogo dove vivo, relazioni o impiego – constato in me la presenza o la spinta della disposizione satanica: l’appropriazione o l’egocentrismo dell’«io», anche nelle azioni, in apparenza, le più belle.

La malizia di questa attitudine non viene meno né per mezzo di nessuna proibizione o punizione possibili. Anche se non fosse vietato da Dio, il peccato che pone me al centro, è un male, perché esso è rifiuto di amare e di vivere: Io, tutto solo.

Sì, sono io, che mi voglio solo? Non c’è bisogno di lunghe riflessioni per rispondere a questa domanda. La corruzione è alla radice dell’essere e la morte che attende l’uomo non è che l’immagine della degradazione interiore prodotta in lui dall’«io» che si vuole solo.

Trascinato un istante dal risucchio del nulla e della disperazione, eccomi trasportato allo stesso tempo dal vortice di Dio che mi ha fatto. Chi è Lui, il mio Creatore? Tutto ciò a cui io aspiro e che non posso realizzare da me… Come Giobbe, «io ho parlato come un insensato. Ma ora i miei occhi ti hanno visto. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere» (Gb 42,1-6). Tu solo sei santo. Tu solo sei potente. Tu solo sei buono!

E così, in questo vortice, Dio e l’uomo stanno l’uno davanti all’altro in «un immenso amore». Lo «stupore» mi prende, come prese Pietro. Come è possibile? Io esisto. Io sono amato. L’universo esiste. Gli angeli e i santi sono con me. Io non sono più solo.

Al termine non mi resta che intrattenermi con Dio nostro Signore: occorre ringraziare molto nostro Signore, conclude Ignazio. L’azione della grazia segue il movimento inverso a quello del peccato. Io sono trascinato dall’amore che mi fa e mi rifà.

  • Una tale preghiera è un grido che esce dal cuore a cui Dio si fa conoscere. Non ci è dato di farla nascere da noi stessi. Essa è l’opera dello Spirito in colui che la chiede: Signore, apri i miei occhi alle tue meraviglie e io sarò che sono. Sviluppandosi, essa mi lega indissolubilmente all’amore.

 2.  UNA SINTESI NELLA SACRA SCRITTURA: LE ACCUSE DI DIO AD ISRAELE

Ezechiele 16

  • C’è sempre lo stesso movimento, da Dio a me, da me a Dio. Qui è il dialogo di un marito innamorato ad una sposa infedele. Il peccato vi appare come un adulterio.

Nel ritorno dell’uomo a Dio, è Dio che ha l’iniziativa: «Fai conoscere a Gerusalemme i suoi crimini» (Ez 16,2). «Io me ne ricorderò e tu te ne ricorderai» (Ez 16,60-63). Così Gesù dopo il rinnegamento di Pietro, si volge e fissa il suo sguardo sul suo apostolo. «E Pietro scoppiò a piangere» (Lc 22,61-62).

Il peccato, dal quale Dio strappa il suo popolo, è una mancanza di gratitudine e un adulterio. Tu sei invaghito della tua bellezza e non hai riconosciuto che essa veniva da me. Allora tu ti sei creduta migliore delle tue sorelle, migliore sia Sodoma che di Gomorra e di Samaria… E «per via dei tuoi abomini, tu hai giustificato le tue sorelle» che «non hanno commesso la metà dei tuoi crimini» (Ez 16,51). S. Paolo dirà similmente: l’infedeltà di Israele ha giustificato le nazioni (Rm 9-11).

Poiché tu ti sei distolto da me, io ti ho lasciato a te stesso. Tu sei diventato lo zimbello delle nazioni. Il peccato ha sviluppato in te il suo potere e la sua fatalità: «Tu ci hai lasciato in balia delle nostre iniquità» (Is 64,6). Tu sei diventato un immagine dell’inferno.

Ma il mio amore è più forte delle tue nefandezze. Io ti riconcilierò con Me. Tu sarai «preso da vergogna» e non sarai più tentato di preferirti a chicchessia. Stupore, escavazione ammirata, silenzio attonito sono la stessa cosa (Ez 16,61-63). L’uomo salvato insieme a tutti i suoi fratelli per la misericordia universale, non sa più che dire: come Tu Dio, ci hai amati così tanto?

  • In questa meditazione dei peccati, alla luce della Sacra Scrittura, troviamo un punto di luce che illumina tutta la storia umana.

 3.  ALCUNI PENITENTI NELLA SACRA SCRITTURA

  • È Bene meditare come Dio rivela agli uomini il peccato e li libera. È sempre in un dialogo personale dove Dio e l’uomo si riconoscono.

Davide (2Sam 11-12)

Adulterio, corruzione del male, assassinio: un peccato ne trascina un altro. Per prendere coscienza del male dove l’uomo s’affossa, la parola di Dio deve fare capire: quest’uomo sei tu, disse Natan. Davanti a questa parola, Davide non soccombe né all’orgoglio né alla disperazione: Io ho peccato davanti a Dio. Dio e l’uomo si riconoscono: Io ho trovato Davide, mio servo [Sal 89(88),21]. Saul invece calcola e si difende: Io ho eseguito l’ordine di Dio. Egli si sente a posto ed è rigettato (1Sam 15). Davide è senza difese ed è scelto e amato.

Zaccheo (Lc 19,1-10)

Zaccheo riconosce davanti a Gesù di essere un ladro. La legge romana prevedeva che il ladro rendesse il quadruplo della somma rubata e lui, promette di rendere questo quadruplo. Dunque, pienamente pubblicano, conosciuto come tale, egli vuole vedere Gesù. L’aveva riconosciuto come l’unico ed è, a sua volta, riconosciuto da Gesù come un figlio di Abramo. Dopo verrà il turno di Matteo, dopo quello di tanti altri. Come Zaccheo, Matteo riceve Gesù alla sua mensa, scandalizzando i farisei (Mt 9,9-13).

La peccatrice al pranzo di Simone (Lc 7,35-50)

Discendere in profondità rischia, per molti, di significare di esaminarsi a fondo. Essi rimangono soli. La donna al pranzo di Simone è scesa là dove il Padre vede nel segreto: ha riconosciuto Gesù ed è stata riconosciuta da Lui.

Ella non dice nulla, non si accusa di nulla. I suoi gesti dicono tutto. Peraltro, tutti la conoscono nel paese e i farisei, più di chiunque altro, sono capaci di dettagliare i suoi peccati. Essi rimangono nella prospettiva della Legge, della quantità e della giustificazione personale. Così restano soli, fuori dall’amore. non hanno bisogno di altro. Sono sufficienti a se stessi.

La donna scende in sé là dove sempre si riconosce peccatrice e amata. Non è più questione per lei di analizzare e di quantificare. Lei consegna tutto, i suoi peccati, i suoi numerosi peccati. L’amore, poiché è reciprocità, ha bisogno di essere riconosciuto dall’altro e abbatte ogni muro di separazione.

La donna adultera (Gv 8,2-11)

Presso i farisei il giudizio viene dalla Legge che condanna e lascia soli. Presso Gesù, esso parte dal cuore che riconosce e riunisce. I farisei se ne vanno via, uno dopo l’altro, sporchi di un peccato che non hanno riconosciuto, perché attendono la giustificazione da se stessi. La donna se ne va giustificata, perché non ha presentato al Signore che la sua miseria, incapace di aspettarsi da sé qualunque bene. Nella sua sovrana indipendenza, Gesù scrive con il suo dito sulla sabbia.

Il buon ladrone (Lc 23,39-43)

Anche lui riconosce Gesù, mentre l’altro non pensa che a sé e a rivendicare. Per noi è giusto. Ma lui! Ricordati di me! Perfetta preghiera del peccatore che raggiunge quella di Davide: Io ho peccato contro Dio. Cosa può fare Gesù davanti ad una persona che si consegna così? Egli è venuto per manifestare la misericordia del Padre verso le persone senza difesa, i poveri, i fanciulli, i peccatori. Questa sera, tu sarai con me nel Paradiso. Andate per le strade e portate alle nozze tutti quelli che potrete trovare (Mt 22,9).

4.  ALCUNE PREGHIERE DI PECCATORI NELLA SACRA SCRITTURA

Un salmo riassuntivo dell’azione di Dio verso il suo popolo: Is 63-64. Tu non cessi di essere nostro padre e nostro vasaio, anche quando noi abbiamo contristato il tuo Santo Spirito. Tu lasci che la fatalità del peccato si sviluppi in noi allontanandoci da Te. Ma Tu ritorni, non ci lasci per sempre al potere dei nostri peccati.

Inoltre vi sono dei salmi detti penitenziali, in particolare il Sal 130(129): « Dal profondo a te grido, Signore…»; e il grande salmo dei peccatori, Sal 51(50): «Pietà di me, nella tua grande misericordia».  Dei due, possiamo dire che mai viene evocato il proprio peccato, senza fare menzione di Israele, tutto il popolo che Dio riconcilia con noi. Il punto di vista di ciascuno e quello di tutti sono legati. Nel secondo salmo – il grande Miserere – noi possiamo verificare, pregandolo, come mai l’uomo si conosce veramente senza che gli sia donato nello stesso tempo una più grande conoscenza di Dio. Vedendo il mio peccato, conosco Dio a cui mi rimetto. Lo conosco come misericordia, colui che mi guarda con tenerezza e pietà. Sperimento la sua giustizia, perché non ne ho più in me ed è a Lui che io chiedo di essere istruito delle profondità della giustizia. È anche sulla sua unica santità che io mi riposo per essere lavato e diventare più bianco della neve. È soprattutto il suo amore che io esperimento in questa divina trasformazione che segue la vista del peccato, questo amore per mezzo del quale mi è donata la gioia di questa nuova creazione della persona nella presenza dello Spirito Santo. infine, trasformato da questo amore, posso comunicare agli altri l’esperienza fatta: Ai peccatori insegnerò le tue vie. Io so, dunque, che se la parola ha qualche effetto, questa efficacia viene dalla grazia: Signore, apri i miei occhi. Allorché noi siamo in uno spirito contrito che non spera che nel sangue di Gesù, possiamo offrire il sacrificio, il solo che piace a Dio.

Questa preghiera si sviluppa nella fede e nella grazia: Nei miei peccati, «esercita la tua Bontà e Misericordia e Tu sarai conosciuto in essi» (S. Giovanni della Croce).

Nel Vangelo di Giovanni, noi possiamo riprendere la confessione del paralitico di Betzaida (Gv 5): «Signore, non ho nessuno». Che vuol dire: nella varietà e nell’universalità del male dove io sono immerso, attendo, insieme a tanti altri, una guarigione che non avviene – il paralitico è là da 38 anni – non ho che da gettare verso Dio il grido delle profondità, come nel Sal 18(17). È il grido che fa scendere Dio: Alzati e cammina! È la parola creatrice che risuscita i morti, dato che il Padre ne ha dato potere al figlio. «Signore, non ho nessuno», cioè io non ho che Te!

5.  LA TRIPLICE SUPPLICA

S. Ignazio propone che, dopo esserci fermati qualche tempo sui punti che più ci hanno colpito nelle meditazioni precedenti, noi proseguiamo la nostra preghiera indirizzandoci successivamente alla Vergine Maria, al Figlio e al Padre. Facendo loro ogni volta la domanda di una triplice grazia: andare al cuore del peccato, cioè non all’atto materiale, ma a ciò che esce dal cuore dell’uomo e lo rende impuro (Mc 7,20); sentire il disordine delle mie attività, cioè il cuore doppio che vuole servire due padroni (Lc 16,13) e questo occhio tenebroso che fa piombare tutto il corpo nelle tenebre (Lc 11,33-36); infine, conoscere il mondo, questo mondo che è ripiegato su se stesso e in cui non può esserci l’amore del Padre (1Gv 2,15-17).

6.  LA MISERICORDIA E IL GIUDIZIO

Os 1-3; 11 – Mt 25,31-46

A colei che fu la sposa infedele, io mi fidanzai per sempre «nella giustizia e nel diritto, nella tenerezza e nell’amore». Attraverso i castighi, Io la farò rivivere: Io sono Dio e non un uomo

In definitiva, è l’amore che opera la cernita definitiva. «Noi saremo giudicati per l’amore», disse s. Giovanni della Croce, riassumendo così la grande scena del giudizio. Coloro che hanno parte alla gloria, sono coloro che sono stati trovati nel movimento dello Spirito d’amore, anche se essi non vi si riconoscono ancora. Coloro ai quali questo movimento li conduce al Cristo in tutto e in tutti. Ciascuno è giudicato sulla «realtà della legge iscritta nel suo cuore» (Rm 2,14-16), realtà della Legge che è amore.

Si può non aver riconosciuto il Cristo ed essere sue pecore, di coloro che non hanno peccato contro lo Spirito Santo (Mt 12,31-32). Degli altri lo hanno nominato, tuttavia, non sono affatto suoi amici. Sono quelli che dicono…: Noi abbiamo profetizzato nel tuo nome (Mt 7,21,23). Il Signore non rinchiude gli uomini in nessuna categoria sociale o religiosa; i suoi verranno dappertutto (Mt 8,11-12).

Anche se la tua coscienza non ti rimprovera nulla, guardati dal giudicare te stesso o gli altri. Lasciate farlo al Signore (1Cor 4,3-5).

  RIMANERE NELLA PREGHIERA. RIPETIZIONE. ESAME

La preghiera non diventa personale se non durando. Il pellegrino russo la ridice per lunghi tempi e il suo cuore ne è trasformato. S. Ignazio a questo momento del ritiro consiglia le ripetizioni, dove ciascuno ritorna sui punti dove egli ha «sentito una più grande consolazione o desolazione o un più forte sentimento spirituale» (Es Sp. 62), o, in altre parole, sui punti che non l’hanno lasciato indifferente. La preparazione dell’orazione consiste allora, non a fare abbondanti letture o a prevedere il piano di una dissertazione, ma, man mano che si sviluppa la nostra esperienza spirituale, a fissare liberamente la nostra attenzione sui punti nei quali sappiamo per esperienza che incontriamo Dio più facilmente.

Per favorire questa ripetizione, s. Ignazio consiglia il triplice colloquio di cui abbiamo parlato poco fa. Nella vita ordinaria tutto può nutrire questa preghiera: la lettura della Scrittura, la liturgia, l’esame di coscienza, la penitenza, i sacramenti… con questi mezzi si forma in noi questa attitudine che gli antichi chiamavano «compunzione», quel cuore «contrito» che Dio non respinge mai. È un sentimento unico che, come ogni opera dello Spirito, concilia delle disposizioni apparentemente contrarie: stupore, vergogna, meraviglia, rendimento di grazie. Custodisce il cuore malleabile, tenero e sempre aperto. È fonte di azione  e di irradiamento. Contribuisce a mantenere nella nostra vita la rettitudine e la purezza delle nostre motivazioni. È uno stato permanente di conversione all’amore.

A questo proposito, diciamo una parola sull’esame. Abbiamo già detto che era riconoscimento dei doni di Dio. Esso è anche, come diremo più tardi, una manifestazione dei pensieri intimi nel ricordo frequente del Signore Gesù. Egli contribuisce a mettermi nella verità del mio essere. Là dove il Padre giudica nel segreto e dove, secondo il pensiero di s. Agostino, io gli dico ciò che sono. 

Quest’esame ha il suo posto durante gli  Esercizi come durante la vita ordinaria. Il miglior modo di farlo è una «maniera di pregare» secondo gli esempi di s. Ignazio negli Esercizi (238-248). Io così apprendo a ricevere da Dio la conoscenza che Egli vuole darmi di me stesso. Apprendo a riconoscere Gesù Cristo nel più profondo del mio essere, in questo «interno» dove esce tutto ciò che sporca l’uomo (Mc 7,21).

  IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

La preghiera dei giorni precedenti ci ha preparato a trovare il suo compimento in questo sacramento. Discendendo nelle profondità, ci consegniamo a Gesù ciò che siamo e Lui ci dona ciò che è. Lo scambio del battesimo si rinnova nel sacramento della penitenza. Noi non siamo più da noi, ma da Lui.

Una delle cause della disaffezione attuale del sacramento della penitenza, potrebbe essere il fatto che l’abbiamo prospettato soprattutto sotto l’aspetto psicologico e morale: per conoscere e fare progressi. Occorre andare al di là di una preoccupazione di purificazione e di una buona coscienza. Ciò che rimette il peccato è l’amore che ne è il contrario.

Vivendo in Gesù Cristo, io vivo nell’amore. I miei desideri, i miei pensieri, le mie azioni passano in Lui: «Non sono più io che vivo, è il Cristo che vive in me» (Gal 2,20). Nella mia crescita in Lui, il mio stesso peccato – se qualcuno pretende essere senza peccato, fa di Gesù Cristo un mentitore (1Gv 1,10) – dal momento in cui io lo riconosco non mi appartiene più. Esso passa in Colui che è «vittima di propiziazione per i nostri peccati, non solamente per i nostri, ma per quelli di tutto il mondo» (1Gv 2,2). Esso è inchiodato alla croce, come l’atto che mi condanna (Col 2,4; cf Ef 2). Anche se io fossi carico di peccati come la peccatrice al pranzo di Simone, i miei peccati mi sarebbero rimessi perché io «ho mostrato molto amore». Simone che rimane giusto ai suoi occhi e giudica gli altri non riceve perdono, perché egli «mostra poco amore» (Lc 7,47-48).

Come due persone che sia amano e vivono lontano l’una dall’altra provano il bisogno di manifestarsi nei segni, e non solamente nello spirito che li unisce, l’amore che è in loro, così il cristiano che vive nell’amore di Cristo, prova il bisogno di esprimersi con dei segni il suo orientamento perpetuo a Gesù Cristo.

Il segno per eccellenza di questo orientamento a Gesù Cristo al cuore stesso del nostro peccato, è il sacramento della penitenza. Come l’Eucaristia, se io vi partecipo, non come ad un rito magico o in modo inquieto, ma per bisogno di amore, per esprimere sensibilmente il doppio ricorso a Gesù Cristo e alla comunità dei miei fratelli. Il peccato è ripiegamento su me stesso; il ricorso al sacramento è accoglienza stessa della salvezza nel modo in cui Gesù me la dona. Confessare il mio peccato, significa l’acquiescenza data al recupero da parte del Signore di tutto ciò che fa parte della mia vita, compreso il male.

È a partire da ciò che posso rispondere alla questione che a torto io ponevo i primi tempi del mio ministero: quando confessarmi? come confessarmi? Le modalità – la disciplina dei sacramenti – può variare nel corso dei secoli. Ciò che importa è ritrovare la profondità della mia relazione con il Signore. Non lasciamo corrompere le sorgenti della vita.

  AL TERMINE DI QUESTI DUE GIORNI: DISCERNIMENTO

Ci sono due modi di iniziare, che non si oppongono, ma che si situano a due livelli differenti. Per molti il discernimento è un esercizio di giudizio che si applica ai fatti che ci coinvolgono o ai sentimenti, un certo numero di criteri determina poi ciò che è secondo Dio e ciò che non lo è. La tradizione, a partire da s. Giovanni e da s. Paolo, vede piuttosto nel discernimento l’esercizio di un senso – un «tatto», un «fiuto» – che fa parte dell’essere del battezzato e che si sviluppa man mano che cresce la carità.

Il primo tipo di discernimento è critico, è quello dello psicologo o del teologo. Suppone studio e competenza. Esso delimita il dominio rispettivo della natura e della grazia. Riprende, per approfondirli e adattarli, i dati della tradizione. In particolare, con il Vangelo e s. Paolo, esso pone il principio che l’azione di Dio non può essere individuata che successivamente al suo svolgimento, dai suoi effetti, dai frutti dello Spirito, come dice s. Paolo. Così nella meditazione del peccato, si riconosce come procedente dallo Spirito quando la contrizione apre il cuore a più amore. Questo è nella logica della fede che Dio è un Dio d’amore, la cui volontà va sempre nel senso della vita.

Il discernimento di cui andiamo a parlare è di un altro ordine. Non include l’abbandono del senso critico o dell’esame psicologico, ma esso si situa al di là nella sensibilità ai movimenti dello Spirito. Se occorre, per comprendere la sua natura, fare un esempio, ricorriamo a ciò che accade all’artista, all’uomo d’azione o all’innamorato, quando sono messi in presenza dell’oggetto della loro attività. Essi non ignorano la ragione o la scienza, i dati della tradizione, ma, obbediscono, per passare all’atto, ad altre norme. Come un uomo che per decidere del colore o del suono non ha bisogno di ragionare. L’abitudine che ha di esercitare i suoi sensi, lo fa agire spontaneamente.

Questo discernimento che è esercizio di un senso, suppone che noi non siamo esterni alla realtà che noi giudichiamo. Possiamo essere intenditori di canto senza saper cantare, ma se vogliamo cantare occorre per prima cosa assicurarci che la nostra voce sia intonata. Così colui che si impegna in un’esperienza spirituale, vuole sapere se ciò che sperimenta sia vero o falso. Non può giudicarne come una realtà a lui esterna. Occorre prima provare personalmente, e si fosse anche dei grandi studiosi di questa materia, ci si ritrova come piccoli fanciulli. Si entra in un’avventura dove quello che si è appreso nei libri non è poi di tanta utilità. A meno che il suo linguaggio e i suoi studi non sono rimasti costantemente a livello delle proprie esperienze. Non si riconosce subito ciò che si esperimenta nelle descrizioni che si sono studiate. Così come chi vive il suo primo amore. dove è la verità? Dove è l’errore? Quale strada prendere? Si domanda Ignazio iniziando la sua conversione.

Evidentemente, perché si eserciti il senso del discernimento, la prima condizione è l’entrata in questo mondo dove rischiano di mancare i punti abituali di riferimento, un mondo sul quale non abbiamo presa, benché esso si offre alla nostra libertà. Colui per il quale Dio non è un oggetto di ricerca o di desiderio, ma di semplice considerazione, come potrà entrare nel discernimento? Occorrerà parlargli di esperienza. Ora, il mondo dello Spirito non è una realtà per lui. Lui ha ugualmente, per molteplici ragioni, appreso a diffidare di tutto ciò che cade sotto la ragione e non si lascia toccare. Egli non ha sentito la chiamata di Abramo a lasciare la sua terra senza alcuna altra prova che la parola che gli è donata.

L’inizio di un tale cammino, solleva molte resistenze. Ciascuno di noi le prova quando accetta di consegnarsi alquanto seriamente all’avventura di un ritiro. Tutte le specie di ragioni si presentano: è stupido! è sentimentale! mai resisterei! lavaggio del cervello! gli altri non fanno questo! che penseranno di me? mi primo della vita di tutti i giorni! simile esperienza è un lusso che la maggioranza delle persone non possono permettersela… Potremmo allungare la lista di simili riflessioni. In fondo, ciascuno è solo davanti al non conosciuto. È possibile che, passati i primi momenti di entusiasmo, non abbiamo davanti che un triste deserto o dei cammini vuoti e senza orizzonti.

In fondo, queste resistenze sono altrettante difese dall’invito di uscire da se stessi. Quando Dio nella sua verità sembra manifestare il segreto del cuore, l’uomo va a nascondersi come Adamo nel Paradiso. Egli non ama sentirsi nudo. Consente a mala pena ad essere scrutato e a farsi rivelare i suoi pensieri segreti.

Che fare davanti a queste resistenze, che s. Ignazio nel suo linguaggio chiama delle «desolazioni»? Non bisogna cambiare nulla di quello che prima si era deciso. Non prendere nuove direzioni. Perseverare e pazientare «con fermezza e costanza». Se vuoi cambiare qualcosa, devi cambiare te stesso. Prega di pi, fai penitenza, a condizione, evidentemente, che questi mezzi non rallentino di più il tuo cammino. Non sono che dei mezzi. Occorre usarli con elasticità al fine di «trovare ciò che desidero». Se essi mi portassero al risultato contrario, è perché te ne stai servendo come degli assoluti, non per trovare Dio, ma te stesso. In questo caso, meglio per te rilassarti, andare a dormire o tagliare la legna. In fondo, tu vuoi uscirne fuori in un campo dove la sola riflessione o il solo sforzo personale non sono sufficienti. S. Ignazio, scosso fino alle profondità del suo essere per delle tentazioni di suicidio, grida al Signore: «Anche se dovessi mettermi a seguire un cagnolino, io lo seguirò, Signore, purché ti trovi». I Salmisti, Giobbe, hanno lanciato a Dio simili gridi.

In questa lotta si compie una grande purificazione. Essa fa passare la persona al di là delle false paure e delle gioie puerili e conduce, come nell’agonia di Gesù, nel senso della vita, dell’amore, della pace. La fede, soprattutto, diventa più profonda.

Viene il momento in cui noi percepiamo che qualcosa è cambiata. Una certa gioia, una certa allegria ci prende la persona. questi sentimenti si situano a diversi livelli di profondità, dopo l’entusiasmo superficiale di colui che è pronto a tutte le offerte fino alla pace tranquilla di colui per il quale Dio è diventato tutto. In ogni caso, c’è stato un vento che è passato dissipando la notte anteriore. Succede come quando due persone che si amano superano delle grosse difficoltà: l’«inverno è passato» (Ct 2,11), ha finito di piovere. In genere, è solo dopo che noi prendiamo coscienza del cambiamento avvenuto. Quando si è prodotto, noi ne siamo stupiti. Ma, scendendo la montagna, il nostro cuore non è più lo stesso. «Un mantello è caduto dalle nostre spalle» (Mc 10,50). È il tempo della consolazione, dice s. Ignazio. Dio vi è riconosciuto dalla vita, dalla gioia, dalla forza che ispira.

Tutta è fatto, pertanto? Ci sarà l’illusione di crederci. Noi lo apprendiamo a nostre spese. La tentazione è quella di appropriarsi dei doni di Dio. Ciascuno si fa ricco della propria esperienza. Di nuovo, tutto è compromesso! Dopo la consolazione, ecco di nuovo la notte, la ricerca, il deserto. Tutto sembra essere rimesso in questione. Tutti gli uomini di azione che amano in verità, conoscono queste ore dolorose. Tutti coloro che cercano Dio sanno questo. Essi comprendono allora che il dono che è stato fatto loro è pura gratuità: «Lo Spirito soffia dove vuole» (Gv 3,8) e si ritira se tu vuoi acchiapparlo.

In quei momenti la persona è di nuovo insensibile e non sa cosa pensare del proprio stato. Prima vedeva sempre, ora non vede più. In realtà, la sua insensibilità e l’incapacità ad uscire fuori da sé, sarebbero pericolose se non lo spingessero anche a cercare Dio. Ma in realtà, spesso, se la persona sentendo la propria debolezza e incapacità di amare, cresce nel desiderio di aprirsi e di amare, vedendo svanire quelle paure infantili che hanno della contrizione solo l’apparenza e, soprattutto, fissando sempre più il suo sguardo su nostro Signore che lo salva.

Allora noi riceviamo altre e migliori che non ci attendevamo: non una commozione sensibile, ma una conversione nella fede, un sentimento di solidità e di tranquillità che a poco a poco si stabilisce nel fondo del nostro essere. «Io non avevo mai meditato sul peccato in una simile pace». Poco a poco, colui che faceva questa constatazione alla fine di queste meditazioni, avrà trovato questa pace non terrena. Cominciamo così a uscire dalla soggettività dove si chiude spesso la vita spirituale, soprattutto nei suoi inizi, senza cadere pertanto nella freddezza razionale. La sensibilità, destata, è tuttavia superata per ricevere da Dio altre cose  diverse da quelle di cui di solito essa ha fame. la lotta per il discernimento toglie l’equivoco che si leva sulla parola «sentimento», non per analisi esteriore all’oggetto, ma per l’esperienza che essa fa fare.

Questa avventura non avrà mai fine. Quello che stiamo dicendo conviene a tutte le età. Anche nella confidenza accresciuta, ciascuno deve rimanere umile e vigilante. La sua forza gli viene dal di fuori. Deve sempre ricordarselo, sotto pena di compromettere il progresso fatto.

Allora, una di queste due cose:

  • O io sono nella pace. Allora rimango attivo e vigile, per non riposarmi mai. Il secondo stato sarà peggio del primo (Lc 11,24-26).
  • O sono nella tempesta. Allora lavoro per togliermi le paure a ritrovare la mia forza in Gesù. Uomo di poca fede, perché hai dubitato? (Mt 14,31)

In ogni caso, consolato o no, sempre mi sforzo di uscire da me stesso per lasciar crescere il Cristo. È in Lui che io mi reggo in piedi, ma non posso tenermi in piedi se non camminando. E questa «carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento, perché possiate distinguere sempre il meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo» (Fil 1,9-10).

Torna all'indice         

SECONDA TAPPA 

DALLA CONVERSIONE ALLA MISSIONE

Nelle profondità dove siamo scesi nei giorni precedenti, Gesù è salito un po’ più sull’orizzonte della nostra persona. Da Lui noi possiamo ora ascoltare l’invito alla missione: Come il Padre mio mi ha inviato nel mondo, anch’Io li invio nel mondo… che siano uno come Te e Me, affinché il mondo creda che Tu mi hai mandato (Gv 17,18-21). Conversione del cuore, invito alla missione, due tappe che manifestano l’opera del Figlio. Egli non è sceso nelle profondità che per portarci nelle altezze, al fine di riempire tutte le cose (Ef 4,8-10).

Queste due tappe sono continue e inseparabili. Il cristo ci libera per trascinarci con Sé. Nessuno può dire: Signore Gesù, abbi pietà di me, peccatore, senza sentirsi dire: Vieni, e seguimi, io farò di te un pescatore di uomini (Lc 5,1-11). Nessuno può lavorare l’opera di Cristo, se prima non si riconosce peccatore. Preghiera del peccatore e preghiera di offerta di sé, formano una sola preghiera.

Dal giorno che viene, la nostra umanità cercherà di fondersi maggiormente con il Cristo per farne una «nuova creatura», la sua Sposa, come è nel disegno del Padre.

In questa opera universale, ciascuno di noi avrà la sua missione particolare. Io dovrà sentire l’invito lanciato a tutti e quello che si indirizza solo a me. nell’elezione globale, la scelta particolare.

Meditando la chiamata del Cristo e contemplando i misteri della sua vita, io scoprirò la maniera in cui posso meglio corrispondere a questa vocazione. La preghiera diventa una lenta preparazione all’elezione o all’accoglienza personale della vocazione di Dio su di me.

Torna all'indice         


4° GIORNO

La chiamata di Gesù

LA FINALITÀ DELLA GIORNATA: CONTEMPLAZIONE DEL REGNO

I giorni che verranno non saranno una semplice passeggiata attraverso i misteri della vita di Gesù. Ci ha dato un filo conduttore da seguire: la meditazione del Regno o della chiamata.

Sappiamo tutti, più o meno, il modo in cui viene presentata negli Esercizi: «La chiamata del Re temporale aiuta a contemplare la vita del Re eterno» (Es. Sp. 91) La parabola de Re sembra desueta. È possibile, come le parabole del Vangelo, essa contiene un senso nascosto: la chiamata del Cristo passa attraverso la chiamata dell’uomo.

In ogni modo, questa meditazione non è che un punto di partenza. Ciascuno, intravedendo la realtà della chiamata, si mette in cammino dal punto in cui è. Così si dispone a meglio intendere. Conoscenza e vita sono solidali. La conoscenza di una vocazione si sviluppa divenendo azione e vita.

Noi facciamo molti equivoci a proposito di vocazione, di impegno, d’apostolato, di servizio degli altri, di dono di sé, per cui è bene fare qualche osservazione, prima di iniziare la meditazione.

  1. La chiamata interessa tutti. In un senso, possiamo dire: ogni uomo ha una vocazione che deve scoprire per fare unità nella propria vita. in particolare ogni cristiano che si converte al Cristo sente la sua chiamata per essere rifatto a sua immagine e a lavorare per il suo Regno fino al suo ritorno finale.
  2. Una vocazione, è una persona prima di essere un’opera. È vero nell’ordine umano: un uomo scopre il senso della propria vita, il giorno in cui scopre l’amore al centro di essa. Ugualmente con il Cristo. Molti si reclamano suoi e pretendono servirlo e in realtà non fanno che praticare una morale o difendere una causa. Fintanto che Gesù non è  diventato una persona viva, le opere intraprese per Lui, sia pure generose, rischiano di affondare o nell’amarezza del fallimento o nell’esaltazione del successo. Questo perché prima di dire: Voglio fare questo o quest’altro, conviene domandarmi: Questo, è per me?
  3. Una vocazione è sempre in avanti. Molti, per esservi fedeli, vorrebbero ritornare ai tempi della sua scoperta. Essa non è un tesoro da non perdere, bensì una vita da svilupparsi. Come la conoscenza di una persona è una perpetua scoperta senza poterla mai esaurire. Noi non abbiamo mai finito di entrare nella nostra vocazione.
  4. Da qui l’attitudine che devo prendere: piuttosto che inquietarmi per sapere se io ho o non ho una determinata vocazione, facendo di questa questione un oggetto di studio o di analisi, dovrei invece sforzarmi di situarmi là dove sento la chiamata di Colui nel quale la mia vita prende il suo senso e, avendolo sentito, dal punto in cui io sono sforzarmi di avanzare. Io prego per «non essere sordo alla chiamata di Nostro Signore, ma pronto e diligente a compiere la sua santissima volontà» (Es. Sp. 91)

  LA CHIAMATA DI GESÙ

Chi la sente è chiamato in due sensi alla fede: nel senso orizzontale, perché essa è universale e tutto viene fatto nuovo in lei; in un senso verticale, perché è esclusiva e tutto si dirige verso lui solo. Nella stessa maniera, la risposta data a questa chiamata è insieme accettazione di tutto e superamento di tutto.

1.  LA CHIAMATA DELL’UOMO

È già chiamata del Cristo, perché nel Cristo, tutto ciò che è umano e terreno deve essere fatto nuovo. Nel nostro desiderio di servire il regno, noi rischiamo di dimenticarci questo aspetto. Quante vite cristiane o spirituali rimangono zoppicanti o indigenti, per ignoranza, paura o rigetto dell’umano. Ora, ugualmente nel peccato, l’uomo mantiene l’impronta di Dio di cui è l’immagine. Per sentire la chiamata del Signore r lavorare per Lui, occorre accettare prima di tutto di sentire la chiamata dell’uomo che egli è con tutti coloro che formano l’universo. Prima di pensare a soffrire, bisogna pensare a essere.

Possiamo mostrare, a partire da tutta la Scrittura, come l’azione di Dio manifesta questo rispetto profondo per l’uomo e questa volontà di farlo accedere a ciò che egli è. Qualche esempio sarà sufficiente: Davide nella storia dei Giudei;  i pagani nella storia umana; nel Vangelo gli apostoli; nella Chiesa, attraverso tentennamenti e goffaggini, il senso della cultura e dell’uomo. Sotto lo sguardo di Dio, in ciascuno e a tutte le età, nell’immensa varietà delle sue condizioni, l’umanità «ricomincia il suo terribile lavoro». Occorre prima di tutto che ci sia l’uomo.

Ma cos’è quest’umano che deve essere promosso?    

C’è in noi il rischio di fermarci. Nel desiderio di promuovere l’uomo, noi ci creiamo dei falsi dei, disumanizziamo l’uomo, consegnandolo ai suoi desideri, ai suoi falsi progressi, ad una tecnologia asservente. L’uomo non sa più ciò che è.

Attraverso le sue ricerche, le sue realizzazioni, le sue conquiste, l’uomo non diventa lui stesso che aprendosi alle forze dell’amore nella libertà e riconoscenza mutua. L’amore è la forza motrice della nostra storia e noi diventiamo noi stessi solo attraverso il suo dinamismo personalizzante. È il suo senso che dobbiamo ritrovare per vivere il resto. È la prima chiamata che dobbiamo percepire.

È a questo senso che la parabola della chiamata de re temporale ci conduce.

L’uomo per rispondere a Dio, deve ritrovare in sé le sorgenti di sé, della devozione, dell’amore, della più grande dedizione. Vi è, in questa promozione dell’uomo per la via dell’amore, l’apertura verso un’offerta di sé, di un rinnegamento di sé. L’uomo non sarà lui stesso se non scopre le profondità di tutta la risposta dell’amore: dono, servizio, sacrificio radicale di sé.

La chiamata di Gesù, che chiama l’umanità al di là, si inserisce in questo movimento. È il movimento del Verbo creatore che s’incarna per condurre tutti gli uomini a Dio. È dunque già rispondere alla chiamata del Cristo rispondere a questa chiamata dell’uomo: Chi non è con Me, è contro di Me, dice Gesù in Luca 9,49-50.

2.  LA CHIAMATA DEL CRISTO

Il Cristo, Verbo incarnato, fa saltare tutti i limiti. Egli conduce dalla pienezza dell’uomo alla pienezza di Dio. La sua chiamata si estende a tutta l’umanità, ma non può non essere che indirizzata a ciascuno, al più profondo di lui, nella sua libertà che accetta di aprirsi alla chiamata dell’amore e al più grande servizio. Da qui il doppio carattere, personale e universale, di questa chiamata.

Questa chiamata, invita a realizzare in ciascuno di noi quello che si è realizzato in Lui. Egli è venuto dal Padre per ritornare al Padre, avendo rifatto nuovo tutto l’uomo. S. Pietro, dopo la Pentecoste, presenta l’opera di Cristo come quella degli ultimi tempi. Quest’opera, dapprima realizzata in Lui, deve estendersi a tutta l’umanità (At 2). Come dice Paolo in Ef 4, Egli è disceso nelle profondità per attirare tutti nelle altezze. Quest’opera, Egli l’ha realizzata per mezzo della croce, avendo vissuto ogni cosa nell’amore, fino alla morte stessa. È il più grande servizio: dare la propria vita per coloro che uno ama (Gv 15,13).

Ciò che Egli ha realizzato con la sua morte e risurrezione, nella sofferenza e nella gloria, lo continua a realizzarlo in coloro che credono in Lui. È a questo fine, che Egli sceglie degli uomini per stare «con lui» (Mc 3,14), che li riunisce, dopo la sua Ascensione, in comunità di discepoli. La Chiesa è il mistero del suo amore universale che si realizza in ciascuna comunità particolare, dove Egli è in ciascuno e in tutti. Il movimento della vita del Signore continua in ciascuno e in tutti: essa ci fa partecipare alla sua sofferenza e alla sua gloria.

Tutto in Lui è rifatto nuovo al di là di quanto noi possiamo immaginare o pensare. Tutta l’esistenza, tutti gli avvenimenti diventano rivelatori di Dio, nello stesso tempo che prendono consistenza nell’unico avvenimento, quello di Cristo nella sua Croce e nella sua Risurrezione. È per questo che il Cristo chiama tutti gli uomini a seguirlo con la sua croce attraverso tutte le cose perché tutte le cose saranno trasfigurate. Tutto passa nell’universo personale del Cristo glorioso, nello stesso tempo che l’umanità diventa in Lui una realtà concreta, a immagine della Trinità delle Persone Divine.

Questa realtà è espressa dagli evangelisti in modi differenti. I Sinottici lo dicono in un modo, s. Giovanni in un altro, s. Paolo in una terza maniera. Ma presso tutti, è la stessa realtà che viene manifestata sotto il doppio aspetto d’intimità (Lui con me, la vita dei Tre) e di universalità (pienezza, l’universo).

Il rischio sarebbe fermarsi dove siamo. È la tentazione permanente di ogni messianismo e di tutte le Chiese. Il Regno diviene una costruzione umana, ferma su se stessa, al servizio di un’ideologia. Il Cristo svanisce, soffocato dai nostri desideri, o ricondotto ad una misura umana, coloro che si reclamano essere suoi perdono questo senso dell’uomo che pretendono servire. L’amore in loro si dissecca.

Il Regno è esclusivo. Il Cristo solo porta alla sua pienezza l’aspirazione universale. Per attendere la realizzazione, tutto deve passare da Lui. Egli è esclusivo per diventare totale.

3.  LA RISPOSTA DELL’UOMO

Essa è formata da due disposizioni, apparentemente opposte, accettazione e superamento.

È, all’inizio più un affare «di ragione e di buon senso» (Es. Sp. 96) che di dare un senso alla propria vita, consacrandosi interamente al lavoro, come gli operai del Vangelo che non si accontentano solo di parlare. Questo lavoro non è solamente un compito apostolico, ma è tutto umano. Tutto il ruolo umano ha il suo posto nel Regno, dato che è una espressione della volontà del Padre, non possiamo dichiararlo profano o secolare. In realtà, come i soldati che consultano Giovanni Battista, noi siamo invitati a lavorare a partire da tutto. Il Signore consacra in Lui l’ordine umano, riassumendo nel suo Corpo e nell’Eucaristia «tutto il lavoro degli uomini».

Ma noi siamo invitati al «di più», secondo l’espressione degli Esercizi. Per «distinguersi al totale servizio» del Signore universale, non si tratta di scegliere tale o tal’altra funzione particolare, come se una valesse più di un’altra, ma di avere in noi la maniera di compierla, qualunque sia la materia della nostra scelta. La maniera del Signore è quella del «servo» che ha amato fino alla fine. È la «via dell’amore», che è quella del Cristo «che ci ha amati e si è consegnato per noi» (Ef 5,2). Essa conduce con Lui a gettare via da noi tutto ciò che è ricerca di sé, amore di sé e non ci chiede di limitare la natura, come se essa fosse malvagia, ma di farla crescere per offrirla e superarla. È il sacrificio più radicale del «Vieni e seguimi». Lo scopro sempre più maggiormente nella misura che accetto di vivere nella totalità del mio essere umano, senza niente ritenere per me, nell’esclusività del dono di questo essere alla persona del Cristo. Tutto il meglio dell’uomo è ripreso per essere arso e trasfigurato attraverso la croce. Io devo ricevere un battesimo di fuoco (Lc 3,16)… Io sono venuto per accendere un fuoco (Lc 12,49).

Noi cerchiamo una simile conclusione meditando sul Regno. Tuttavia, non c’è altra maniera di rispondere integralmente al suo appello. Io mi ricevo per donarmi. L’uomo non raggiunge la sua pienezza che vivendo in Gesù il movimento che è nel cuore della Trinità e che fa che ciascuna delle Persone Divine non siano Se Stesse se non donandosi alle Altre.

4.  QUINDI «UN’OFFERTA DI PIÙ GRANDE VALORE» (Es. Sp. 98)

Quest’offerta parte dal più profondo di me stesso, là dove il Padre vede nel segreto, là dove io sono solo davanti a Lui. Io accetto di non volere che Lui, non per fare questo o quello, non per essere stimato da coloro che mi circondano, ma per stare con Lui solo, anche nelle più grandi mie contraddizioni e rifiuti. Qualunque cosa succeda, io sarà felice. Sei Tu che io voglio. Io ti accolgo per il meglio e per il peggio.

Ma, dentro queste profondità dove io sono solo con Lui, è in compagnia dell’universo che improvvisamente mi ritrovo. Questa offerta, io la faccio, invitato da Lui e con il suo aiuto, con Maria, con i Santi e le Sante, con questa «schiera di testimoni» che hanno creduto alla Parola di Dio e con Abramo partirono senza sapere dove essi andavano (Eb 11).

Nell’offerta io ritrovo tutto il Regno di Cristo nelle sue due caratteristiche, correlative l’una all’altra: universale e esclusivo. Perdendo tutto per Lui, ricevo tutto in Lui. Chi perde la sua vita a causa mia, la trova (Mt 16,25).

  IN VISTA DELLA PREGHIERA DI QUESTO GIORNO

  • La contemplazione del regno, tale come è presentata di seguito, può servire alla preghiera di questo giorno. Può essere cosa buona riprendere uno dei suoi diversi aspetti attraverso dei particolari testi biblici.

1. COME GESÙ SI PRESENTA (Lc 4,16-30)

Questo passo descrive la reazione dei primi uditori di Gesù davanti al discorso-programma da Lui fatto nella sinagoga di Nazareth, reazione contraddittoria di furore e stupore.

In Lui, Dio manifesta il Regno, la sua gratuità e misericordia universale, secondo l’annuncio di Isaia 61. I suoi concittadini ammirano le sue parole, fieri di essere suoi compatrioti: Egli è «dei nostri». Ma Egli si rifiuta di lasciarsi rinchiudere in una qualche categoria: Elia fu inviato alla vedova di Zarepta, una straniera, e Eliseo a Naam il Siro, uno straniero. Verranno da oriente e da occidente a prendere parte al banchetto di Abramo (Mt 8,5-13)

Gesù al momento sconcerta o seduce. Compie i desideri e trascina al di là. Questa attitudine lo condurrà alla morte di croce. Questo può significare: acconsentire a seguirlo (Lc 9,23-27 e passi paralleli).

2. LA DESCRIZIONE DEL SUO REGNO (Is 40-50)

Questo passo potrebbe essere, in tutta la Scrittura, la più bella presentazione del Regno di Dio che sia stata fatta, realizzata in Gesù Cristo. Tutta l’opera di Dio, dall’inizio alla fine, vi è ripresa, i primi avvenimenti e quelli nuovi, l’Antica Alleanza e la Nuova, il vecchio e il nuovo! Esodo, con le sue conseguenze. La lettura di questo libro è inesauribile.

In particolare il Canto del Servo:

Is 42,1-9. I segni dello Spirito in colui che Dio ha eletto come luce delle nazioni…

Is 49. In te, che io ho chiamato, io sarò glorificato fino all’estremità della terra. Per mezzo tuo, io compirò le meraviglie del ritorno.

Is 50. Negli oltraggi, io mi sono affidato a colui che mi ha donato una lingua da iniziati. Felice chi ascolta la mia voce.

Is 52,13-53,12. Ecco a voi un avvenimento mai raccontato: la potenza di Dio che si manifesta nel servo umiliato, a cui Dio affida le moltitudini.

«Oggi questo si è adempiuto in me» (Lc  4,21)

«Questa è l’opera del Signore» [Sal 22(21),32]

3. LA SUA MANIFESTAZIONE NELLA DEBOLEZZA DELLA CARNE:
                                                                                          IL VERBO SI È FATTO CARNE»  (Gv 1-2,12) 

Tutto è detto nel Prologo (Gv 1,1-18)

Il Verbo fatto carne o la realizzazione dell’impensabile («Nessuna unione possibile tra Dio e l’uomo» Platone, Il banchetto) perché noi conoscessimo l’inconoscibile e diventassimo figli di Dio.

Viene manifestato da Giovanni Battista (Gv 1,19-34)

All’immensa attesa degli uomini – Sei tu colui che deve venire?» – Egli risponde, ma in modo diverso da ciò che si attendevano. Egli è in mezzo a noi. Lo Spirito di Dio è su di Lui. Ma si presenta come l’Agnello di Dio, questo Agnello, predetta da Isaia, il perfetto Servo (Is 53). È nella debolezza della carne che viene come Salvatore, Sapienza e forza di Dio (1Cor 1,17-25).

Viene indicato ad alcuni discepoli (Gv 1,35-51)

Egli li chiama ciascuno per nome: «Tu mi scruti e mi conosci. Tu hai messo su di me la tua mano» [Sal 139(138)]. Nessuna chiamata è simile ad un’altra: Venite e vedete, ha detto ai due primi. E Gesù guardò Pietro. Seguimi, disse a Filippo. Ecco un vero Israelita, disse di Natanaele. L’ho visto sotto il fico.

Ma tutti sono riuniti dall’inizio nell’unica fede in Lui: Rabbi, Tu sei il figlio di Dio. Mentre apprendevano di essere solo all’inizio delle meraviglie: Voi vedrete il cielo aperto. Seguire Cristo è accettare di essere sempre all’inizio della scoperta.

La chiamata al superamento verso l’ora, Cana (Gv 2,1-12)

Il Signore non rifiuta dei segni, soprattutto se manifestano la bontà del Creatore: Fate tutto ciò che vi dirà, dice Maria. E Gesù compie il miracolo. Ma Maria deve comprendere che Egli è venuto per altre nozze, la sua «ora», dove Maria sarà presente e dove Lui donerà dalla croce il vino della nuova alleanza nel suo sangue. Nessuno potrà mai rompere questo sposalizio.

Per essere introdotti nel Regno, io accetto con Maria di «passare oltre», di essere introdotto all’ora fissata da Dio. Con Lei sarò disponibile a ciò di cui «non ho ancora sentito parlare» e a «ciò che non è ai entrato nel mio cuore».

  • Questa lunga meditazione sul Verbo Incarnato permette di capire le ardenti parole di Giovanni nel prologo della sua epistola: «Ciò che era da principio… noi ve lo annunciamo… affinché la vostra gioia sia piena» (1Gv 1,1-4).

 

4. L’OPERA DEL SIGNORE: «MAESTRO, DOVE ABITI?» (Gv 1,38)

Questa domanda dei discepoli del Battista può essere fatta oggetto della mia preghiera. A partire da essa, io posso porre al Signore le mie domande su di Lui e sulla sua opera. La Scrittura e il Vangelo nutriranno le sue risposte.

Signore, chi sei tu?

Nel silenzio, enumererò tutti i suoi nomi, tutti quelli che la Scrittura e la liturgia gli conferiscono: Verbo (Gv 1,1); Luce (Gv 8,12; Via-Verità-Vita (Gv 14,6); Buon Pastore (Gv 10,11); la Porta (Gv 10,9); Il Pane della vita (Gv 6,35); Risurrezione e Vita (Gv 11,25); Immagine del Padre (Col 1,15); Primizia di coloro che sono morti (1Cor 15,20-23);  Irradiazione della gloria divina  (Eb 1,3); Grande Sommo Sacerdote (Eb 4,14); Primogenito fra molti fratelli (Rm 8,29), Unico Mediatore (1Tm 2,5); lo Sposo dell’umanità (Mc 2,19; Ef 5,25-32; Ap 21,2); il Vivente (Ap 1,18); l'Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio (Ap 3,14); l'Alfa e l'Omega, il Primo e l'Ultimo, il Principio e la Fine (Ap 22,13); il Vittorioso (Ap 5,5); ecc. Per mezzo di tutti questi nomi, la Chiesa ha moltiplicato gli inni in suo onore

L’essenziale è che io comprenda che Lui è altrettanto vivo per me come lo fu per gli apostoli: il Cristo ieri, oggi e sempre (Eb 13,8).

Signore, cosa Tu vuoi fare?

Egli mi risponderà: Io sono venuto a far nuovo ciò era stato disfatto, rivelare l’immagine del Padre oscurata nel cuore dell’umanità, ritrovare la pecora perduta, riunire i figli di Dio dispersi. Tutto questo comincia nella comunità dei discepoli: At 2,42-46.

Posso leggere Gv 17, Ef 1, Col 1.

 

Come vuoi fare questo?

Egli ti risponderà: Io non sono venuto per darti una gloria effimera e superficiale. Sono venuto per mettere le cose nella verità.

Io sono il Sacerdote unico e vero, che sopprime in se stesso tutte le alleanze e, che, inviato dal Padre in mezzo agli uomini, apre attraverso la morte il cammino dell’amore e della vita per trascinarvi con Me. 

Leggere Eb 1-10,9. In Lui la croce è vittoriosa e gloriosa.

Cosa Tu vuoi da me?

«È una tentazione preoccuparsi di pensare se riusciremo a superare delle prove che ancora non sono avvenute, io le supererò in Te, se esse arriveranno» (Pascal, Mystère de Jésus).

Ma io non posso fare nulla senza te, se tu non apri il tuo cuore alla fede. Prendi il tuo posto tra i testimoni che hanno preferito «l’obbrobrio di Cristo alle ricchezze d’Egitto» (Eb 11-12,4). Donati come loro e in loro compagnia.

5. L’OFFERTA: «POTETE VOI BERE IL MIO CALICE?» (Mt 20,20-33)

Come assicurarsi della veridicità dell’offerta?

Spontaneamente parlo come la madre dei figli di Zebedeo (secondo Mc 10,35-40 sono i figli che fanno la domanda. Madre e figli hanno lo stesso spirito): «A destra… e a sinistra…». Questa madre ha coscienza del dono che ha fatto di se stessa e dei suoi figli. Gesù non la rigetta, ma la purifica la sua richiesta.

Egli chiede di offrirsi per bere il suo calice, quello della volontà del Padre, che dona la salvezza a tutti senza distinzioni e per compierla offre a suo Figlio la condizione di schiavo o di servo (Fil 2,6-11). È il calice del dono assoluto e disinteressato. Non sarà tra voi come in mezzo a coloro che esercitano l’autorità. Io sono in mezzo a voi come colui che serve (Lc 22,24-27). Tra di voi, parlare di primi o di ultimi, non ha senso!

«Noi lo possiamo» rispondono gli apostoli. Comprendono quello che dicono? Senza dubbio no. Per loro è sufficiente sapere che è il suo calice e che essi lo berranno con Lui. È Lui che essi vogliono, non una forma o l’altra di servizio. L’amore spinge a rispondere così.

Se offrendoci noi abbiamo paura, è perché pensiamo più a noi che a Lui. Domandiamo l’amore che apre: «Io farò la mia offerta, dice s. Ignazio, con il tuo favore e il tuo aiuto» (Es. Sp. 98)

  • Senza dubbio, avrei molti altri testi da proporvi. D’altronde, il Regno del Signore non può penetrarsi in un solo giorno. È a poco a poco che noi vi entriamo: nel passare degli anni, un testo ci potrà aiutare più di un altro. Noi pensiamo questo, ma «se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo» (Fil 3,15). S. Paolo, per far comprendere ai suoi fedeli lo spirito del Regno a imparato a contare sul tempo.

  DISCERNIMENTO DI FINE GIORNATA

Questa contemplazione aggiunge qualche picchetto sul cammino del discernimento armonizzandoci con lo spirito di Gesù. Molti provano su di sé come questo discernimento non si fa senza pena.

All’inizio cadono un certo numero di illusioni. Messi davanti alle condizioni di un vero dono, scopriamo ciò che contengono di falso, di equivoco o di irreale, le nostri grandi dichiarazioni sul servizio di Dio, degli uomini o del Regno. Anche questa meditazione, cominciata con un certo entusiasmo, si gira, talvolta, in depressione o aridità. Con essa inizia un lavoro di purificazione.

Le nostre reazioni nella preghiera di questo giorno, illuminano anche il grado di personalizzazione del nostro rapporto con nostro Signore. Invitati a passare sul piano del mistero, della vita, della relazione, io provo con pena quanto la mia pretesa vita spirituale rimane astratta. Per molte ragioni il mio «io» rimane chiuso: mancanze affettive, personalità insufficientemente sviluppata, mantenere i propri progetti solo sul campo delle idee o di un’opera da realizzare. Dico di cercare il Signore e non trovo altro che me stesso. Occorre uscirne fuori. Ciò che mi è proposto, è la lotta contro «l’amore sensibile e mondano», per riprendere le espressioni di s. Ignazio. Non ci aspettavamo affatto che la chiamata al Regno terminasse con questo invito.

Questa necessità di lotta chiarifica a sua volta un altro punto: l’irrealtà per me del mondo della grazia. Qualche cosa deve farsi in noi che non dipende solo da noi. Ora, spesso nel servizio del regno noi rimaniamo nell’ordine delle virtù, dello sforzo personale, del dovere. Noi chiediamo: cosa dobbiamo fare? Come farlo? Occorre riprendere con decisione gli ultra prudenti che vogliono tenere tutto sotto il loro controllo e i timorosi che si credono incapaci o limitati dalla loro debolezza o dai loro peccati. Stanno considerando più il programma da realizzare che il Signore che lo farà attuare. Il regno, realtà divina, s’estende in noi e in ciascuno in una maniera divina, cioè secondo la grazia comunicata dallo Spirito. Il più grande servizio che considero, chiedo di esserne introdotto per grazia.

Poco a poco appare la profondità dell’offerta. È a partire da questo «io» reale che io mi dono. Il Signore non attende affatto che noi siamo perfetti per essere con noi. Ciò che Lui aspetta, non sono le opere, ma il dono del cuore che si offre così com’è, oggi stesso. L’umiltà che riconosce che deve ricevere ogni cosa, mostra la sua verità rifiutando ogni paura.

Torna all'indice         

 

5° GIORNO

Maria, ovvero la risposta perfetta

LA FINALITÀ DELLA GIORNATA: I MISTERI… QUELLO DI MARIA

Nello spirito della meditazione del Regno, iniziamo la contemplazione dei misteri della vita del Cristo per impregnarci del suo spirito e conoscere la sua volontà. L’ideale sarebbe quello di dedicare molto tempo affinché si realizzi questo. Questo è uno dei fattori positivi più belli degli Esercizi quando si fanno in trenta giorni, in quanto permettono questo sguardo prolungato. A forza di contemplare divento un solo spirito con Colui che contemplo.

Oggi, in Maria, io intendo la risposta perfetta, il «sì» della creatura al suo Creatore. È la risposta di Colei che non cessa di accogliere se stessa da Dio e la cui libertà non conosce tentennamenti. In Lei l’umanità ritrova ciò che è. In Lei, la Trinità vede la sua opera compiuta. Per questo Maria è il tipo perfetto di tutta la vita spirituale, della risposta a tutte le vocazioni, dell’essere umano che si lascia trasformare dallo Spirito. In Lei il gioco della libertà e della grazia si realizza in modo perfetto.

Al movimento del Signore che trascina, risponde quello della creatura che accetta di essere trascinata.

Contemplando il mistero di Maria, noi comprendiamo il nostro e il modo in cui la trasformazione si opera in noi sotto l’azione dello Spirito. La preghiera si affina e si semplifica. Essa diviene accettazione, apertura, tranquillità, intimità. L’affinamento che si realizza è insieme condizione ed effetto di questa contemplazione.

LA CONTEMPLAZIONE

Il termine è uno dei più usuali della letteratura religiosa, e, come molti termini di questo ambito, si presta a svariati equivoci.

Sarebbe qui il caso di rivedere un po’ la storia della nascita e dello sviluppo delle pie immaginazioni o delle applicazioni morali a partire dalle storie evangeliche. Attraverso queste storie, prese come mezzi e segni, cerchiamo di entrare nella presenza vivente e attuale del Signore, al fine di ricevere la grazia e la luce del «Cristo che, per la fede, vive nei nostri cuori» (Ef 3,17).

Certamente, a questo riguardo, dobbiamo parlare di metodo.  S. Ignazio invita uno alla volta a «vedere i personaggi«, a «guardare, osservare, contemplare ciò che dicono», a «guardare e considerare ciò che fanno» (Es. Sp. 114-116). Ma ciò che importa, è afferrare il senso dei consigli dati. Essi hanno come scopo di far passare, attraverso il visibile, nella realtà invisibile, di far sentire il «profondo silenzio» (Paul Evdokimov) degli avvenimenti del Vangelo.

Nella contemplazione, come in ogni avvenimento vissuto dal Verbo Incarnato, vi sono due elementi:

– L’uno sensibile, di rappresentazione. Questo elemento, come la corporeità di Cristo, è indispensabile per andare a Dio. Ma occorre metterlo al suo posto. È da temere sia di attaccarsi troppo ad esso che di ignorarlo. I Giudei si fermano al sensibile e chiedono dei miracoli; i Greci rifiutano la corporeità e si scandalizzano dell’incarnazione. Gli uni e gli altri rimangono estranei al mistero del Verbo Incarnato. Ancora oggi noi oscilliamo tra questi due estremi.

– L’altro invisibile, non corporeo. L’avvenimento storico studiato da esegeti e storici, custodisce un valore disegno. Io non sono poi così attaccato dal segno da non discernere in esso la presenza del Figlio di Dio. Come nella Liturgia, io mi attacco al mistero più che all’avvenimento. Certamente io non posso oggi soddisfarmi con la maniera ingenua con cui antichi autori facevano queste contemplazioni: essi si davano, almeno sembra a me, a dei puri giochi di spirito. Ma questi antichi autori, nella misura in cui facevano una vera contemplazione, non erano così ingenui sui mezzi da loro presi. La loro vera preghiera si sviluppava nella fede e nell’applicazione di ciò che essi chiamavano sensi spirituali. Un qualcosa sufficiente a fissare l’attenzione e da là essi passavano ad un’attitudine di adorazione, di meraviglia, di riverenza, di accoglienza, di desiderio. È là che incontravano il Cristo. Sforzandomi di vivere il fatto come fu vissuto dagli apostoli, leggendone il racconto e immaginandomi la scena, la fede mi rende presente il Cristo risuscitato vivente in me.

Così, ciò che io cerco, è la conoscenza di Gesù Cristo. Questa conoscenza si presenta alla mia preghiera con due caratteristiche:

Dapprima essa scopre, in ciascun avvenimento contemplato, la sua dimensione divina e universale. Una lettura del fatto nella sua interiorità e profondità. Così, contemplando l’Annunciazione, risalgo fino alla Trinità che decide la salvezza del genere umano, mentre il mio sguardo abbraccia l’universo con «tutti gli uomini che sono sulla faccia della terra». Guardando la Natività, il mio sguardo arriva fino alla croce. Nella contemplazione entriamo più che nei dettagli della scena, nel senso dell’avvenimento nell’unico mistero del Cristo.

Cerco soprattutto, la «intima conoscenza» del Signore. Non la conoscenza che lascia l’oggetto conosciuto esterno alla persona che lo conosce e che, per esatta che sia, non può comunicarmi la realtà dell’essere, permettendomi solo di utilizzarlo. Ora, non conosciamo una persona utilizzandola, in questo caso stiamo possedendola e dominandola.

Una conoscenza personale è possibile solo quando colui che aspira a conoscere rimane davanti all’altro disarmato: «Esci da tutto», «Levati i sandali», «Sono io», altrettante formule che esprimono questo primo tempo necessario alla conoscenza dell’altro. È nella misura che io accetto di scendere nelle profondità del mio essere, che io posso raggiungere le profondità di colui che desidero conoscere. Ma qui, è Dio che si consegna attraverso il Cristo e Dio è inespugnabile. Io sto intraprendendo un cammino la cui meta mi sfugge la meraviglia, è che tra questo me stesso che si svuota di sé e questo Dio che si scopre infinito, si realizza un incontro. In effetti, noi siamo chiamati a lasciar viver in noi il Cristo. Conoscenza nello Spirito che è bene altra cosa che imitazione esteriore. Il Cristo si unisce a noi e continua in noi. Tutto questo non è che solo l’inizio.

In effetti, la conoscenza di Gesù Cristo è un’avventura d’amore. L’esperienza umana dell’amore può darci un’idea di questa scoperta che ci è data di fare di Gesù.

Ma Gesù Cristo io non lo vedo. La persona che si offre al mio amore, io la vedo. Questo è vero solo in un primo tempo. Certamente l’inizio dell’amore comincia dal visibile. Per questo che io comincio a cogliere qualcosa di Dio partendo dall’amore degli altri per me o mio verso di loro. Ma, nell’amore umano come in quello di Gesù Cristo, io entro presto in un mondo che sfugge dai sensi. Io devo, al di là di ciò che colgo dell’altro attraverso il sensibile, cogliere anche ciò che non si vede. Ogni vera relazione tra persone si situa in un mondo dove i sensi e lo studio non hanno presa. È il mondo della libertà e dell’originalità di ciascuna persona. è là che io conosco l’altro in un modo ineffabile.

È a questo livello della persona, quello dell’amore in una libertà che cresce, che occorre situarmi per cogliere qualcosa di questa «conoscenza intima del Signore» che io chiedo «al fine di maggiormente amarlo e seguirlo» (Es. Sp. 104)

Questa conoscenza è dunque un esperienza totale di tutta la persona che desta alla realtà dell’amore per mezzo dello Spirito Santo attraverso i misteri. Chi si ferma al sentimento o alle immaginazioni, ha tagliato corto, come colui che fa dell’amore dell’altro un fatto di emozioni passeggere. La vita non finisce mai di farci entrare nella realtà di colui che amiamo. Essa ci assimila all’altro per uno sforzo di rassomiglianza che ci trasforma, sotto l’azione del Padre e dello Spirito. Nessuno viene a me, se il Padre non lo attira (Gv 6,44). Voi siete una lettera dello Spirito Santo (2Cor 3,3). La «prodigiosa presenza» del Verbo fatto carne (Liturgia, 30 dicembre) diventa allora più reale che la presenza stessa delle singole persone del nostro mondo sensibile. Noi così entriamo nel cuore del Signore per partecipare delle sue disposizioni, divenendo uno con Lui. È in questa rassomiglianza che noi lo conosciamo.

In questo campo, l’esperienza è irrinunciabile. I consigli sono utili: permettono di andare più dritto allo scopo o di non lasciarsi fuorviare dalle illusioni. Ma viene un momento in cui ciascuno deve entrare nel segreto. L’esperienza dell’amore non si fa con persone interposte. Vieni e vedi (Gv 1,39). «Ora noi l’abbiamo udito: non crediamo più perché tu ce ne hai parlato!» (Gv 4,42).

IN VISTA DELLA PREGHIERA DI QUESTO GIORNO

1.  L’ANNUNCIAZIONE (Lc 1,26-38)

Questo racconto, letto e riletto da tante generazioni, ci situa, come quello della creazione dell’uomo, al cuore del mistero di Dio e del suo incontro con l’umanità. Attraverso l’esegesi che se ne è fatta, colui che prega cerca di cogliere la realtà che sta sotto le parole e le attitudini di Maria. Non può che domandare con insistenza la conoscenza intima che Maria ebbe del Verbo Incarnato, al fine di scoprire per mezzo di Lei la propria chiamata e il modo di rispondervi. Davanti ad un tale mistero, noi rischiamo di non cercare che delle idee e di non conoscerne il sapore inesauribile.

Nelle parole dell’angelo, c’è lo svelamento di tutto il disegno di Dio sull’umanità: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza. «Riflettendo come uno specchio la gloria del signore, veniamo trasformati in questa medesima immagine» (2Cor 3,18). «Egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà… quando i tempi saranno compiuti: riunire tutte le cose sotto un solo capo, il Cristo» (Ef 1,9-10). Con Maria colma dei doni di Dio, l’umanità comincia a ciò che essa è: Il Signore è con te.

Ella comincia anche a conoscere Colui per mezzo del Quale diventa ciò che è: Tu partorirai un figlio… ed Egli sarà chiamato Figlio del Dio Altissimo. Il Verbo fatto carne stabilisce la sua dimora in mezzo a noi e per Lui, «la grazia e la verità verranno a noi» (Gv 1,17). L’uomo per comprendere se stesso deve solo scoprire Colui del quale porta l’impronta.

Questa  carne per la quale Egli diventa la nostra vita e ci unisce al Padre (Gv 6,52-58), è in Maria l’opera dello Spirito: «Lo Spirito Santo scenderà su di te», lo Spirito dal  Quale tutte le cose sono state create e che ci fa entrare nell’intimità di Dio. Egli è in Maria per formare la carne vivificante di Gesù. Egli è in noi per trasformarci a sua rassomiglianza.

L’Annunciazione apre ai tempi nuovi:

«La terra sarà riempita dalla conoscenza di Dio». Le Tre Persone sono qui presenti, «facciamo – come dice Ignazio – la redenzione del genere umano» (Es. Sp. 102). Tutti gli uomini sono implicati in questo destino: «Vedere tutti gli uomini che sono sulla faccia della terra» (Es. Sp. 106). Maria, come Eva, appare come la madre dei viventi.

Questa parentela stabilita tra Dio e l’uomo per mezzo della carne di Cristo è l’opera della libertà. Perché non è nato «per un volere di carne né per un volere di uomo, ma Dio lo ha generato» (Gv 1,13). Maria si rivolge verso Dio per donarsi con acquiescenza all’opera dello Spirito. Ella concepisce il suo Figlio nel suo cuore prima di generarlo nel suo corpo. Così la Tradizione parla di Lei, manifestando così che la nascita del Figlio di Dio non si compie che attraverso il consenso dell’uomo. Chi è mia madre, chi sono i miei fratelli? Coloro che fanno la volontà del Padre mio del cielo (Mt 12,46-50). Tu diventi figlio di colui a cui tu hai deciso di rassomigliare. Maria, che volge verso Dio il desiderio del suo cuore, ne diviene madre. Per questo l’annuncio fatto a Maria delle meraviglie che si compiranno in Lei, prende la forma di un appello e di un invito.

Maria diventa il prototipo della risposta della creatura all’amore del Creatore. Eva ha ritorto lo sguardo su se stessa, si è perduta nella discussione sulla parola divina, pone una distanza tra Dio e se stessa. Maria non conosce affatto questa distorsione, Ella rimane perfettamente davanti a Dio e vede se stessa nella verità, come l’opera del Suo amore. Specchio perfetto che si apre alla luce per lasciarla riflettere in sé, vive nella riconoscenza dei doni di Dio, Immacolata, diciamo noi, è la donna che sconfigge gli sforzi che Satana fa per farci portare il nostro sguardo su noi stessi e distoglierlo da Dio.

La stessa promessa del frutto delle sue viscere non le viene imposta. Ella non si getta su di essa, avida come Eva, vuole discernere prima da dove viene lo spirito che le parla e solo dopo averne appreso la sorgente che pronuncia la eclatante parola: Io sono la serva del Signore, si faccia di me secondo la sua parola. Quanto ella era sempre riservata, quanto ora ella si consegna. Nessuna protesta, nessuna falsa modestia, nessuna paura, non più. Niente è impossibile a Dio. Elisabetta, la sterile, è divenuta feconda. Da vergine che è, Dio può farla sua madre. Lei non è che serva.

Allora Maria sprofonda nella fede, non ha altra luce che quella che le viene data da ricevere: «Benedetta tu che hai creduto…» (Lc 1,45). Lei non cesserà di crescere in questa attitudine fondamentale, che la condurrà fino ai piedi della croce. Attendendo, Maria non si ferma sui doni di Dio. Mentre «l’angelo se ne andava», Lei «partì verso un alto paese». In Lei, il dono agli altri nasce spontaneo dall’incontro con Dio.

Tutto il mistero di una vocazione – tutta la vita umana è ormai una vocazione – è vissuto nel mistero dell’Annunciazione. «Come avverrà questo?». Da Abramo (Eb 11), la chiamata di Dio conduce l’uomo verso l’impossibile, l’incredibile. Manca il sole. Per avanzare, noi non abbiamo come Maria che la fede, con le sue conseguenze, tra cui la croce, le oscurità, la solitudine. È il rischio dell’amore. Maria ha donato la sua fede.

•  È questo quanto s. Ignazio intendeva sviluppare nella contemplazione dell’Incarnazione? In ogni caso, questo mistero chiede di essere ripetuto secondo le sue dimensioni divine e universali. Per questo, per nutrire la preghiera di questo giorno non occorre prendere altri misteri. A ciascuno di seguire la grazia che lo spinge.

2.  IL MISTERO DI MARIA

Alla luce dell’Annunciazione, ciascuno può lasciarsi scorrere il seguito dei misteri di Maria, attraverso la croce fino alla Risurrezione, la Chiesa, l’Assunzione. Questo ci fa scoprire l’itinerario che Dio fa seguire ad una persona alla quale ha comunicato la sua vita.

Maria è colei che, nella conoscenza che le è donata di Dio, non cessa di passare e di cercare ancora. Ella dice con il Salmista: «Fammi conoscere le tue vie» [Sal 25(24),4]. O, ancora, come la sposa del Cantico (2,16-3,5): Solo quando ha superato le guardie della città troverà l’amato del cuore! Gli spirituali, s. Giovanni della Croce, hanno descritto con l’aiuto di queste immagini del Cantico gli incessanti superamenti, queste perpetue salite. Esse si applicano a Maria, a ciascuno di noi, alla Chiesa.

In queste salite, la libertà si apre e cresce. Lei si riceve da Dio per aprirsi a una nuova impresa e lascia Dio manifestare in Lei le Sue meraviglie. Maria entra così nell’ordine dello Spirito: «Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio» (Rm 8,14).

3.  NAZARETH E LO SMARRIMENTO DI GESÙ AL TEMPIO

Due misteri che, opponendosi, esprimono due aspetti di tutte le vocazioni e di tutta la vita in Cristo.  

Nazareth

È la vita nel quotidiano, l’umano, la natura, là dove Dio deve innanzi tutto essere cercato. Niente traspare del mistero. Siamo nel cuore dell’umiliazione  del Figlio di Dio, sotto il peso dello scandalo espresso da Giobbe e da molti Salmi: «Quando Signore ci libererai?» In questa quotidianità, la Vergine scopre silenziosamente il volto del Cristo, Verbo fatto carne, secondo (Fil 2,6-7).

Questa vita è quella della Chiesa in mezzo all’umanità, non in quanto essa si manifesta attraverso gli apostoli (vita pubblica), ma in quanto essa esiste giornalmente nei credenti. Essa vive semplicemente. Lo Spirito vive in essa nella condizione nascosta. Qualcosa che ci sfugge, ci fa altri, senza che appaia nulla di esteriore. È la condizione descritta da Eb 11, in quanto abbiamo ricevuto la vita e la viviamo nella fede.

Questo quotidiano non è scialbo, perché vissuto alla presenza del Padre e nello Spirito Santo. Qualcosa si compie nel segreto sotto l’effetto della Parola che è «come una lampada che brilla in un luogo oscuro, finché il giorno non inizia» (2Pt 1,19). È il tempo dell’attesa. È un cammino nella notte sotto la luce della fede. È la presenza quotidiana a ciò che è. Vedi, questa Legge «non è troppo alto per te, né troppo lontano da te… questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt 30,11-14).

Lo smarrimento al Tempio

È il fatto che opera una rottura e suscita problemi, un fulmine improvviso in un cielo sereno. Perché, se era la volontà del Padre, Gesù non ha prevenuto i suoi genitori? Né Maria, né Giuseppe si sarebbero opposti a Dio. Ma Dio, che chiede di amare i propri genitori, chiede anche di separarsi da loro per riceverli da Lui in un nuovo ordine, quello dell’amore universale. È ad un tale superamento che Gesù invita Maria e Giuseppe. Quando questo è compiuto, tutto ritorna al suo silenzio. Ma il cuore ne rimane segnato.

Questo avvenimento è simbolo di ciò che si compie in Maria, dopo l’Annunciazione, la Presentazione al Tempio (si tratta della «spada del dolore») fino alla croce. La Vergine accetta di essere trascinata attraverso la quotidianità che riprende. Ella lascia penetrare il suo cuore dalla Parola di Dio che, come una spada penetrando fino alle midolla, l’inizia al mistero dell’ora e le fa intravedere nella croce del suo Figlio la vittoria di Dio.

Ella non comprende subito la Parola. Ma la trattiene nel suo cuore nell’attenzione e nel desiderio, dimorando così nella disposizione della Sapienza. E così, dopo aver per molto tempo meditato le cose nel suo cuore, rimane in piedi sotto la croce, non sorpresa di quell’avvenimento terribile.

Tutta la storia di Maria è contenuta in questi due episodi che prendono valore di simbolo di tutto ciò che passa nelle nostre vite e in quella della Chiesa: il cammino della fede, attraverso le realtà alle volte banali, alle volte inattese. La croce è sempre presente, non per contraddire, ma per dare il senso.

4.  IL MISTERO DELLA VERGINITÀ

La verginità è l’atmosfera nella quale Maria vive il mistero presente nel suo grembo. Non ignoranza o paura della condizione dell’uomo e della donna. Quale sarebbe, se non fosse così, il senso del suo matrimonio con Giuseppe? ma, secondo le parole di Cristo (Mt 19,10-11), esso fu decisione libera del suo cuore in vista del Regno dei cieli.

La verginità , vissuta da Maria, è il segno del compimento del Regno. Come se in Lei l’amore che è al cuore di tutto tendesse, non solamente alla personalizzarsi nel suo più alto vertice, ma a universalizzarsi. In Gesù Cristo,  dice s. Paolo, non c’è più né uomo né donna, né giudeo, né greco, né schiavo né libero (Col 3,11; cf Gal 3,28). Questo vuol dire: non c’è più, nel Cristo, alcun segno d’asservimento degli uomini gli uni allo sguardo degli altri: non ci sono altro che delle persone libere che acconsentono all’amore che si donano scambievolmente. L’umanità – maschio e femmina – è pervenuta alla sua piena maturità. Nello stesso tempo, essa ha superato questo tempo «in cui i figli di questo mondo prendono moglie e marito» (Lc 20,34). L’amore di Dio fa di loro dei figli e li libera della morte, lascia trasparire in loro un amore che, applicandosi a ciascuno nella sua individualità, non conosce quindi nulla di esclusivo. Dio per mezzo di Cristo è divenuto tutto in tutti (1Cor 15,28). La verginità non è più un semplice celibato, è una scelta del cuore che risponde al dono di Dio ed è un nuovo modo di amare. Essa è quell’apice a cui tende ogni amore.

La verginità in Maria non è precisamente l’esclusione del matrimonio. Essa corrisponde piuttosto a quell’invito di s. Paolo di mantenersi nello stato in cui si trovava al momento della chiamata e di usare di questo mondo, che si tratti di relazioni tra uomo e donna o delle diverse condizioni sociali, come se non ne usassero (1 Cor 7). «Il tempo è breve», «passa la scena di questo mondo. Il Signore è vicino». Per questo l’esempi od i Maria si indirizza prima di tutto a coloro che sono chiamati ad essere «eunuchi per il Regno» (Mt 19,12). – follia divina – conviene a tutti i cristiani che vivono un amore umano. Ogni vero amore tende a verginizzarsi (Teilhard). Ciò che importa in questo campo, più che la realtà carnale, è lo sguardo del cuore che tende a Dio e lascia in Lui crescere ogni amore. «Non c’è un’anima veramente casta che non guardi incessantemente verso Dio» (S. Basilio).

Quest’amore, che si rallegra di Dio come sua origine suo termine, è quello che la Chiesa vorrebbe vivere nella diversità delle sue condizioni terrene: Mariti, amate le vostre mogli come il Cristo ha amato la Chiesa (Ef 5,21-25). Ogni amore conosciuto quaggiù sale verso questo come al proprio vertice. Per questo la verginità di Maria, nuova maniera di amare dell’umanità realizzata nel Cristo, custodisce il mistero stesso della Chiesa.

AFFINAMENTO E SEMPLIFICAZIONE DELLA PREGHIERA

All’interno dell’esperienza in corso, si produce, in un modo o in un altro, un approfondimento della preghiera. La meditazione dei giorni passati era aperta all’attività dell’intelligenza che raccoglie, tritura, gusta e suscita una certa sapienza. La contemplazione qui proposta suppone un nuovo grado di interiorizzazione. Giacché la Sapienza si è incarnata, la sua incarnazione rende possibile questa contemplazione. Questa qui è presenza alle persone, trasformazione del cuore, mutuo scambio. Attraverso di esse, la persona di Cristo passa in me, mi è donato il suo Spirito e, per la sua azione, la conoscenza della volontà del Padre.

Per permettere questo approfondimento, ciascuno deve scoprire la propria maniera, quella che lo Spirito gli suggerisce. Perché cercare di contemplare tutti i misteri? È sufficiente contemplarne qualcuno: s. Ignazio non ne propone che due al giorno. Dopo, ognuno può ritornare all’uno o all’altro nel modo che meglio gli conviene.

I diversi consigli dati più avanti possono aiutare a semplificare ancora la preghiera, senza pertanto consegnarci al vago o alla fantasia. Sarà bene riprendere le indicazioni concernenti le diverse maniera di pregare (Es. Sp. 238-260), in particolare i consigli sulla postura del corpo e la respirazione. Essi permettono di intravedere come l’attenzione al mistero possa essere mantenuta attraverso una preghiera vocale, questo infatti è il succo di questi particolari consigli. Importa poco il modo di dire l’orazione. La ripetizione non è fastidiosa che a coloro che ignorano le ricchezze della preghiera del cuore.

Intravediamo anche ciò che può essere l’esercizio chiamato da s. Ignazio «applicazione dei sensi». Egli si riferisce a quei sensi spirituali grazia ai quali, se Dio vuole, noi veniamo a gustare «l’infinita dolcezza e soavità della divinità, dell’anima e delle sue virtù e di tutto il resto, secondo il personaggio che si contempla» (Es. Sp. 124).

Il cuore si purifica molto in questa semplificazione, si dimentica di se stesso e ai verifica il detto di Cassiano: «La preghiera non è perfetta se l’uomo ha coscienza di se stesso e si accorge di pregare». Solamente dopo, colui che è stato così preso dalla preghiera constata che qualcosa è successo, qualcosa di vitale, di cui spesso è difficile rendersene conto. Tuttavia, se  egli ne deve parlare agli altri, l’esperienza comunica alla sua parola, senza che ce ne siano dubbi, un calore nuovo.

Poco a poco, noi scopriamo ciò che poteva essere la semplicità della preghiera della Vergine che trova Dio in tutto. È quella della vera contemplazione, che è fatta da tutti coloro che, claustrali o no, non hanno altro desiderio che di essere fedeli allo Spirito.

IL DISCERNIMENTO IN QUESTA CONTEMPLAZIONE

Questa tende all’oggettività della fede. Essa ci propone un dono, i misteri di Cristo nel tempo. Essa accetta nello stesso tempo che la rivelazione ci venga fatta nel dispiegarsi del nostro tempo personale, secondo gli stadi e le circostanze verso dove questa scoperta ci conduce.

Essa non si ferma nel sentimento delle nostre impressioni o delle idee che sono scaturite, ma veglia perché il Vangelo non venga tirato a sé e interpretato a modo proprio. C’è una certa nudità del testo, una certa diffidenza dei sentimenti o delle applicazioni, una certa sobrietà che favorisce questa scoperta dell’essenziale. La conformità di ciò che io sento con la Tradizione della Chiesa, la conoscenza dell’esegesi, aiutano anche a custodire nell’obiettività necessaria alla preghiera.

Tuttavia, questo oggetto della nostra fede, noi lo penetriamo qui per altre vie che quelle della ragione, dello studio o della riflessione lasciata a noi stessi. È una luce dello Spirito – l’unzione di cui parla Giovanni (1Gv 2,20.27) – che ci introduce per il gusto interiore.

Ci occorre anche, nello sforzo che compiamo, trovare la via di mezzo tra l’attenzione troppo tesa sull’oggetto che conduce al nervosismo e la rilassatezza pigra che conduce all’illusione. Come dice s. Ignazio, la materia del discernimento è più delicata, «più sottile» (Es. Sp. 9). Occorre che noi proviamo sia un senso, tanto che in un altro, e attraverso queste prove , Dio ci darà di sentire ciò che più ci conviene. Insomma, questa preghiera che all’inizio sembra più facile richiede, come tutto ciò che è semplice, un più grande discernimento.

In questa ricerca, si realizza una profonda purificazione sia della sensibilità e che dell’intelligenza. Non possiamo infatti trovare soddisfazione in pie immaginazioni o in costruzioni teoriche. Questa preghiera dello sguardo meravigliato richiede di essere profondamente umili, non proprietari di se stessi e tranquilli. Non è da stupirci se sentiamo in noi nascere delle resistenze, delle tristezze, delle paure. È un mondo nuovo che si schiude ai nostri occhi, il modo con il quale il Signore e la Vergine guardano l’esistenza. Abbiamo tutto da conoscere e i riferimenti abituali non servono più a nulla.

Ma da tutto ciò, l’intelligenza acquisisce una nuova delicatezza, quel «tatto affinato» che permette di discernere il meglio, quel senso o quel gusto che fanno «sentire e gustare le cose all’interno del cuore». «Voi avete l’unzione: non avete più bisogno di essere istruiti» (1Gv 2,27). I cammini per entrare in questa conoscenza sono spesso austeri, ma conducono a un più grande discernimento. Di quali beni si privano coloro che, chiamati dallo Spirito, si rifiutano di avventurarvisi! Di quali beni si priva la Chiesa!

Torna all'indice         

6° GIORNO

Il discernimento: lo stile di Cristo

LA FINALITÀ DELLA GIORNATA: LA SAPIENZA DI CRISTO

Siamo arrivati alla sommità degli Esercizi, perché siamo giunti al punto in cui si opera tutto il discernimento oggettivo. Cerchiamo di armonizzarci con il modo di fare di Dio che in seguito vogliamo applicare alle scelte della nostra vita. Questo modo è l’attitudine fondamentale di Gesù manifestando nella sua attività l’amore del Padre.

Al cuore dell’esperienza spirituale, noi siamo davanti a questa legge: prima di tutte le scelte, in qualunque stato di vita che io mi trovassi, celibato, matrimonio, professione religiosa, ciò che mi fa discepolo di Gesù e mi rende perfetto come il Padre celeste è perfetto, è la fedeltà all’invito del Signore: Sii povero (Mt 5,3), ridiventa fanciullo (Mt 18,3) e non ti appartenere (Mt 20,28). Nessuno viene al Padre e può amare i suoi fratelli se non segue Cristo su questa strada.

Prima di tutte le decisioni particolari, noi siamo invitati a venire alla sorgente di tutte le perfezioni e di ogni libertà, dove noi possiamo tuffarci nell’amore. da là noi distinguiamo le virtù cristiane da tutte le altre che non lo sono, belle e generose che fossero. In tutte le vocazioni, in tutte le opere, in tutti gli apostolati, non possiamo pretendere di considerarci adulti spiritualmente o veramente impegnati, se non ci sforziamo di custodire questa mentalità da poveri. È su questo punto che verte l’intransigenza, quella di Cristo nel Vangelo. Questa costituisce la struttura fondamentale della libertà umana che si dispone alla grazia che ci fa raggiungere con sicurezza la volontà di Dio.

Davanti a questo ideale, la preghiera si fa più intensa e più attenta. Chi può comprende questa sapienza se non vi è introdotto dallo Spirito di Dio? Per non lasciarsi costringere da nulla, per non lasciarsi ammaliare in tutte le cose dal luccichio dell’effimero, s. Ignazio propone la grande meditazione dei Due Stendardi e, alla fine, invita l’esercitante a indirizzarsi alla Vergine, al Cristo e al Padre per domandare di «essere accolto». Nessuno accede a questa sommità, senza esservi condotto, per questo nel mentre che medita, occorre che preghi.

LA LOTTA DA INTRAPRENDERE

La meditazione «dei Due Stendardi» è una meditazione di luce che ci stabilisce in un punto di prospettiva dove vediamo il mondo, l’umanità. Chi opera la verità e si apre all’amore deve acconsentire alla lotta che gli impone questa vista.

Questa meditazione è una esplicitazione di quella del Regno, essa mette in chiaro l’impegno preso, per questo la grazia che si chiede è innanzi tutto una grazia di luce, quella di discernere il vero bene sotto le apparenze: «la conoscenza della vera vita» insegnata da Cristo, «e la grazia per imitarlo» (Es. Sp. 139).

L’immaginario o l’orchestrazione rappresentativa impiegata da s. Ignazio, a seguito dalla Scrittura, lascia spesso a disagio uno spirito moderno. Questa personalizzazione del male, del peccato e della tentazione sotto delle forme e potenze diaboliche, lo imbarazza. Senza voler entrare dentro discussioni lontane dall’essere chiuse, fissiamo questi due punti che sono sufficienti per assicurare la nostra preghiera: qualunque sia la nostra maniera di comprendere le affermazioni della Scrittura su Satana e gli spiriti, forse riconosciamo bene in noi stessi lo sviluppo di una tentazione, e la necessità di una lotta per non soccombervi; in secondo luogo, piuttosto che fissare la nostra attenzione sul male e sul pericolo, sarebbe meglio prendere di mira la realtà positiva, quella del Cristo che ci ha scelto e ci chiama. Molti si fermano alle questioni poste per l’esistenza dei progenitori e del peccato del primo Adamo, ma farebbero meglio a considerare l’esistenza del secondo Adamo in cui la grazia ha sovrabbondato (Rm 5,20). Né la Scrittura, né questa meditazione dovrebbero essere l’occasione di una veduta pessimistica sull’umanità, arbitrariamente divisa tra buoni e cattivi, con il rischio di piazzarci tra i buoni che giudicano i cattivi.

 

1.  LA TENTAZIONE UNIVERSALE

Essa parte dalla volontà dell’«io» che possiede e si ferma sul suo possesso, quali la gloria ricevuta dagli uomini, il successo immediato, il potere nelle sue varie forme. L’«io» si lega ad un bene del quale esso ne ha fatto il «suo» bene: corporeità, denaro, successo, un’opera, una perfezione. Si falsa il centro, si identifica la cosa che si desidera come il «bene supremo» che si vuole ottenere assolutamente, al punto di schiacciare tutto ciò che lo possa impedire.

Allora si produce un blocco. L’intelligenza, la libertà non hanno più nessuna regola che esse stesse, girano su se stesse come in un mondo chiuso. L’uomo diventa un assoluto, non avendo più alcun punto di riferimento, incapace di trovare in sé la risposta alle eterne domande: rimane inesorabilmente solo. Egli si è creato un mondo dove l’amore per l’altro diventa impossibile. Inghiottito dal suo «io», incapace di vedere l’altro e di amarlo, come il ricco del Vangelo che passa tutte le sere davanti a Lazzaro seduto davanti alla sua porta, e non lo vede (Lc 16,19-31).

Questa tentazione ci coglie tutti. Di tutto noi facciamo un diritto, delle nostre virtù e delle nostre opere come di tutto il resto. Possiamo descrivere questa immensa seduzione che vediamo dappertutto, nei nostri gruppi, nel mondo, nella chiesa. Essa parte dal bene che ciascuno porta in sé e del quale se ne fa un ideale. Portando verso dei beni reali, essa ci trascina più facilmente, se noi non prendiamo attenzione al suo dinamismo. Più noi avanziamo più esso diventa sottile, tentazione sotto l’apparenza di bene, tentazione del fariseo, del perfetto, di colui che vede giusto e presenta al suo attivo grandi stati di servizio. Corruptio ottime pessima: «L’angelo cattivo si trasforma in angelo di luce, va all’inizio nel senso dell’anima fedele per finalmente condurla nel suo senso» (Es. Sp. 332). È lo stato che gli autori spirituali designano altre volte con il nome di tiepidezza, non languore o debolezza (l’immagine che fa pensare a dell’acqua tiepida non è molto felice), ma stato di soddisfazione di sé in uno stato che è buono, ma che diventa l’occasione di non più avanzare. Ciascuno viene imbrogliato dal fatto che giudica bene o che ha agito bene. Il bene diventa una esibizione, un possesso, una causa di opposizione. Delle comunità cristiane diventano immagine di un mondo dove regna la divisione e dove ciascuno, tuttavia, voleva dapprima il bene. È un’immensa stoltezza.

La tentazione sempre da vincere è quella di servirsi del proprio potere, della ricchezza – e ciascuno di noi è ricco per qualche verso – di servirsi del potere e della ricchezza spirituale come delle altre – per costruirsi un mondo per sé. Di qualunque natura esso sia, «miei figlio lini, non amate il mondo» (1Gv 2,15).

2.  LA CHIAMATA DEL CRISTO

Il Cristo, rivestito di potenza e ricchezza, non cessa di riceverli dal Padre e di rigirarli al Padre. Il suo centro è fuori di Sé, per questo è immagine perfetta del Padre. Egli è il Servo perfetto che giustifica le moltitudini (Is 53). Egli non è mai solo: il Padre è sempre con Lui (Gv 16,32). Per ogni uomo, Egli è la Via (Gv 14,6). In Lui tutti gli sforzi e tutte le ricerche pervengono al loro termine. Povero, Egli è libero per amare sempre.

Noi siamo qui al cuore della predicazione apostolica. «Il Signore del mondo intero sceglie tutti questi uomini: apostoli, discepoli, ecc. e li invia per il mondo intero a diffondere la sua sacra dottrina tra gli uomini di tutte le condizioni e stati» (Es. Sp. 145). La tentazione universale non è che la controparte negativa di questa chiamata universale. Poiché tutti gli uomini devono diventare figli di un medesimo Padre e questa trasfigurazione del loro essere non può compiersi che nella libertà, sentono in se stessi la resistenza e la chiamata dell’«io» che si rifiuta.

Affinché si realizzi il comandamento impossibile «ama il prossimo tuo come te stesso», occorre che il cuore dell’uomo si apra all’amore che non viene da lui.  Perché l’amore di cui parliamo è partecipazione alla vita di Dio, non semplice virtù da praticare e suppone la fede in Colui che comunica l’amore nella sua profondità più intima e nella sua universalità.

Ora, solo il cuore del povero e del fanciullo può essere invaso dall’amore. gesà solo è stato questo povero e questo fanciullo. Per farci partecipare della sua natura, Egli ci invita a diventarlo con Lui. Per questo «Egli raccomanda ai suoi servi e ai suoi amici di cercare di aiutare gli uomini invitandoli prima di tutto alla povertà…» (Es. Sp. 146). Il Signore, affinché tutti gli uomini possano amarsi gli uni gli altri, li invita, da tutte le condizioni e da tutti gli ambienti, a formare con Lui una Chiesa di poveri. Egli raddrizza così l’orientamento del cuore di tutti. Al posto della ricchezza, dell’«io» che si valere e imporre, esercitati nella povertà, con Me non temere le umiliazioni né sfuggile. Con Me, tu conoscerai l’umiltà e, attraverso di esse, si manifesterà l’amore del Padre. Impara da Me che sono mite e umile di cuore (Mt 11,29).

Chi rilegge tutta la Scrittura da questo punto di vista si percepisce subito che è il centro della prospettiva, da dove tutto si illumina. Tutto l’insegnamento di Mosè, dei Profeti, dei Libri Sapienziali e, soprattutto, di Gesù tende a sottrarre il cuore dell’uomo alla seduzione dell’apparenza e delle false salvezze. Siamo qui, al di là di ogni spiritualità, alla sorgente di ogni perfezione. Solo colui che non cessa di rinnegare il suo «io», può vivere e diffondere amore. così noi siamo invitati ad un grande combattimento, fintanto che siamo sulla terra, non c’è limite né arresto. È la sequela stessa del Cristo. Tutti i Santi, anche se lo hanno espresso in modo differente, hanno detto lo stesso. Non c’è pace né libertà con il Cristo che in un più grande rinnegamento di sé.

LA PREGHIERA PER CHIEDERE DI ESSERE ACCOLTO

In questa meditazione, ancor meno che in quella del regno, non sarebbe possibile un fatto di esibizionismo. L’intelletto, illuminato dalla fede, intravede la verità. Ma non è una pura considerazione intellettuale ciò che mi fa tendere alla sommità intravista. Solo la preghiera apre la mia libertà all’amore e mi fa desiderare di essere povero con il Cristo povero. È per questo che sono invitato a rivolgermi a Nostra Signora, al Cristo e al Padre per domandar loro di essere preso da questo movimento dell’amore che, iniziato dal Cristo, continua nella Vergine e nei Santi: «Io ti chiedo di essere accolto»

La domanda di questa grazia fa pensare all’episodio della vita di s. Ignazio, conosciuto sotto il nome della visione di La Storta. Discendendo verso Roma con i suoi compagni, vede il Padre indicare il Figlio che porta la croce: «Io voglio – dice il Padre – che tu lo prendi con te». È la trasformazione dei due in uno, la perfetta rassomiglianza dei cuori nell’unione delle volontà. S. Giovanni della Croce, indica questo stato sotto il nome di matrimonio mistico. Espressioni differenti di una medesima realtà. Vertice di tutta la perfezione, dell’amore, dell’unione, della divinizzazione. Siamo nel cuore dell’opera divina che vuole unire tutti gli uomini nel figlio. È l’unione perfetta di cui noi abbiamo sempre tendenza di mettere altrove di dove essa si compie.

Non è da stupirci che noi ci sentiamo superati. Siamo al cuore della vocazione dell’uomo chiamato a diventare Dio. A questo punto, si tratta di sapere se questo «super uomo» diventerà tale per mezzo di una forza che viene da lui stesso o nel riconoscimento di una forza che viene da altrove. Siamo in presenza di Dio. Due Stendardi o due maniere di divenire quello che Dio ci ha fatto: Satana,  Gesù Cristo.

La croce si profila all’orizzonte come la vittoria di Dio in Gesù Cristo per fare del nostro mondo un universo personale e un universo d’amore. l’universo di Satana – il mondo in senso evangelico – è chiuso e duro, perché tende su di sé e sui suoi possessi. È un universo di solitudine e di paura. Il Cristo mette nel cuore povero la libertà di tutto donarsi, anche la stessa vita, per salvare l’amore. Di questa volontà il Cristo muore, me ne risuscita, eternamente vivo e libero.

IN VISTA DELLA PREGHIERA PER QUESTO GIORNO

C’è una sapienza che noi chiediamo allo Spirito di Gesù di formare in noi, perché noi possiamo vivere secondo il suo modo. La Scrittura, letta e riletta a lungo nella vita, sviluppa questa sapienza. Essa impara a discernere la vera salvezza dalle false e non si lascia sedurre dalle apparenze. I testi proposti non sono che degli esempi.

1.  LA PREGHIERA DI SALOMONE PER DOMANDARE LA SAPIENZA (Sap 8,17-9)

È la preghiera per chiedere il discernimento. 

È già fare opera di discernimento riconoscere i doni della natura e i doni del Signore. Questo è il vantaggio, per compiere la nostra vocazione nel nostro fragile corpo, di cercare nello Spirito di Dio la sorgente di tutta la sapienza.

2.  LA LEGGE DEL REGNO: LE BEATITUDINI (Mt 5,1-12; Lc 6,20-26)

La beatitudine conferita ai poveri è segno che la salvezza di Dio è in mezzo a noi. Non siamo salvati da dei meriti. Voi che non avete denaro venite (Is 55,1-6). I poveri non hanno nulla da far valere. Dio, chiamandoli, manifesta in loro la gratuità del suo amore. essi sono invitati alle nozze, raccolti sulle strade e che non si attendevano ad una simile festa (Lc 14,12-24). O ancora, essi sono come dei bambini senza difese che gli apostoli respingono e che appartengono al Regno (Lc 18,15-17 e parall.). Meglio, essi sono come gli operai dell’undicesima ora (Mt 20,1-16) o come i peccatori chiamati senza meriti e che diventano figli del Regno (Mt 9,9-13). In tutti questi poveri, Dio fa brillare la sua universale misericordia.

Coloro ai quali la Sapienza ha rivelato i suoi segreti, si sforzano di farsi un’anima da poveri. Perché stretta è la porta (Lc 13,22-24). La possono percorrere solo coloro che una volta chiamati, custodiscono nella loro vita il senso della gratuità e del dono di Dio e non si credono migliori degli altri perché scelti da Dio. Chi sei tu per crederti migliore del tuo compagno di lavoro? (Mt 18,23-35). Solo questa attitudine, di cui il tipo perfetto è quella del povero nel bisogno, custodisce il tuo cuore aperto all’amore universale. S. Matteo, nelle sue otto beatitudini, descrive sotto questi diversi aspetti questa attitudine unica.

Al contrario, disgraziatamente, vi è colui che, a qualunque grado di perfezione fosse pervenuto, sviluppa una attitudine di ricco. Si ferma sui suoi doni e diventa incapace di lasciar passare in lui l’amore. il ricco non vuol il male di Lazzaro; semplicemente, non lo vuole, tutto preoccupato com’è del suo benessere. La ricchezza, tutta la ricchezza, cioè tutti i beni di Dio posseduti per se stessi, chiudono gli occhi e induriscono il cuore. Così il fariseo che si crede migliore e non stima l’obolo della vedova (Lc 21,1-4; Lc 16: capitolo dedicato interamente al denaro e ai farisei amici del denaro).

La povertà alla quale conduce Gesù, non è una povertà ascetica, quella dei filosofi o di Diogene nel suo barile, è l’attitudine del cuore libero nei suoi stessi beni e sempre disponibile all’amore dell’altro, sapendo di aver ricevuto tutto e di non aver diritto a nulla.

Davanti a questo ideale, la preghiera del peccatore diventa: Fa’ di questo cuore di peccatore un cuore di povero e ricevilo nel Tuo amore.

3.  IL MAGNIFICAT (Lc 1,46-55)

La preghiera del Magnificat è una vista sul mondo e sull’umanità, alla luce delle Beatitudini. Riassunte dalla preghiera dell’Antico Testamento, essa è divenuta il cantico della Chiesa. Occorre cantarlo per chiedere di apprendere il discernimento.

La Vergine Maria mette Dio al principio dei suoi pensieri e non si consoce che in Lui: Egli ha guardato il nulla della sua serva. Così Maria ha trovato la gioia. Ciò che gli uomini cercano con tanta pena, la Piccola figlia di Israele l’ha trovata subito. Così fa Dio allo sguardo di tutti coloro che riconoscono la sua misericordia.

Aderendo a Dio di tutto il loro cuore, Maria supera l’apparenza e non lascia che il suo piedi inciampi davanti alla prosperità dei mercanti [Sal 73(72)]. Come il Salmista che ha per lungo tempo riflettuto, ella è entrata nel mistero: Dio rinvia i ricchi a mani vuote e si ricorda del suo amore.

La Chiesa, ciascuno di noi, testimoniamo con Maria della fedeltà di Dio che si ricorda del suo amore, nella misura in cui accogliamo la nostra povertà.

4.  LA LEGGE DELLA COMUNITÀ DEI DISCEPOLI DI GESÙ (Fil 2)

L’effetto che Gesù vive in mezzo a noi, è quella dell’amore. Da qui gli inviti molteplici di Paolo per «portare a pienezza la sua gioia», non avendo tra noi che un «medesimo amore». Questo effetto avviene per coloro che hanno gli stessi sentimenti di Cristo Gesù, resi così simili a Dio Amore: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 4,43-48).

Il mezzo perché avvenga questo è quello di seguire lo stile di Gesù. Pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso… L’annientamento del verbo, l’Incognito di Dio (Ratzinger) sono delle maniere divine di farsi conoscere come amore e di diffonderlo. Egli non gioca all’uomo, lo diventa. Non dice che lo ama, ma realizza ciò che pretende essere. Questo lo conduce alla croce. In tutto, il vertice è l’amore che per Lui «vale più della vita» [Sal 63(62),4].

Per questo il Padre lo glorifica nella sua umanità e si manifesta in essa.

Se vuoi sapere se la carità che è in te sia divina, esaminane gli effetti: servizievole, non invidiosa… (1Cor 13,47). 

E ancora Gc 3,13-18. Due sapienze ti possono condurre. Riconosci se quella che ti sta conducendo è divina – e non terrena, puramente umana o diabolica –, ti fa agire nella dolcezza, con pace, tolleranza e comprensione.

5.  LA LOTTA: GESÙ TENTATO NEL DESERTO  (Lc 4,1-13)

Questa scena è il tipo della lotta nella quale il Cristo ci ingaggia per continuare in noi la sua vittoria sullo spirito  dell’odio e della divisione, il principe di questo mondo.

Gesù, tutto grondante l’acqua del battesimo e pieno della forza dello Spirito, affronta «tutte le forme delle tentazioni», come si presentano nella realtà, a partire da un bene reale: il pane o il diritto all’esistenza, la ricchezza o il diritto a possedere, il successo per la seduzione o la volontà di asservirsi alle cose. Satana, fa di un mezzo un fine dove vuole che noi ci fermiamo. Ogni volta, Gesù rompe il cerchio. Ogni volta, Egli passa al Padre: la Parola, nutrimento dell’uomo, l’adorazione che non si dà che a Dio, l’obbedienza che, per credere non ha bisogno di miracoli. Se un segno deve essere dato, è quello di Giona (Mt 12,38-42), di quell’uomo che, inviato a predicare la misericordia e disperando di tutto, ha rimesso la sua causa a Dio e che Dio ha liberato. È il segno della croce, segno della fede e dell’amore universale.

Questa tentazione annuncia il combattimento definitivo, quello dell’agonia, dove Gesù ritrova i due ordini: la sua volontà di un trionfo immediato – non è questa la causa più giusta? – e la volontà del Padre che, in mezzo al male e all’odio, mostra il volto dell’amore e «vince il male con il bene» (Rm 12,21).

Quando s. Paolo invita i cristiani ad amarsi, è a questo combattimento che pensa: non contro degli avversari di carne, ma contro gli spiriti del male (Ef 6,10-20). Per condurre questo combattimento occorre «pregare incessantemente nello Spirito» (Ef 6,18).

6.  IN MEZZO ALLE PROVE E ALLE PERSECUZIONI (Lc 21,8-19)

Il consiglio del Signore è: Guardate che nessuno vi inganni Non lasciatevi condizionare né dalle seduzioni, né dalle persecuzioni. Le difficoltà vi verranno da tutte le parti, da quelli che reclamano essere di Dio, dai vostri amici, dai vostri parenti. Abbiate fiducia nella sapienza che vi sarà data. Neppure un capello del vostro capo perirà. La vostra forza è nella vostra perseveranza.

Coloro che mettono la loro fiducia nel nome di Gesù, anche se «gente senza istruzione né cultura» (At 4,13), stupiscono per la forza delle loro risposte e conoscono «la gioia di subire oltraggi per il Suo nome» (At 5,41).

Questa confidenza, che è la sapienza della follia del Cristo (1Cor 1-4), costituisce l’essenziale dell’esigenza posta ai discepoli del Cristo. Essa apre loro i segreti della libertà, della gioia e della conoscenza del Padre (Lc 10,17-24).

7.  PROFONDITÀ DELLA LOTTA

Per illustrare la profondità della lotta alla quale è chiamato il discepolo di Gesù, per riconoscere la vera salvezza, potremo riprendere la lettura di Gv 7-12, capitoli nei quali cresce l’opposizione tra i Farisei, figli del diavolo, e Gesù, Figlio di Dio. È il dramma dell’uomo religioso che apre il suo cuore o lo chiude alla luce, che riconosce o rigetta Dio in Gesù.

Il mondo, che ciascuno conosce in sé nella misura in cui si ferma sui doni di Dio per appropriarsene, è il luogo di questa lotta intima e universale (1Gv 2,12-17).

LA REGOLA DELLE NOSTRE SCELTE: I DUE CRITERI (Es. Sp. 333)

Questa regola data qui non è che un’applicazione personale della meditazione sul Discernimento oggettivo che ci propongono le Due Bandiere. Noi non esaminiamo solo l’oggetto dei nostri desideri: è buono? Ma la maniera di volerlo: è conforme a quella di Cristo? Tutto può essere falsato, senza che noi ne prestiamo attenzione, per il modo di volere le cose.

Ciò conduce a porre la seguente questione: anche quando io posseggo o voglio qualcosa che è conforme alla legge morale, alla giustizia, al Vangelo o all’insegnamento della Chiesa, la posseggo o la voglio nella indipendenza del cuore, puramente e unicamente per Dio? Io posso anche vedere come volontà di Dio un ideale che intravedo o che mi viene presentato. L’eccellenza dell’oggetto può ingannare: tutti quegli ideali che appaiono successivamente alla coscienza cristiana, il regno, l’evangelizzazione, lo sviluppo… occorre che io venga a volere quell’oggetto senza una ricerca di me stesso, nella pace e nella sola confidenza della grazia, in modo che, espropriandomi da me, io riceva come dono di Dio la perfezione che desidero.

Due criteri devono giocare a turno, quello concernente la materia, quello concernente la maniera. Da una parte io mi offro senza riserve a ciò che intravedo come migliore. Io mi inquieterei ugualmente se, dal meglio che desiderio, io venissi a desiderare qualcosa di meno buona. La ripugnanza che provo all’inizio non è segno di non essere chiamato. Voglio vincerla pregando e offrendomi. Ma, da un’altra parte se, dopo lunghe e sincere preghiere e, soprattutto dopo esser passato del tempo, io non arrivo a prendere in considerazione quell’oggetto nella pace, è un segno chiaro che sono io che mi sto costruendo un ideale o che, almeno per il momento, io posso farne a meno. Capisco da lì che il meglio in sé non è necessariamente il meglio per me.

Noi ci risparmieremmo bene delle pene e saremmo più efficienti nell’azione se noi ponessimo questa regola all’inizio delle nostre riflessioni sulla scelta e sulle vocazioni. Noi raggiungiamo alla sorgente questo «amore carnale», come dicevano gli autori spirituali, che custodiamo senza saperlo fino dentro i nostri desideri e nelle nostre devozioni apparentemente le più disinteressate.

Questo modo di andare al cuore delle nostre motivazioni relativizza tutte le cose, cioè ci permette di non considerarle come rifiutabili, pericolose o secondarie – in esse stesse, sono indifferenti – ma di metterle in relazione con l’essenziale. La povertà non è innanzi tutto assenza o privazione delle cose, ma espropriazione di sé per divenire libero all’interno delle cose, che si possono mantenere o lasciare. È al’interno di ciò che io sono con tutta la mia intelligenza e tutte le mie possibilità che io cerco di relazionarmi con Dio e quindi possedermi.

Torna all'indice         

 

 

7° GIORNO

Educazione al discernimento: l’elezione

LA FINALITÀ DELLA GIORNATA: LA MANIERA DI SCEGLIERE

Domando al Signore d’essere preso, d’essere accolto. Io mi offro con Pietro: Voglio seguirti nella vita e nella morte. Io darò la mia vita per te, dovunque Tu mi conduca, io ti seguirò (Lc 22,33).

Pietro disse tali parole e si ingannò. La generosità del cuore, la grandezza del disegno divino, non l’hanno messo al riparo da tale errore.

A quali condizioni possiamo permetterci di dire simili parole? Come assicurarmi che, in una scelta che mi pare essere buona, io sarò fedele al disegno di Dio? Questa questione pone davanti alla problematica sia dell’educazione al discernimento sia quella dell’elezione che ciò permette di fare. Una certa disposizione del cuore, custodita e curata a lungo nella vita, assicura nel tempo voluto la conformità della nostra scelta allo Spirito del Signore.

L’ELEZIONE. DI CHE COSA SI TRATTA?

La parola fa parte del vocabolario ignaziano e domanda spiegazioni.

Rischiamo di vedere in essa l’atto con cui un uomo che, assicuratosi delle sue motivazioni e avendo pesato il pro e il contro, si decide per un qualcosa. Questo atto di libertà, posto con le «facoltà naturali» che l’uomo utilizza «liberamente e tranquillamente» (Es. Sp. 177), non  che un aspetto dell’elezione. Seguendo gli Esercizi, siamo condotti con Gesù nella vie dello Spirito. L’elezione diventa da qui l’atto per il quale il cristiano che riconosce in sé l’azine dello Spirito, raggiunge nella sua vita umana l’atto di Cristo che nelle piccole e grandi circostanze compie  la volontà del Padre.

Due ordini si incontrano in un atto così posto: quello della libertà dell’uomo, quella dell’azione dello Spirito Santo. è alla luce di quest’ultimo che l’atto della libertà diventa una elezione: «L’amore che mi muove e mi fa scegliere tale oggetto deve discendere dall’alto, dall’amore di Dio» (Es. Sp. 184).

L’elezione suppone che i nostri punti di vista si ordinino sotto la luce nella mozione dello Spirito Santo. Io non vedo come prima cosa l’oggetto particolare, quale il matrimonio o il sacerdozio, tale missione, tale professione particolare. Io vedo dapprima Gesù Cristo di cui riconosco su di me la sua mano. Io non voglio il resto che nella sua volontà, che mi fa volere innanzi tutto Gesù Cristo come unico. Inoltre, per decidermi a questo o a quello, io non mi appoggio solo sul lavoro della mia ragione, ma anche sull’azione che lo Spirito compie in me per farmi sentire la sua volontà, come ha fatto nel Cristo, «condotto dallo Spirito» (Lc 4,1).

Su cosa verte l’elezione?

Presso alcuni, essa consiste nel decidersi per uno stato o un progetto di vita, nella misura in cui sono implicati nel Regno o nella sua ricerca. Niente come gli Esercizi, aiuta a compiere in piena chiarezza una simile scelta e il dono che comporta, mettendo nelle condizioni di questo processo che si farà al momento suo.

Per coloro che non hanno una scelta particolare da fare, l’elezione consiste in una adesione più consapevole e più libera a ciò che costituisce l’essenziale della nostra vita, presa in mano più personale di una vocazione nella quale non abbiamo mai finito di entrare.

In tutte le maniere, è l’attitudine di fondo richiesta per l’elezione che è importante. È quella che gli Esercizi ci fanno ritrovare per assicurarci nella vita ordinaria delle scelte secondo Dio e docili allo Spirito Santo.

Essa è, in vista della pratica quotidiana, l’entrata in un ordine nuovo, quello dello Spirito di cui non si sa da dove venga e dove vada, ma del quale sappiamo che agisce incessantemente e ci conduce. La nostra libertà, per lasciarsi condurre, non si blocca, ma si fa accogliente come davanti ad un amore offerto e riconosciuto.

L’elezione così compresa differisce molto dalle risoluzioni. Queste sono sì delle decisioni o della applicazioni pratiche prese per andare in un senso o in un altro. Esse sono di ordine morale, utili per assicurarsi la perseveranza in uno sforzo, ma limitate come esso. Tutta la preparazione spirituale degli Esercizi non è necessaria per prenderle. I consigli di qualche amico o un buon esame personale sono sufficienti. Senza dubbio queste risoluzioni non saranno senza un rapporto con l’orientamento più profondo della vita, esse sono un mezzo per realizzarlo nel quotidiano, ma esse non devono essere confuse con l’elezione. Questa è ciò che, attraverso i mezzi impiegati, assicura l’unità profonda dell’essere a partire dalla scoperta dell’azione dello Spirito Santo.

DISPOSIZIONI IN VISTA DELL’ELEZIONE

Non fai l’elezione che tu vuoi, come non discerne chiunque voglia. La preparazione e la qualità dell’uomo sono qui più importanti della decisione presa. Come ogni altra impresa umana, la decisione abbisogna di una persona che la prenda. Anche se si tratta di costruire un edificio spirituale, nessuno può fare la pianificazione di questa realtà fondamentale.

1. MATURITÀ UMANA

Certuni rischiano di adagiarsi sulle proprie capacità intellettuali. Qualcuno può dissertare con brio sulla libertà e sulla maturità affettiva e rimanere adolescente. La prima regola di questo campo è quella di non lasciarsi condizionare da nulla, né dai diplomi, né dalla reputazione, né dalle funzioni svolte, né dal rango sociale.

Per fare una vera elezione, occorre acconsentire a conoscere ciò che noi siamo. Tu vorresti deciderti, ma non puoi farlo. Parli come dei libri che hai letto o ripeti cose di altri autori. Accetta subito di fare chiarezza in te, senza questo tu girerai attorno alle ragioni che ciascuno ha da far valere, ma non ne uscirai mai, perché esse non esprimono te.

Il ritiro, nella misura che coinvolga la totalità della persona, potrebbe aprirti gli occhi. Spesso, otterresti lo stesso risultato con un incontro regolare con un buon consigliere, incontro che abbia come oggetto le esperienze che fai. Il contatto con la realtà giornaliera, con un ambiente differente dal tuo o con altre condizioni di vita è ugualmente utile per illuminare te stesso, a condizione di sapere ciò a cui attendete in questi incontri: dapprima un’esperienza per conoscervi e aprirvi. In questa ricerca, è utile servirsi dei mezzi che le scienze psicologiche o sociologiche mettono oggi a nostra disposizione.

Sarà pure sciocco attendersi da questi mezzi dei miracoli o dei cambiamenti subitanei. La messa a punto di sé richiede tempo, soprattutto se intrapresa tardi. Quanti dicono: io non mi trovo a mio agio in questa professione o: la decisione non era matura quando la presi. Di conseguenza essi ne concludono il cambiamento di stato. Ciò che importa in questi casi è, prima di tutto, cambiare me stesso a partire da ciò che io vivo. Io mi scopro adolescente nel sacerdozio; il matrimonio non mi renderà più maturo!

È possibile definire la maturità umana necessaria per fare una scelta? Molto empiricamente, diciamo che è colui che riesce a prendere le distanze dai suoi parenti, dai suoi educatori, da coloro che lo hanno formato, non nel rifiuto o per la pura critica, ma nella volontà di mettersi al suo posto nella vita. C’è, nella vera maturità, una sorte di modestia, d’assenza di settarismo. A questo tratto, aggiungiamo l’assenza di confusione davanti alle proprie reazioni affettive: né le nego, né le prendo per regola. Io le prendo come un fatto. Questa attitudine differisce da una pretestuosa padronanza di sé che spesso si accompagna a ingenuità e rifiuto degli altri.

Senza questo sviluppo naturale, un preteso esercizio di discernimento spirituale rischia di condurre al caos e all’illusione. Nessuna vita spirituale si sviluppa sull’ignoranza o sul rifiuto della natura.

2. LA RETTITUDINE E LA PUREZZA DELLE MOTIVAZIONI

Non è sufficiente, per determinare la nostra scelta che l’oggetto proposto sia buono. non è sufficiente nemmeno riconoscere la nostra attitudine a suo riguardo o i desiderio generoso che risveglia in noi. Non dobbiamo fare tutto il bene che si presenta a noi. È importante valutare la qualità delle motivazioni che abbiamo. Talvolta noi poniamo una azione buona per delle motivazioni malvagie o miste: segrete paure, ricerca di sé. Occorre che il nostro occhio sia sano. «La lampada del tuo corpo è il tuo occhio. Quando il tuo occhio è sano, l’intero tuo corpo è nella luce, ma quando il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo è nelle tenebre» (Lc 11,34). «In tutte le buone elezioni, dice s. Ignazio, nella misura che dipende da noi, l’occhio della nostra intenzione deve essere semplice» (Es. Sp. 169).

Per risvegliare questa necessaria purificazione, s. Ignazio propone una curiosa meditazione, quella intitolata: «Delle tre categorie di persone per abbracciare quella migliore» (Es. Sp. 150-157). Non è sufficiente possedere legittimamente una sonno di denaro per avere l’anima in pace: il giovane ricco è un perfetto esempio di ciò. Occorre ancora possederla «con rettitudine e purezza per l’amore di Dio». Quanti si privano di ogni conforto, si agitano per delle opere di Dio, parlano di giustizia e di amore degli altri eppure non fanno che ciò che piace a loro. La prova è la pena che provano quando le cose non vanno secondo i loro progetti. Essi non vanno mai al fondo delle cose o, se ci provano, è per girare la volontà di Dio ai loro desideri. Servono Dio nella rettitudine del cuore solamente coloro che non sono «attaccati a possedere il bene acquisito o a non possederlo». Essi non vogliono che possedere «secondo ciò che Dio nostro Signore metterà nella loro volontà e secondo ciò che parrà meglio a loro per la maggior gloria e servizio della Sua Divina Maestà» (Es. Sp. 155). Ciò che essi cercano di raggiungere in questa loro volontà, sono le motivazioni segrete delle loro azioni.

Per dirlo velocemente, noi sentiamo qui come un tale ideale non può essere presentato che a delle persone umanamente equilibrate. Quello che per loro sarebbe una sorgente di libertà nell’azione sarebbe per altri un’occasione di disordine incessante: quest’ultimi non si crederebbero mai abbastanza puri e disposti. Aggiungiamo che una tale disposizione on si acquista di colpo: essa l’opera di tutta una vita. Il padre Lallemant che ne ha fatto il fondamento della sua «Dottrina spirituale» la propone a dei gesuiti al termine della loro formazione. L’esame di coscienza, tale come noi ne abbiamo parlato e tale come noi lo presentiamo al termine di questi Dieci Giorni, è un mezzo per custodire questa disposizione nel filo dei giorni.

3. L’APERTURA ALL’AMORE

Certe purificazioni non sono possibili effettuarle che nel dinamismo dell’amore: esse non possono essere il risultato di uno sforzo o di un esame rigoroso. Anche per permettere questi «passaggi» incessanti all’amore, al cuore dell’elezione come al cuore della vita, s. Ignazio presenta al momento della scelta, un’altra considerazione, conosciuta con il nome di «tre modi di umiltà» (Es. Sp. 164). Questi sono, in realtà, tre gradi del cammino dell’amore.

In fatti, al di là della fedeltà, anche interiorizzata (1° grado), al di là di una purificazione che si porta alla radice di volere dimorare in una totale trasparenza allo Spirito (2° grado), c’è ciò che Ignazio chiama il terzo grado di umiltà, che è in effetti una follia di amore che non conosce più regole. L’amore del Padre si è manifestato nel Figlio fino al suo perfetto annientamento: Gesù si è fatto simile all’uomo che amava. È l’amore del servo che non ha cercato di avere la reputazione del giusto, ma solo di essere servo. Con il Cristo che rivela e vive d’amore, noi non miriamo più ad attendere ad una perfezione personale, ma a fare tutto «per il servizio e la lode della divina Maestà». La più grande gloria di Dio, manifestata sul volto del Cristo, diviene la sola preoccupazione dell’«anima innamorata» (S. Giovanni della Croce), sviluppo ultimo di quella disposizione del Povero o del Bambino descritta nelle Beatitudini.

Per questa triplice disposizione, una persona vive un equilibrio sotto il possesso dello Spirito. È un equilibrio sempre in movimento. L’equilibrio che stabilisce tra due persone che si amano d’un amore vero può dare qualche idea di ciò che si realizza qui: tutti e due non hanno che un medesimo volere, un medesimo spirito, una medesimo modo di sentire. È la perfetta rassomiglianza. A partire da essa si possono fare, anche senza pensarci, le migliori scelte.

4. COME FARE L’ELEZIONE?

È una questione che coloro che aprissero il libro per caso rischiano di attaccarvisi subito. In realtà essa è secondaria in rapporto a quella che concerne la preparazione e le disposizioni. Quando uno stesso angelo di Dio venisse ad assicurarti della Sua volontà in modo tale che tu non potessi dubitarne, rimanete nella riserva. C’è l’ispirazione: c’è la maniera di riceverla. L’ispirazione non dipende da noi, la maniera sì. Non cessate dunque di crescere in te stesso e di purificare il tuo cuore nell’amore.

È nel tempo, dice s. Ignazio, che si fa «una sana e buona elezione», cioè in un processo di stati interiori, di desideri, di pensieri. È in questa successione che, nel suo svolgimento, noi riconosciamo la volontà di Dio.

C’è un primo tipo d’elezione. Si compie nell’istante. Dio “che entra, che esce, che produce mozioni nell’anima, che l’attira tutta intera nell’amore della sua divina maestà» (Es. Sp. 330), «muove e attira la volontà di tale maniera che non è possibile dubitare dell’origine di questo movimento» (Es. Sp. 175). La presenza e l’azione di Dio non hanno bisogno di altre prove che se stesse. Perché cercare di più? L’incondizionato di Dio che agisce nella persona «senza intermediario» (Es. Sp. 15) trascina, «senza dubitare né poter dubitare», la persona che non cessa di disporsi a questa azione. La sola cosa sia richiesta in questo caso è la fedeltà dell’uomo, è di non confondere questa azione di Dio e la trasposizione che, senza dubitarne, l’uomo possa farne. Occorre anche ricevere nella gioia e rimanere vigilanti.

Nel secondo tipo, noi siamo presi, ma nello scorrere dei giorni e dei mesi. Desideri che passano, spariscono e rinascono, delle attrazioni, delle ripugnanze, o per usare il linguaggio degli Esercizi, «l’esperienza delle consolazioni e delle desolazioni». È il caso più frequente. Molti si ingannano, perché è una questione di sentimento, di «buoni o cattivi angeli»… Anche se questo linguaggio ci stupisce e domanda di essere trasportato in un altro linguaggio, c’è una realtà innegabile. S. Ignazio invita a farne discernimento.

Questo discernimento consiste nel promuovere le disposizioni di cui abbiamo parlato, le quali, nel movimento stesso della vita dello Spirito, man mano che noi le esercitiamo, suscitano sentimenti e desideri di cui noi dobbiamo prendere coscienza. È per l’esame della durata del desiderio e della sua qualità che un giorno mi sarà donata l’evidenza del discernimento. Ciò che viene dal demonio rimane duro, eccita l’immaginazione, reclama una rapida realizzazione: il demonio nega il tempo. Da questo quante false vocazioni, quante false ispirazioni, anche portate su oggetti buoni. La maniera dello Spirito, sempre se Egli ci muova, anche se l’oggetto che ci propone suscita in noi ripugnanza e rifiuto, è in definitiva pacificazione dell’essere, confidenza in Dio, apertura agli altri. Dai suoi frutti riconosciamo il buon albero (Mt 7,15-19).

Per esercitare questo discernimento, è bene rivelare nella propria vita ciò che possiamo chiamare le «costanti di Dio», quei punti o quegli oggetti verso i quali lo Spirito sembra condurci nei periodi più calmi della nostra esistenza. Venuto il momento, diamo il nostro consenso a ciò che preparava il passo per meglio avanzare nell’avvenire. 

Nel terzo tipo, non abbiamo nulla. Alcun movimento in nessuna direzione, mentre occorre agire. Allora noi potremo fare elezione, secondo un discernimento che potremmo chiamare morale e razionale, «utilizzando le nostre facoltà naturali, liberamente e tranquillamente» (Es. Sp. 177).

Ciò che importa qua ancora, per assicurarmi che io veda le cose secondo Dio, anche senza una luce dall’alto, è, in una decisione che può essere critica, il modo di prenderla e di viverla: nella relazione all’incondizionato di Dio che relativizza le cose e nelle disposizioni di pace e apertura, io sto sicuro di essere sulla rotta di Dio.

Naturalmente devo avvolgere di preghiera questo lavoro di riflessione, una preghiera che mi situa in uno dei momenti critici della vita, dove lo sguardo è più lucido e disinteressato. S. Ignazio dà due esempi di queste situazioni limite: che consiglieresti ad un amico che si trova in un caso simile al tuo? Che avresti voluto aver deciso se ti troveresti in punto di morte?

Questi tre tempi o tre tipi di discernimento non si oppongono l’uno all’altro, ma si può passare dall’uno all’altro, risalendo o ridiscendendo. Spesso per decidere non abbiamo altro ricorso che il terzo tipo: siamo senza luce e una decisione si impone. Ma lo sforzo di disinteressamento e l’atmosfera di preghiera che avvolge questo terzo tempo fa nascere in noi quei «movimenti degli spiriti» o quelle «consolazioni» che sono una conferma che Dio accoglie le scelte che stiamo facendo (Es. Sp. 183). All’inverso, la venuta improvvisa della luce di Dio «senza intermediario» (Es. Sp. 15) e senza causa precedente (Es. Sp. 330) ci dispensa dal ricorso al discernimento e alla riflessione per assicurarci che non siamo stati sciocchi nelle nostre interpretazioni e nei nostri sentimenti.

Due osservazioni si impongono prima di esaminare qualche applicazione.

Qualunque sia l’oggetto dell’elezione, ciò che importa, venuto il momento di discernere, è di rimanere in una grande atmosfera di preghiera. È per questo che si continua, come prima, a contemplare i misteri del Vangelo, quelli della vita pubblica. In particolare, riprendo spesso la grande preghiera dei Due Stendardi, la domanda di «essere accolto con Lui».

Notiamo anche che, se l’elezione valida è quella che scaturisce dalle profondità della nostra libertà e si prende nel segreto del cuore, essa si fa però davanti al testimone, questo consigliere spirituale di cui s. Ignazio dice che «non deve propendere o inclinarsi verso una parte o verso un’altra, ma deve trovarsi in equilibrio come un ago della bilancia, lasciando il Creatore agire senza intermediario con la sua creatura e la creatura con il suo Creatore» (Es. Sp. 15).

APPLICAZIONI

Molti vorrebbero trovare un metodo pratico e definitivo di risolvere con certezza i diversi problemi che la vita pone loro. Noi abbiamo così tanto da fare che non abbiamo più tempo di riflettere.. voi che siete degli specialisti, dateci qualche mezzo semplice per vedere bene. Essi dimenticano che la ricerca della volontà di Dio non dispensa nessuno dal prendere il suo tempo per far lavorare la propria intelligenza. Prima di discernere checchessia, occorrerà loro mettersi davanti ai dati del problema e ad esaminarne le diverse specie. Inoltre, è bene rimarcare prima di tutta la ricerca, che la preoccupazione di compiere la volontà divina, presso persone ancora poco mature, può diventare una fonte di inquietudine che ferma l’agire al posto di favorirlo. Niente dispensa in questa materia dell’uso dei buon senso e dei consigli di qualche amico. Detto in altro modo, prima di arrivare alle applicazioni, conviene domandarsi se, nella materia che ci occupa, sia il caso di fare elezione nel senso che abbiamo detto e se ci sono le disposizioni per farla.

1. LA SCELTA DI UNO STATO DI VITA

Dicono che, senza voler fissare arbitrariamente il momento in cui fare una tale scelta, il tempo di un ritiro – e soprattutto i giorni di cui noi parliamo – è il più propizio. Venuto il momento, tenendo conto dei diversi consigli sparsi in queste pagine, potrebbe essere utile rispondere per iscritto, per fissare le proprie idee, alle questioni seguenti:

  1. Credo di avere una maturità sufficiente per decidere liberamente? Quali motivi mi fanno dubitare di tale maturità?
  2. Dalla mia infanzia, da quali grazie di Dio mi sembra di essere stato favorito? È sempre bene di rifarsi a grandi tratti la storia di Dio nella propria vita. La meditazione della memoria, indicata più avanti, può aiutare in questo.
  3. Concretamente, qual è il mio desiderio presente? Nella luce del ritiro, quale giudizio porto su di esso? Quale effetto produce in me da un lato rifiutarlo e dall’altro accoglierlo?
  4. Quali ostacoli vengono da me, dagli altri, quali circostanze sembrano opporsi alla sua realizzazione?
  5. C’è un motivo che sembra inclinarmi in un senso piuttosto che in un altro? A mio giudizio quale valore dare a questo?
  6. Qual è la reazione di coloro che mi conoscono davanti al desiderio che ho?

Naturalmente la risposta a queste domande deve farsi nella tranquillità e soprattutto nella preghiera. Senza l’una e l’altra, è impossibile custodire nella ricerca che ci occupa la rettitudine dello sguardo e il disinteressamento del cuore. Nel nervosismo e nell’inquietudine, meglio cessare l’esame e rimettersi a pregare.

2. IL CAMBIAMENTO DI UN STATO DI VITA

Non parliamo di quelle decisioni quotidiane che sono un adattamento incessante alle circostanze che cambiano. Perché la decisione presa allora raggiunga il disegno di Dio sulla nostra esistenza e sul mondo, il mezzo migliore è l’esame di coscienza tale come lo presentiamo alla fine di questi fogli. Ben compreso, esso custodisce lungo il filo dei giorni le disposizioni necessarie ad ogni buona elezione.

Non ci soffermeremo ulteriormente su quelle decisioni che  noi siamo soliti prendere di tempo in tempo e che modificano il corso della nostra esistenza. Un invito venuto dall’esterno, un avvenimento inatteso, un desiderio che ci lavora da lungo tempo ci spingono a nuovi impegni. Questo caso non lo trattiamo similmente al precedente che era la scelta di uno stato di vita. Queste scelte sono normali, e in materie dove l’elezione fatta anteriormente e sempre revocabile. Essi fanno parte di quella fedeltà che cerchiamo di conservare allo sguardo del disegno di Dio, tanto nelle grandi che nelle piccole occasioni.

Il caso ora è differente – ed è oggi frequente – allorché si tratti di una scelta di per sé definitiva e sulla quale colui che l’aveva fatta viene ad affermare: Io mi sono ingannato. È la fedeltà che viene rimessa in questione. D'altronde, aggiungono altri, un impegno per tutta la vita è concepibile? Le condizioni cambiano, la scelta deve essere rivista.

Né da una parte la fedeltà cieca e volontaristica, né dall’altra parte il cambiamento brusco sono in tali casi delle buon soluzioni. Davanti al fatto: Io ho perso la certezza di essere nella volontà di Dio, la questione è: come ritrovarmi nella verità e nella pace? Le discussioni teoriche, i ritorni amari sul passato, la speranza di cambiamenti rapidi delle istituzioni non qui di alcuna utilità. Si sbagliano, anche se l’apparenza sembra dare loro ragione, coloro che attendono una soluzione dal di fuori e non dalla trasformazione interiore del loro essere, a partire dalla situazione concreta che stanno vivendo. Io profitterò della situazione concreta in cui sono caduto per crescere in una libertà che, a mio giudizio, è diminuita. È da questo cambiamento personale, – dalla riforma della propria vita, direbbero gli Esercizi – che mi dovrò aspettare la luce. Cambiamento che è perseguibile su due versanti insieme, umano e spirituale e che, su questi due piani, si sviluppa nel medesimo senso: uscita di sé in vista di un più grande dono di sé, «uscire dall’amor proprio, dal proprio volere e dai propri interessi personali» (Es. Sp. 189). Come sperare qualcosa di buono da colui che ragiona dell’universo e degli altri e non vuole mettere in discussione se stesso? Egli non può non rimanere insoddisfatto, amaro e inquieto. Questo manifesta che nelle circostanze della sua vita non ha raggiunto il disegno di Dio.

In tali ricerche, l’aiuto di un consigliere umano, disinteressato e spirituale è più che mai necessario. Colui che, sotto il pretesto dell’autonomia, vuole risolvere da solo i suoi problemi, non può che impantanarsi ulteriormente. Questo aiuto fraterno lo sosterrà nel superare il colpo del crollo del proprio equilibrio anteriore. Rimessa in causa, ma rimanendo solo, una persona rischia di distruggersi ulteriormente. Se invece accetta questo lungo e doloroso itinerario, talvolta rimpiange di non averlo seguito prima, e scopre che non ha altro da fare che trovare Dio nella pace.

Allora, in questo ben questo lungo sforzo, durante il quale la persona che lo fa si chiede talora come e se andrà a buon fine, diventa l’occasione di conoscere, sempre più frequentemente e sempre più profondamente, dei momenti di vera libertà, sconosciuti fino ad allora. È il segno che ben presto, senza dubbio, riprenderemo senza esitare la strada che avevamo scelto, ma adesso per delle motivazioni «pure, nette e senza mescolarvi altri interessi» (Es. Sp. 172). O viceversa, questo sforzo, compiuto nella rettitudine del cuore, non perviene che a farci irrigidire di più e inquietare maggiormente. È il segno che, malgrado la nostra buona volontà, la strada che avevamo seguito non era fatta per noi e che, senza paura, noi dobbiamo lasciarla. Anche questa è una scelta vera, anche se noi abbandoniamo una via che altri e noi stessi, ad un certo momento, avevamo creduto migliore, non è infedeltà. La pace che accompagna la decisione ne è il segno.

In ogni caso, a chi mi dice: Io ho perso la mia vocazione. Io subito rinvio la domanda: Hai fatto tutto ciò che è necessario per custodire la qualità della vita di questa vocazione? Se essa è reale doveva svilupparsi. Una vocazione non è mai fatta del tutto, si degrada o cresce. L’inerzia a suo riguardo la fa scomparire. Se dunque la ripugnanza si fa sentire in te guardando ciò che prima tu hai amato, segui il consiglio di s. Ignazio: chiedi al Signore di sceglierti per ciò che più ti ripugna «purché sia per il servizio e la lode della sua divina Bontà» (Es. Sp. 157). La lotta contro la ripugnanza nello stesso tempo della sua persistenza manifestano con chiarezza che la volontà di Dio non è da quella parte. Mantenersi in questa lotta sarebbe ostinazione. Se, al contrario, attraverso e al di là delle ripugnanze troverai la pace e così vedi svanire la ripugnanza, è il segno che Dio ti darà di compiere ciò in cui la tua sensibilità si riposa.

 

3. LE DECISIONI COMUNITARIE

La questione della decisione presa, non più da un individuo, ma dalla comunità, sembra nuova oggi. Essa risale agli Atti degli Apostoli, quando i discepoli riuniti decisero di scegliere Mattia o di inviare Paolo e Barnaba. Essa si pone nella storia della Chiesa ogni volta che degli uomini mossi dallo Spirito si riuniscono per lavorare insieme. Citiamo per esempio la deliberazione dei primi compagni di s. Ignazio per sapere se rendere definitiva l’unione che esisteva tra loro.

Perché sia possibile camminare insieme verso una decisione, occorre che un certo numero di condizioni, come nei casi di elezione particolari, siano assicurate. Prima di tutto d’ordine umano. Simili decisioni non possono essere prese da persone che non si conoscono o tra le quali vi siano dei conflitti latenti. La parte umana è qui necessaria, come prima. In secondo luogo, di ordine spirituale. Questa comunità in ricerca della volontà di Dio deve essere riunita nella stessa vocazione spirituale e apostolica. Una stessa fede in Gesù e una chiamata comune deve costituire la linea essenziale dei suoi membri.

In particolare, questa comunità deve fare l’esperienza di una preghiera comune. È da questa che dispone il cuore a aprirsi allo Spirito e agli altri e che assicura a ciascuno nel gruppo di cui si sente membro, l’indipendenza necessaria per dire in libertà ciò che pare giusto e per gestire le pressioni inconsce che potrebbero esercitarsi. Un ritiro fatto insieme è una delle migliori maniere di mettere in atto questa preghiera comune.

Nella ricerca della decisione, si ritrova qualcosa dei tre tempi di cui abbiamo parlato. A volte si tratta di ispirazioni di cui nessuno dubita: «Mettete a parte Barnaba e Paolo» (At 13,2). Altre volte, è un lungo discernimento dei desideri e delle attrazioni da tempo sentite nel gruppo, fino a che una decisione si impone. Altre volte infine, è una fraterna discussione dove ciascuno si sforza di offrire un cuore aperto e disinteressato alle diverse opinioni come ad un nuovo appello per pervenire alla luce. Discussioni che conducono ad un discernimento spirituale che è, non solo un libero scambio di punti di vista, ma una sottomissione alla spinta dello Spirito nel cuore di tutti.

Questa preghiera, approfondendosi, permette di superare le espressioni talvolta opposte che ciascuno dà alla luce ricevuta. Lo Spirito, come alla Pentecoste, permette al di là delle differenze di linguaggio, di scoprire la realtà vissuta da tutti e da ciascuno.

Come nel caso di decisioni individuali, non può esserci un metodo preciso. Rimane qui il pericolo, come altrove, di volere andare troppo veloce, di tirare a sé il pensiero degli altri, in fondo di non voler rinunciare abbastanza a se stessi per lasciare Dio e gli altri esistere.

In questi diversi casi, viene il momento di concludere. Non è difficile che si pervenga ad una scelta netta: scoprire una strada da seguire o confermare un cammino già seguito. Che ne è quando nulla si impone? Dobbiamo concludere che è stato un fallimento? Potrei arrivare a questa conclusione, se, misurando il cammino percorso durante questi giorni, ho cura di determinare il perché non si è più avanzato. È una scelta accettare di riconoscere ciò che è, anche se mi fa confessare che in questo momento non sono in grado di scegliere in modo chiaro e fermo. Le difficoltà non devo sopprimerle, ma vedere come superarle e andare avanti.

Occorre scrivere? Una vera elezione comporta uno scritto nella misura che è un impegno, come la firma in calce ad un contratto. Uno scritto aiuta sì a precisare l’oggetto della propria scelta e a ricordarsene. In questo caso, scriviamo senza dare molta importanza alle lettere, faremmo solo della letteratura.

In conclusione, ciò che importa in tutto ciò che riguarda il nostro comportamento umano e le nostre diverse decisioni, è la direzione dello sguardo. «In tutte le buone elezioni, nella misura dove esse dipendono da noi, l’occhio della nostra intenzione deve essere semplice» (Es. Sp. 169). Sullo stesso oggetto, le scelte variano secondo ciascuno. Presso le stesse persone, variano lungo lo scorrere della vita. L’abitudine del discernimento permette, attraverso le varie situazioni, di scoprire i segni di Dio, cioè come Dio compie in ogni cosa il suo Regno e rivolge ogni cosa al bene di coloro che lo amano (Rm 8,28). Questa abitudine fa in tutto, anche dove non c’è nessuna certezza, risalire alla sorgente.

IN VISTA DELLA PREGHIERA DI QUESTO GIORNO

1. IL GIOVANE RICCO E PIETRO (Lc 18,18-30)

Questo episodio ci mette davanti la disposizione fondamentale per fare una buona elezione. Non è più questione qui di fuggire il male o di osservare i comandamenti; io li ho osservati sin dalla mia giovinezza, disse il giovane. I suoi beni li possiede legittimamente: non ha mai rubato. Ma sono per lui una causa di tristezza: egli è posseduto da essi più di quanto li possieda lui stesso. Non è libero di amare.

Noi siamo, con l’invito di Gesù, sul piano del più perfetto, cioè quello dell’amore. Questi beni che ti legano non sono che dei mezzi e tu ne hai fatto un assoluto. Abramo, il padre dei credenti, non fa questo: il suo «unico» e legittimo figlio, non l’ha rifiutato a Dio, non per paura, non per calcolo, ma per la certezza che è Dio che glielo chiede e si è fidato delle sue promesse essendo «capace di risuscitare i morti» (Gen 22,1-19; Eb 11,17-19). Siamo davanti all’incondizionato dell’amore che concilia i contrari. Per colui che crede «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37).

La reazione di Pietro lo conferma. Noi abbiamo lasciato tutto, dice questi. Noi siamo tentati di dirgli: Che cosa hai lasciato, Pietro? una piccola casa, una barca, delle reti… Cosa è tutto questo in paragone delle ricchezze di quel giovane? Per Gesù la quantità non importa, ma la qualità del dono a partire da ciò che noi siamo e abbiamo. Perché immaginare delle situazioni straordinarie?

Il Signore che si è rattristato di vedere andar via quel giovane si rallegra della reazione di Pietro. in verità, tutti coloro che fanno quello che ha fatto Pietro «ricevono ben di più in questo tempo e nell’avvenire la vita eterna». Come Abramo, essi riceveranno su un nuovo piano ,quello della libertà e della grazia, ciò che hanno accettato di perdere sul piano della natura. Tutto – anche il loro figlio più caro – diventa per loro dono di Dio. È il gioco di chi guadagna perdendo, per mezzo del quale essi trovano vita e pace (Gv 12,23-26).

Chi vuole raggiungere questa sommità dell’amore deve lottare con Dio nella preghiera, come Giacobbe al guado dello Iabbok (Gen 32,23-33). «Non ti lascerò andare finché Tu non mi abbia benedetto». Da questa lotta l’uomo ne esce zoppo, ma libero per la vita.

2. LA GRAZIA DEL DISCERNIMENTO (S. Giovanni e S. Paolo)

Due immagini aiutano a penetrare la sua natura: l’unzione (1Gv 2,26-27) e il tatto (Fil 1,2-11). L’unzione, come olio che imbeve un vestito, comunica nell’intimo della persona le verità ricevute (Gv 14,26), in modo che essa non ha più bisogno che qualcuno l’ammaestri. Questa conoscenza, che si esercita con la spontaneità dell’istinto, è data a chi trova nella Legge di Dio piacere e sapore [Sal 119(118].

Questo discernimento fa parte dell’opera compiuta da Colui che l’ha iniziata in noi in vista della venuta del Giorno di Cristo. Esso non può essere isolato dalla crescita della carità che per il cristiano è la sorgente della vera scienza. È l’amore che comunica questo «tatto affinato che permette di discernere il meglio» [altra traduzione: «che il vostro amore cresca in intuizione e sensibilità, perché possiate discernere ciò che è opportuno fare per essere puri e irreprensibili in vista del giorno di Cristo»]. È l’amore che fa vedere ciò che il cuore chiuso non vede. Beati i cuori puri: essi vedranno Dio (Mt 5,8). Il cuore indurito rende gli occhi ciechi (Gv 12,-37-41). Questo discernimento è il segno della maturità del frutto che noi portiamo nel Cristo (Gv 15,1-10).

Esso non viene donato ai principianti, color che sono ancora ai «primi rudimenti degli oracoli di Dio», ma si sviluppa in coloro che si elevano all’«insegnamento perfetto» e che si intrattengono per il suo esercizio nel «gusto» del dono celeste e nel «sapore» della «buona Parola di Dio» (Eb 5,11-6,8). Esso cammina «verso la vera conoscenza» quella di cui sarà rivestito «l’uomo nuovo che si rinnova a immagine del suo Creatore» (Col 3,10). Il «giudizio» si rinnova e permette di «discernere qual è la volontà di Dio, ciò che è buono, ciò che a Lui piace, ciò che è perfetto» (Rm 12,2).

È da questi frutti che il credente riconosce in sé la presenza e l’azione dello Spirito (Gal 5,16-25): amore, gioia, pace… Non le opere di carità in se stesse: i farisei e i pagani fanno altrettanto e «hanno già ricevuto la loro ricompensa» (Mt 6,1-18). Ma è la maniera con cui quest’opera viene compiuta che manifesta, in noi come in Gesù, che viene da Dio (1Cor 13,1-7). Tutto si tiene nella vita del cristiano, noi non possiamo isolare questa preoccupazione del discernimento dall’insieme dell’azione dello Spirito nella nostra vita.

3. LA MEDITAZIONE DELLA MEMORIA

Il credente, man mano che avanza nella vita, sviluppa il ricordo delle meraviglie che Dio ha compiuto in lui, per il suo popolo e nell’umanità. Non finiremo mai di citare i Salmi della memoria – cf Sal 105(104); 106(105). Rileggendoli, l’uomo apprende a riconoscere le vie di Dio.

Così ciascuno di noi, ricordandosi i grandi momenti della propria vita, scopre delle costanti. Un filo rosso li riunisce e la direzione che esso prende è in mezzo per scoprire la meta dove Dio ci sta conducendo.

Una tale meditazione è avanti lettera una «contemplazione per ottenere l’amore di Dio»: «Faccio memoria di tutti i benefici ricevuti» Per questo riconoscimento, essa ci conduce «ad amare e a servire Dio in tutte le cose» (Es. Sp. 230-237)

4. IL CAMMINO SPIRITUALE DI PIETRO

Il pericolo è quello di fare dell’elezione, come del ritiro stesso, un fatto razionale. Cerchiamo di risolvere i nostri problemi con la sola valutazione delle motivazioni umane. È per questo che conviene, in quel momento, rafforzare la preghiera.

Il grande mezzo ne è la contemplazione dei misteri e della vita del Signore, in particolare della sua vita apostolica. In armonia con l’esercizio del discernimento, presentiamo qualche scena tipica della maniera con cui Gesù ha chiamato e condotto i suoi apostoli, in particolare Pietro.

In una maniera globale, al seguito dell’analisi che ne fa s. Ignazio (Es. 275), potremmo notare alcune caratteristiche della vocazione divina. La chiamata si fa capire progressivamente e con molta dolcezza. Non tiene conto del valore o del merito degli uomini: gli apostoli erano rozzi e di umile condizione. Senza distinzioni, Gesù si indirizza a Filippo, uomo semplice, e a Matteo, peccatore e pubblicano, come agli altri apostoli. Tutti sono convocati per ricevere il dono che li eleva al di sopra di ogni cosa che si possa immaginare: sono scelti per «essere suoi compagni» e, da questo, predicare e scacciare i demoni (Mc 3,13-19). Tutte le vocazioni legano la piccolezza dell’uomo e la grandezza di Dio nella gratuità dell’amore.

Nel gruppo degli apostoli, Pietro sembra essere oggetto di una formazione particolare. Ecco le scene dove è particolarmente in questione lui. Grazie ad esse, possiamo seguirne l’evoluzione spirituale:

Gv 1,4        Lo sguardo di Gesù su Pietro.

Lc 5,1-11        Lo «stupore» di Pietro.

Gv 6,67-71        Da chi andremo noi?

Mt 14-17         Il cammino sulle acque. La confessione di Cesarea di Filippo.
Il rimprovero di Pietro. La Trasfigurazione.

Mt 17,24-27    Chi paga la tassa? Lo straniero o il figlio? La libertà dei figli.

Mt 18,21-22    Quante volte devo perdonare? Il perdono universale.

Mt 19,27-29    Noi abbiamo lasciato tutto, che ce ne verrà?
        
Tutto questo prima di essere «passato al vaglio» (Lc 22,31-34).

Estendiamoci su qualcuna delle scene più significative di Mt 14-17. Esse descrivono la maniera con cui Gesù formava gli apostoli.

La prima prova della fede: il cammino sulle acque (Mt 14,22-33)

Gesù si allontana per pregare da solo, mentre la tempesta si scatena. Il Signore lascia l’uomo a se stesso per farlo crescere nella fede. Io ti ho fatto camminare nel deserto… al fine di provarti… come un padre corregge il suo figlio (Dt 8,1-6). L’uomo lasciato a se stesso è preso dalla paura, non riconosce più Dio: i discepoli credono di vedere un fantasma. Il ritorno del Signore farà capire «la scienza della speranza in Dio» (S. Francesco Saverio) e a non più appoggiarsi su se stesso. Ma il Signore purifica maggiormente la fede di Pietro. Spontaneamente gli chiede: «Se sei Tu, dì che io venga a Te». Egli avanza. Degli elementi impuri si mescolano ancora nella sua fiducia. S’appoggia su di sé e guarda ai suoi piedi. Affonda. Il rimprovero del Signore, efficace come tutte le parole di Dio, produce nel suo cuore una fede nuova.

Soprattutto la trilogia: confessione, rimprovero, trasfigurazione

Pietro riceve la rivelazione del Padre. «Questa rivelazione ti viene dal Padre, gli dice Gesù. «Nessuno può venire a me, se il Padre non lo attira» (Gv 6,44-46). Pietro fa parte di quei piccoli ai quali sono rivelati i misteri di Dio (M 11,25), può quindi diventare il testimone della fede, la pietra sulla quale si edifica la Chiesa che crede.

Ma Pietro, parla sotto ispirazione dello Spirito, ma non misura ancora la portata di ciò che dice. Così è sorpreso alla prima difficoltà: Ciò non può accadere, dice a Gesù che preannunzia la sua Passione: «Va via, tu sei per me un Satana, non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Umiliato, Pietro dal suo grande dispiacere deve sentire come gli altri: «Se qualcuno vuol seguirmi, rinneghi se stesso e prenda la sua croce» (Mt 16,24). Occorre sempre ritornare là. Conosciamo Gesù come Figlio di Dio solo nella manifestazione del suo amore, la croce. Pietro deve ancora percorrere una lunga strada prima di poterlo capire.

Tuttavia, «sei giorni dopo», Gesù si manifesta a lui nella gloria del Padre. Per il momento, Pietro tentenna e non sa cosa dire, assistendo a degli avvenimenti che lo superano. Tutto è donato dalla fede: l’Esodo che deve compiersi in Gerusalemme (Lc 9,31), i grandi testimoni, Mosè ed Elia, la nube, segno della presenza di Dio. Cosa vorrà dire tutto questo? Egli non lo comprenderà che più tardi (Gv 13,7). Per il momento, alzando gli occhi, non ha più davanti che Gesù solo. Deve discendere dalla montagna per andare a Gerusalemme, e ancora senza rivelare nulla di ciò che ha passato.

Così nelle nostre vite, non riusciamo a capire subito ciò che ci succede. La realtà ci è già data tutta intera, ma tutto rimane mischiato. Perché la strada si chiarisca, passiamo per delle notti, forse anche per dei rinnegamenti. Nondimeno è il Signore che conduce. Noi ci ricorderemo più tardi di aver sentito, come Pietro, la parola profetica e la guarderemo «come una luce che brilla in un luogo oscuro, finché non viene il giorno» (1Pt 1,12-21).

Questa osservazione può concludere tutto ciò che concerne l’elezione: Pietro desidera subito tutta la soluzione dei suoi problemi. Al livello dove si trova, non può avere la certezza assoluta. Occorre che egli raggiunga il Cristo che «s’incammina decisamente verso Gerusalemme» (Lc 9,51). Allora, una decisione presa in questo spirito può anche subire un fallimento, almeno apparente. Ciò che importa, è di essere come il Cristo diretti a Gerusalemme perché Dio lo vuole. Il seguito non mi appartiene più.

AL TERMINE DI QUESTI QUATTRO GIORNI

Gli Esercizi, soprattutto quelli di questa seconda tappa, mettono in gioco le forze creatrici di una persona, quelle che costituiscono la sua personalità umana, per sottometterle nella libertà al dinamismo dello Spirito. Alcuni rischiano di essere sconcertati per questo cammino. Non sono abituati a regolare i loro problemi della vita a questo grado di profondità. Rimangono abitualmente sul piano della ragione e della prudenza umana.

L’esperienza degli esercizi rassomiglia un po’ a ciò che succede ad un artista, un uomo d’azione o ad una persona che ama. In lui si realizza un’azione che non dipende da lui. Se egli vuole l’amante, la uccide e uccide il meglio di sé. Occorre che lui si componga con quella forza che viene da fuori. In questo lavoro, la ragione ha il suo ruolo, ma non totale. Essa raccoglie dei dati, constata dei risultati e li compara tra loro. Ma è incapace di prevedere ciò che sarà dato di vivere. Essa prepara la decisione che ad essa sfugge. È al servizio di qualcosa che la supera. Quanto a colui che è il soggetto di tutto questo travaglio interiore, talora trasportato fuori di sé, tal’altra ricondotto a non sapere nulla, si apre un cammino verso l’incognito, fino al giorno in cui vi sarà l’evidenza. Ancora di questa evidenza donata, egli non ne può fare una proprietà, sotto pena di seccare la sorgente delle ispirazioni. Una nuova e incessante fedeltà è esigita da lui. Questa, una volta accettata, lo conduce a nuove avventure, nuove creazioni. Così di colui che è preso dallo Spirito Santo: «In quale via devo impegnarmi?», si domanda s. Ignazio. La sua vocazione che lo spinge in avanti, non è più dell’ordine di un programma da realizzare, ma di una invenzione perpetua nella fedeltà.

Tutti sono capaci di correre una simile avventura? Sembra che s. Ignazio abbia pensato di no. Con certuni, dice lui, «non bisogna impegnarli nell’elezione» (Es. Sp. 18). Anche coloro che manifestano una grande capacità naturale e dei grandi desideri spirituali potrebbero trovare in questa maniera di fare la deliberazione che li farà essere e agire, come gli altri di minori capacità, complicazioni e difficoltà.

La pace nell’accettazione di sé sembra essere la regola suprema. La maniera degli Esercizi per condurre all’elezione non è che un mezzo. Come i consigli prodigati a qualcuno che vorrebbe creare e che ama,ne approfitterà solo chi sarà atto a  sottomettersi. Ciò che è utile all’uno potrebbe essere nocivo ad un altro. «Ciascuno riceve da Dio il suo dono particolare, l’uno questo, l’altro quello» (1Cor 7,7). Ciò che permette agli uni e agli altri di ritrovarsi nell’umanità, non è l’identità delle vie seguite, ma il riconoscimento di tutte nell’unico amore del Cristo. La via che conviene a ciascuno è quella che gli fa acquistare la libertà di amare nella verità e di riconoscere in lui e negli altri l’universale grazia di Dio.

L’importate per ciascuno, nella scoperta della sua via, è di non rimanere a mezza pendenza, nell’incertezza e nel malcontento, ma di partire contento, avendo trovato «ciò che può aiutare per approfittare di più» (Es. Sp. 18). Efficacia, umiltà, pace sono legati insieme, per far sì che tutti non si conoscano più, nella loro stessa varietà, che come discepoli di Gesù.

Qualunque sia la conclusione a cui noi fossimo pervenuti alla fine di questa seconda tappa, lo scopo è raggiunto se ciascuno non ha l’amarezza di non trovarsi quale avrebbe voluto essere o, al contrario, rifiuta la tentazione di soddisfarsi dei risultati ottenuti. Noi sperimentiamo, nelle situazioni opposte, che compiamo la volontà di Dio solo nel superamento di ciò noi siamo e di ciò che noi viviamo. Noi ritroviamo, ma ad un grado più alto di profondità, il dilemma nel quale ci siamo fermati alla fine della prima tappa. O tu sei nella pace e allora rimani vigilante. O tu non ce l’hai, allora cerca di ritrovarla. Tu avanzi non accettando di fermarti su te stesso. S. Giovanni direbbe: O il tuo cuore ti condanna, allora pensa che  «Dio è più grande del tuo cuore e conosce ogni cosa». O tu non ti condanni, allora rivolgiti verso Dio, presso il quale tu hai libero accesso (1Gv 3,20-21). Per mezzo di Cristo entro nel mistero della Pasqua o del passaggio.

Torna all'indice         

 

TERZA TAPPA 

IL CRISTO VIVENTE NELLA CHIESA

Trovata noi l’attitudine che permette di fare l’elezione, possiamo fermarci lì? L’esperienza della vita dello Spirito non è può chiudersi sulla scoperta di un equilibrio interiore, foss’anche il più dinamico del mondo. L’uomo non si fa che per donarsi. Colui che vive dello Spirito, come colui che è preso da un’ispirazione del genio o dell’amore, non può fermarsi su di sé. Chi vuole salvare la propria vita, la perde (Gv 12,25).

Più la vita spirituale si approfondisce più essa chiama l’uomo fuori di se stesso per fargli raggiungere le dimensioni del Cristo universale. Lo scopo di questa ultima tappa è, a partire dall’elezione, di farci vivere questa dilatazione del cuore dell’uomo che si lascia prendere dal mistero di Cristo. La vita spirituale, come tutta la vita, si sviluppa nella tensione di questi due movimenti contrari, centripeto e centrifugo. Chiamando l’uomo al più profondo di se stesso, essa non è mai un’avventura solitaria.

Nella pratica, l’uomo prova questa legge di vita come una distorsione del suo essere. Da un lato, la preoccupazione di una vita personale lo ripiega su di sé e lo rende estraneo alla massa; dall’altra, la volontà di armonizzarsi con tutti lo conduce presto a non servire più nell’umanità come se fosse un’astrazione. Come essere insieme personale e universale? In teoria, l’accordo è possibile. In pratica, l’uomo si scontra, in uno o nell’altro caso, con il suo limite. Diciamo con il suo peccato. Solo il Cristo leva il limite e vive in Sé la riconciliazione. La meditazione di questi tre giorni me mette davanti questo. Il Cristo è insieme Colui che mi conosce nel più intimo del mio essere e colui che ritrovo in tutti gli uomini. Questo è il mistero del suo corpo. È identicamente il mistero della Chiesa.

In questo mistero, io sono insieme al termine e alla sorgente di tutta la vita spirituale. Al termine, perché tutti i miei sforzi vertono a farmi prendere la scelta del Cristo che va alla Passione per vivere fino alla fine l’amore del Padre. Alla sorgente, perché io non posso essere fedele a qualunque scelta e crescere, se non bevo già alle sorgenti vive del Corpo e Sangue di Cristo.

A questo stadio, io prendo ugualmente il doppio carattere di tutta la vita spirituale nel Cristo: circolare e sacramentale. Ad ogni stadio, sono presenti gli stessi elementi, ma ogni volta ad un grado di unità più profonda. Questa unità, si ottiene nel Corpo di Cristo dove la realtà terrestre diviene segno di un altro, invisibile, in cui tutte le cose trovano la loro coesione.

Il giorno che viene, introducendomi in questo mistero, mi fa accedere ad un nuovo stadio di orazione. Preghiera più semplice, più una, più contemplativa, più disinteressata e, di colpo, paradossalmente più vicina all’azione e al quotidiano.

Ciò rende di fatto più sconcertante e, qualche volta, più difficile. Essa esige una più totale perdita di sé, un raccoglimento più profondo e più tranquillo sul mistero di un altro. Qui ci si agita, ci si distrae o si tende a lasciare svanire la grazia. Ci è chiesto di provarci, al fine di trovare le meraviglie che noi uomini siamo chiamati a vivere e che, secondo la contemplazione finale degli Esercizi, ci fanno trovare Dio in tutte le cose (Es. Sp. 230-237).

Torna all'indice         

 

8° GIORNO

Il dono del Corpo: l’Eucaristia

LA FINALITÀ DELLA GIORNATA: UNITI A CRISTO

Tutto ciò che si vive nella vita umana, passa nel Cristo. Questo passaggio si realizza ogni giorno nell’Eucaristia, lo Spirito che ha santificato il corpo di Cristo e lo ha glorificato risuscitandolo, attraverso il dono che il Signore mi fa del suo corpo, trasforma noi membra, i nostri corpi, me nostre azioni e comunica loro la vita eterna. Nell’Eucaristia, io misuro la dimensione di tutta l’esistenza umana, mia e di tutti gli uomini. Non sono più io che vivo… (Gal 2,20). I vostri corpi sono membra del Cristo (1Cor 6,15). La Chiesa di costituisce dall’Eucaristia.

La preghiera di oggi mi invita a mettere i sacramento al suo posto nella mai vita spirituale. Per mezzo di esso, ciò che io faccio diventa l’occasione di un perpetuo scambio d’amore. io gli dono ciò che sono; Egli mi dona ciò che Lui è. Questo scambio si compie già nel sacramento della penitenza. Ma non è solamente il male che Gesù riprende per cambiarlo in bene, ci sono anche tutte le nostre potenze di vita per portarle in Lui al loro perfezionamento, ci sono anche quei carismi diversi che lo Spirito distribuisce per costituire la Chiesa.

Come è possibile che dopo tanti anni di vita cristiana, non abbiamo guadato l’Eucaristia che come una pratica o una devozione tra le altre? Essa è al centro di tutto. È l’Eucaristia che fa del cristiano un martire, cioè un uomo che testimonia, nel cuore della vita mortale che è la sua, la vita eterna che riceve nel Cristo.

Come pregare d avanti a questa meraviglia?

Nella tranquillità della sensibilità e dell’intelligenza, dove i gironi precedenti mi hanno stabilito, rimane solo da gustare l’amore del Signore. Perveniamo così, come dicono gli autori spirituali, al terzo stadio della vita spirituale: non è più questione che di unione. Venite e gustate! (Pr 9,5).

La preghiera, la sentiamo vita, scambio. Essa non è più contemplazione per ricevere la lezione di Nostro Signore, ma contemplazione per adorare,, ringraziare o non dire nulla. Non ha altro scopo che farci esistere in Lui e con Lui, o, meglio ancora di farci rallegrare di ciò che Lui è e di ciò che Lui fa. Il Signore esiste per me, per tutti, questo mi basta.

Davanti ad una tale preghiera, che talora noi sentiamo come troppo alta, quasi estasiata, noi non possiamo essere che i «piccoli poveri» di cui parla s. Ignazio nella contemplazione della Natività: egli è introdotto in una festa brillante e non sa come comportarsi. Noi non possiamo che offrire la nostra impotenza, i nostri servizi e i nostri desideri.

Il risultato dell’elezione era, diciamo, uscire da sé e accettare l’altro. Non è necessario attendere molto tempo per viverlo. Questa preghiera davanti all’Eucaristia ne è un’occasione.

Come è naturale, le suggestioni per la preghiera o le riflessioni si semplificano: esse non sono più che un commentario del mistero o del testo. Ciascuno, avendole lette, deve sentirsi libero di seguire nella sua preghiera i movimenti dello Spirito.

IN VISTA DELLA PREGHIERA DI QUESTO GIORNO

Conviene più che mai di scegliere un testo nella misura che può sostenere l’attenzione nella preghiera. Ciò che desideriamo è venire a gustare la Realtà nascosta sotto il segno. I testi concernenti l’Eucaristia ci aiutano a scoprire questa Realtà.

1. LA «GRANDE ENTRATA»: LA LAVANDA DEI PIEDI (Gv 13)

La solennità del tono introduce al gesto più semplice: da un lato l’evocazione del grande passaggio e della consumazione dell’amore, dall’altro la lavanda dei piedi. Nella prospettiva dell’opera che Gesù compie, il minimo gesto prende un significa immenso. «Comprendete voi ciò che vi ho fatto?». Così nei nostri rapporti umani la minima espressione di tenerezza.

Il Creatore si mette ai piedi della sua creatura per farle capire insieme come è amata e come ella deve amare. Gesù si mette ai piedi di ciascuno di noi. Pietro non può sopportarlo. Occorre pertanto che lo lasciamo fare per «comprendere più tardi». Ormai l’uomo non può più rifiutare se stesso  o il fratello.  Ciò che voi farete al più piccolo di questi piccoli, è a Me che lo fate (Mt 25,40). Ogni uomo diventa Gesù.

Per ritrovarlo, mentre che se ne va, senza che per il momento io possa seguirlo, ricevo il comandamento dell’amore fraterno. È il segno che gli appartengo e che Egli è con noi (vv. 33-35). La Lettera di Giovanni sviluppa questa presenza di Dio nell’amore che noi abbiamo gli uni gli altri (1Gv 4,12).

Pietro, sempre impaziente, rimane a lato del mistero. Si difende come indegno. «Lasciati fare» o piuttosto, «Lasciami fare», gli dice Gesù. «Tu comprenderai dopo». Sempre questo «dopo», che fa eco a «dietro di me». Pietro vorrebbe camminare davanti. Avrà anche pena ad ammettere questo quando Gesù gli dirà «tu mi seguirai più tardi» (v. 36). L’educazione di Pietro continua: deve lasciare che il suo maestro passi prima sulla via dell’amore. non siamo noi che abbiamo fatto Lui, ma è Lui che ha fatto noi. Egli ci ha amato per primo (1Gv 4,19).

Queste gesta e queste parole di amore si compiono e si fanno sentire in un’atmosfera da ultimo giudizio, Satana è già dentro il cuore di Giuda. Costui esce ed è notte. Mentre Gesù esulta: Il Figlio dell’uomo è stato glorificato. È il momento del grande confronto e della divisione definitiva. Gesù, immergendosi nel male, lo scaccia per sempre.

Altrettante azioni e sentimenti che mi fanno penetrare al cuore del mistero mi indicano in quale contesto Egli mi fare l’Eucaristia.

2. IL DONO DEL SUO CORPO (Lc 22,1-20)

S. Luca, raccontando i preparativi della cena pasquale, mi dona le dimensioni della Cena. Il verso dramma si produce nel cuore e nell’invisibile: Satana ne è il protagonista, il Principe di questo mondo che il Verbo fatto carne viene a cacciare fuori dal cuore della sua creatura. Soprattutto, Egli è l’opera della libertà. Gesù crea una messa in scena che manifesta che Egli non è sorpreso dagli avvenimenti: «Andate nella città, dice a Pietro e a Giovanni, e voi troverete…». Egli sa ciò che va a fare e ciò che succederà a Lui (Gv 18,4). Io dono la mia vita, quando voglio e la riprendo quando voglio (Gv 10,17-18). Questa vita Egli la riceve dal Padre e la rimette al Padre, l’ora è venuta.

È ben nella nostra storia umana che liberamente Egli si inserisce. Compie la Cena nell’anniversario della Pasqua e dell’Esodo. Questa inserzione dona un senso al suo gesto: L’Eucaristia è una Pasqua – un passaggio – e un ristoro dei pellegrini. Nel tempo che viviamo, il Corpo di Cristo è viatico di vita eterna. Egli viene nel tempo per condurci con Lui fino alla fine del tempo.

È per il suo Corpo donato che Gesù manifesta liberamente il suo amore. Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi. Ecco il mio corpo donato per voi (Lc 22,15-19). Il corpo è per l’uomo il mezzo per esprimere se stesso, ciò che lo definisce nell’universo e lo immerge in esso. Il corpo è soprattutto il mezzo per tradurre l’amore che porta nel cuore; amore che si esprime con i gesti, si consegna nell’unione e nella morte. Gesù dona il suo corpo per indicare e insieme realizzare tra noi e Lui uno scambio d’amore. Il corpo di Gesù non è più in Lui, ma in me; il mio corpo non è più in me, ma in Lui. Il dono che marito e moglie si fanno del loro corpo significa l’amore che è in loro ed è l’immagine più significativa di questo dono che il Cristo e ciascuno di noi ci facciamo l’un l’altro dei nostri corpi: «Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il culto spirituale » (Rm12,1). «Il vostro corpo è un tempio dello Spirito Santo… voi non appartenete a voi stessi. Glorificate Dio nel vostro corpo» (1Cor 6,19-20). E in questo scambio d’amore, Egli comunica ai nostri corpi mortali l’immortalità del Suo. «Egli non è stato abbandonato agli Inferi e la sua carne non ha visto la corruzione» (At 2,31). Egli dona il suo Corpo perché abbiamo la vita in Lui, quella del Padre e dello Spirito.

Questo dono è la Nuova Alleanza, la definitiva. Il suo sacrificio tende inutile tutti gli altri, quelli dei pagani, quelli dell’Antico Testamento e tutti quelli che gli uomini compissero per salvare l’umanità. Questi sono vani, perché incapaci di liberare dalla morte. Lui, offrendosi nell’amore e risuscitato dallo Spirito, entra per mezzo del suo Sangue «nel cielo, davanti al volto di Dio» (Eb 8-9). Il suo sacrificio è l’unico, perché è un sacrificio di vittoria. Se noi accettiamo con Lui di offrire nell’amore i nostri corpi mortali, è perché per Lui noi siamo rivestiti di immortalità. Un senso nuovo è dato ai sacrifici degli uomini per mezzo della croce. Consacrando il Corpo di Cristo e annunciandone la sua morte, noi entriamo nella sua vittoria.

3. IL MEMORIALE: LA FRAZIONE DEL PANE (At 2,42)
                                 E LA CENA DEL SIGNORE (1Cor 11,17-34)

Questo dono ci è presente anche nella più piccola riunione eucaristica, dove i discepoli di Gesù si ritrovano per la frazione del pane. Che ne abbiamo fatto della Cena del Signore? Una pratica, un rito formale, un pasto ordinario, l’occasione di polemiche… È da rimproverare la Chiesa di Dio, diceva Paolo. Voi portate le vostre divisioni e vostre ingiustizie. Non avete le vostre case per mangiare e bere? Il nostro pasto comune, è la Cena del Signore. Ogni volta che noi lo prendiamo, noi annunciamo la sua morte, finché Egli venga. La nostra riunione oggi si riferisce al quel giorno quando il Signore ha donato il suo corpo e il suo sangue, nello stesso tempo annuncia il giorno in cui tutto il suo Corpo mistico sarà riunito in Lui. Triplice dimensione dell’Eucaristia: l’oggi, la morte di Gesù, il giorno della sua venuta. Il Signore è al cuore di questi suoi discepoli radunati. Senza dubbio, è inevitabile che tra essi vi sia qualche scissione. Quale scandalo pertanto che degrada il dono del Signore!

La Cena del Signore, come la sua morte, costituisce un vero giudizio. Ciascuno manifesta di quale spirito è. Mangia e beve la propria condanna se non discerne il suo corpo. Discernere il corpo è insieme riconoscere il Capo e le membra, Colui che ci riunisce e coloro che sono riuniti. Chi non riconosce né l’uno né l’altro nella frazione del pane, risponde del corpo e del  sangue del Signore. Se quando tu vieni all’altare ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, va dapprima a riconciliarti con lui (Mt 5,23-25). Nella riunione cristiana, vanno di pari l’insegnamento degli apostoli, la comunione fraterna, la frazione del pane e la preghiera (At 2,42).

Così la Chiesa si forma per mezzo dell’Eucaristia. tutto il contesto del capitolo ai Corinzi, dove Paolo parla della Cena del Signore, è un contesto ecclesiale. Ciò che fonda la Chiesa è la fede in un unico Signore e non l’attaccamento a Paolo, a Cefa o a Apollo. Ciò che la manifesta, è la vita dello Spirito nella varietà dei carismi e l’unità nella carità. È a partire da questo che ciascuno risolve le questioni che possono esserci nel corso dell’esistenza della comunità: scandalo di incesto, ricorso ai tribunali pagani, modo di vivere nel matrimonio, verginità, condizioni sociali, carni offerte agli idoli, ordine nelle assemblee…

Ciò che noi cerchiamo ogni volta che ci riuniamo, è di crescere nella vita dello Spirito le cui dimensioni ci sono donate nella Cena del Signore. È ancora il corpo del Signore che fonda la nostra fede nella risurrezione universale (1Cor 15).

Il senso della riunione eucaristica, tale come Paolo l’espone nella prima lettera ai Corinzi, rettifica i diversi degradi che possono investire il culto cristiano. Questo non può non essere che un culto spirituale, descritto in Rm 12, che afferra tutta la persona e la espande all’amore universale. Per mezzo del corpo di Cristo, è venuta l’ora dove «i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4,23).

4. LA CARNE E LO SPIRITO (Gv 6)

La meditazione del capitolo 6 di s. Giovanni è un altro modo di penetrare le ricchezza del corpo e sangue del Cristo. A questo proposito, conviene ricordarsi questo consiglio: non cerchiamo in queste parole un senso logico, lasciamoci penetrare da esse perché appaia la loro unità, che è spirituale.

Questo corpo che è donato e di cui i Giudei credono fosse nato da Giuseppe, è la prova dello Spirito. È per questo che esso dona la vita al mondo. Esso ha una tale virtù per il mistero della sua nascita: nato dalla Vergine per opera dello Spirito. Ogni l’uomo che nasce viene al mondo dal seme umano. L’uomo mortale non può comunicare che ciò che ha: una vita segnata dalla morte. Nel ciclo delle generazioni mortali, appare questa carne che il Verbo ha preso nella libertà dell’amore. Così questa carne che lo rende simile a noi porta alla nostra la vita immortale. Chi mangia la mia carne vivrà per sempre. Lo Spirito è in essa.

Il Signore, Lui stesso è Spirito (2Cor 3,17).

Questa vita è ricevuta nella fede. Come questa carne che ci dona fu concepita nella fede di Maria, così essa produce per la fede il suo effetto nei nostri esseri. L’opera di Dio è che voi crediate in Colui che Egli ha inviato… Nessuno viene a Me, se il Padre non l’attira. L’uomo non raggiunge Dio che nella carne del suo Figlio. Ma questa carne ci comunica la vita del Padre solo se è riconosciuta nello Spirito. La carne non serve a nulla, è lo Spirito che vivifica. I giudei non conoscono che la carne del figlio di Giuseppe e il linguaggio del Signore li scandalizza. Solo coloro che ascoltano l’insegnamento del Padre riconoscono insieme la carne e lo Spirito. 

Questa carne produce in loro la sua grazia: è un segno per unirsi allo Spirito. La vita del Padre loro è comunicata. Come Io vivo per il Padre, così anche chi riceve la mia carne vivrà per Me. Si opera in lui una assimilazione divina, una trasfigurazione del suo essere mortale nel Cristo. La vita del Padre gli viene donata, comunicata per mezzo del Figlio e vissuta nello Spirito. Questa vita è la vita del mondo. Per mezzo della sua carne glorificata e donata, il Cristo trascina dietro a Sé l’universo. Che direte voi quando vedrete il Figlio dell’uomo salire là dove era da prima?

Chi può sopportare tali affermazioni? Questo linguaggio è troppo duro… Questo scambio compiuto nella carne del Verbo Incarnato è uno scandalo per lo spirito: Dio nella carne e dimorante tra noi. È lo scandalo del Verbo Incarnato continua: «Noi ti sentiremo un’altra volta» (At 17,32). Solamente la fede dei piccoli ai quali il Padre si degna rivelarsi (Lc 10,21), passa ogni limite e accoglie con Pietro il dono di Dio: Da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna.

5. IL DISCORSO DOPO LA CENA (Gv 14-17)

È nell’irradiamento del corpo di cristo che conviene leggere «tutte le parole d’amore che vi sono nella Scrittura» (Bossuet). Le più ardenti sono quelli che Giovanni ci riporta dopo l’istituzione dell’Eucaristia. Esse possono servire per accompagnare il rendimento di grazie nella preghiera di questo giorno.

Queste misteriose parole del Signore, possiamo lasciarle cadere le une dopo le altre nel nostro cuore, seguendo i consigli dati prima sulla maniera di pregare: un corpo attento rilassato, il corpo raccolto su se stesso e al ritmo del respiro. Le parole del Signore, lette nella fede, ci uniscono a Lui.

È in questa stessa maniera che noi possiamo riprendere i Salmi e cantarli davanti all’Eucaristia: Salmi della storia di Israele o del desiderio di Dio o della creazione. La liturgia ci invita incessantemente a fare così.

Questa maniera di pregare ci educa alla gratuità nella preghiera. Lo spirito preoccupato di trarre profitto da tutto, non ne ritiene nulla, a meno che accetti di esistere davanti a Dio e di ricevere il suo mistero, secondo la misura della grazia che gli è presentemente comunicata.

Torna all'indice         

 

 

9° GIORNO

Alle sorgenti della persona e della vita:
la Passione

LA FINALITÀ DELLA GIORNATA: SENSO DELLA VITA E DELLA MORTE

Nella contemplazione della Passione, noi raggiungiamo il vertice di tutto lo sforzo spirituale: raggiungere Gesù nell’atto di libertà con cui consegna la propria vita e la propria morte per compiere la volontà del Padre, la glorificazione nel corpo di tutta l’umanità. Il battesimo ci impegna in questo sforzo, che non è fai esaurito.

In Lui la nostra morte quotidiana trova un senso, diventando a sua volta un atto di libertà: Io dono la mia vita quando voglio; Io la riprendo, quando lo voglio (Gv 10,17-18). Poiché ha vissuto liberamente nell’amore, senza rispondere con odio a coloro che l’uccidevano, con questa morte riporta la vittoria sul mondo e sul peccato. La vera vittoria consiste nel subire la morte nella libertà e nell’amore.: «Morire per gli ingiusti», a chi lo può? Uno solo, Colui che è morto per noi, allorché noi non avevamo nessuna giustizia (Rm 5,7-8). Per la sua morte comincia la nostra liberazione: «Divenuto uno stesso essere con Lui per una morte simile alla sua», «noi viviamo già una vita nuova» (Rm 6,1-11). La meditazione della Passione, nello stesso tempo che rischiara la vita e la morte, illumina anche le nostre preoccupazioni umane. Noi possiamo accoglierle alla sua luce, quelle in particolare che riguardano la nostra fede. Questa meditazione ci fa accettare non solo di soffrire per la Chiesa, ma di soffrire anche per mezzo della Chiesa. Essa raggiunge le radici delle nostre tentazioni di trionfalismo o di scoraggiamento, ci fa superare l’amore troppo attaccato che portiamo anche alle cose più sante, alle nostre opere apostoliche, le nostre comunità, la Chiesa. Davanti ad essa, l’orgoglio, l’amore di me stesso crolla e non resta altro che l’amore del Giusto sofferente che si dona nella verità.

Molte questioni sul mondo e sulla Chiesa si dissipano davanti alla luce che irradia dalla croce. Niente viene negato della sofferenza umana, ma tutto è portato al di là. Nonostante che veniamo sopraffatti, la Passione rimane una scuola di vita.

In fondo, noi proviamo nella preghiera di ritrovare ciò che era per i primi cristiani: la loro fede scopriva la croce gloriosa. In essa, il discepolo di Gesù pone la forza e la gioia della testimonianza. Non perché pretende da se stesso fare qualcosa per il Cristo, ma si riconosce scelto dal suo Maestro per manifestare nella sua carne mortale la potenza dello Spirito che dapprima ha irradiato nella carne del Signore, messo a morte per gli uomini e glorificato dallo Spirito.

LA PREGHIERA DAVANTI ALLA PASSIONE

Questa preghiera come quella del peccatore, non può farsi che nelle profondità. Altrimenti, come in quella si rischia di rimanere al livello della legge e del fatto morale, rischia di non essere che una pietà sentimentale, una ricerca di spiegazioni razionali, una preoccupazione di imitazione. Come la meditazione del peccato, essa è fruttuosa solo in quanto ci fa incontrare Gesù Cristo per andare con Lui alle radici dell’essere e dell’amore.

Per arrivare a queste profondità, essa chiede da parte nostra una certa continuità umana d’esistenza e una certa condizione del nostro essere. Solamente un essere abituato all’attenzione accetta di non fuggire nelle facili emozioni o nelle arguzie intellettuali. Egli è presente a ciò che è.

Come descrivere questa presenza? L’oggetto della nostra preghiera ci supera talmente. Noi potremmo farlo, dicendo che è simile al silenzio che custodiamo nella camera di un morente. A meno di aver perduto il senno, noi taciamo: colui che sta morendo ha dei segreti che noi non abbiamo. O ancora, essa rassomiglia allo stupore del bambino messo per la prima volta nella sua vita davanti al dolore dei genitori: coloro che egli ama di più al mondo sono in un universo che egli non può raggiungere, chiude i suoi occhi, accarezza suo padre e sua madre. Sentire una mano di bimbo su di loro, consola per un istante i genitori. O ancora la maniera di leggere la Passione potrebbe rassomigliare a quando, da soli o insieme, leggiamo una lettera che racconta gli ultimi istanti di una persona a noi cara. Lo sguardo distratto, futile, il cuore secco o pieno di sé non può sopportare questa presenza.

Per suscitare questa attenzione delicata, è bene rileggere i diversi avvisi dati nel corso di questi Dieci Giorni in vista della preghiera. Essi troveranno più che mai qui la loro applicazione.

In pratica, è impossibile di esporre la materia in una giornata. Uno dei lati positivi del Mese Ignaziano è di poter avere il tempo di attardarsi e ritornare. Di tutta la materia, secondo il tempo che disponiamo, occorre adattarsi. Così noi potremmo rileggere una ad una le quattro Passioni secondo i vari evangelisti. Oppure, secondo la maniera della via crucis o applicando le categoria dateci da s. Ignazio (considerare ciò che il Signore vuole soffrire nella sua umanità, come la divinità si nasconda, come Egli soffra lì per i miei peccati: Es. Sp. 195-197), rimanere su una scena, su un’altra… Fra poco daremo qualche esempi odi questo modo di fare. Comunque è a ciascuno che tocca riprendere questi punti di partenza senza appesantirsi con le riflessioni, ma lasciandosi penetrare dalla persona di Gesù.

Senza dimenticare che è sempre utile ritornare sulle meditazioni già fatte… S. Ignazio, a proposito della Passione insiste molto su questo punto (Es. Sp. 209).

 

LA DIFFICOLTÀ: IL MURO

Sovente, a questo momento dell’esperienza, l’esercitante prova delle difficoltà che lo sconcertano: distrazioni, aridità, impossibilità a fissare l’attenzione, impressione di perdere il tempo. Eppure, capisce le ricchezze nascoste in questa preghiera. Non vorrebbe abbandonarla, ma ne vorrebbe un’altra. È come un uomo che assiste impotente e insensibile ad uno spettacolo orribile.

È possibile, se tu provi qualche malessere simile, che stai per raccogliere i frutti della preghiera. Il tuo sentimento non è né di esaltazione – quelle emozioni di cui sentireste subito la falsità – né di scoraggiamento – tu sei sicuro di essere oggetto di un amore infinito. Ciò di cui tu soffri, è di amare così poco e così male, di essere davanti ad un muro che vi nasconde il mistero e non potete tornare indietro. Questa sofferenza ci situa, infatti, nella nostra verità davanti a Cristo: ricevendo tutto da Lui e impotenti da noi stessi a riconoscere la pienezza dei suoi doni. Occorrerà ricevere dallo Spirito «la forza di comprendere» (Ef 3,18).

Noi siamo messi davanti alla vera difficoltà della preghiera, quella del muro dell’invisibile, questo muro che noi non superiamo che appellandoci a Dio, quando Egli vorrà. Le altre difficoltà potranno essere risolte. Esse vengono dall’idea falsa o imperfetta che noi ci facciamo della preghiera. Facciamo luce e la difficoltà sarà tolta. Quella che noi sentiamo qui, non lo sarà, perché essa è la preghiera stessa. Vero purgatorio dove l’uomo lotta con Dio per essere preso e trasformato da Lui. La Passione ci fa dimorare davanti a questo muro, fino a che Dio, in un istante, non faccia cadere l’ostacolo e la gioia della sua presenza ci consoli di tanti anni di attesa impotente.

Questa difficoltà, la sentiamo soprattutto davanti alla Passione per una doppia ragione. Dapprima a causa dell’oggetto della preghiera. Questa non ci offre più affatto dei riferimenti a noi stessi, come quella portata avanti nei giorni precedenti. Preghiera più disinteressata, poiché il Signore occupa o dovrebbe occupare tutto il campo della coscienza, ma di colpo più austera. Il secondo motivo è l’unità dell’atmosfera richiesta da questa preghiera: essa è così delicata che un minimo soffio distruttivo la comprometterebbe. Occorre davanti ad essa essere veramente poveri.

Questo sembrerebbe troppo semplice a chi non fa che ragionare, ma liberante a chi accetta di vivere. In effetti, questi misteri non si sviluppano che vivendoli. Essi fanno parte dell’avventura della fede che non ha mai finito di essere vissuta, fin tanto che noi siamo sulla terra. Il Cristo ha messo tutta la sua vita per andare alla sua Passione e «entrarvi liberamente». Noi non abbiamo altro mezzo per comprendere la Passione del Cristo che di continuarla nella nostra vita e nella nostra morte. Tutto si spiega, quando tutto è consumato. Basta così.

IN VISTA DELLA PREGHIERA DI QUESTO GIORNO

La cosa più semplice è, evidentemente, lasciarsi penetrare da una lettura lenta del racconto della Passione, completo o in parte, come abbiamo già spiegato. I testi o i pensieri seguenti potranno nutrire ancor di più la preghiera.

1. LA PREGHIERA DEL GIUSTO SOFFERENTE

Gesù riprende nella sua preghiera la supplica di tutti gli uomini vittime dell’ingiustizia e della sofferenza. Questa supplica è espressa sotto tutti i cieli e in tutte le epoche. Essa trova una delle sue migliori espressioni nei testi dell’AT che, in un modo o in un altro, trattano della sofferenza degli uomini. È sufficiente citarne qualcuno:

– Il sangue di Abele    Gen 4,8

– La storia di Giuseppe    Gen 37,50

– Il lungo lamento di Giobbe    Gb

– I giusti e gli empi davanti al giudizio di Dio    Sap 2-5

– Il Servo umiliato e sofferente (soprattutto)    Is 52,13-53,12

– Le persecuzioni contro Geremia e la sua fedeltà a Dio.     Ger 36-45

– La tragedia dell’esilio    Lam

– Il nugolo di testimoni di cui il capo è Cristo    Eb 11-12,17

Naturalmente, come fa la tradizione della Chiesa e con essa la Liturgia, possiamo riprendere i Salmi del Giusto perseguitato: Sal 22(21), 38(37), da 69(68) a 71(70), 74(73). Le parole del Salmista, messe nella bocca di Gesù in croce acquistano una stupefacente risonanza. Anche gli appelli alla vendetta di chi non ne può più sotto la prepotenza e l’ingiustizia diventano un’espressione del pianto degli uomini di tutti i tempi. Secondo il consiglio di s. Agostino spighiamo questi Salmi: Quando comincia a parlare, comprendiamo che siamo noi là.

2. COME GESÙ GUARDA LA SUA MORTE (Gv 12 e la Passione secondo i Sinottici)

Gesù entra nella sua morte con tutta la sua libertà e la sua presenza di spirito (Newman, La sofferenza morale di Gesù). Egli mostra riconoscenza al gesto della donna che ungendo il suo corpo anticipa la sua morte (Mc 14,6-9). Egli entra così nella sua morte da Messia atteso, il Re d’Israele: accetta l’entrata trionfante a Gerusalemme.

Ma è in un’altra maniera che Egli glorifica il Padre e attira gli uomini a Lui. Come il Servo sofferente, è attraverso la morte accettata per amore del Padre che egli diventa fecondo ed entra nella vita. È su questa via che Egli trascina i suoi. Questa ora lo fa fremere, ma Egli si rimette al Padre manifestato nella Passione.

I Sinottici si attardano in un altro modo sulle disposizioni del Signore davanti alla morte. Sì, ciò era possibile! Gesù è solo, consegnato all’angoscia. È l’ora del principe delle tenebre. Gesù, prima di pregare, è affranto, si rimette alla volontà del Padre, mentre che i discepoli sconcertati omettono di pregare e per il momento rimangono estranei al mistero: «Gesù è solo sulla terra, non solo perché nessuno condivide la sua pena, ma anche perché nessuno la conosce: il cielo e Lui sono soli in questa conoscenza» (Pascal).

Gesù davanti a suo Padre esce dall’agonia, sapendo ciò che va a fare. La sua Passione è un atto (Newman): «Prima di entrare liberamente nella sua Passione», dice la seconda preghiera eucaristica.

Così, davanti alla morte, Gesù non si impietosisce, non ragiona. Egli ci entra dentro. Sente il male tale qual è, in una sofferenza reale, ma la giustizia che cerca ha un volto, quello del Padre. Essa consiste nel far vedere in tutto quel volto di amore: Egli non proferisce una parola di odio, perfetto come il Padre celeste è perfetto. Per questo Egli l’affronta in piedi.

 

3. COME GLI UOMINI HANNO VISSUTO LA PASSIONE:
                             LA LUCE SUL DRAMMA UNIVERSALE

Noi possiamo rivivere la Passione, attraverso i suoi diversi protagonisti, amici, nemici, indifferenti, testimoni visibili e invisibili. La loro reazione rassomiglia a quella degli uomini di tutti i tempi davanti alla sofferenza del giusto e dell’innocente. Leggere la Passione, è istruirsi per la vita.

C’è prima di tutto il Potere. Gesù compare a turno davanti ai suoi detentori. Il Potere religioso: il Sommi Sacerdote e il Sinedrio (Mt 26,57-67). Gesù dice quello che ha da dire, poi tace. Condannato da coloro che rappresentano Dio sulla terra, Egli non si scandalizza né pronuncia una parola amara. Gesù è bello nel suo silenzio. Ma chi comprende la sua bellezza? – Davanti alla Potere politico e pagano (Gv 18,28-19,16). Gesù parla il linguaggio della coscienza e della verità, poi rimane nuovamente nel silenzio, si pone in un ordine in cui coloro che lo giudicano non accedono. In Lui, il mondo presente è già giudicato e i muri di separazione che dividono giudei e pagani crollano. Tutti devono riconoscere il bisogno che hanno di un unico Salvatore. Aspettando, Egli si reca dal Potere del piace e del denaro: compara davanti ad Erode (Lc 23,7-12). Due mondi uno davanti all’altro: quello di Gesù, quello di Erode, non possono incontrarsi. La vera grandezza è dalla parte di Gesù. Ma il ricco, burlone e sciocco, non la vede. La folla cresce davanti a Gesù, le sue vigliaccherie e la sua incostanza. È il giudizio del popolo (Mc 15,6-15). Gesù diventa un burattino nelle mani di una moltitudine. Tanti altri, prima e dopo di Lui, conoscono una simile sorte. «Ho portato le nostre sofferenze» (Is 53,4). Non gli manca nulla.

Come reagiscono gli amici di Gesù, davanti alla sua Passione? Voi sarete tutti scandalizzati di Me, aveva detto loro Gesù (Mc 14,27). Questo scandalo si esprime nel rinnegamento di Pietro (Lc 22,54-62). Pietro è pronto a tutto, anche a donare la sua vita, ma non a ciò che sta succedendo. Egli non può comprendere le parole di Gesù: Rimetti la tua spada nel fodero (Mt 26,52)… Non potrei pregare il Padre mio? (Mt 26,53), soprattutto questa frase: Lasciate che costoro se ne vadano (Gv 18,8), come se Gesù volesse andare solo alla sua Passione. È il passaggio al «vaglio» (Lc 22,31). Tutti i sentimenti si scontrano nell’anima di Pietro. Arriva la prima serva, a più forte ragione un gruppo di uomini, gli fanno dire: Io non conosco quest’uomo (Mt 26,72). «Tu sei il figlio di Dio» (Mt 16,16) aveva detto prima. Non può riconoscerlo al colmo delle umiliazioni. Questo non ti succederà mai! (Mt 16,22). Solo lo sguardo di Gesù che passa glielo fa ricordare e lo farà piangere (Lc 22,61-62). Era dunque vero! Un velo si schiude, un mondo nuovo appare. Anche noi abbiamo l’esperienza di tali crisi e di tali svelamenti.

Chi guarderà la Passione con gli occhi di Maria, potrà guardare senza sconvolgersi il male del mondo e «completare nella propria carne ciò che manca alla Passione del Cristo» (Col 1,24). Maria, dopo l’Annunciazione, passando per lo smarrimento al Tempio, per Cana, è cresciuta nell’oscurità della fede. Ella è pronta a riconoscere le cose del Padre, l’ora. Maria sta in piedi sotto la croce. Insieme a Gesù, Lei va in fondo al male, e nella sua purezza lo dissolve nella sofferenza che prova. Nuova Eva dietro il Nuovo Adamo. Non fanno che uno insieme, un solo cuore con Lui, Maria può, con Gesù, aprire il suo cuore all’amore universale. Ecco tua madre… Ecco tuo figlio… (Gv 19,26-27). Gesù per Lei, è tutta l’umanità che in Gesù trova la salvezza. Ormai non è più possibile amarlo senza amare con Lui tutti gli uomini che Egli ama. In Maria comincia la Chiesa, e la educazione di tutti gli uomini alla vita e all’amore.

 

4. IL GRANDE TESTIMONE: IL PADRE

Il Padre è sempre con Me. Gesù non cessa di ripetere questa frase in tutto il Vangelo di Giovanni. Lo ridice più che mai nella sua Passione. Posso capire il mistero tra il Padre e il Figlio, mentre gli uomini scatenano su Gesù i loro tormenti.

Tuttavia, che fa il Padre nella sofferenza del Figlio? Tace, come Dio tace davanti al male del mondo. Non lo sopprime, si rende presente con il suo Figlio e lo dissolve nell’amore.

Quando io guardo Gesù nella sua Passione, Dio sembra assente. Perché Dio non è nel male, nella sofferenza, nella morte. Dio nell’assenza di Dio, Gesù parla a suo Padre come se fosse lontano: Perché mi hai abbandonato? (Mc 15,34). Tuttavia, in questa discesa al cuore del male – «discese agli inferi» – Gesù rende Dio al mondo e lo manifesta. Il segno del peccato, – l’odio, la divisione, la morte – lo vive nell’amore, senza odio. Portando la maledizione, Egli la toglie. Si rivela in Lui la vittoria dell’amore e il mondo in Lui può nuovamente ricevere lo Spirito.

Così il volto di Dio è svelato per mezzo della Passione, e la morte di Cristo diviene la rivelazione dei Tre. Il Padre mostra in Gesù il volto della sua misericordia. Il sangue di Gesù diviene il testimone (1Gv 5,6-8) dell’amore. il costato aperto lascia scolare le ricchezze dello Spirito, la Chiesa e i sacramenti. L’universo, impazzito per una volontà malsana, riprende il suo corso nel cuore di ciascuno e dell’umanità, per mezzo della croce tutte le creature risalgono a Dio.

Davanti alla croce noi facciamo salire al Padre la preghiera per il mondo intero (Liturgia del Venerdì Santo). questa preghiera è certa di essere esaudita: «Tutto ciò che chiederete nel mio nome, io lo farò» (Gv 14,13-14)

5. LA RIVELAZIONE DEL MISTERO (Ef 3,14-21)

Perché è successo questo? Come domandare al Padre, al Figlio e allo Spirito perché Loro sono Tre. Noi siamo davanti al mistero:  l’amore spiega tutto, ma non ha altra ragione che se stesso.

Per entrare nel mistero, occorre «riceverne la forza dall’alto» (Lc 24,49). Perché la croce illumina tutta la realtà, nella sua «larghezza, lunghezza, altezza e profondità». Per mezzo suo noi conosciamo «l’amore del Cristo che sorpassa tutta la conoscenza». Per essa noi entriamo «nella pienezza di Dio» (Ef 3,18-19). La croce «attira tutto» a sé (Gv 13,12).

La sua azione continua in noi «con tutti i santi». Essa è la sorgente zampillante dell’amore fraterno, di tutta azione, di tutta la sofferenza nella Chiesa, il cristiano, illuminato da lei, lascia l’amore operare in lui e, mentre gli uomini lo rifiutano, con Pietro che è il più scandalizzato, egli «rimette la sua anima al Creatore fedele» (1Pt 4,12-19). Il linguaggio della croce gli diventa sapienza di vita. (1Cor 1,17-2,16)

Bisogna riconoscere la croce gloriosa che conduce tutti gli sforzi del discernimento. Noi comprendiamo che sia bene ritornare incessantemente alla meditazione della Passione. «Mi ricorderò spesso le pene, le fatiche e i dolori che il Cristo nostro Signore ha sopportato dall’istante della sua nascita fino al mistero della Passione dove io sono attualmente» (Es. Sp. 206)•

Torna all'indice         

10° GIORNO

L’uomo nuovo: Cristo Risorto

LA FINALITÀ DELLA GIORNATA: UN PASSAGGIO

Perché la croce vittoriosa? Non per se stessa, ma per Colui che l’ha portata. Gesù vi ha riportato la vittoria sull’odio, sulla morte. Egli ha vinto tutto, anche la morte, nell’amore. Vivendo l’amore fino alla fine (Gv 13,1), Gesù raggiunge il Padre nel male dove era sprofondato. Il primo tra gli uomini, Egli passa dalla morte alla vita perché ha amato. L’amore solo, quando si chiama Dio fatto uomo, trionfa di tutto. Allora la gloria trasfigura la sua umanità. Dopo di Lui, noi siamo con Lui trasformati: passati dalla morte alla vita perché noi ci amiamo (1Gv 3,14). La via nuova è la via dell’amore e della giustizia. Essa è eterna.

Vivendo nel Cristo risuscitato, io posso riprendere la mia vita e il mio posto nel mondo, senza impantanarmi, senza condurmi a rovina, ma alla trasfigurazione che mi attende. Ho scoperto in Gesù Risorto la sorgente della vera libertà, quella che consiste nell’amare Dio in tutte le cose. Il Cristo Risorto diviene l’uomo perfetto e in Lui, tutta l’umanità è condotta a Dio.

Nel Cristo Risorto, finisce il suo movimento. La Pasqua perfeziona il movimento di uscita di sé avviato dopo l’inizio degli Esercizi. O meglio, il termine raggiunge l’inizio, rivelandoci ciò che conteneva. Il Cristo allora ci era apparso come Colui che aveva vissuto nella sua umanità il ritorno di tutte le cose a Dio in una vera libertà. Noi ci riscopriamo in Lui, facendo per mezzo suo, attraverso la croce, risalire tutte le cose verso Dio. Il movimento dello Spirito da Lui a noi continua. Attraverso la Chiesa presente, il Cristo fa entrare nella gloria coloro che gli appartengono.

Gioia, unità, spirito apostolico, amore fraterno, senso della Chiesa, questi sono i frutti di questa giornata. Essa ci insegna un po’ di più questa nuova maniera di vivere che consiste nel trovare Dio in tutte le cose e a compierle nel suo amore.

LA PREGHIERA DAVANTI AL CRISTO RISORTO

Essa ci mette davanti il rischio di ogni fine ritiro: diversi rammarichi, motivazioni per partire prima della fine, nervosismo, paura della vita che ritorna, inquietudine sulla futura fedeltà. Chi crede che il ritiro l’ha trasformato percepisce presto il contrario per la maniera che vive questo ultimo giorno. Felice esperienza che gli leva le sue ultime illusioni.

In realtà, non partiamo come degli studenti in vacanza. Il passaggio al quotidiano deve operarsi nella fede nel modo più naturale possibile. È il momento di vivere questo realismo che il segno del passaggio a una fede adulta. Dio non è più da cercare nelle rappresentazioni delle immagini o dei sentimenti, ma nella presenza più intensa a ciò che noi dobbiamo vivere. Noi abbiamo evocato il passaggio dal piano intellettuale, psicologico o morale al piano della fede e dello Spirito. Non c’è bisogno di aspettare di essere partiti per operarlo. Questa ultima giornata ci fornisce l’occasione. Noi possiamo vivere questa consegna di noi stessi e, sotto le sue forme più svariate, la nostra elezione.

La qualità della preghiera è nella continuazione dei due giorni precedenti. Essa esige sempre un grande silenzio interiore, nel mezzo delle preoccupazioni che già ci assalgano. La sua gioia non è l’esuberanza di un temperamento allegro, ma si radica in una presenza più sentita dello Spirito Santo nei nostri cuori.

La gioia è richiesta come un frutto dello Spirito. Una delle più grandi grazie che un uomo possa ottenere in questo mondo è di scoprire che, nell’unico desiderio del Cristo, può trovare Dio in tutte le circostanze della sua vita e vivere serenamente dappertutto. Ripetete incessantemente tutto il passaggio di Fil 4,4-9 e meditatelo.

Ugualmente, se dopo ci è dato del tempo, facciamo di seguito, la grande «contemplazione per ottenere l’amore di Dio» che conviene in modo speciale a questo giorno di partenza. Essa è quella di tutta la nostra vita: l’opera di Dio contemplata nel Cristo Risorto al fine di offrirci maggiormente al suo movimento di vita. Le scene della risurrezione e dell’Ascensione ci conducono alla Pentecoste dove la forza dello Spirito ci invia a predicare il Vangelo a tutte le creature. Esse sono la preghiera di tutti i giorni nella Chiesa.

IL RITORNO ALL’INIZIO

Il primo giorno abbiamo evocato la creazione dell’uomo a immagine di Dio. È solo nel Cristo Risorto che noi prendiamo il senso di questa espressione, non per fermarci nella sua contemplazione, ma per essere trasformati di giorno in giorno in questa medesima immagine, sotto l’azione del Signore che è Spirito (2Cor 3,18)

1. L’UOMO NUOVO

L’uomo comincia con Gesù risorto. L’uomo esce in Lui dalle mani del Creatore. Adamo raggiunge il Cristo venuto a prenderlo negli Inferi. IL Paradiso che noi situiamo all’origine è in avanti. Occorre farlo con Lui. È così che Pietro ce lo fa concepire il mattino di Pentecoste (At 2): Gesù realizza la speranza annunciata agli avi, Egli è la consumazione, l’immortalità. In Lui comincia un mondo nuovo. La sua carne glorificata diviene il centro di tutta la sua vita nello Spirito.

La Risurrezione è la sommità che illumina tutto, la storia, la Scrittura. È a partire da essa che noi leggiamo l’una e l’altra, illuminate per la grazia della Pasqua, dappertutto appare il Cristo. «Egli aprì il loro spirito all’intelligenza delle Scritture» (Lc 24,45). L’attitudine del giusto e del povero che furono le sue fino alla croce, trovano nella Risurrezione il loro perfezionamento, Egli le continua in noi nella Chiesa. La sua vita di risorto è in noi una vita nella giustizia.

Essa è anche una presenza nuova non sensibile agli occhi della carne. Il mondo non mi vedrà, ma voi mi vedrete (Gv b14,19). Parole essenziali che rivelano il segreto della vita nuova: la comunione di vita nello Spirito. Noi siamo a Lui presenti perché viviamo il suo comandamento dell’amore. nuova parentela secondo il cuore e la libertà. Questa presenza ci è donata all’interno di questo mondo che scorre. Questa «gloria» comincia all’interno della croce, come s. Giovanni fa capire, ed essa produce in coloro che ne sono presi, come un Esodo e una Trasfigurazione.

 

2. LA CHIESA

Essa nasce con il Cristo Risorto come i luogo dell’amore nella fede in Gesù. In essa, si realizza l’incontro delle aspirazioni dell’uomo verso l’amore e la risposta del Creatore a questa aspirazione, incontro di due movimenti, ascendente e discendente, che si fa nel Cristo, uomo e Dio, tutto insieme.

Il Cristo Risorto vivente in essa e cercato da noi nell’Eucaristia ci custodisce insieme da una fedeltà incostante che impedisce di avanzare e da un adattamento agitato che non è altro che paura di non riuscire. La Chiesa non è una società di puri, fissati della perfezione che impone a tutti i suoi precetti. Essa è il luogo del passaggio dove, attraverso degli uomini peccatori, noi scopriamo il volto di Cristo: Ciò che avrete fatto al più piccolo di questi fratelli… (Mt 25,40) Chi ascolta voi, ascolta Me (Lc 10,16). Il più povero degli uomini, come colui che detiene l’autorità diventa il Cristo. Nella fede le opposizioni cominciano a crollare. In ciascuno di noi, la Chiesa è in cammino, non verso l’età dell’oro, ma verso la Rivelazione di un mistero che noi già possediamo. Essa è interiore al mondo e a ciascuno di noi.

In Essa, io vedo la diversità delle vocazioni particolari. Queste prendono il loro valore nel loro riferimento all’amore che le fa nascere. Mi ritrovo in tutte, come se esse fossero mie, essendo io stesso in quella che Dio mi dà. Sono io che ho ricevuto questo dono, sei tu. Poco importa. In te, in me, il Cristo continua.

Allo sguardo degli altri uomini che gli sono ostili o lo ritengono un estraneo alla loro vita, il cristiano che vive il mistero della Chiesa non ha uno sguardo di ribrezzo, né una mentalità da propagandista. Egli ha il senso della missione, ma come il Cristo inviato dal Padre nel mondo. Là dove egli è, secondo la vocazione propria, è una presenza che permette, attraverso di lui, di realizzare la pienezza. Così, in un luogo particolare dove passa la sua vita mortale, egli vive l’amore totale e universale, nello spirito della prima lettera di Giovanni.

Questo mistero, che è quello del Verbo Incarnato, per essere vissuto, esige una rottura perenne, quella del passaggio dalla carne allo spirito. «Tu sei beato, Simon-Pietro, perché questo non te l’hanno rivelato la carne e il sangue, ma il Padre mio» (Mt 16,17). Questa illuminazione del Padre in un cuore aperto ci fa scoprire, nella Chiesa come nel Verbo Incarnato, la presenza di Dio nell’umiliazione della carne, lo scandalo dell’incarnazione continua qui. È per l’accettazione di questo scandalo che la vita spirituale diviene cristiana.

Al cuore di questo mistero, Maria è presente. Al Cenacolo, con gli apostoli, aspettando lo Spirito, Ella è l’umanità riconciliata. La sua presenza al cuore della Chiesa ci fa scoprire e vivere il suo mistero.

3. DIO IN TUTTE LE COSE: LIBERTÀ

Nella grazia della Pasqua, Gesù comincia a vivere in tutti i discepoli il ministero della riconciliazione per il suo sacerdozio universale. Per Lui tutto risale al Padre in una creazione che si fa e si rinnova. In questa risalita, l’Eucaristia celebrata dalla comunità dei discepoli ha un posto centrale.

Le realtà che noi viviamo sono comuni a tutti gli uomini, ma secondo una nuova maniera d’essere e d’agire: non il dominio, ma l’amore. Nelle apparizioni, il Cristo si mostra semplice e fraterno. Così tutte le situazioni umane possono essere vissute in Lui. Le persone le più semplici a cui Gesù Risorto si rivela, vivono Dio nel presente.

In Lui ancora ci appare vissuta la libertà. Non più la libertà secca, pretenziosa o rivendicativa, che è la confessione di una mancanza o la paura di una Persona che si cerca, ma quella che è acconsentimento di tutto l’essere al presente, nella certezza che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio (Rm 8,28).

Le costrizioni o le servitù dell’esistenza presente prendono in Lui un senso nuovo. Esse non sono più subite nella paura o nella rassegnazione, esse diventano il fardello dell’amore portato con Colui che è andato al fondo delle nostre servitù, e ci ha così liberati dalla servitù radicale, quella del peccato. La sua libertà – e la nostra in Lui – è quella che ci permette di amare fino in mezzo a queste pesantezze che gravano sull’uomo. Con Lui, là dove noi siamo, lavoriamo alla liberazione di tutti, nello spirito che fu il suo.

Al termine dello svolgimento degli Esercizi, ciascuno è ricondotto alle sue occupazioni – agli inizi – un po’ più rinnovato nello Spirito e nell’amore fraterno. Molte delle questioni poste prima, dimoreranno anche dopo. È sufficiente che noi abbiamo imparato a guardarle in un altro modo. Prima, noi ci chiedevamo: Occorre continuare così o colà? Con il Cristo Risorto, che rispondiamo? Decidiamo di riprendere la strada, non cerchiamo guadagni, viviamo. A ciascun giorno basta la sua pena (Mt 6,34). Domani porterà la sua risposta.

IN VISTA DELLA PREGHIERA DI QUESTO GIORNO

Ogni genere di letture convengono per questo tempo di Pasqua. Possiamo almeno conservare: il discorso dopo la Cena, la prima lettera di s. Giovanni e i testi già citati nelle riflessioni precedenti. Tra le scene evangeliche, anch’esse molto ricche,  conserviamo solamente le seguenti.

1. COME GESÙ RISORTO È PRESENTE A SUA MADRE

S. Ignazio invita a contemplare l’apparizione del Cristo a Maria. Per giustificarla, egli non dice altro che questo: «La Scrittura suppone che noi siamo intelligenti». È di fatto una intelligenza spirituale di cui noi abbiamo bisogno per afferrare quel mondo nuovo in cui Gesù e Maria sono entrati (Es. Sp. 299).

Essi sono diventati uno per via del cuore: ai piedi della croce, Maria a raggiunto l’intenzione del suo Figlio. È questa presenza nello Spirito che fa la loro unità. È questa presenza che realizza la Risurrezione: il Cristo è presente a coloro che gli sono uniti per il cuore. Il corpo non è più opaco; esso diviene espressione e trasparenza dello spirito.

Una nuova vita incomincia, un nuovo modo di essere, questa presenza spirituale che la morte non spezza più. Questa presenza sfugge al mondo: «Il mondo non mi vedrà più. Voi, voi mi vedrete, perché Io vivo e voi vivrete» (Gv 14,19).

Diciamo che in Maria viene inaugurato una nuova epoca della creazione. L’inverno è passato, ha finito di piovere (Ct 2,8-14): presenza per lo Spirito, libertà, amore. Per l’umanità gloriosa di Gesù, Maria entra nelle profondità del mistero di Dio. Ella lo conosce, sempre al di là di tutto, un oceano senza rive. Comincia per Lei la vita nella trasformazione dell’amore, alla quale è destinata l’umanità.

Di questa epoca nuova, che possiamo dire? Solamente la fede e l’intelligenza spirituale la penetrano.

È nella linea di questa presenza del Cristo a sua madre che occorre commentare l’incontro di Gesù e della Maddalena (Gv 20,11-18). Ella è entrata nella presenza dell’amore che non si mantiene che nella misura in cui colui che la riceve accetta di superare incessantemente la conoscenza che gli è data. «O Tu al di là di tutto…» (S. Gregorio Nazianzeno).

2. COME GESÙ SI MANIFESTA AI DISCEPOLI DI EMMAUS (Lc 24,13-35)

Gesù li inizia progressivamente a questa nuova presenza, facendosi conoscere a loro per gli effetti della sua azione: presenza nella gioia, presenza nello Spirito, presenza nell’amore fraterno. In Lui ci è comunicata la presenza attiva e dinamica dello Spirito.

Egli li accoglie tristi e, a partire dai motivi della loro tristezza, li fa passare alla gioia. È il primo effetto della  Risurrezione: riprende l’uomo dal fondo in cui è piombato e, partire dalla situazione attuale, gli rivela ciò che è nel suo essere più profondo. La croce è sempre presente, ma grazie all’intelligenza delle Scritture che dona loro, essa irradia la gloria dello Spirito. La Risurrezione dona la gioia senza impurità. E tuttavia Lui già presente, essi non sanno che è Lui. Egli ha solo reso loro la speranza, risvegliata la gioia, suscitato il desiderio: «Resta con noi».

Al loro invito, egli resta con loro. Ma, al momento della frazione del pane, Lui sparisce davanti a loro. In effetti, «la frazione del pane» o la rivelazione del suo corpo glorioso opera in loro un altro passaggio, quello dalla presenza esteriore alla presenza vera, quella nello Spirito dove le persone, nell’amore, diventano interiori le une alle altre. Decisamente, è bene che Lui se ne sia andato, che sia sparito dai loro occhi di carne per rendersi presente nel cuore che vive di Lui per la fede in Lui. «Se qualcuno mi ama, custodirà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23). Di questa presenza, il mondo non ha nessuna conoscenza. Esso continua come sempre i suoi affari. Nel celebre dipinto del Rembrandt, il servo continua a fare il suo vasellame. Il cambiamento prodotto dalla Risurrezione del Signore non è dell’ordine dell’apparenza. Per l’uomo che guarda con i suoi occhi di carne, non c’è che una tomba vuota.

Questa presenza intima diventa una presenza fraterna, la presenza di coloro che, ciascuno per proprio conto, hanno conosciuto l’esperienza che Gesù è Risorto. Ciascuno si crede solo all’inizio e vuole annunciare agli altri la grande novella: i due discepoli ritornano a Gerusalemme a ritrovare i loro fratelli. Essi percepiscono che coloro ai quali pensavano di raccontare delle meraviglie le avevano anche loro conosciute: è ben vero! Egli si è mostrato a voi. Anche a noi. È la comunità che si forma: il cristo conosciuto nella Chiesa.

Gli apostoli cominciano a prendere la misura del Cristo glorioso. Una volta riconosciuto, non hanno mai finito di scoprirlo, negli avvenimenti, nell’eucaristia, nella vita fraterna, nella Scrittura e nella preghiera (At 2,42). Non è ai completamente finché Egli non sarà tutto in tutti (1Cor 15,28). Finché noi siamo nella nostra condizione mortale, siamo in cammino verso Lui che, tuttavia, è già presente (2Cor 4,7-5,10).

3. COME GESÙ È PRESENTE NELLA COMUNITÀ FRATERNA (Gv 21)

Questa manifestazione è un «epifania» del Signore. Ma questa non si fa nei tuoi e nei fulmini del Sinai. Il Cristo della gloria è presente nel quotidiano e nella più umile riunione fraterna. Gesù è ordinariamente presente e ci trascina al di là.

Presente nel lavoro degli uomini, anche se non ne hanno coscienza. Essi non hanno il tempo di pensare a Lui: il lavoro li assorbe troppo con le preoccupazione relative.  Tuttavia quello che li unisce nel loro rude lavoro è la sua parola: «Io vi precederò in Galilea» (Mc 14,28); è l’amore che Egli ha messo nei loro cuori.

Al mattino presto, ciascuno lo incontra nella sua maniera. Giovanni per primo scopre sotto il segno la realtà. Egli riconosce la voce, vede dei gesti, constata gli effetti della rete gettata. Come davanti alla tomba vuota, egli vide e credette (Gv 20,8). Sono due operazioni distinte. La scoperta fatta, Giovanni la gusta in silenzio e continua il suo lavoro. Pietro, più plateale, non può contenersi: raggiunge il Signore a nuoto. Gli altri fortunatamente non lo imitano: i pesci avrebbero ripreso la loro libertà. Vari sono i carismi. Varie la maniere di scoprire il Signore nell’unità di un medesimo amore.

Il tempo dei discorsi è passato. Viene quello dell’amore silenzioso: Gesù prepara il pasto dei suoi. Qualche progetto di attività, ma poi dei minuti di intimità. Se un giorno essi testimonieranno con la loro vita di ciò che avevano visto e toccato, lo faranno nel ricordo di quei minuti passati allora. Nessuno osa interrogarlo, perché tutti sanno che era il Signore. Non si deve mai rifiutarsi in questi momenti, in apparenza passano per nessun valore, ma che in realtà sono la prova che l’amore c’è.

Di questo amore fraterno, lui, Pietro, è il testimone. È il senso della triplice domanda: «Mi ami tu?» Pietro con la sua risposta manifesta che ormai ha riconosciuto la sorgente dell’amore. Egli non dice più: Qualunque cosa facciano gli altri, io ti seguirò, ma, Tu sai. Come il Padre gli ha comunicato la fede nel Figlio, fede di cui Pietro è il fondamento (Mt 16,13-20), ora Lui gli comunica l’amore di cui Pietro è il garante tra gli uomini: «Pasci i miei agnelli». Questa è la funzione di Pietro nella Chiesa: egli tiene il primato della fede e dell’amore. egli è colui che «presiede all’amore» (s. Caterina da Siena). Ogni governo nella Chiesa è una funzione d’amore (Lc 22,24-27). I superiore è segno di unità, «colui che fa l’unità di tutti i suoi» (Nadal). L’obbedienza non è una fedeltà materiale o inquieta: essa è un aiuto mutuo per dimorare nell’unità, fuori dalla quale il Cristo non è presente.

A questo punto di profondità, è il caso di distinguere l’umano dal divino, l’azione dalla contemplazione? L’unità profonda dell’essere si realizza nella perdita costante di sé che apre a Dio e lo fa conoscere nell’esperienza del suo Spirito. Le nostre opposizioni sono importate nella scia di questo amore che «nuove il sole e le altre stelle» (Dante).

4. COME GESÙ RIMANE PRESENTE NELLA CHIESA: L’ASCENSIONE (At 1,1-11) 

Lo Spirito Santo ha cominciato la sua opera nel seno di Maria per l’Annunciazione. Egli la continua nella Chiesa per l’Ascensione. Da una parte, come dall’altra Egli forma il corpo di Cristo nel suo stato di servo umiliato dapprima, inseguito nella gloria del Padre. Due inizi che sono marcati per la presenza e il consenso di Maria: a Nazareth, al Cenacolo. La creatura consente in Lei all’opera del Creatore.

Il Signore Gesù rimane presente nella Chiesa, non più nella sua presenza terrena, non ancora nella presenza della gloria, ma si «sottrae» agli occhi per essere atteso e preparato. Per mezzo del suo Spirito rimane presente nel sacramento e per la missione. L’Eucaristia apre alla missione perché il suo corpo s’estende a tutto l’universo e l’universo deve diventare Eucaristia. Allora Egli ritornerà nella gloria.

La missione che lascia ai suoi non è un regno da istaurare o restaurare, ma la rivelazione dell’amore del Padre, che per il Cristo dona il suo Spirito perché l’umanità tutta intera partecipi alla vita di Dio. Avendo ricevuto questa missione, i discepoli non devono rimanere con le bocche aperte verso il cielo (At 1,11), né aggrappati alla terra, ma attraverso la storia terrena, rivelare agli uomini che essi sono nello Spirito: «Proclamate la Buona Novella a tutta la creazione» (Mc 16,15). «Tu non sei che all’inizio delle meraviglie. Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo» (Gv 1,50-51).

Torna all'indice         

La conclusione dell’esperienza

BILANCIO E CONDIVISIONE FINALE

È venuto il momento di fare il bilancio? Fra sei mesi sarà possibile… L’albero si giudica dai suoi frutti. Per il momento ci sono appena dei fiori. In realtà noi siamo come i discepoli di Emmaus che credevano tutto fosse finito e invece tutto iniziava. Il rischio, concludendo l’esperienza, è di fermarsi all’esteriorità di ciò che è accaduto. Non cessiamo di passare «di fede in fede» (Rm 1,17).

Se non è cosa troppo buona fermarsi ai risultati, potrebbe essere buono condividere l’esperienza fatta con coloro che ci hanno accompagnato: condivisione fraterna che facciamo accogliendoci  gli uni gli altri nello Spirito. Un giro di tavolo si può fare, ciascuno rispondendo, per esempio, alla seguente domanda: Quale cambiamento, questa esperienza di Dieci Giorni, alla mia maniera di vedere la vita umana, la vita spirituale, la vita fraterna, ha portato?

Semplice scambio di luci ricevute.

MANTENIMENTO DELL’ESPERIENZA

È normali essere preoccupati di questo, anche se ciò racchiude in sé nelle inquietudini non buone. Almeno, stabilendo un progetto di vita, ci preoccupiamo più delle strutture spirituali che devono sostenere un modo di essere con degli impegni o pratiche che possiamo spesso attuare.

Tra queste strutture, noi insistiamo sulle seguenti tre.

1. LA PREGHIERA

Un certo tipo di orazione si eredita dagli Esercizi. L’abbiamo chiamato metodica. Non nel senso di una cornice, ma piuttosto nel senso di avere dei punti di partenza o dei modi collaudati con cui ci disponiamo alla grazia di Dio. Occorre semmai dire che questa orazione mira a coltivare un certo orientamento del cuore, al fine che le nostre motivazioni nascoste vengano alla luce e identificate.

Questa purificazione, quindi, si fa soprattutto nell’esperienza dell’amore e nella ricerca di quei doni spirituali che fanno sentire i gustare profondamente le cose. È per questo che la preghiera trova il suo alimento ordinario nei misteri della vita di Gesù e nella Scrittura, lette e meditate al ritmo della Liturgia.

Infine, questa orazione, più affettiva che intellettuale, può essere detta «pratica». In primo luogo in quanto essa mira ad un certo impegno della persona, come gli Esercizi miravano all’elezione. Essa pertanto non cerca di darci la luce sulle azioni da fare, le decisioni da prendere, gli sforzi da intraprender: tutto questo è un risultato della nostra intelligenza pratica. Questa orazione contribuisce piuttosto a spandere su questo insieme «l’unzione» dello Spirito. Essa non è un blocco o un arresto nell’azione, ma comunica insieme la dolcezza e la forza, la pazienza, l’ardore, la capacità della ripresa, sopratutto la pace e la confidenza.

Noi possiamo aggiungere: lontano dall’opporsi all’azione, questa orazione la suppone, ma anche la conserva. L’orazione trova nell’azione il criterio della propria autenticità e, nello stesso tempo, l’azione preserva l’orazione dall’illusione, impegnando la persona nel senso di Dio.

1. LE RIPRESE: IL RINNOVAMENTO DELL’ESPERIENZA

Si tratta dei ritiri. Diremo due parole sul rinnovamento dell’esperienza.

Giornate penitenziali sono oggi divenute usuali. Possiamo sempre chiederci se queste giornate stanno raggiungendo il loro scopo o se, come può succedere anche ai ritiri e agli  Esercizi Spirituali, sono diventate presto una istituzione stabile che non viene vissuta in profondità. Ciascuno, in tutto questo, deve trovare il suo ritmo e il suo modo, qualunque sia il nome che daremo alle cose. L’importante è che lo spirito viva.

3. AGGIORNAMENTO INTELLETTUALE: LA CULTURA

È inutile qui ridire le proposizioni sviluppate in Il Prete alla ricerca di se stess (Le Chalet, 1969). È sufficiente al termine di questi Dieci Giorni, di insistere su tre punti. Per prima cosa la necessità di mettere la propria cultura religiosa a livello della prorpia cultura umana. Una fede, rimasta infantile, non può reggere molto tempo davanti agli sviluppi della scienza o del progresso umano. Or bene, essa diventea un campo separato, senza legami con la vita. in seguito, in questa ricerca della cultura, ciascuno deve rimanere nella sua misura. Niente di più spiacevole, soprattutto nel campo religioso, coloro le cui parole non si appoggiano su nessuna esperienza, ripetendo quelle di altri o dei libri. C’è più verità nelle persone semplici che sono in armonia con la vita. Aggiungiamo infine – questa opinione ha ispirato più di un’osservazione in questi Dieci Giorni – quanto sia pericoloso, nello sviluppo di una vita spirituale, di non tener conto dei fondamenti umani e dell’esperienza di colui che la intraprende. Questa vita spirituale rischia allora, a buon diritto, di essere tacciata di essere irreale.

LA VITA NEL DISCERNIMENTO: L’ESAME

L’esame è in effetti il grande mezzo, messo davanti all’orazione secondo il pensiero di s. Ignazio. Per mantenere viva l’esperienza fatta attraverso gli Esercizi. Certamente questo può essere visto da un piano molto ordinario: mezzo per correggersi dai difetti o per prendere delle buone abitudini. Da questo punto di vista, esso rende qualche servizio, ma non supera lo sforzo di tutta la persona che vuole rendersi accettabile nell’ambiente dove vive o riuscire in un’impresa.

Gli esercizi ce lo fanno vedere in un altro modo: una consegna di tutta la persona nel senso dell’elezione per rendersi ancor più disponibile allo Spirito dopo le mancanze inevitabili. Viene visto così nella prospettiva della purificazione del cuore al fine di ottenere una più grande docilità allo Spirito Santo nell’azione. Esso si inserisce in una grande corrente spirituale che va da s. Paolo, passando per la tradizione orientale e s. Francesco Saverio e s. Teresa del Bambino Gesù.

S. Paolo 8”Cor 12,7-9) domanda a Dio di essere liberato della spina che gli è stata messa nella carne. Dio gli risponde: «Ti basta la mia grazia: la mia potenza si manifesta nella debolezza». Poco importa il senso da dare alla spina nella carne. Quello che importa, è di fare degli ostacoli un mezzo perché si manifesti in noi la potenza di Dio: Egli dispiega negli umili la potenza del suo braccio (Magnificat).

Nello stesso senso, ma con più precisione, la tradizione orientale consiglia la quotdiana manifestazione o esame dei pensieri nel ricordo frequente del Signore Gesù. Discendendo al più profondo della nostra coscienza, in mezzo a tutte le immagini che ci portiamo dentro e che ci avvolgono, noi lasciamo sempre più emergere quella del Signore Gesù che vive nel nostro cuore.

S. Francesco Saverio, nella sua grande lettera scritta dal Giappone su «la scienza della speranza in Dio», consiglia a coloro che sognano di fare grandi cose di prepararsi lavorando per custodire la confidenza in Dio all’interno delle piccole cose. Queste sono per noi, non delle occasioni per assicurarci dei meriti, ma, ben al contrario, dei mezzi per sentire la debolezza della nostra carne, e il bisogno continuo e sempre più grande che abbiamo di rimetterci nelle mani di Dio (Lettera 90, 22)

Nella stessa tradizione, noi potremo citare il Lallemant, Surin, de Caussade…

S. Teresa del Bambino Gesù, dice la stessa cosa nel suo linguaggio: «Più uno è debole e misero, più uno è adatto alle operazioni di questo amore consumante e trasformante»… «Acconsentire a rimanere sempre povero e senza forze, ecco il difficile».

Ciascuno esprime a modo suo una attitudine che presso tutti è fondamentalmente la stessa: fare di ogni cosa un’occasione per consegnarsi a Dio, sicuri di viverla nel Cristo, lo stesso ostacolo diventa mezzo. Noi qui ritroviamo quella attitudine di scambio d’amore di cui abbiamo parlato a proposito della penitenza e del ricorso al sacramento che ne è un’espressione. Da questo punto di vista, l’esame ci dispone quotidianamente a meglio confessarci.

L’espressione la più viva di questa attitudine potrebbe essere quella di s. Alfonso Rodriguez. Essa racchiude in una formula semplice tutti gli elementi descritti prima: «Quando io provo un’amarezza, scrive questi, io metto questa amarezza tra Dio e me, finché Lui non la cambi in dolcezza» L’amarezza è un fatto. Voler fare a proprio giudizio, come a proposito di un qualunque altro sentimento che io condanni, uno sforzo può causare il rischio di aumentare la difficoltà. Io divento come qualcuno che ha talmente paura di cadere che cade. Molte delle cadute sono dei salti in avanti. Io non posso quindi giudicare ciò che avviene in me, partendo solo dalla divisione interiore di cui parla s. Paolo in Rm 7. Faccio infatti dell’ostacolo riconosciuto un mezzo: presento al Signore questo stato del mio essere al cuore stesso del disordine dove io sono. Noi siamo così nel pieno gioco della libertà e della grazia. Io mi servo di quel poco di libertà che trovo in me per offrirmi maggiormente alla grazia e, trasformato da essa, in una libertà crescente, mi offro ancora di più.

Comunque noi lo presentiamo, l’esame ci abilita a trovare Dio in tutte le cose e a discernere in noi la sua opera. Più che presenza di Dio, esso diventa mezzo per cooperare all’azione di Dio su di me e sul mondo. Per ragioni diverse, posso non avere tempo di fare orazione, ma non sono mai dispensato da fare l’esame, come non sono dispensato dal vivere.

LA CONTEMPLAZIONE PER OTTENERE L’AMORE (Es. Sp. 230-237)

Più che un esercizio distinto, questa contemplazione proposta alla conclusione, descrive una maniera di essere in mezzo al mondo e una maniera di pregare in tutte le cose. Essa può essere fatta durante il ritiro, ma è conveniente soprattutto a colui che sta per partire e che vuole conservare lo spirito del ritiro.

Tutto è centrato sull’amore, perché l’amore è la realtà fondamentale e finale: Dio è amore e si manifesta in un’opera d’amore, nella creazione, nel dono del suo Figlio e dello Spirito, nella divinizzazione dell’uomo. Vivendo nel mondo, senza fermarvi gli occhi, posso dunque chiedere di saper riconoscere l’azione di Dio dappertutto, al fine di amarlo e servirlo in tutto. La liberazione avviata negli Esercizi, custodita nell’esame, così come lo abbiamo presentato, rende questa domanda possibile da parte nostra.

Questo amore non viene da noi. Noi non ci animiamo ad amarlo, noi chiediamo di ricevere l’amore. Giacché questo amore è lo Spirito riversato nei nostri cuori. Di quest’amore o di questa presenza in noi, ci sono due criteri oggettivi, quelli che s. Giovanni presenta nella sua lettera: da un lato, esso è azione; dall’altro, è scambio. Noi, infatti, non amiamo con le parole, ma «in opere e verità» (1Gv 3,18). Non però qualunque opera come quella del fariseo che si mette in mostra ed ha già ricevuto la sua ricompensa (Mt 6,2), ma quella che stabilisce tra le persone che si amano, uguaglianza e comunicazione. La croce è la manifestazione di questo amore, nella misura in cui essa conduce alla Trinità e dove apre le sorgenti della vita. il discepolo di Gesù, che ha ricevuto il suo Spirito, vive nell’ordinarietà della propria vita, questo passaggio incessante dell’opera allo scambio e comprende chi è Dio, è il Vivente.

Per lasciarsi trasportare da quest’amore, egli prega, servendosi di qualche punto di partenza. Ma ciascuna volta, la sua preghiera, come quella di Gesù, conduce al dono di sé : «Prendi e ricevi, Signore». La materia di questo dono sono io stesso in tutto ciò che mi costituisce: la mia libertà soprattutto, e tutto ciò che io ho e vivo. Nulla sfugge al dono, perché tutto è accolto da Dio nello scambio per essere reso nell’amore. L’uomo diventa cooperatore di Dio, come il Figlio che ricevendo tutto dal Padre, glielo rende nella comunicazione dello Spirito. C’è un movimento incessante per mezzo del quale si compie la volontà del Dio. Poiché Egli mi trasporta sempre al di là e io non chiedo che una cosa sola: Amore e Grazia.

Questa maniera di pregare è chiamata «contemplazione», ma una contemplazione che, presa dal movimento dell’uscita di sé operata dagli Esercizi, tende a sopprimere la distanza che separa l’idea dall’atto, il cuore dall’opera, il mio «io» dagli altri. È ad essa – che è altrettanto una maniera di agire – che tende la formazione data dagli Esercizi. Essendo diventata «contemplazione nell’azione», scrive Nadal di questo a s. Ignzio, sarebbe a dire che egli non trova meno Dio nell’azione, nel lavoro, nello studio, nelle relazioni che nella preghiera. Tutto gli diventa Dio. È per questo che, dovunque fosse, era a suo agio, ciò che sembrava brillare sul suo viso, era la pace che irradiava da lui. A lui, poiché Dio era tutto, ciascuna cosa era divenuta importante. Là è il segreto dell’intensa presenza di colui che vive questo spirito possiede in tutto ciò che fa. Non ha bisogno di custodire la presenza di Dio con degli sforzi esteriori a ciò che fa. Egli vede Dio in tutte le cose.

Il primo punto è una meditazione del ricordo e condensa in sé tutti gli altri, un po’ alla maniera del Principio e Fondamento che contiene in germe tutto il seguito. Tutti i beni dell’universo, tutta la storia umana possono entrare in questa preghiera. L’essenziale è di «pesare con molto amore» ciò che si è compiuto per me, lasciandomi prendere dall’amore per il «disegno divino». L’intelligenza delle cose non è separata dell’amore che le fa esistere.

Il secondo punto riprende il movimento delle cose per approfondirne il senso. L’immensa evoluzione dell’universo, dai vegetali fino allo spirito, tende attraverso stadi successivi in una presenza sempre più intima di Dio alla sua creatura. Tutto l’universo tende alla trasfigurazione: al termine, «farà di me il suo popolo, vedendomi creato» a sua immagine e somiglianza.

Dio non è esteriore al dono che mi fa: Egli è al lavoro all’interno dei suoi doni per condurre la sua creatura al suo fine. Questo è l’oggetto del terzo punto: si indirizza al cuore per considerare il lavoro di Dio per l’uomo nell’universo in Gesù Cristo.

Infine, il quarto punto mi situa al cuore della Divinità, da dove vedo tutte le cose scorrere da Essa, come i raggi emanati dal sole o le acque che scorrono dalla sorgente. Movimento incessante di discesa e di risalita. Dio è l’Oceano senza rive. Nessuna formula lo rinchiude. Tutto viene da Lui e Lui è al di là di tutto. In Lui troviamo l’unità e non ci arrestiamo mai. La vita eterna è questo stesso zampillare.

Dopo ciascun punto, l’«accetta» diventa la preghiera abituale. Nello Spirito che il Padre mi comunica, con il figlio al cuore della Trinità, io «restituisco» a Dio tutti i beni che Lui mi dona. Restituzione che non è restituzione di talenti non impiegati: la creazione ha fruttificato nelle mani dell’uomo, ma è per far entrare tutte le cose nell’unico Amore. il mondo non si ferma su di sé.

IN VISTA DI QUESTA CONTEMPLAZIONE

Tutta la Scrittura nutre questa contemplazione, dal momento che viene letta nello spirito di riconoscenza e di rendimento di grazie che le conviene. Tutta la vita umana anche, nelle sue grandi linee, ne diventano l’occasione. Qualche indicazione è sufficiente. A ciascuno poi di trovare la propria maniera di essere «contemplativo in azione».

La preghiera dei Salmi è preziosa soprattutto se noi sappiamo ritenere tale o tal’altro versetto che, ripetuto a lungo, permette di sostenere la nostra attenzione alla realtà. Possiamo citare dei Salmi di lode, anche quelli relativi ai benefici di Dio nella storia d’Israele. Perché non riprendere il Salmo 139(138) meditato all’inizio? Al termine dell’esperienza, prende un senso nuovo e fa misurare il cammino percorso.

E ancora, la memoria dell’itinerario percorso durante gli Esercizi può servire da filo conduttore per ritenerne l’effetto. Costituisce anche un eccellente modo di fare l’esame di coscienza tale come l’abbiamo presentato: rimettersi in presenza dell’azione di Dio, questo giorno stesso, per cooperarvi di più.

Al di sopra di tutto, potrebbe essere, la meditazione assidua della prima lettera di Giovanni costituisce la migliore trasposizione scritturistica della contemplazione per l’amore. dio si fa conoscere dagli effetti della  sua azione: luce (c. 1 – c. 2) e amore (c. 3 – c.  4). La partecipazione ai suoi doni segue in noi lo stesso ritmo: essa parte dalla conoscenza e dalla confessione del peccato fino alla trasformazione in Dio passando per la fedeltà al comandamento dell’amore. quest’azione è l’opera di Dio. In definitiva noi la conosciamo nell’amore che abbiamo gli uni per gli altri. Presenza agente di Dio nella nostra fede che è «vittoriosa sul mondo» (c. 5).

Più che mai questa preghiera ha il suo centro nell’eucaristia, l’azione di grazie per eccellenza in cui si condensano tutte le meraviglie di Dio e che dona il suo senso allo scorrere dei giorni. Più di un testo eucaristico può aiutare questa preghiera.

Noi già non siamo più in ritiro. Tuttavia l’azione dello Spirito continua in noi la sua opera. La preghiera ci mantiene alla sua presenza.

 

Il rinnovamento dell’esperienza

Nessun corso di Esercizi Spirituali, se sono un’esperienza della vita nello Spirito, può rassomigliare al precedente. Perché dall’uno all’altro la vita prosegue e noi cambiamo, per questo non bisogna mai provare a ripetere l’esperienza passata, ma possiamo solo custodirne il ricordo per andare più lontano.

L’itinerario seguito e la maniera di fare hanno depositato in noi delle strutture che permettono insieme fedeltà e fantasia. Noi sappiamo da dove cominciare e come prenderci, ma non ci fermiamo mai dentro delle formule, degli schemi. La formazione anteriore permette di affrontare un nuovo ritiro nella libertà dello Spirito.

Come farlo? Rinnovarne l’esperienza? Questioni alle quali è anche difficile rispondere che a queste altre: quando ricorrere ai sacramenti? Come prepararmi? Evidentemente qualche regola semplice ci aiuta a intraprendere ciò di cui ancora non abbiamo esperienza. Ma più questa cresce, più ciascuno è condotto a seguire la propria strada. Ama e fa ciò che vuoi (S. Agostino). Se la tua maniera di fare procede dall’amore, non c’è pericolo di soccombere alla illusione o di cadere nell’isolamento.

Al termine di questa esperienza, soprattutto che essa è stata rinnovata più volte in dieci o trenta giorni, noi siamo più tentati di insistere sulla libertà che sull’esattezza. Molti, per non aver mai osato volare con le proprie ali, non hanno avuto nella Chiesa l’irradiamento e la fecondità che i doni ricevuti permettevano di effettuare. Sono rimasti fedeli servi, allorché venivano chiamati all’amicizia e alla creatività.

Non c’è che da farne l’esperienza. Dopo qualche anno in cui siete rimasti fedeli a questa educazione ricevuta dagli Esercizi, andate a passare otto giorni solo, in un monastero o in un luogo solitario. Portatevi poche cose – la Bibbia dovrebbe essere sufficiente – e vivete davanti a Dio. Quando Nadal, nel commentario delle Costituzioni di s. Ignazio, presenta l’ideale della preghiera del gesuita che si dicesi formato (lo è mai?), sinant suo spiritu duci: «che non si imponga loro nulla, dice lui, che li si lasci camminare con quello spirito che hanno nel cuore». Simile regola, data prematuramente, conduce a dei disastri – l’incostanza delle persone alle quali noi la diamo non permette loro di vivere questa libertà –, quanto più essa è liberante e necessaria a coloro che hanno a cuore il desiderio di servire Dio con tutto se stessi. Certamente, i consigli rimangono necessari. Più la vita avanza, più sono difficili da trovare coloro di cui avremmo bisogno per camminare senza paura nel senso di questa libertà sempre più esigente. Ma le persone sentono le persone. È sufficiente aver incontrato sulla propria strada questo Padre spirituale – è un padre, un amico, un maestro, un fratello? qui le denominazioni perdono il loro senso abituale – e di incontrarlo di tempo in tempo, per continuare la conversazione di lì ad un anno, come se ci si fosse lasciati ieri. Attraverso lui, noi sappiamo che la luce esiste e siamo confermati sulla strada che percorriamo con lui e con tanti altri che noi non conosciamo ancora.

 

 

 

O. A. M. D. G.

 

j.m.j.

 

 

O.A.M.G.D.